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sabato 4 luglio 2015
Franco Astengo: Sfruttamento
Care Compagne e cari Compagni,
Ci sono occasioni nelle quali avvenimenti minuti, del tutto casuali, ci forniscono indicazioni preziose attorno ai grandi temi della cultura, della politica, della nostra storia.
In questi giorni mi è capitato di rileggere un romanzo di Guido Morselli “Il Comunista”, uscito postumo nel 1976 per Adelphi, che racconta la storia, intrecciata tra il privato e il politico, di un ipotetico deputato comunista, Walter Ferranini, cooperatore di Reggio Emilia: una storia complessa che riguarda un personaggio tormentato che l’autore immagina protagonista di diverse vicende, tra la Guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale trascorsa negli USA e il ritorno in Italia, l’impegno nel PCI fino all’elezione a deputato con le elezioni del 1958.
Il filo centrale della storia narrata nel romanzo si sviluppa proprio in quel periodo: una fase molto delicata per il comunismo internazionale stretto tra l’immediato post-Ungheria, il processo di destalinizzazione, l’avvio della fine degli imperi coloniali, i prodromi dello scontro tra URSS e Cina e del “disgelo” (in Vaticano è stato appena eletto Giovanni XXIII ed Eisenhower è ancora presidente USA).
Fatti che si riflettono sul travaglio interno al PCI, ancora retto con mano ferma da Togliatti (che nel libro viene appellato con lo pseudonimo di Olinto Maccagni, mentre “Mauro” è Longo e “Della Vecchia” Secchia) ma sotto il peso del riflusso degli intellettuali usciti dal partito dopo le vicende ungheresi, i primi elementi di contestazione da sinistra e l’apparire – molto presente- nel testo di Morselli di fenomeni di carrierismo e di “individualismo borghese” (l’autore usa molto spesso questo termine, soprattutto descrivendo personaggi e ambienti. Si tenga conto che Ferranini, uomo rigido, tutto di un pezzo, cultore dello sviluppo immediato delle forze produttive al cui processo dedica studi intensi, presenta elementi di approccio al problema che possono essere ben giudicati provvisti di una qualche venatura moralistica.)
Ebbene, all’interno di questo scenario e ben al di là dei bozzetti di vita politica e parlamentare e delle questioni private del protagonista, si ravvedono in questo testo elementi importanti di dibattito teorico che, analizzati oggi, possono ben darci una dimensione dell’arretramento storico realizzato, nel corso dei decenni, all’interno della riflessione al riguardo delle prospettive stesse, non tanto e non solo di una possibile rivoluzione socialista ma degli stessi destini dell’umanità non legati al sacrificio individuale e collettivo verso una “liberazione” complessiva dal bisogno.
Questo testo propone una riflessione tanto più inquietante adesso al culmine di una rivoluzione tecnologica, a quel momento assolutamente non prevedibile (si pensava piuttosto a uno sviluppo extra terrestre attraverso il moltiplicarsi e l’affinarsi delle imprese spaziali sulla qualità delle quali si stava giocando il confronto USA/URSS).
Una rivoluzione tecnologica che, alla fine, ha velocizzato i termini dell’economia, dell’informazione, degli stessi rapporti interpersonali però non “liberando” proprio niente e nessuno: anzi intensificando il peso di bisogni “indotti” risolvibili soltanto attraverso l’individualismo consumistico e lo scavarsi di fratture profonde tra portatori di nuove, apparentemente irreparabili contraddizioni tra popoli e paesi, in un interscambio velocissimo che ha finito con l’accrescere il peso complessivo delle diseguaglianze globali.
Al centro di questa storia il fallimento epocale dell’ipotesi di inveramento statuale dei fraintendimenti del marxismo che avevano attraversato il ‘900: secolo concluso all’insegna di una strombazzata vittoria finale del capitalismo, di “fine della storia”, di esportazione della democrazia sulla punta delle baionette da parte dell’unica residua superpotenza investita dal destino del ruolo di “polizia del mondo”.
Non era questo, però, il punto che intendevo sollevare e smetto di divagare.
La questione centrale riguarda, invece, il fatto che il protagonista entra in odore di eresia rispetto al Partito (ben descritto, del resto, con le sue caratteristiche di Chiesa laica) per aver pubblicato un saggio sulla rivista “Nuovi Argomenti” (quindi non un organo di Partito): “Nuovi Argomenti” diretta da Moravia sulle cui colonne, qualche tempo prima, Palmiro Togliatti aveva concesso una fondamentale intervista al riguardo dell’esito del XX congresso del PCUS (quello della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin) sui temi del “policentrismo” e della “via italiana al socialismo”.
Per via di quest’articolo Ferranini viene sottoposto a giudizio da parte di una commissione della Direzione presieduta dal vicesegretario Della Vecchia (Secchia) che si conclude con l’ammonizione.
Su quale punto verteva, principalmente, quello che era stato individuato come un “inammissibile dissenso”?
Ferranini affronta, infatti, il tema dell’insufficienza del superamento del concetto di “alienazione” in una società socialista (di cui, tra l’altro, è convinto dell’esistenza nei suoi tratti fondamentali nella struttura dell’URSS anche se un suo viaggio a Leningrado gli ha insinuato dei dubbi posti soprattutto sul terreno del “capitalismo di stato” e conseguente formazione di un “ceto” o “casta” di burocrati del partito-Stato).
Nel saggio pubblicato da “Nuovi argomenti” infatti, si legge: “Siamo coatti. Lavorare, produrre, non è mai qualcosa di spontaneo, non è l’affermarsi di una nostra personalità, è soltanto una necessità che non dà tregua. Difatti è la necessità di sopravvivere, di aprirci un varco e di trovare respiro, fra forze estranee che ci premono tutt’intorno, che tendono a rinchiudersi su di noi. Vivendo, ci rendiamo conto ogni giorno che lavorare (e dunque soffrire) è una legge che ci è imposta al di fuori. “Alienazione”? Io direi che non c’è modo di alienarci (ossia di perderci) fuori di noi. Il pericolo che ci incombe è il pericolo inverso, di essere soffocati dentro il nostro io, dalla realtà che ci circonda, o ci assedia. Il rischio di non poter venir fuori dal nostro nocciolo di sostanza viva e cosciente, chiuso in ogni parte dalla ostilità (inerte o attiva) delle cose che gravano su di esso opponendosi al suo esplicarsi…”
E più avanti: “Chiamiamo pure, se così ci piace, alienazione la semivita (e chi scrive ne ha un’idea diretta e personale) dell’operaio che si consuma giorno per giorno alla catena di montaggio, al tornio o alla fresatrice..” “ ..quella dell’operaio preferirei chiamarla “mortificazione”. Non diversa (in essenza) è la continua lotta a cui ci costringe la minaccia che la forza degli elementi, il gelo o la tempesta, il fuoco, il mare o i fiumi, l’atomo scatenato, fanno pesare su di noi e sulle opere nostre. Non diversa (in fondo) è la pena del nostro dover resistere ogni giorno alla malattia e all’invecchiamento, al disfacimento organico, e cioè alla volontà ostile della natura, la quale ammette la vita soltanto per riannettersela: per distruggerla insomma”.
“ Potremmo dire che anche queste situazioni in cui siamo obbligati a difenderci, sono in un senso più ampio “lavoro”. Il lavoro con la sua penosità è dunque una condizione universale e insopprimibile. Senza riscatto”.
Una conclusione perentoria quella di Ferranini che indica come, anche nella società socialista pur liberata dello sfruttamento la penosità del lavoro resterà inalterata: fornendo così, nella sostanza, una valenza meramente “riformista” all’ipotesi rivoluzionaria.
E’ su questo punto, che nel romanzo ovviamente, si sviluppa la rottura tra il protagonista e il PCI sotto il peso di un’accusa di sostanziale “riformismo” e di abbandono della via rivoluzionaria.
Una situazione sotto, sotto, non molto diversa a quella che, qualche anno dopo e nella realtà, portò a un'altra fase di rottura con una parte di compagne e compagni che fecero poi parte del gruppo del Manifesto. Poco tempo dopo, infatti, dalla radiazione del gruppo originario (Novembre 1969), mi pare nel Luglio’70 uscì un articolo di Berlinguer sull’accettazione del concetto di produttività anche all’interno del campo capitalista, causando così una nuova serie di dissensi e di frantumazioni sul piano politico.
Quale suggerimento può derivare, almeno a mio modesto giudizio, da questa lettura apparentemente del tutto fuori dal tempo?
Nel corso di questi anni nel corso dei quali si sono sviluppati vorticosi cambiamenti rispetto al quadro presente alla metà del ‘900, è stata completamente smarrita non tanto e non solo l’idea di affrontare i temi presenti nel saggio di Ferranini (che a molti, anzi quasi a tutti, appariranno di una straordinaria ingenuità) ma lo stesso concetto di sfruttamento del lavoro sulla cui esplicitazione concreta nella dinamica quotidiana si fonda la realtà del conflitto di classe.
Un concetto di sfruttamento che, nel frattempo, non si è “ritratto” rispetto alla complessità delle contraddizioni anzi si è smisuratamente allargato e su questo, vero, effettivo, gigantesco mutamento epocale il nostro campo non ha saputo rispondere se non attraverso espressioni politiciste prive del respiro storico che sarebbe stato necessario e non in grado di delineare comunque un orizzonte storico, magari limitato ma ponendo la condizione di indicare traguardi sia pure parziali.
E’ stato smarrito completamente il concetto di “guerra di posizione” ormai scambiato con la pedestre quotidianità della “politique d’abord”.
Da questa assenza di elaborazione all’adeguamento all’espressione corrente delle logiche dell’avversario il passo è stato breve attraverso un processo di omologazione alle dottrine più arretrate, all’identificazione della politica con l’economia e la “sociologia degli schemi”, del limitarsi alla costruzione di schieramenti fondati sull’esclusività dell’autonomia del politico, dimenticando del tutto le lezioni che ci erano venute non tanto e non solo dalla lettura dei grandi classici (pensiamo a Lenin e Gramsci nell’indicazione di non smarrire mai il rapporto con le masse) ma dai fatti della storia.
Un fenomeno che ha riguardato, nel profondo, la sinistra occidentale, sia quella di tradizione socialdemocratica sia di quella originale derivante dal contesto del più grande partito comunista d’Occidente quello italiano sciolto d’imperio senza eredi .
Una sinistra occidentale che, di fronte al crollo del cosiddetto “socialismo reale”, complessivamente ha ceduto sui terreni fondamentali del movimentismo e della governabilità, finendo alla coda della pur presente capacità di contrasto sociale e politico che pure le masse continuavano a esprimere.
Concludo a questo punto annotazioni sicuramente disordinate e approssimative ma che ritengo di un qualche fondamento rispetto alla lettura di ciò che è accaduto e non certo frutto di semplici suggestioni letterarie.
Smarrimento dei “fondamentali” di un’identità: questo il punto di rottura che mi sento di indicare, ancora una volta, nella grande crisi (termine da intendersi proprio in senso compiuto, nel suo significato più profondo) di una Storia.
Grazie per l’attenzione
Franco Astengo
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1 commento:
Caro Astengo, è una storia che alcuni di noi, i più anziani, hanno vissuto, e i meno anziani hanno ascoltato: ma oggi sembra un testo di Gozzano. La sinistra europea largamente intesa si è condannata all’estinzione perchè ha omesso di riflettere su una faccenda sotto gli occhi di tutti: la crescita imponente della popolazione mondiale, il cui numero e distribuzione già veniva considerata non meritevole di riflessione da parte dei sommi ideologi dell’800 e del primo 900. Ma ancora adesso si stenta a ragionare sul fatto che alla fine della II guerra mondiale eravamo 2 miliardi e adesso abbiamo superato i 7. Al massimo abbiamo i populisti che vogliono erigere delle impossibili barriere e Putin che non si rende conto che la sua Russia , che ha meno abitanti del Bangla Desh, si avvia all’estinzione...
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