sabato 22 settembre 2012

Peppe Giudice: Una Bad Godesberg per ricostruire la sinistra italiana

Giuseppe Giudice UNA BAD GODESBERG PER RICOSTRUIRE LA SINISTRA ITALIANA Tutto fa pensare che siamo vicini ad una deflagrazione di questo assurdo sistema politico succeduto all’eclisse della I Repubblica. E’ inutile soffermarsi sulle gravissime regressioni in vari campi che essa ha comportato. E soprattutto il dato che essa si è basata su una costituzione materiale fondata sul liberismo ed il mercatismo. E quindi in essa non c’era spazio per una forza socialista. Ed infatti la sinistra della II Repubblica è stata una “sinistra per caso” volendo usare la felice definizione di Paolo Franchi. Sia quella “riformista” di fatto liberale e subalterna al mercatismo sia quella antagonista affabulatoria e postmoderna. Per questa ragione i soggetti attuali (chi più chi meno) sono qualcosa di profondamente estraneo al modello politico europeo medio. Qualcosa di molto più simile alla Polonia o alla Romania. E comunque un sistema in cui la politica è rimasta annichilita rispetto ai poteri forti del capitalismo finanziario (che controllano la stampa ed i mezzi di informazione), alle tecnocrazie ed alla magistratura. Una deflagrazione di questo sistema è quindi auspicabile a patto che essa possa essere una deflagrazione controllata e governata verso certi obbiettivi definiti. Altrimenti la crisi inarrestabile della II Repubblica può provocare un bipolarismo ancora più anomalo tra tecnocrazie liberal-capitaliste e populismo antipolitico (questo è il disegno dei poteri forti interni ed esterni). Oggi si avverte sempre di più una netta scissione tra identità ed appartenenze. Nel senso che vi sono identità omogenee costrette a stare in partiti diversi e non potersi organizzare in un soggetto politico in grado di tradurre in prassi politica quelle identità . Nel PD convivono tendenze genuinamente socialdemocratiche con posizioni liberiste o clericali. Poi c’è una area grigia non ben definibile. In SeL c’è una area che guarda in modo convinto al PSE di Hollande e della Kraft ed un’altra in cui è forte il residuo postsessantottino. Nel piccolo Psi vi sono quelli che restano fedeli alla migliore tradizione socialista (Nenni, Lombardi, Santi ed anche il Craxi migliore) ed altri portatori di un social-liberismo di quarta mano (simili ai liberal del PD). Ho accennato a questi tre soggetti perché essendo uno dei promotori del Nse, quest’ultimo individua in questi tre soggetti il campo privilegiato in cui lavorare per far maturare una scelta di campo nel socialismo europeo da parte di quel che resta della sinistra. Il mio ragionamento vuole dimostrare che i mattoni per costruire un soggetto del socialismo democratico esistono, ma oggi sono separati da questa assurda geografia politica esistente. Di qui l’auspicio di una deflagrazione. Ma se vogliamo costruire un soggetto del socialismo democratico occorre ricostruire una cultura socialista democratica. Il Pse non può rappresentare solo una adesione burocratica (come lo fu per i DS). Fatto sta che con la demonizzazione dei socialisti e l’incapacità dei postcomunisti di ereditarne la cultura politica – anzi fu proprio da un pezzo di essi demonizzata grave è stato il disancoramento culturale che ha prodotto la “sinistra per caso”. Ed è proprio questa la ragione del fallimento del postcomunismo italiano che non è mai riuscito a fare la sua “Bad Godesberg” oscillando tra una pigra rievocazione della memoria post-togliattiana (Reichlin ne è la massima espressione) ed un americanismo spinto estraneo alla cultura politica europea. Io mi permetto solo qui di offrire una traccia di una discussione tutta da sviluppare su questa necessaria Bad Godesberg (uso questo termine perché è sinonimo da un lato di ridefinizione identitaria e dall’altro una sintesi, certo non esaustiva, del socialismo democratico della II metà del 900). Innanzi tutto credo che per fondare una sinistra socialista popolare e di governo occorrono una serie di precise e nette rotture di continuità (spesso, come dicevo, sviluppate in modo pigro e ripetitivo). Una prima rottura è con il fenomeno più recente. Il social-liberismo che è alla fine una imitazione europea del clintonismo americano. Esso ha rappresentato il più serio tentativo di liquidare la migliore tradizione socialdemocratica (quella di Bad Godesberg per l’appunto) tramite una subalterna e supina accettazione di un capitalismo liberale fondato sulla finanziarizzazione quale fattore strutturale nel meccanismo di accumulazione capitalistica. E che quindi porta a colpire in modo feroce e drammatico il cuore del modello sociale europeo. Ed a ridurre il lavoro a merce usa e getta. Il presunto riformismo dei “social-liberisti” consiste nel temperare gli effetti sociali più devastanti del mercatismo liberista (di qui il termine social-liberista) ma senza metterne in discussione il meccanismo strutturale. Una vera e propria capitolazione politica ed ideologica verso un sistema che moltiplica ingiustizie e sfruttamento sviluppando nel contempo meccanismi nichilisti ed autodistruttivi (come la crisi attuale insegna). Il social-liberismo non ha colpito allo stesso modo i socialismi europei (come la propaganda funeral-comunista vuol fare intendere). I socialisti francesi ne sono rimasti immuni. Così gli austriaci e gli scandinavi. Blair, Zapatero ed il postcomunista D’alema (oltre agli ex partiti comunisti dell’est) ne sono stati l’espressione più netta. Per Schroeder credo che sia più giusto il termine neo-mercantilismo per indicare comunque una politica non compatibile con una visione socialdemocratica. IL social-liberismo in Europa è alle spalle. Quantomeno nella consapevolezza dei dirigenti di partito. Del resto la crisi strutturale del capitalismo liberale porta a rivedere un po’ tutti i paradigmi che hanno dominato negli anni 90. Tranne che in Italia, dove l’eclissi della cultura politica ha portato a costruire il PD e fondarlo sui paradigmi social-liberisti proprio mentre questo in Europa entra in crisi. Comunque la rottura con il social-liberismo è uno dei punti qualificanti della ricostruzione di una cultura socialista. La seconda rottura da operare è quella con un pezzo importante del berlinguerismo. Che come ho detto altrove ha rappresentato il fallimento di una uscita in positivo dalla crisi del togliattismo. E la rottura deve riguardare due aspetti essenziali. Il primo è la sua fumosità ed ambiguità ideologica che si esprimeva nel concetto di II via tra socialdemocrazia e comunismo reale. E quindi nel perdurante atavico pregiudizio verso la socialdemocrazia. Un pregiudizio i cui effetti sono visibili ancora oggi. Se anche persone intelligenti e con i quali dobbiamo fare un percorso comune come Fassina ed Orfini (verso quest’ultimo ho più sospetti: ha lo stesso modo di parlare di D’Alema) continuano a parlare di progressismo italiano che deve unificarsi e non confluire nel socialismo europeo, è evidente che siamo in presenza del perdurare di quella ambiguità ideologica implicito nel concetto berlingueriano di III via. IL secondo elemento negativo del berlinguerismo è il moralismo integralista (e connesso all’idea di una diversità antropologica) che per me è padre di quell’antipolitica di sinistra, di quella “sinistra per caso” che esalta Di Pietro e Travaglio. Io credo che Berlinguer non si sarebbe mai alleato con Di Pietro. Nondimeno quella ventata moralistica (cosa ben diversa da una idea di etica politica) nella pigra conservazione della memoria è divenuta asse portante di un certo modo di essere “sinistra” nella II Repubblica. Senza contare il sostegno acritico ad un pezzo di magistratura che è stato il braccio operativo della liquidazione della politica e dell’imposizione del liberismo nel nostro paese. E le gravi violazioni dello stato di diritto da essa prodotte come l’uso distorto ed abusivo della custodia cautelare. La terza rottura da definire e quella con i residui del postsessantottismo. Anche qui c’è un’aria di reduci e combattenti, ma in assenza di un vero dibattito ideologico, la memoria distorta gioca brutti scherzi. Io , come già ho scritto, separo il sessantotto come fenomeno dal postsassantotto come ideologia. Il fenomeno 68 è stato positivo nella sua globalità perché ha segnato una necessaria rottura di continuità (nella storia ne esistono di diverse) che ha generalmente favorito il progresso civile. Molto più negativo è il mio giudizio sull’ideologia postsessantottina che è la massima espressione di quel grave senso di colpa dell’Occidente che alla fine regredisce nel nichilismo. Si diceva che Marcuse e Mao (nonostante la distanza enorme fra i due) erano i padri del 68 ideologico. Ed era vero. Nella Teoria Critica della società della Scuola di Francoforte si sono delineate due tendenze ben precise e contrapposte. La prima è quella di Fromm ed Habermas che tendono ad inquadrare la Teoria Critica nell’ambito dell’umanesimo illuminista. La seconda quella di Adorno e Marcuse (molto più in Adorno che in Marcuse) che sostengono il contrario. Per Adorno la modernità è un progetto fallito, per Habermas è solo un progetto incompiuto. In Adorno è forte la presenza del pensiero irrazionalista e nichilista di Hedegger, Nietsche ed addirittura De Sade! Questi rifiuto un po edipico dell’Occidente porta ad esaltare il terzomondismo. E qui entra in gioco Mao. Il quale era uno stalinista terribile e convinto, ma diviene il paladino di un comunismo terzomondista che deve lavare le colpe dell’occidente. Cornelius Castoriadis nel criticare a fondo il postmoderno (che è figlio di Adorno) rileva come L’Occidente abbia commesso delitti terribili (come anche altre civiltà) ma è l’unica civiltà che abbia sviluppato un pensiero critico di autonomia. Insomma noi critichiamo il colonialismo, lo sfruttamento i delitti che abbiamo commesso. Gli Aztechi non avrebbero mai criticato gli orrori da essi compiuti, come in tempi molto più recenti, i turchi non riconoscono le proprie colpe per il terribile genocidio degli Armeni. Non è differenza da poco. Proseguendo; il Marcuse italiano è stato Mario Tronti, padre della corrente dell’operaismo neoleninista (molto diverso da quello socialista di Panzieri di matrice luxemburghiana). Marcuse però individuava negli studenti e nel III mondo il soggetto rivoluzionario. Tronti lo individua in una classe operaia molto diversa da quella immaginata fino ad allora. Rispetto alla razionalità totalizzante del neocapitalismo pianificatore solo la irrazionalità operaia (“rude razza pagana” la chiamava Tronti) è l’elemento rivoluzionario di rottura se guidata dal nuovo partito rivoluzionario neoleninista. Di qui l’ideologia del rifiuto del lavoro, del sabotaggio operaio, di tutto quell’armamentario perverso ed irrazionale che ha prodotto danni enormi. Anche sul piano etico. TRonti dopo il 1968 cambiò profondamente posizione (ma un certo carattere totalizzante e trascendentale è rimasto nel suo pensiero) , ma ci pensò Toni Negri (un vero “cattivo maestro”) a sviluppare quelle tesi demenziali ed estremizzarle ancor di più, tramite letture unilaterali e deformanti dei processi sociali. Ora il riflesso di certe culture irrazionali è rimasto. Ed è rimasto nel sinistrismo avulso da un progetto organico e costruttivo di trasformazione sociale, che esiste solo come momento antagonista negativo. Bertinotti ne è un esempio. Insomma costoro fanno solo battaglie di bandiera per poter poi denunziare il tradimento di chi non la pensa come loro. Ritengono che la sinistra sia solo una somma di incazzature. E del resto l’intolleranza, la critica ad ogni forma politica democratica organizzata (partiti e sindacati) e l’esaltazione di forme di personalizzazione leaderistica sono oggi il tratto di unione tra postsessantottismo di risulta e populismo antipolitico. Dirò di più: perché molti ex sessantottini sono diventati liberisti convinti? Perché questo capitalismo attuale ha dei tipici aspetti nichilisti. Volendo asservimento totale dell’uomo al mercato in una logica di darwinismo sociale. La legge del più forte senza limiti. Ho indicato in modo forse non lineare , quelle che possono (come dicevo all’inizio) una traccia per poter sviluppare una discussione non più rinviabile. Di fronte alla gravissima crisi che attraversiamo non possiamo perdere più tempo ed è venuto il momento di uscire da tatticismi che in questa fase possono rivelarsi come la tomba della politica. Queste sono posizioni personali. Non coinvolgono il Network (anche se forse molti compagni le condividono) ma sono uno stimolo a riflettere anche lì e non solo, ovviamente.

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