Ci sono regole dure a morire, che regolano la vita dei partiti, anche quelli di sinistra e i meglio intenzionati. Nella tradizione socialdemocratica il partito doveva essere la prefigurazione della società di domani. In quella comunista in poco tempo la concezione come avanguardia della classe operaia, a sua volta soggetto rivoluzionario per eccellenza, ne aveva fatto una casta, la famosa nomenklatura con suoi riti e privilegi: setta nei piccoli partiti o chiesa in quelli grandi. In ogni caso come un corpo separato dalla società. Non è più così ed è in parte un bene che i partiti si siano laicizzati e che siano unicamente soggetti funzionali di un sistema politico, mediatori tra società e istituzioni, che nelle grandi democrazie, dove non è possibile l'esercizio della democrazia diretta, che hanno bisogno di organismi intermedi: partiti, in primo luogo, ma anche sindacati e organizzazioni imprenditoriali, financo lobby regolamentate. In difetto prosperano consorterie, gruppi di pressione, clientele e, in casi estremi , gruppi di criminalità organizzata infiltrati nelle istituzioni. Poiché la democrazia è "il governo dei poteri visibili" (Ruffini) quando il potere appartiene a gruppi o soggetti che lo esercitano di fatto senza legittimazione e trasparenza la democrazia è in pericolo. Nei partiti, specialmente in Italia, in assenza di una legge sui partiti politici, con il vincolo che nelle Costituzioni spagnola e tedesca è esplicito, di uno statuto interno democratico, il potere non è trasparente e si costruisce sulla base di antiche relazioni. Tende a stabilizzarsi nei fondatori, ma in quei fondatori che hanno antichi legami. Chi ha un potere lo difende perché da esso deriva potere e prestigio e interessanti prospettive personali. Non c'è da meravigliarsi se in SEL le antiche provenienze prevalgano e che ci sia chiusura per il nuovo. Qualcuno si ricorda i discorsi alla base del progetto di Costituente Socialista e la realtà che ne è seguita? Chi non proveniva dalla filiera SI- SDI era out.
SEL al di là delle intenzioni ora è un partito territorialmente strutturato, piaccia o no è questa realtà con cui fare i conti, Vendola compreso. Soltanto fatti politici esterni possono introdurre mutamenti che attraggano nuove adesioni in grado di cambiare/rinnovare(in tutto o in parte) i gruppi dirigenti. L'inizio di un avvicinamento al PSE può essere un fattore di rinnovamento se diventa discussione e elaborazione di una visione europea, che sia anche contributo di rinnovamento del PSE. Il solo fatto dell'adesione frutto di una decisione di vertice cambierebbe molto poco
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 aprile 2011
venerdì 29 aprile 2011
Felice Besostri: La clandestinità è ancora reato
LA CLANDESTINITA’ E’ ANCORA REATO
Per ragioni misteriose tutti i mezzi di informazione di massa, senza distinzione di orientamento politico, hanno presentato la sentenza della Corte di Giustizia della UE come invalidante il reato di clandestinità. A sinistra si poteva gridare con soddisfazione: “ve l’avevamo detto!” e a destra utilizzare la sentenza per diffondere insicurezza e allarme e per alimentare una nuova polemica sull’Unione Europea.
Ebbene il reato di clandestinità, di natura contravvenzionale, cioè punibile con una sola ammenda, è stato introdotto con l’art.1 c. 16 della legge n. 94/2009 (PACCHETTO SICUREZZA), mentre la Corte di Giustizia della UE si è occupata delle norme della legge n. 189/2002 (Bossi-Fini) di modifica degli art. 13 e 14 del Dlgs n. 286/1998 (Turco-Napolitano) con l’introduzione di una pena detentiva da 1 a 4 anni per violazione dell’obbligo di espatrio in seguito a decreto di espulsione. Il motivo è la violazione della Direttiva rimpatri, che lo Stato italiano doveva recepire entro il 24 dicembre 2010. E' giurisprudenza consolidata che, decorso il termine assegnato agli Stati per il recepimento , le norme chiare ed inequivoche della direttiva si applichino direttamente. La Direttiva non è stata recepita perché regolarizzava tutti i lavoratori clandestini in nero, che avessero denunciato i datori di lavoro. I rimpatri devono assegnare termini ragionevoli per il rimpatrio volontario e non si può limitare la libertà personale per più di 18 mesi. Con la normativa dichiarata illegittima il termine per dar corso al decreto di espulsione era di 5 giorni mentre per la direttiva doveva essere da 7 a 30 giorni. Quando vi è contrasto con la normativa europea la norma nazionale deve essere disapplicata e pertanto da dicembre 2010 praticamente nessuno era condannato per violazione del decreto di espulsione. IL REATO DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA QUINDI E' TUTTORA VIGENTE, ANCHE SE AD ESSO VANNO APPLICATI I PRINCIPI ENUNCIATI NELLA SENTENZA PER TUTTI QUEI CLANDESTINI CHE FACCIANO DICHIARAZIONE DI EMERSIONE E CHIEDANO LA REGOLARIZZAZIONE SE LAVORANO O HANNO LAVORATO IN NERO.
On. Avv. Felice C. Besostri
Presidente del Comitato per l’Autoemersione
dei Lavoratori clandestini
Per ragioni misteriose tutti i mezzi di informazione di massa, senza distinzione di orientamento politico, hanno presentato la sentenza della Corte di Giustizia della UE come invalidante il reato di clandestinità. A sinistra si poteva gridare con soddisfazione: “ve l’avevamo detto!” e a destra utilizzare la sentenza per diffondere insicurezza e allarme e per alimentare una nuova polemica sull’Unione Europea.
Ebbene il reato di clandestinità, di natura contravvenzionale, cioè punibile con una sola ammenda, è stato introdotto con l’art.1 c. 16 della legge n. 94/2009 (PACCHETTO SICUREZZA), mentre la Corte di Giustizia della UE si è occupata delle norme della legge n. 189/2002 (Bossi-Fini) di modifica degli art. 13 e 14 del Dlgs n. 286/1998 (Turco-Napolitano) con l’introduzione di una pena detentiva da 1 a 4 anni per violazione dell’obbligo di espatrio in seguito a decreto di espulsione. Il motivo è la violazione della Direttiva rimpatri, che lo Stato italiano doveva recepire entro il 24 dicembre 2010. E' giurisprudenza consolidata che, decorso il termine assegnato agli Stati per il recepimento , le norme chiare ed inequivoche della direttiva si applichino direttamente. La Direttiva non è stata recepita perché regolarizzava tutti i lavoratori clandestini in nero, che avessero denunciato i datori di lavoro. I rimpatri devono assegnare termini ragionevoli per il rimpatrio volontario e non si può limitare la libertà personale per più di 18 mesi. Con la normativa dichiarata illegittima il termine per dar corso al decreto di espulsione era di 5 giorni mentre per la direttiva doveva essere da 7 a 30 giorni. Quando vi è contrasto con la normativa europea la norma nazionale deve essere disapplicata e pertanto da dicembre 2010 praticamente nessuno era condannato per violazione del decreto di espulsione. IL REATO DI IMMIGRAZIONE CLANDESTINA QUINDI E' TUTTORA VIGENTE, ANCHE SE AD ESSO VANNO APPLICATI I PRINCIPI ENUNCIATI NELLA SENTENZA PER TUTTI QUEI CLANDESTINI CHE FACCIANO DICHIARAZIONE DI EMERSIONE E CHIEDANO LA REGOLARIZZAZIONE SE LAVORANO O HANNO LAVORATO IN NERO.
On. Avv. Felice C. Besostri
Presidente del Comitato per l’Autoemersione
dei Lavoratori clandestini
Paola Meneganti: Una notizia intollerabile dal mondo del lavoro
Una notizia intollerabile dal mondo del lavoro (P.M.)
.pubblicata da Paola Meneganti il giorno giovedì 28 aprile 2011 alle ore 21.04.Da molti anni - 28 - sono iscritta alla CGIL e "faccio" sindacato, sempre come delegata di base e, da tre mandati, eletta nelle RSU, perché ritengo importantissimo il confronto quotidiano con la materialità del lavoro, corpi, parole ed esperienze reali. Sono cresciuta, quindi, nella stagione dell'unità sindacale, e ne ho apprezzato il grande valore, anche simbolico. Ma non è più quel tempo. Tante gocce hanno fatto traboccare tanti recipienti, ma questa, che copio sotto, è una notizia intollerabile. La FIOM ha deciso di ricorrere alla magistratura del lavoro, contro la pratica degli accordi separati firmati da CISL, UIL e altri, tipo l'UGL. Accordi che hanno svenduto molti diritti in cambio di briciole. La FIOM sta vincendo le prime cause, ma i giudici, si sa, sono tutti comunisti. Ebbene, FIM e UILM sostengono che agli iscritti FIOM non debba essere erogato l'aumento salariale contenuto in uno degli accordi che loro hanno firmato. Bene, vorrà dire che, quando con gli scioperi che stiamo facendo noi della CGIL da anni, da soli, otterremo qualcosa, gli iscritti di CISL e UIL e tutti i "crumiri" resteranno al palo. Va bene così? No, che non va bene così. Perchè posizioni come queste vanno contro la democrazia del lavoro, la democrazia sindacale, la democrazia tout court e la Costituzione. Ma davvero, la misura è colma. E le/gli iscritt* della CISL e della UIL, che dicono? sono d'accordo?
W la CGIL. Sciopero generale il 6 maggio.
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26 aprile 2011 —
TORINO. La Fiom vince in Tribunale, ma rischia di perdere gli aumenti salariali previsti dal contratto separato del 2009, sottoscritto soltanto da Fim e Uilm. Federmeccanica starebbe infatti valutando la possibilità di chiedere alle aziende contro le quali sono stati presentati i ricorsi di sospendere il pagamento di 68 euro di aumento mensile agli iscritti Fiom (110 euro a regime). «È la conseguenza giusta - afferma il presidente degli industriali metalmeccanici torinesi, Vincenzo Ilotte - dei ricorsi presentati dalla Fiom nei confronti delle aziende che hanno applicato il contratto 2009. Se vogliono seguire quella strada devono subirne le conseguenze».
Immediata la replica del leader della Fiom, Maurizio Landini. «Se Federmeccanica bloccasse gli aumenti contrattuali - osserva - violerebbe l’articolo 36 della Costituzione e si aprirebbe un altro inutile contenzioso. È la pratica degli accordi separati che con i ricorsi viene messa in discussione. Sarebbe meglio aprire subito il confronto per rifare un contratto unitario, condiviso da tutti i lavoratori e da tutte le organizzazioni sindacali. Noi ci siamo assunti l’impegno a presentare nei prossimi mesi la piattaforma».
«I ricorsi della Fiom - ribatte Giuseppe Farina, segretario generale della Fim - si stanno rivelando un boomerang. Non hanno colto l’obiettivo di fare dichiarare illegittimo il contratto del 2009 e l’unico risultato è che i loro iscritti potrebbero non avere più gli aumenti contrattuali».
Più duro il numero uno della Uilm, Rocco Palombella, che per primo ha chiesto a Federmeccanica di sospendere gli aumenti salariali ai lavoratori iscritti alla Fiom e anzi di chiedere gli arretrati. «Le sentenze dei tribunali sui ricorsi della Fiom - spiega - sono la vera morte del contratto nazionale, non le newco Fiat. La Fiom non riconosce il contratto del 2009, come può allora riconoscere solo gli aumenti salariali? E magari gli interventi sul fondo di assistenza sanitaria? Fossi in Landini mi preoccuperei, chiederemo di applicare a lavoratori della Fiom l’accordo del 2008, voglio vedere come reggeranno nelle fabbriche. E quando quel contratto fra pochi mesi scadrà con chi lo rinnoveranno».
La prima causa vinta dalla Fiom contro il contratto separato del 2009 riguarda una piccola azienda di Torino, la Bulloneria Barge di Borgaro, con 86 dipendenti. Il tribunale di Modena ha poi accolto i ricorsi relativi a sette aziende: Emmegi, Maserati, Rossi, Glem Gas, Ferrari, Case New Holland, Titan.
In tutto sarebbero un centinaio le imprese nelle quali si rischia un doppio regime contrattuale.
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.pubblicata da Paola Meneganti il giorno giovedì 28 aprile 2011 alle ore 21.04.Da molti anni - 28 - sono iscritta alla CGIL e "faccio" sindacato, sempre come delegata di base e, da tre mandati, eletta nelle RSU, perché ritengo importantissimo il confronto quotidiano con la materialità del lavoro, corpi, parole ed esperienze reali. Sono cresciuta, quindi, nella stagione dell'unità sindacale, e ne ho apprezzato il grande valore, anche simbolico. Ma non è più quel tempo. Tante gocce hanno fatto traboccare tanti recipienti, ma questa, che copio sotto, è una notizia intollerabile. La FIOM ha deciso di ricorrere alla magistratura del lavoro, contro la pratica degli accordi separati firmati da CISL, UIL e altri, tipo l'UGL. Accordi che hanno svenduto molti diritti in cambio di briciole. La FIOM sta vincendo le prime cause, ma i giudici, si sa, sono tutti comunisti. Ebbene, FIM e UILM sostengono che agli iscritti FIOM non debba essere erogato l'aumento salariale contenuto in uno degli accordi che loro hanno firmato. Bene, vorrà dire che, quando con gli scioperi che stiamo facendo noi della CGIL da anni, da soli, otterremo qualcosa, gli iscritti di CISL e UIL e tutti i "crumiri" resteranno al palo. Va bene così? No, che non va bene così. Perchè posizioni come queste vanno contro la democrazia del lavoro, la democrazia sindacale, la democrazia tout court e la Costituzione. Ma davvero, la misura è colma. E le/gli iscritt* della CISL e della UIL, che dicono? sono d'accordo?
W la CGIL. Sciopero generale il 6 maggio.
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26 aprile 2011 —
TORINO. La Fiom vince in Tribunale, ma rischia di perdere gli aumenti salariali previsti dal contratto separato del 2009, sottoscritto soltanto da Fim e Uilm. Federmeccanica starebbe infatti valutando la possibilità di chiedere alle aziende contro le quali sono stati presentati i ricorsi di sospendere il pagamento di 68 euro di aumento mensile agli iscritti Fiom (110 euro a regime). «È la conseguenza giusta - afferma il presidente degli industriali metalmeccanici torinesi, Vincenzo Ilotte - dei ricorsi presentati dalla Fiom nei confronti delle aziende che hanno applicato il contratto 2009. Se vogliono seguire quella strada devono subirne le conseguenze».
Immediata la replica del leader della Fiom, Maurizio Landini. «Se Federmeccanica bloccasse gli aumenti contrattuali - osserva - violerebbe l’articolo 36 della Costituzione e si aprirebbe un altro inutile contenzioso. È la pratica degli accordi separati che con i ricorsi viene messa in discussione. Sarebbe meglio aprire subito il confronto per rifare un contratto unitario, condiviso da tutti i lavoratori e da tutte le organizzazioni sindacali. Noi ci siamo assunti l’impegno a presentare nei prossimi mesi la piattaforma».
«I ricorsi della Fiom - ribatte Giuseppe Farina, segretario generale della Fim - si stanno rivelando un boomerang. Non hanno colto l’obiettivo di fare dichiarare illegittimo il contratto del 2009 e l’unico risultato è che i loro iscritti potrebbero non avere più gli aumenti contrattuali».
Più duro il numero uno della Uilm, Rocco Palombella, che per primo ha chiesto a Federmeccanica di sospendere gli aumenti salariali ai lavoratori iscritti alla Fiom e anzi di chiedere gli arretrati. «Le sentenze dei tribunali sui ricorsi della Fiom - spiega - sono la vera morte del contratto nazionale, non le newco Fiat. La Fiom non riconosce il contratto del 2009, come può allora riconoscere solo gli aumenti salariali? E magari gli interventi sul fondo di assistenza sanitaria? Fossi in Landini mi preoccuperei, chiederemo di applicare a lavoratori della Fiom l’accordo del 2008, voglio vedere come reggeranno nelle fabbriche. E quando quel contratto fra pochi mesi scadrà con chi lo rinnoveranno».
La prima causa vinta dalla Fiom contro il contratto separato del 2009 riguarda una piccola azienda di Torino, la Bulloneria Barge di Borgaro, con 86 dipendenti. Il tribunale di Modena ha poi accolto i ricorsi relativi a sette aziende: Emmegi, Maserati, Rossi, Glem Gas, Ferrari, Case New Holland, Titan.
In tutto sarebbero un centinaio le imprese nelle quali si rischia un doppio regime contrattuale.
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giovedì 28 aprile 2011
Peppe Giudice: Quel brutto pregiudizio verso il socialismo europeo
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno giovedì 28 aprile 2011 alle ore 0.12.…quel brutto pregiudizio verso il socialismo europeo
Massimo Salvadori nel suo libro “Introduzione al 900” contesta la definizione del secolo scorso data da Hobsbown quale “secolo breve”. Salvadori dice che Hobsobown (intellettuale comunista inglese) riduce il 900 allo scontro tra capitalismo e comunismo quale elemento condizionante della sua storia.
In realtà, secondo Salvadori, il 900 non è affatto definibile come secolo breve ma piuttosto come “secolo lungo” non solo perché tutta la sua storia non è riducibile al conflitto prima citato, ma anche perché il 900 è segnato al suo interno da grosse linee di frattura (la più evidente ma non certo l’unica è la II Guerra Mondiale).
In secondo luogo, come sostiene uno storico americano eterodosso, Wallerstein, lo scontro capitalismo-comunismo, successivo alla II Guerra Mondiale, è stato un mascheramento ideologico della ripartizione del mondo in aree di influenza tra potenze imperiali. E che ha garantito agli Stati Uniti la egemonia sui 2/3 del pianeta. L’Unione Sovietica, in tale quadro, è quella che ha garantito la forza dell’egemonia americana. Entrambe le super-potenze hanno utilizzato l’ideologia (nel senso marxiano, come falsa coscienza) per giustificare la propria egemonia imperiale. Gli Stati Uniti come difensori del “mondo libero” (che non gli ha impedito di sostenere le peggiori dittature in diverse parti del mondo) e l’URSS come difensore del proletariato e del socialismo (i carri armati sovietici hanno represso nel sangue le principali rivolte operaie della II metà del 900).
In realtà la rivoluzione comunista era già fallita nel 1921 (e Lenin se ne era reso conto) – con Kronstad, sia per la immaturità delle condizioni oggettive e soggettive (in senso marxiano) sia perché era impossibile esportare il modello sovietico nelle realtà dell’Europa Occidentale caratterizzate da società ben più articolate, complesse ed evolute di quella russa.
Gran parte dei socialisti occidentali si rese conto di ciò. E pur non condannando in se la rivoluzione bolscevica riteneva assurdo il tentativo di esportare un modello frutto di circostanze non riproducibili.
Turati, profeticamente, disse che il bolscevismo sarebbe diventato uno strumento del vecchio nazionalismo russo. Stalin così lo fece diventare. Il comunismo nei fatti diventa lo strumento di qualcosa che nulla ha a che vedere con i suoi principi. Una ideologia che affidando una missione “civilizzatrice” (di nuova civiltà) alla Russia occultava in realtà nazionalismo e militarismo. Del resto l’ideologia della civilizzazione è sempre stato un pretesto (in molte fasi storiche) di tutti gli imperi. Giorgio Ruffolo ribadisce: non solo l’URSS ma tutte le rivoluzioni comuniste sono di fatto strumentalizzate dai nazionalismi dei grandi paesi emergenti (la Cina ad esempio). Ruffolo conclude affermando che il comunismo del 900 è in tutto e per tutto una rivoluzione abortita.
Questo quadro storico serve per meglio inquadrare il ruolo che il socialismo democratico ha svolto in Europa dagli anni 20 in poi ed esaminarlo libero da pregiudizi ideologici.
Intanto già dopo la ricostruzione della Internazionale Operaia e Socialista nel 1924 i partiti socialisti e socialdemocratici in Europa costituiscono la grande maggioranza della sinistra. Solo in Francia il PC ha una consistenza pari a quella dei socialisti. In Germania i socialdemocratici (durante la Repubblica di Weimar) erano quasi il triplo dei comunisti. In Inghilterra ed in Austria i comunisti non esistono. Belgio, Olanda, paesi scandinavi hanno i socialisti largamente maggioritari. Lo stesso in Spagna. In realtà la “spinta propulsiva della rivoluzione bolscevica” si arresta ben presto. Anche perché nei partiti comunisti si instaura un regime che elimina ogni minima sospetta dissidenza.
Molti comunisti rientrano nei partiti socialisti di provenienza. Un caso significativo è quello di Paul Levi primo segretario del KPD in Germania il quale dopo essere stato espulso perché luxemburghiano rientra nel 1924 (dopo che la socialdemocrazia si era riunificata dalla scissione del 1916) nella SPD e va a fare il leader della sinistra interna. Negli anni 30 vi saranno molti trotzkisti che entreranno nei partiti socialisti. Quindi già alla vigilia della II Guerra Mondiale i partiti socialisti europei sono quelli che rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori.
Nel dopoguerra, in Europa, in Italia (dove diventano il primo partito della sinistra) ed in Francia ( su un piano di parità con i socialisti) vi sono grossi partiti comunisti. Negli altri paesi il comunismo è una realtà politica trascurabile. Ma anche in Francia ed Italia gli stessi comunisti progressivamente adottano una prassi di fatto non distinguibile da quella socialdemocratica. Dalla seconda metà degli anni 70 il PCF in Francia progressivamente si indebolisce a vantaggio dei socialisti fino a scendere al 10% (e poi anche meno).
Quindi in Europa, il socialismo democratico resta di gran lunga, per tutto il dopoguerra il principale rappresentante degli interessi del mondo del lavoro e di ampie masse popolari. Ed è anche il costruttore di un modello sociale che si afferma come il più avanzato (soprattutto nei paesi dove il peso elettorale socialista è più alto) ed impone al capitalismo un compromesso sociale di alto profilo.
Massimo Salvadori mette in rilevo come il socialismo in Europa abbia attuato una rivoluzione copernicana nel concepire i diritti di cittadinanza che si estendono dal piano puramente politico a quello sociale ed economico. Il welfare universalistico, una nuova legislazione del lavoro, l’economia mista, lo sviluppo del cooperativismo e della democrazia economica, la programmazione economica sono tutte conquiste dovute in larga parte all’azione socialista. E conquiste che caratterizzano l’Europa rispetto a tutto il mondo occidentale.
Non a caso qualcuno (esagerando) ha parlato di “secolo socialdemocratico”.
Quindi se noi sgomberiamo il campo del giudizio politico da tutto ciò che è stato influenzato dai “paradigmi della guerra fredda” non potremo che fare passi avanti. Perché in Italia il giudizio negativo sulle socialdemocrazie è oggettivamente stato influenzato dall’ideologia sovietica del “campo socialista”. Abbiamo già visto che quello dei “campi contrapposti” è la ideologia su cui si basava la spartizione del mondo tra le superpotenze.
Ora poiché la socialdemocrazia ed i socialisti europei erano collocati nell’occidente con quel metro di giudizio assurdamente schematico facevano parte del “campo capitalista”.
In realtà i partiti socialdemocratici avevano una ispirazione di fondo neutralista. Nello stesso programma di Bad Godesberg della SPD si parla di una Germania unificata in una area europea neutrale. Accettarono la Nato non per ideologia ma come stato di necessità imposto dalle circostanze.
Lo dimostra il fatto che Brandt seguì una politica estera di autonomia rispetto agli USA. Come fecero Palme in Svezia e Kreysky in Austria (ma loro non erano nella Nato). Come fecero Mitterrand e lo stesso Craxi.
Quindi il 900 non è il secolo della contrapposizione capitalismo-comunismo; il 900 è il secolo in cui le masse fanno irruzione nella politica. Il grande merito delle socialdemocrazie è di aver favorito l’integrazione di queste masse nella evoluzione democratica e di aver fatto evolvere la democrazia verso la “democrazia sociale”.
Ovviamente la storia del socialismo europeo è costellata di errori, di contraddizioni, di tradimenti se vogliamo (ci sono stati anche quelli). La socialdemocrazia spesso ha realizzato solo parzialmente i suoi programmi. Vi erano limiti imposti talvolta dai rapporti di forza e talvolta dalla viltà delle classi dirigenti. Si dice che la socialdemocrazia ha realizzato un compromesso con il capitalismo, ma non ha trasceso l’ordine capitalistico stesso. E’ vero. Ma neanche il comunismo l’ha fatto. Ha creato un capitalismo di stato totalitario al servizio di potenze imperiali.
Del resto l’esperienza storica ci dice che il passaggio dal capitalismo al socialismo è qualcosa di molto più complesso dello schematismo teorico marxista-leninista.
Io credo che il socialismo del XXI secolo dovrà porsi il tema di trascendere il capitalismo quale orizzonte del proprio agire, sapendo che è un processo lungo ed a tappe con le necessarie mediazioni. Ma la critica al capitalismo è l’essenza del socialismo. Non possiamo concepire il capitalismo come fine della storia.
Liberata la storia del 900 dal vincolo unico della Guerra Fredda, non è possibile affermare come fanno alcuni neo-comunisti che il crollo del Muro di Berlino (e quindi, nell’immaginario, del comunismo) rappresenta la sconfitta storica del movimento operaio: questa è proprio una cazzata.
A parte il fatto che non si può concepire la lotta politica e la lotta di classe come scontro militare (questo è leninismo primitivo), se si afferma che il 900 si chiude con la sconfitta totale della sinistra, si dimostra da un lato di essere succubi dei paradigmi della guerra fredda, e dall’altro lato di essere masochisti perché se fosse vero che insieme al comunismo è stato sconfitto pure il socialismo democratico, vuol dire che ha avuto ragione la destra e che la sinistra non ha futuro. Infatti è molto difficile poter costruire un futuro se tutta l’esperienza del 900 è da buttare a mare.
Se liberiamo la storia dalle deformazioni mitologiche forse ne usciamo fuori. Una nuova sinistra non si reinventa da zero. Nella storia non si sono voli pindarici. L’esperienza positiva e le conquiste del socialismo del 900 (che hanno coinvolto anche i partiti comunisti che si sono gradualmente social democratizzati come il PCI) sono una necessaria base di partenza per rilanciare sinistra e socialismo nella costruzione di una alternativa al neoliberismo, il quale ha certo messo in discussione conquiste e prodotto gravissime diseguaglianze, ma ad un prezzo altissimo per il capitalismo stesso: dell’aver innescato la più grave crisi economica dal 1929. Che dimostra quello che dicono Ruffolo e Gallino: il capitalismo senza antagonismi sviluppa forze autodistruttive.
Non si potrà uscire in modo durevole dalla crisi senza una forte redistribuzione della ricchezza ed una regolazione sociale ed ecologica del mercato . Forse anche qualche “moderato” lo sta capendo.
Oggi il socialismo europeo resta l’unico campo dove si può ricostruire questa sinistra. Se vogliamo una sinistra popolare, di governo e socialista.
SeL non è la forma definitiva che avrà la sinistra nuova ma ne è una delle premesse per costruire qualcosa che coinvolga (diciamolo con chiarezza) il grosso di un PD liberato dal moderatismo e dal nuovismo. Il PSE ne è l’indispensabile orizzonte strategico.
PEPPE GIUDICE
Massimo Salvadori nel suo libro “Introduzione al 900” contesta la definizione del secolo scorso data da Hobsbown quale “secolo breve”. Salvadori dice che Hobsobown (intellettuale comunista inglese) riduce il 900 allo scontro tra capitalismo e comunismo quale elemento condizionante della sua storia.
In realtà, secondo Salvadori, il 900 non è affatto definibile come secolo breve ma piuttosto come “secolo lungo” non solo perché tutta la sua storia non è riducibile al conflitto prima citato, ma anche perché il 900 è segnato al suo interno da grosse linee di frattura (la più evidente ma non certo l’unica è la II Guerra Mondiale).
In secondo luogo, come sostiene uno storico americano eterodosso, Wallerstein, lo scontro capitalismo-comunismo, successivo alla II Guerra Mondiale, è stato un mascheramento ideologico della ripartizione del mondo in aree di influenza tra potenze imperiali. E che ha garantito agli Stati Uniti la egemonia sui 2/3 del pianeta. L’Unione Sovietica, in tale quadro, è quella che ha garantito la forza dell’egemonia americana. Entrambe le super-potenze hanno utilizzato l’ideologia (nel senso marxiano, come falsa coscienza) per giustificare la propria egemonia imperiale. Gli Stati Uniti come difensori del “mondo libero” (che non gli ha impedito di sostenere le peggiori dittature in diverse parti del mondo) e l’URSS come difensore del proletariato e del socialismo (i carri armati sovietici hanno represso nel sangue le principali rivolte operaie della II metà del 900).
In realtà la rivoluzione comunista era già fallita nel 1921 (e Lenin se ne era reso conto) – con Kronstad, sia per la immaturità delle condizioni oggettive e soggettive (in senso marxiano) sia perché era impossibile esportare il modello sovietico nelle realtà dell’Europa Occidentale caratterizzate da società ben più articolate, complesse ed evolute di quella russa.
Gran parte dei socialisti occidentali si rese conto di ciò. E pur non condannando in se la rivoluzione bolscevica riteneva assurdo il tentativo di esportare un modello frutto di circostanze non riproducibili.
Turati, profeticamente, disse che il bolscevismo sarebbe diventato uno strumento del vecchio nazionalismo russo. Stalin così lo fece diventare. Il comunismo nei fatti diventa lo strumento di qualcosa che nulla ha a che vedere con i suoi principi. Una ideologia che affidando una missione “civilizzatrice” (di nuova civiltà) alla Russia occultava in realtà nazionalismo e militarismo. Del resto l’ideologia della civilizzazione è sempre stato un pretesto (in molte fasi storiche) di tutti gli imperi. Giorgio Ruffolo ribadisce: non solo l’URSS ma tutte le rivoluzioni comuniste sono di fatto strumentalizzate dai nazionalismi dei grandi paesi emergenti (la Cina ad esempio). Ruffolo conclude affermando che il comunismo del 900 è in tutto e per tutto una rivoluzione abortita.
Questo quadro storico serve per meglio inquadrare il ruolo che il socialismo democratico ha svolto in Europa dagli anni 20 in poi ed esaminarlo libero da pregiudizi ideologici.
Intanto già dopo la ricostruzione della Internazionale Operaia e Socialista nel 1924 i partiti socialisti e socialdemocratici in Europa costituiscono la grande maggioranza della sinistra. Solo in Francia il PC ha una consistenza pari a quella dei socialisti. In Germania i socialdemocratici (durante la Repubblica di Weimar) erano quasi il triplo dei comunisti. In Inghilterra ed in Austria i comunisti non esistono. Belgio, Olanda, paesi scandinavi hanno i socialisti largamente maggioritari. Lo stesso in Spagna. In realtà la “spinta propulsiva della rivoluzione bolscevica” si arresta ben presto. Anche perché nei partiti comunisti si instaura un regime che elimina ogni minima sospetta dissidenza.
Molti comunisti rientrano nei partiti socialisti di provenienza. Un caso significativo è quello di Paul Levi primo segretario del KPD in Germania il quale dopo essere stato espulso perché luxemburghiano rientra nel 1924 (dopo che la socialdemocrazia si era riunificata dalla scissione del 1916) nella SPD e va a fare il leader della sinistra interna. Negli anni 30 vi saranno molti trotzkisti che entreranno nei partiti socialisti. Quindi già alla vigilia della II Guerra Mondiale i partiti socialisti europei sono quelli che rappresentano la grande maggioranza dei lavoratori.
Nel dopoguerra, in Europa, in Italia (dove diventano il primo partito della sinistra) ed in Francia ( su un piano di parità con i socialisti) vi sono grossi partiti comunisti. Negli altri paesi il comunismo è una realtà politica trascurabile. Ma anche in Francia ed Italia gli stessi comunisti progressivamente adottano una prassi di fatto non distinguibile da quella socialdemocratica. Dalla seconda metà degli anni 70 il PCF in Francia progressivamente si indebolisce a vantaggio dei socialisti fino a scendere al 10% (e poi anche meno).
Quindi in Europa, il socialismo democratico resta di gran lunga, per tutto il dopoguerra il principale rappresentante degli interessi del mondo del lavoro e di ampie masse popolari. Ed è anche il costruttore di un modello sociale che si afferma come il più avanzato (soprattutto nei paesi dove il peso elettorale socialista è più alto) ed impone al capitalismo un compromesso sociale di alto profilo.
Massimo Salvadori mette in rilevo come il socialismo in Europa abbia attuato una rivoluzione copernicana nel concepire i diritti di cittadinanza che si estendono dal piano puramente politico a quello sociale ed economico. Il welfare universalistico, una nuova legislazione del lavoro, l’economia mista, lo sviluppo del cooperativismo e della democrazia economica, la programmazione economica sono tutte conquiste dovute in larga parte all’azione socialista. E conquiste che caratterizzano l’Europa rispetto a tutto il mondo occidentale.
Non a caso qualcuno (esagerando) ha parlato di “secolo socialdemocratico”.
Quindi se noi sgomberiamo il campo del giudizio politico da tutto ciò che è stato influenzato dai “paradigmi della guerra fredda” non potremo che fare passi avanti. Perché in Italia il giudizio negativo sulle socialdemocrazie è oggettivamente stato influenzato dall’ideologia sovietica del “campo socialista”. Abbiamo già visto che quello dei “campi contrapposti” è la ideologia su cui si basava la spartizione del mondo tra le superpotenze.
Ora poiché la socialdemocrazia ed i socialisti europei erano collocati nell’occidente con quel metro di giudizio assurdamente schematico facevano parte del “campo capitalista”.
In realtà i partiti socialdemocratici avevano una ispirazione di fondo neutralista. Nello stesso programma di Bad Godesberg della SPD si parla di una Germania unificata in una area europea neutrale. Accettarono la Nato non per ideologia ma come stato di necessità imposto dalle circostanze.
Lo dimostra il fatto che Brandt seguì una politica estera di autonomia rispetto agli USA. Come fecero Palme in Svezia e Kreysky in Austria (ma loro non erano nella Nato). Come fecero Mitterrand e lo stesso Craxi.
Quindi il 900 non è il secolo della contrapposizione capitalismo-comunismo; il 900 è il secolo in cui le masse fanno irruzione nella politica. Il grande merito delle socialdemocrazie è di aver favorito l’integrazione di queste masse nella evoluzione democratica e di aver fatto evolvere la democrazia verso la “democrazia sociale”.
Ovviamente la storia del socialismo europeo è costellata di errori, di contraddizioni, di tradimenti se vogliamo (ci sono stati anche quelli). La socialdemocrazia spesso ha realizzato solo parzialmente i suoi programmi. Vi erano limiti imposti talvolta dai rapporti di forza e talvolta dalla viltà delle classi dirigenti. Si dice che la socialdemocrazia ha realizzato un compromesso con il capitalismo, ma non ha trasceso l’ordine capitalistico stesso. E’ vero. Ma neanche il comunismo l’ha fatto. Ha creato un capitalismo di stato totalitario al servizio di potenze imperiali.
Del resto l’esperienza storica ci dice che il passaggio dal capitalismo al socialismo è qualcosa di molto più complesso dello schematismo teorico marxista-leninista.
Io credo che il socialismo del XXI secolo dovrà porsi il tema di trascendere il capitalismo quale orizzonte del proprio agire, sapendo che è un processo lungo ed a tappe con le necessarie mediazioni. Ma la critica al capitalismo è l’essenza del socialismo. Non possiamo concepire il capitalismo come fine della storia.
Liberata la storia del 900 dal vincolo unico della Guerra Fredda, non è possibile affermare come fanno alcuni neo-comunisti che il crollo del Muro di Berlino (e quindi, nell’immaginario, del comunismo) rappresenta la sconfitta storica del movimento operaio: questa è proprio una cazzata.
A parte il fatto che non si può concepire la lotta politica e la lotta di classe come scontro militare (questo è leninismo primitivo), se si afferma che il 900 si chiude con la sconfitta totale della sinistra, si dimostra da un lato di essere succubi dei paradigmi della guerra fredda, e dall’altro lato di essere masochisti perché se fosse vero che insieme al comunismo è stato sconfitto pure il socialismo democratico, vuol dire che ha avuto ragione la destra e che la sinistra non ha futuro. Infatti è molto difficile poter costruire un futuro se tutta l’esperienza del 900 è da buttare a mare.
Se liberiamo la storia dalle deformazioni mitologiche forse ne usciamo fuori. Una nuova sinistra non si reinventa da zero. Nella storia non si sono voli pindarici. L’esperienza positiva e le conquiste del socialismo del 900 (che hanno coinvolto anche i partiti comunisti che si sono gradualmente social democratizzati come il PCI) sono una necessaria base di partenza per rilanciare sinistra e socialismo nella costruzione di una alternativa al neoliberismo, il quale ha certo messo in discussione conquiste e prodotto gravissime diseguaglianze, ma ad un prezzo altissimo per il capitalismo stesso: dell’aver innescato la più grave crisi economica dal 1929. Che dimostra quello che dicono Ruffolo e Gallino: il capitalismo senza antagonismi sviluppa forze autodistruttive.
Non si potrà uscire in modo durevole dalla crisi senza una forte redistribuzione della ricchezza ed una regolazione sociale ed ecologica del mercato . Forse anche qualche “moderato” lo sta capendo.
Oggi il socialismo europeo resta l’unico campo dove si può ricostruire questa sinistra. Se vogliamo una sinistra popolare, di governo e socialista.
SeL non è la forma definitiva che avrà la sinistra nuova ma ne è una delle premesse per costruire qualcosa che coinvolga (diciamolo con chiarezza) il grosso di un PD liberato dal moderatismo e dal nuovismo. Il PSE ne è l’indispensabile orizzonte strategico.
PEPPE GIUDICE
Franco Astengo: Primo maggio, tra memoria e attualità
PRIMO MAGGIO TRA MEMORIA E ATTUALITA'
Primo maggio 2011, festa del lavoro nell' "annus horribilis" di Marchionne, dell'attacco diretto ai residui diritti della classe operaia che ha dimostrato una capacità, da molti insospettata, di tenuta, di resistenza, anche di controffensiva che ha fornito a tutti noi, che ancora crediamo in determinati valori, principi, ideali, forza e volontà di lotta.
Un Primo Maggio da ricordare anche perché, da altre parti, si pensa di cancellarlo in nome dei "negozi aperti in una città turistica": si tratta semplicemente di un affronto da respingere seccamente.
Certo, ci sarà chi, come sempre lavorerà il Primo Maggio per garantire la vita degli altri, i servizi, l'espletamento di necessità inderogabili: però la nostra sarà un'idea romantica, ma il Primo Maggio vede Città e Campagne ferme, rispettose, nei cortei e nei comizi colmi di bandiere rosse.
Rispettose, campagne e città, dell'idea del lavoro come riscatto sociale.
Nel nostro Paese il lavoro è il fondamento del primo articolo della Costituzione Repubblicana, la rappresentazione più visibile, immediata, della sua importanza all'indomani della Liberazione: lavoro, antifascismo, democrazia, questi i punti discriminanti di una identità dell'Italia Repubblicana che non intendiamo dismettere, anzi vogliamo affermare con forza, uscendo dal tunnel dell'arretramento dentro il quale siamo finiti da qualche anno a questa parte.
Non intendiamo, però, scrivendo questo poche note limitarci ad una idea quasi "autarchica" del Primo Maggio: il Primo Maggio non è una invenzione italiana, il Primo Maggio appartiene al mondo.
Il Primo Maggio è una data simbolo in tutto il mondo.
La Memoria: il Primo Maggio nasce a Chicago nel 1886 e, tre anni, dopo, nel 1889 quella data fu assunta dalla Seconda Internazionale, quale giornata di mobilitazione per la riduzione dell'orario di lavoro.
Le Otto ore di lavoro sono state il simbolo, l'essenza, dell'internazionalizzazione della lotta del movimento operaio: insieme mito ed obiettivo del riscatto sociale, punto d'arrivo di una diversa idea dello sviluppo, dell'equilibrio sociale, della possibilità di cambiare "lo stato delle cose presenti".
Le "Otto Ore" quale piattaforma universale che consentì, all'epoca, di rendere la classe operaia in lotta visibile e vincente.
L'Attualità: la rappresentazione più visibile dell'attualità è quella che è stata definita "globalizzazione" (non certo una novità, da un determinato punto di vista).
Una "globalizzazione" che porta con sé ancora il conflitto, la guerra, le divisioni etniche e razziali, l'idea dell'estensione del mercato capitalistico al mondo intero.
Bisogna affermare, senza indugi che, in questo senso, la "Storia non è finita": la globalizzazione non rappresenta l'estensione definitiva del dominio capitalistico.
A questo proposito dobbiamo riprendere un cammino di riflessione e di lotta, pensando alle divisioni che gli interessi specifici, particolaristici, corporativi, settoriali che caratterizzano il fenomeno dell'espansione economica nel mondo: la dialettica unità - scissione oggi caratterizza, forse ancora di più che in altre fasi della Storia, la natura del capitalismo in forma fortemente contraddittoria; maggiore è l'unità del mercato mondiale, più grande lo scontro tra gli Stati, oggi a dimensione continentale come dimostrano i fatti più recenti.
Questa tendenza va valutata con attenzione, a questi processi in atto va contrapposta una idea unitaria che parta dalle condizioni materiali dello sfruttamento del lavoro, della sua alienazione, della contraddizione irriducibile e principale che questi fenomeni provoca.
Il Primo Maggio come occasione di riflessione, dunque, per una idea unitaria di riscatto sociale, di recupero del concetto di classe, dell'estensione dell'idea di una trasformazione radicale degli equilibri economici, politici, sociali.
Ancora una volta, al di là delle nostre diverse opinioni politiche correnti, si impone la necessità di sviluppare, nei tempi presenti, una idea di fondo: la contraddizione sotto gli occhi di tutti è ancora quella tra le potenzialità che la specie umana possiede e i limiti che l'organizzazione sociale e politica del capitalismo le impongono: lottare perché si vada oltre l'angustia dello scambio tra capitale e lavoro salariato, prefigurare una società libera dal bisogno.
Queste, molto semplici, le ragioni per cui vale ancora la pena , ora più che mai, celebrare il Primo Maggio.
Savona, li 28 Aprile 2011 Franco Astengo
Primo maggio 2011, festa del lavoro nell' "annus horribilis" di Marchionne, dell'attacco diretto ai residui diritti della classe operaia che ha dimostrato una capacità, da molti insospettata, di tenuta, di resistenza, anche di controffensiva che ha fornito a tutti noi, che ancora crediamo in determinati valori, principi, ideali, forza e volontà di lotta.
Un Primo Maggio da ricordare anche perché, da altre parti, si pensa di cancellarlo in nome dei "negozi aperti in una città turistica": si tratta semplicemente di un affronto da respingere seccamente.
Certo, ci sarà chi, come sempre lavorerà il Primo Maggio per garantire la vita degli altri, i servizi, l'espletamento di necessità inderogabili: però la nostra sarà un'idea romantica, ma il Primo Maggio vede Città e Campagne ferme, rispettose, nei cortei e nei comizi colmi di bandiere rosse.
Rispettose, campagne e città, dell'idea del lavoro come riscatto sociale.
Nel nostro Paese il lavoro è il fondamento del primo articolo della Costituzione Repubblicana, la rappresentazione più visibile, immediata, della sua importanza all'indomani della Liberazione: lavoro, antifascismo, democrazia, questi i punti discriminanti di una identità dell'Italia Repubblicana che non intendiamo dismettere, anzi vogliamo affermare con forza, uscendo dal tunnel dell'arretramento dentro il quale siamo finiti da qualche anno a questa parte.
Non intendiamo, però, scrivendo questo poche note limitarci ad una idea quasi "autarchica" del Primo Maggio: il Primo Maggio non è una invenzione italiana, il Primo Maggio appartiene al mondo.
Il Primo Maggio è una data simbolo in tutto il mondo.
La Memoria: il Primo Maggio nasce a Chicago nel 1886 e, tre anni, dopo, nel 1889 quella data fu assunta dalla Seconda Internazionale, quale giornata di mobilitazione per la riduzione dell'orario di lavoro.
Le Otto ore di lavoro sono state il simbolo, l'essenza, dell'internazionalizzazione della lotta del movimento operaio: insieme mito ed obiettivo del riscatto sociale, punto d'arrivo di una diversa idea dello sviluppo, dell'equilibrio sociale, della possibilità di cambiare "lo stato delle cose presenti".
Le "Otto Ore" quale piattaforma universale che consentì, all'epoca, di rendere la classe operaia in lotta visibile e vincente.
L'Attualità: la rappresentazione più visibile dell'attualità è quella che è stata definita "globalizzazione" (non certo una novità, da un determinato punto di vista).
Una "globalizzazione" che porta con sé ancora il conflitto, la guerra, le divisioni etniche e razziali, l'idea dell'estensione del mercato capitalistico al mondo intero.
Bisogna affermare, senza indugi che, in questo senso, la "Storia non è finita": la globalizzazione non rappresenta l'estensione definitiva del dominio capitalistico.
A questo proposito dobbiamo riprendere un cammino di riflessione e di lotta, pensando alle divisioni che gli interessi specifici, particolaristici, corporativi, settoriali che caratterizzano il fenomeno dell'espansione economica nel mondo: la dialettica unità - scissione oggi caratterizza, forse ancora di più che in altre fasi della Storia, la natura del capitalismo in forma fortemente contraddittoria; maggiore è l'unità del mercato mondiale, più grande lo scontro tra gli Stati, oggi a dimensione continentale come dimostrano i fatti più recenti.
Questa tendenza va valutata con attenzione, a questi processi in atto va contrapposta una idea unitaria che parta dalle condizioni materiali dello sfruttamento del lavoro, della sua alienazione, della contraddizione irriducibile e principale che questi fenomeni provoca.
Il Primo Maggio come occasione di riflessione, dunque, per una idea unitaria di riscatto sociale, di recupero del concetto di classe, dell'estensione dell'idea di una trasformazione radicale degli equilibri economici, politici, sociali.
Ancora una volta, al di là delle nostre diverse opinioni politiche correnti, si impone la necessità di sviluppare, nei tempi presenti, una idea di fondo: la contraddizione sotto gli occhi di tutti è ancora quella tra le potenzialità che la specie umana possiede e i limiti che l'organizzazione sociale e politica del capitalismo le impongono: lottare perché si vada oltre l'angustia dello scambio tra capitale e lavoro salariato, prefigurare una società libera dal bisogno.
Queste, molto semplici, le ragioni per cui vale ancora la pena , ora più che mai, celebrare il Primo Maggio.
Savona, li 28 Aprile 2011 Franco Astengo
mercoledì 27 aprile 2011
martedì 26 aprile 2011
peppe giudice: la strumentalizzazione di craxi
La strumentalizzazione di Craxi
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno lunedì 25 aprile 2011 alle ore 23.58.Piero Sansonetti è forse l’esponente comunista che ha maggiormente contribuito a liberare il giudizio su Craxi dalla pura e semplice demonizzazione.
L’altro giorno ha scritto un interessante articolo in cui ha ripetuto molto sinteticamente il suo giudizio.
Ora una riflessione su Craxi (specie dopo quello che affermò con lucidità il presidente Napolitano due anni fa) va rifatta, proprio nel momento in cui la destra berlusconiana sembra vivere sul serio la crisi più profonda (non c’è solo Fini, ma uno scontro ormai aperto e totale dentro il PDL).
Perché Craxi? Perché sia Berlusconi che Di Pietro utilizzano strumentalmente Craxi a sostegno delle proprie ragioni. Berlusconi per presentarsi come l’erede di Craxi nella presunta persecuzione giudiziaria che afferma di subire, i professionisti dell’antiberlusconismo per evidenziare Craxi quale simbolo del malaffare ed il “latitante” che sfugge alla giustizia quale prefigurazione di Berlusconi stesso. Insomma c’è da entrambe le parti un uso ideologico della figura dell’ex segretario del PSI che in realtà poco ha a che vedere con il Craxi storico. Debbo aggiungere che tutti i figuri ex craxiani oggi berlusconiani (Cicchitto, Boniver, Brunetta) accreditano con forza l’idea di un Berlusconi erede di Craxi. Così come i professionisti del giustizialismo orchestrati da Scalfari (lì c’è la radice dell’antisocialismo pseudo-progressista) hanno bisogno di mantenere in piedi la “leyenda negra” antisocialista. Infatti nel quadro dello scontro mediatico e della estrema banalizzazione e semplificazione delle ragioni del contendere che esso provoca, risulta estremamente difficile separare Craxi dal socialismo, cosa che in un articolato ragionamento storico-politico è perfettamente possibile. Per cui la “leyenda negra” inevitabilmente ricade anche sui socialisti non-craxiani o anti-craxiani. In più il perpetuarsi della “leyenda negra” rende difficile la piena riappropriazione della tradizione socialista da parte della sinistra. Anzi la liberazione della “leyenda negra” è un problema di cui tutta la sinistra seria deve farsi carico.
Vedete, io credo ad una sinistra di ispirazione socialista ma plurale nelle provenienze. Lungi da me qualsiasi forma di integralismo identitario. Ma al tempo stesso è molto difficile se non impossibile costruire questa sinistra senza che la migliore tradizione socialista costituisca una delle architravi su cui essa dovrà poggiare.
Lo ripeto. La sinistra italiana deve separare nettamente i suoi destini da quelli del giustizialismo antipolitico. E’ un qualcosa che va oltre i passaggi elettorali (in cui sei costretto a tenere l’IDV nel centrosinistra) . E’ un problema culturale non di tattica politica.
In effetti cosa ha portato un pezzo di sinistra di matrice comunista a simpatizzare per quello che sbrigativamente definiamo dipietrismo? Indubbiamente la radice di tale scelta sta nella rivendicazione di una superiorità morale ed antropologica comunista che Berlinguer sintetizzò nella famosa idea della “diversità” che si spostava dal terreno ideologico (nel 1981 le differenze ideologiche tra comunisti e socialisti si erano notevolmente assottigliate) a quello etico-antropologico.
Leggendo la autobiografia politica del presidente Napolitano, ci si rende conto del forte scontro che ci fu nel PCI, proprio sul tema della “diversità”. I cosiddetti miglioristi ribatterono a Berlinguer che lanciare l’idea della diversità in funzione anti-PSI soprattutto (il PSI dell’81 non aveva ancora sviluppato le degenerazioni di quello di fine anni 80) di fatto precludeva lo sviluppo positivo di rapporti a sinistra e quindi la costruzione di una alternativa alla DC.
C’è da dire che alla scelta sciagurata di Berlinguer, Craxi contrappose una altra scelta sciagurata: quella di rinchiudere il PSI nel pentapartito (che poi si rivelò la tomba della politica socialista). Anche se negli anni successivi vi furono diversi tentativi per ricostruire un rapporto positivo tra i due partiti (nel 1983 soprattutto), è indubbio che, a partire dal 1981 i rapporti a sinistra subirono un progressivo e continuo deterioramento con grave danno per tutta la politica italiana.
Nel 1993 in conseguenza della scelta di Occhetto di cavalcare l’ondata giustizialista (anche per sottrarre il PDS al processo dissolutorio che coinvolgeva gli altri partiti) riemerge la sindrome della diversità. Il PCI era coinvolto come gli altri nel finanziamento illegale ai partiti e quindi al sistema di tangentopoli (dal 1974 al 1992 abbiamo avuto un modello di democrazia consociativa). Ma poiché il PCI aveva un sistema di amministrazione centralizzata delle risorse, in quel partito non vi furono casi di arricchimento individuale (se non estremamente sporadici). Nel PSI il sistema correntizio, che negli anni 80, sotto il bonapartismo craxiano, si trasforma in scontro tra cordate elettorali regionali sviluppa forme “autonome” di finanziamento illegale che il partito non riesce più a controllare. Di qui i casi di arricchimenti individuali. Ma naturalmente questo non faceva del PSI un partito di criminali o di gente geneticamente predisposta alla delinquenza come in alcune semplificazioni arbitrarie e sciagurate dell’ipocrisia qualunquista italica veniva fuori (e talvolta queste semplificazioni venivano fatte proprie dai militanti più imbecilli del PDS).
Nel PSI c’era una grande quantità di militanti, amministratori e dirigenti seri, rigorosi ed onesti che hanno lavorato disinteressatamente per il partito (come il sottoscritto e tanti altri). Naturalmente poi c’erano i faccendieri, i “corridoisti” (come li chiama Vincenzo Lorè), i portaborse ed i segretari particolari (i peggiori). Quanti bravi compagni sono stati insultati ingiustamente, quanti sono stati indagati, arrestati e poi prosciolti da una magistratura degna di Torqumnada? Fu tuttavia la politica di pentapartito a provocare i fenomeni degenerativi morali e quelli degenerativi ideologici (il postcraxismo neoliberaloide di Martelli). Non basta avere una grande tradizione alle spalle per garantire la moralità dei comportamenti. La politica come esercizio del potere provoca fortissime tentazioni. Nessuno ne è potenzialmente immune e non esiste diversità al riguardo. Lo si è visto poi (dagli anni 90 fino ad oggi) quando, in tutti gli schieramenti politici, a destra prevalentemente, ma con evidenza anche nel centrosinistra, l’amoralità politica ha raggiunto livelli che hanno fatto impallidire gli anni 80. Quanti ex dirigenti del PCI nel sud Italia hanno assunto gli stessi atteggiamenti degli odiati craxiani?
Del resto la gestione di alcune regioni come la Campania o la Calabria da parte del centrosinistra è nota a tutti. La diversità è una chimera. Il guaio è che quando illudi la gente sul tema della diversità, la disillusione è poi terribile e provoca o astensionismo o rende molto spuntata la critica alla destra basata sulla questione morale. Alla fine poi prevale l’assuefazione e la rassegnazione al degrado. Ma, fratelli cari, se Berlusconi viene salvato da una sfiducia l’avrebbe probabilmente fatto uscire di scena, da due deputati del partito che si proclama antiberlusconiano per antonomasia, quello del “trebbiatore di Montenero”?
In più il concentrarsi su una visione puramente moralistica della alternativa alla destra, ha fatto completamente smarrire alla sinistra la centralità della questione sociale.
Una ricostruzione della sinistra che recuperi il socialismo come asse portante, dovrà delineare un progetto politico forte che faccia perno su due temi centrali: la giustizia sociale (redistribuzione della ricchezza e rivalorizzazione del lavoro) e la ricostruzione della democrazia dalle macerie della II Repubblica. La questione morale va affrontata laicamente, senza rivendicazioni di superiorità etno-antropologica , inquadrandola nel tema della riforma della politica. In tale direzione l’impegno primario va verso la soppressione della vergognosa legge elettorale esistente e la sua sostituzione con una che permetta la costruzione di soggetti politici coerenti con l’Europa.
PEPPE GIUDICE
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno lunedì 25 aprile 2011 alle ore 23.58.Piero Sansonetti è forse l’esponente comunista che ha maggiormente contribuito a liberare il giudizio su Craxi dalla pura e semplice demonizzazione.
L’altro giorno ha scritto un interessante articolo in cui ha ripetuto molto sinteticamente il suo giudizio.
Ora una riflessione su Craxi (specie dopo quello che affermò con lucidità il presidente Napolitano due anni fa) va rifatta, proprio nel momento in cui la destra berlusconiana sembra vivere sul serio la crisi più profonda (non c’è solo Fini, ma uno scontro ormai aperto e totale dentro il PDL).
Perché Craxi? Perché sia Berlusconi che Di Pietro utilizzano strumentalmente Craxi a sostegno delle proprie ragioni. Berlusconi per presentarsi come l’erede di Craxi nella presunta persecuzione giudiziaria che afferma di subire, i professionisti dell’antiberlusconismo per evidenziare Craxi quale simbolo del malaffare ed il “latitante” che sfugge alla giustizia quale prefigurazione di Berlusconi stesso. Insomma c’è da entrambe le parti un uso ideologico della figura dell’ex segretario del PSI che in realtà poco ha a che vedere con il Craxi storico. Debbo aggiungere che tutti i figuri ex craxiani oggi berlusconiani (Cicchitto, Boniver, Brunetta) accreditano con forza l’idea di un Berlusconi erede di Craxi. Così come i professionisti del giustizialismo orchestrati da Scalfari (lì c’è la radice dell’antisocialismo pseudo-progressista) hanno bisogno di mantenere in piedi la “leyenda negra” antisocialista. Infatti nel quadro dello scontro mediatico e della estrema banalizzazione e semplificazione delle ragioni del contendere che esso provoca, risulta estremamente difficile separare Craxi dal socialismo, cosa che in un articolato ragionamento storico-politico è perfettamente possibile. Per cui la “leyenda negra” inevitabilmente ricade anche sui socialisti non-craxiani o anti-craxiani. In più il perpetuarsi della “leyenda negra” rende difficile la piena riappropriazione della tradizione socialista da parte della sinistra. Anzi la liberazione della “leyenda negra” è un problema di cui tutta la sinistra seria deve farsi carico.
Vedete, io credo ad una sinistra di ispirazione socialista ma plurale nelle provenienze. Lungi da me qualsiasi forma di integralismo identitario. Ma al tempo stesso è molto difficile se non impossibile costruire questa sinistra senza che la migliore tradizione socialista costituisca una delle architravi su cui essa dovrà poggiare.
Lo ripeto. La sinistra italiana deve separare nettamente i suoi destini da quelli del giustizialismo antipolitico. E’ un qualcosa che va oltre i passaggi elettorali (in cui sei costretto a tenere l’IDV nel centrosinistra) . E’ un problema culturale non di tattica politica.
In effetti cosa ha portato un pezzo di sinistra di matrice comunista a simpatizzare per quello che sbrigativamente definiamo dipietrismo? Indubbiamente la radice di tale scelta sta nella rivendicazione di una superiorità morale ed antropologica comunista che Berlinguer sintetizzò nella famosa idea della “diversità” che si spostava dal terreno ideologico (nel 1981 le differenze ideologiche tra comunisti e socialisti si erano notevolmente assottigliate) a quello etico-antropologico.
Leggendo la autobiografia politica del presidente Napolitano, ci si rende conto del forte scontro che ci fu nel PCI, proprio sul tema della “diversità”. I cosiddetti miglioristi ribatterono a Berlinguer che lanciare l’idea della diversità in funzione anti-PSI soprattutto (il PSI dell’81 non aveva ancora sviluppato le degenerazioni di quello di fine anni 80) di fatto precludeva lo sviluppo positivo di rapporti a sinistra e quindi la costruzione di una alternativa alla DC.
C’è da dire che alla scelta sciagurata di Berlinguer, Craxi contrappose una altra scelta sciagurata: quella di rinchiudere il PSI nel pentapartito (che poi si rivelò la tomba della politica socialista). Anche se negli anni successivi vi furono diversi tentativi per ricostruire un rapporto positivo tra i due partiti (nel 1983 soprattutto), è indubbio che, a partire dal 1981 i rapporti a sinistra subirono un progressivo e continuo deterioramento con grave danno per tutta la politica italiana.
Nel 1993 in conseguenza della scelta di Occhetto di cavalcare l’ondata giustizialista (anche per sottrarre il PDS al processo dissolutorio che coinvolgeva gli altri partiti) riemerge la sindrome della diversità. Il PCI era coinvolto come gli altri nel finanziamento illegale ai partiti e quindi al sistema di tangentopoli (dal 1974 al 1992 abbiamo avuto un modello di democrazia consociativa). Ma poiché il PCI aveva un sistema di amministrazione centralizzata delle risorse, in quel partito non vi furono casi di arricchimento individuale (se non estremamente sporadici). Nel PSI il sistema correntizio, che negli anni 80, sotto il bonapartismo craxiano, si trasforma in scontro tra cordate elettorali regionali sviluppa forme “autonome” di finanziamento illegale che il partito non riesce più a controllare. Di qui i casi di arricchimenti individuali. Ma naturalmente questo non faceva del PSI un partito di criminali o di gente geneticamente predisposta alla delinquenza come in alcune semplificazioni arbitrarie e sciagurate dell’ipocrisia qualunquista italica veniva fuori (e talvolta queste semplificazioni venivano fatte proprie dai militanti più imbecilli del PDS).
Nel PSI c’era una grande quantità di militanti, amministratori e dirigenti seri, rigorosi ed onesti che hanno lavorato disinteressatamente per il partito (come il sottoscritto e tanti altri). Naturalmente poi c’erano i faccendieri, i “corridoisti” (come li chiama Vincenzo Lorè), i portaborse ed i segretari particolari (i peggiori). Quanti bravi compagni sono stati insultati ingiustamente, quanti sono stati indagati, arrestati e poi prosciolti da una magistratura degna di Torqumnada? Fu tuttavia la politica di pentapartito a provocare i fenomeni degenerativi morali e quelli degenerativi ideologici (il postcraxismo neoliberaloide di Martelli). Non basta avere una grande tradizione alle spalle per garantire la moralità dei comportamenti. La politica come esercizio del potere provoca fortissime tentazioni. Nessuno ne è potenzialmente immune e non esiste diversità al riguardo. Lo si è visto poi (dagli anni 90 fino ad oggi) quando, in tutti gli schieramenti politici, a destra prevalentemente, ma con evidenza anche nel centrosinistra, l’amoralità politica ha raggiunto livelli che hanno fatto impallidire gli anni 80. Quanti ex dirigenti del PCI nel sud Italia hanno assunto gli stessi atteggiamenti degli odiati craxiani?
Del resto la gestione di alcune regioni come la Campania o la Calabria da parte del centrosinistra è nota a tutti. La diversità è una chimera. Il guaio è che quando illudi la gente sul tema della diversità, la disillusione è poi terribile e provoca o astensionismo o rende molto spuntata la critica alla destra basata sulla questione morale. Alla fine poi prevale l’assuefazione e la rassegnazione al degrado. Ma, fratelli cari, se Berlusconi viene salvato da una sfiducia l’avrebbe probabilmente fatto uscire di scena, da due deputati del partito che si proclama antiberlusconiano per antonomasia, quello del “trebbiatore di Montenero”?
In più il concentrarsi su una visione puramente moralistica della alternativa alla destra, ha fatto completamente smarrire alla sinistra la centralità della questione sociale.
Una ricostruzione della sinistra che recuperi il socialismo come asse portante, dovrà delineare un progetto politico forte che faccia perno su due temi centrali: la giustizia sociale (redistribuzione della ricchezza e rivalorizzazione del lavoro) e la ricostruzione della democrazia dalle macerie della II Repubblica. La questione morale va affrontata laicamente, senza rivendicazioni di superiorità etno-antropologica , inquadrandola nel tema della riforma della politica. In tale direzione l’impegno primario va verso la soppressione della vergognosa legge elettorale esistente e la sua sostituzione con una che permetta la costruzione di soggetti politici coerenti con l’Europa.
PEPPE GIUDICE
lunedì 25 aprile 2011
Rosario Crisconio: La Riforma che non c'è
La Riforma che non c’è? La Riforma Gelmini
La legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010. La riforma Gelmini. Se ne è parlato tanto, discusso per mesi, le proteste portate avanti
da tutto il mondo universitario hanno paralizzato città e reso partecipi migliaia di studenti. Ma a quasi due mesi dall’entrata in vigore,
cos’è cambiato? Dove è finito tutto il coro di protesta?
L’impressione generale che se ne ricava è un alluvione burocratica e amministrativa: 500 nuove norme, oltre mille regolamenti per
la sua attuazione in tutti gli atenei italiani e ben 47 decreti attuativi, di cui ancora nessuno esecutivo.
La riforma prevede la federazione degli atenei, lasciandola però facoltativa e con accordi da prendere successivamente: non un
provvedimento drastico quindi volto a premiare gli atenei più meritevoli. L’altro grande problema che evidenzia, è il fatto che la legge
agisce a metà, dice e non dice, lasciando spazio ad innumerevoli dubbi ed interpretazioni, ma soprattutto non intervenendo in
maniera decisa sul precariato universitario.
Le borse di collaborazione, la legge ne prevede l’eliminazione, ma non specifica cosa fare con quelle attualmente in atto. Altra questione
è il taglio deciso, fatto nei confronti delle borse di studio e delle agevolazioni per chi si trova in situazioni economiche difficili,
che vede esclusi trentamila studenti meritevoli, che avrebbero diritto ad una borsa di studio, ma per mancanza dei fondi si vedono esclusi
dal diritto allo studio.
L’impressione è quella di un’università alla deriva, abbandonata a se stessa nel tentativo di far fronte ad una mancanza di fondi e ad un
costante calo di qualità.
In fondo era necessaria in tempi di crisi e instabilità questa riforma?
Rosario Crisconio
buona pasqua !
La legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010. La riforma Gelmini. Se ne è parlato tanto, discusso per mesi, le proteste portate avanti
da tutto il mondo universitario hanno paralizzato città e reso partecipi migliaia di studenti. Ma a quasi due mesi dall’entrata in vigore,
cos’è cambiato? Dove è finito tutto il coro di protesta?
L’impressione generale che se ne ricava è un alluvione burocratica e amministrativa: 500 nuove norme, oltre mille regolamenti per
la sua attuazione in tutti gli atenei italiani e ben 47 decreti attuativi, di cui ancora nessuno esecutivo.
La riforma prevede la federazione degli atenei, lasciandola però facoltativa e con accordi da prendere successivamente: non un
provvedimento drastico quindi volto a premiare gli atenei più meritevoli. L’altro grande problema che evidenzia, è il fatto che la legge
agisce a metà, dice e non dice, lasciando spazio ad innumerevoli dubbi ed interpretazioni, ma soprattutto non intervenendo in
maniera decisa sul precariato universitario.
Le borse di collaborazione, la legge ne prevede l’eliminazione, ma non specifica cosa fare con quelle attualmente in atto. Altra questione
è il taglio deciso, fatto nei confronti delle borse di studio e delle agevolazioni per chi si trova in situazioni economiche difficili,
che vede esclusi trentamila studenti meritevoli, che avrebbero diritto ad una borsa di studio, ma per mancanza dei fondi si vedono esclusi
dal diritto allo studio.
L’impressione è quella di un’università alla deriva, abbandonata a se stessa nel tentativo di far fronte ad una mancanza di fondi e ad un
costante calo di qualità.
In fondo era necessaria in tempi di crisi e instabilità questa riforma?
Rosario Crisconio
buona pasqua !
domenica 24 aprile 2011
Paola Meneganti: Buona Pasqua
Buona Pasqua. Pasqua di libertà, di amore, di giustizia, e sì, di rivolta. (P.M.)
.pubblicata da Paola Meneganti il giorno sabato 23 aprile 2011 alle ore 22.17.Oggi, il sindaco di Roma Alemanno (dai noti trascorsi fascisti, e io, sinceramente, dubito pure del suo presente). Ebbene, sulla questione dei Rom che hanno occupato la basilica di San Paolo, il sindaco è muscolarmente deciso: "Abbiamo offerto a ciascuna famiglia 500 euro per tornare in Romania, ma i più non vogliono. Che si scordino, però, di avere una casa gratis. A Roma abbiamo 22.000 tra profughi, senza tetto etc. da assistere. Non possiamo occuparci di uno di più". Cavolo, su una popolazione di 3 milioni di abitanti, un vero sconquasso ... Insomma, dice il sindaco muscolare, non c'è trippa per i gatti. "Si scordino di venire in Italia e pensare che, tanto, da una baracca si arrivi ad avere l'appartamento". Intanto, le baracche vengono sgomberate con costanza, perchè "sono indecenti". "Intanto, le donne e i bambini vadano, per 15 giorni, nel centro di Castelnuovo di Porto. Gli uomini, si arrangino da soli", riporta un articolo. Ahinoi, donne e bambni separati dagli uomini, si sentono echi di fatti lontani, che, per decenza, non converrebbe evocare. Una domanda, sindaco Alemanno: gli uomini, donne, bambini di cui stiamo parlando, sono cittadini U.E., quindi hanno diritto alla libera circolazione (ma già, il buon destro Sarkozy sta correndo ai ripari ... sospendere Schegen, che diamine, magari ad intermittenza, come quella tipologia di lavoro che inventò l'ubriacatura di neoliberismo ...). Insomma, non è possibile rimandarli forzatamente in patria. Nelle baracche no, perché sono indecenti. La casa, giammai. E allora? Una bacchetta magica per farli sparire? O peggio?
Il fatto è che questi discorsi, illogici e sgrammaticati proprio dal punto di vista del porre il problema/indicare la soluzione, fanno presa. Eccome. Anche nella "aperta e tollerante" città in cui vivo.
Buona Pasqua. Faccio delle specificazioni. Pasqua di libertà, di amore, di giustizia, e sì, di rivolta.
.pubblicata da Paola Meneganti il giorno sabato 23 aprile 2011 alle ore 22.17.Oggi, il sindaco di Roma Alemanno (dai noti trascorsi fascisti, e io, sinceramente, dubito pure del suo presente). Ebbene, sulla questione dei Rom che hanno occupato la basilica di San Paolo, il sindaco è muscolarmente deciso: "Abbiamo offerto a ciascuna famiglia 500 euro per tornare in Romania, ma i più non vogliono. Che si scordino, però, di avere una casa gratis. A Roma abbiamo 22.000 tra profughi, senza tetto etc. da assistere. Non possiamo occuparci di uno di più". Cavolo, su una popolazione di 3 milioni di abitanti, un vero sconquasso ... Insomma, dice il sindaco muscolare, non c'è trippa per i gatti. "Si scordino di venire in Italia e pensare che, tanto, da una baracca si arrivi ad avere l'appartamento". Intanto, le baracche vengono sgomberate con costanza, perchè "sono indecenti". "Intanto, le donne e i bambini vadano, per 15 giorni, nel centro di Castelnuovo di Porto. Gli uomini, si arrangino da soli", riporta un articolo. Ahinoi, donne e bambni separati dagli uomini, si sentono echi di fatti lontani, che, per decenza, non converrebbe evocare. Una domanda, sindaco Alemanno: gli uomini, donne, bambini di cui stiamo parlando, sono cittadini U.E., quindi hanno diritto alla libera circolazione (ma già, il buon destro Sarkozy sta correndo ai ripari ... sospendere Schegen, che diamine, magari ad intermittenza, come quella tipologia di lavoro che inventò l'ubriacatura di neoliberismo ...). Insomma, non è possibile rimandarli forzatamente in patria. Nelle baracche no, perché sono indecenti. La casa, giammai. E allora? Una bacchetta magica per farli sparire? O peggio?
Il fatto è che questi discorsi, illogici e sgrammaticati proprio dal punto di vista del porre il problema/indicare la soluzione, fanno presa. Eccome. Anche nella "aperta e tollerante" città in cui vivo.
Buona Pasqua. Faccio delle specificazioni. Pasqua di libertà, di amore, di giustizia, e sì, di rivolta.
sabato 23 aprile 2011
venerdì 22 aprile 2011
Vito Antonio Ayroldi: Galan
Per un classico caso di eterogenesi dei fini tocca a un Ministro della Cultura di Dx nonchè ex alto dirigente di PublItalia ed esperto di comunicazione di sdoganare la parola Socialista.
Finalmente il lemma è nuovamente pronunciato alludendo, seppure alla lontana, al suo più autentico significato.
Vorrà mica dire che sta passando "a nuttata"?
Un augurio di buone feste a Voi.
va
Finalmente il lemma è nuovamente pronunciato alludendo, seppure alla lontana, al suo più autentico significato.
Vorrà mica dire che sta passando "a nuttata"?
Un augurio di buone feste a Voi.
va
giovedì 21 aprile 2011
Franco Astengo: La Costituzione argine fondamentale
LA COSTITUZIONE ARGINE FONDAMENTALE
Si infittiscono gli attacchi estemporanei alla Costituzione Repubblicana: qualche giorno fa si è tentato di attaccare la disposizione XII transitoria e finale sul divieto di ricostituzione del partito fascista, adesso, addirittura, si pensa di modificare l'articolo 1 che disegna magistralmente le basi del concetto di sovranità popolare.
Queste provocazioni sono raccolta dalla stampa e dei media e diventano, in maniera inaudita, oggetto del dibattito politico inculcando, comunque, nell'opinione pubblica l'idea che la Costituzione possa essere modificata, perché inadeguata alla contingenza politica e nella sostanza, fuori dalla storia.
E' questo un punto fondamentale: la Costituzione non può e non deve essere modificata per via della contingenza politica.
Non esiste alcuna "Costituzione materiale" sulla base della quale adeguare anche il testo costituzionale, ad usi e prassi momentaneamente correnti.
Un principio questo, della "storicità" della Costituzione, del suo valere ben oltre le contingenze politiche, che deve essere riaffermato con forza.
La Costituzione deve essere considerata, come è stato nel corso di questi anni, l'argine fondamentale della nostra democrazia.
Attorno alla Costituzione deve essere trovata l'unità di tutte le forze democratiche per cercare di uscire in positivo da questa fase di vero e proprio allarme democratico: un allarme fondato su di un pericoloso populismo personalistico, che deve essere avversato fino in fondo, senza timori di sorta e senza pensare agli equilibri futuri ed a tornaconti di gruppo.
Il tema è ricorrente, ma deve essere riproposto: il modello del CLN rimane, a nostro giudizio, quello più validamente perseguibile nella fase.
Quanto al ruolo dei poteri dello stato, suddivisi sull'insuperabile modello dell'Illuminismo, la Carta Costituzionale dall'articolo 55 in avanti disegna una architettura che deve essere mantenuta.
e rafforzata.
No alla repubblica presidenziale, no alla dittatura di una minoranza nel Paese trasformatasi in maggioranza in Parlamento.
Un nodo cruciale che, invece, deve essere affrontato al più presto (nel caso con una proposta unitaria delle opposizioni) è quello della legge elettorale: principalmente su due punti, quello del premio di maggioranza e quello delle liste bloccate.
Le opposizioni debbono saper proporre, nell'agenda politica, questa necessità di modifica della legge elettorale, ma soprattutto debbono porsi in grado di raccogliersi attorno alla Costituzione, essenza e simbolo della democrazia italiana.
Savona, li 21 Aprile 2011 Franco Astengo
Si infittiscono gli attacchi estemporanei alla Costituzione Repubblicana: qualche giorno fa si è tentato di attaccare la disposizione XII transitoria e finale sul divieto di ricostituzione del partito fascista, adesso, addirittura, si pensa di modificare l'articolo 1 che disegna magistralmente le basi del concetto di sovranità popolare.
Queste provocazioni sono raccolta dalla stampa e dei media e diventano, in maniera inaudita, oggetto del dibattito politico inculcando, comunque, nell'opinione pubblica l'idea che la Costituzione possa essere modificata, perché inadeguata alla contingenza politica e nella sostanza, fuori dalla storia.
E' questo un punto fondamentale: la Costituzione non può e non deve essere modificata per via della contingenza politica.
Non esiste alcuna "Costituzione materiale" sulla base della quale adeguare anche il testo costituzionale, ad usi e prassi momentaneamente correnti.
Un principio questo, della "storicità" della Costituzione, del suo valere ben oltre le contingenze politiche, che deve essere riaffermato con forza.
La Costituzione deve essere considerata, come è stato nel corso di questi anni, l'argine fondamentale della nostra democrazia.
Attorno alla Costituzione deve essere trovata l'unità di tutte le forze democratiche per cercare di uscire in positivo da questa fase di vero e proprio allarme democratico: un allarme fondato su di un pericoloso populismo personalistico, che deve essere avversato fino in fondo, senza timori di sorta e senza pensare agli equilibri futuri ed a tornaconti di gruppo.
Il tema è ricorrente, ma deve essere riproposto: il modello del CLN rimane, a nostro giudizio, quello più validamente perseguibile nella fase.
Quanto al ruolo dei poteri dello stato, suddivisi sull'insuperabile modello dell'Illuminismo, la Carta Costituzionale dall'articolo 55 in avanti disegna una architettura che deve essere mantenuta.
e rafforzata.
No alla repubblica presidenziale, no alla dittatura di una minoranza nel Paese trasformatasi in maggioranza in Parlamento.
Un nodo cruciale che, invece, deve essere affrontato al più presto (nel caso con una proposta unitaria delle opposizioni) è quello della legge elettorale: principalmente su due punti, quello del premio di maggioranza e quello delle liste bloccate.
Le opposizioni debbono saper proporre, nell'agenda politica, questa necessità di modifica della legge elettorale, ma soprattutto debbono porsi in grado di raccogliersi attorno alla Costituzione, essenza e simbolo della democrazia italiana.
Savona, li 21 Aprile 2011 Franco Astengo
mercoledì 20 aprile 2011
Guido Martinotti: Dalla Madunina a Mahagonny
Guido MARTINOTTI
Da la Madunina a Mahagonny:Milano e la modernità sottratta
Intervento scritto al convegno:
CAMBIARE MILANO? SI PUO’
“Se non si sa da dove si viene, è impossibile capire dove andare ”
Martedì 19 aprile alle ore 21.00 incontro dibattito al Circolo De Amicis
Milano, lo sviluppo urbano e la sua area (abstract)
Nel 1941, anno in cui non si fece il censimento perché si era in guerra e molti milanesi combattevano in Cirenaica proprio nelle zone in cui si combatte ancora oggi, Milano aveva più o meno la stessa popolazione che al censimento del 2001, ma era un città totalmente diversa, con una popolazione che rappresentava molti diversi strati sociali, tutte le età e un ricco tessuto produttivo industriale e artigianale che dava vita a una classe operaia qualificata, di tecnici e funzionari colti e imprenditori illuminati che assieme formavano quella classe media colta e civile che ha caratterizzato la città .Oggi anche Milano paga le conseguenze della più stravolgente trasformazione che ha investito le grandi città di tutto il mondo: la “recessione dei confini” della città in un vasto territorio sconfinato. Questo fenomeno non ha soltanto dissolto la città nel perturbano con conseguenze profondamente negative sul piano energetico e ambientale e dei costi di sostenibilità, ma ha anche cambiato la struttura sociale della città e in generale della società e della politica come era già avvenuto per gli Stati Uniti anni prima. Si tratta di un fenomeno difficilmente reversibile perché prodotto dalla diffusione del trasporto individuale che ha permesso a milioni di individui e di famiglie, soprattutto giovani e con figli, di collocarsi a piacere in un ampia fascia di equilibrio tra il costo della rendita (sempre più elevato al centro) e il costo del trasporto, crescente verso la periferia, ma finora, complessivamente, non particolarmente elevato. In più i servizi a rete, tra cui da ultimo quelli che distribuiscono informazione, hanno permesso a chi si insedia nelle “terre sconfinate” del periurbano di portare con se fino a distanze notevoli le caratteristiche della vita urbana, in aree che non molto tempo fa avrebbero imposto modelli di vita rurale. La televisione e il PC, questi grandi rubinetti dell’informazione, hanno di fatto risucchiato l’agorà nel tinello di casa trasferendo alle reti informative la socialità politica e il suo controllo. Nel frattempo il centro della città ha subìto un crescente processo di mercificazione dei luoghi consegnando allo sfruttamento del city-marketing, incrementi sfrenati di rendita che hanno progressivamente espulso le popolazioni più deboli, le giovani famiglie con figli, mentre le PNR, Popolazioni Non Residenti, di lavoratori, consumatori e visitatori temporanei, hanno dislocato i residenti sfigurando e mercificando le aree centrali in cui molte funzioni di servizio - badanti e addetti ai servizi personali di ogni genere, in particolare alla guardiania, addetti al catering e ai più bassi servizi, non escludendo il terziario minuto povero e l’accattonaggio - sono state affidate a popolazioni interstiziali di nuovi venuti, che appaiono minacciosi ai residenti invecchiati e talvolta impoveriti e impauriti. Questo fenomeno è avvenuto in modo particolarmente violento e sregolato a Milano negli anni a cavallo del cambio di secolo in cui gli incrementi di rendita non sono stati che in minima parte riutilizzati per azioni rimediali e di riequilibrio, come è avvenuto in città più civili e come lo era stata Milano prima di venire bevuta dal pensiero unico e affidata, grazie anche al blocco di potere che sostiene la Signora Moratti, ai settori più feroci e localmente irresponsabili della speculazione capitalistica. La forsennata politica di de-regolazione urbanistica e sociale ha prodotto una città con un enorme buco nero notturno al suo centro, e il PGT rischia di costellare la città di altri buchi neri, luoghi totalmente mercificati dove dopo le 20 di sera c’è un deserto protetto solo dalle telecamere, ma senza presenza umana. Non è la città che vogliamo, perché questa città è inefficiente, costosa e inumana, in cui solo i ricchi asserragliati possono sentirsi tranquilli, ma certo non felici, e che respinge anche i visitatori, perché “si torna volentieri solo nelle città in cui si può passeggiare” e le ricerche confermano che di tutte le grandi città concorrenti, da Roma a Barcellona a Parigi, Milano è quella con la più bassa percentuale di visitatori che ci vuole ritornare. Una maggioranza politica avida, rozza e svergognata, perfettamente impersonata dalle sfacciate politiche di annuncio della Signora Moratti, ha sottratto Milano alla modernità trasformandola in una città totalmente mercatizzata, ma di un mercato monopolistico e favorito abusivamente dalla politica, che esclude la maggioranza dei cittadini dalla vita politica attiva, consegnando la città agli interessi più sordidamente speculativi, con non poche ramificazioni nella mafia e nella criminalità organizzata, ripetutamente e autorevolmente denunciate, ma non da chi dovrebbe farlo per dovere istituzionale o pura e semplice posizione sociale. Se poi qualcuno ritiene che il richiamo a Mahagonny, la città dei vizi di Brecht e Kurt Weil, ci hanno pensato Lele Mora, Emilio Fede e il CF di Arcore a farci vedere come stanno le cose. Ma sopratutto ci pensano le centinaia di membri della classe dirigente con la coscienza tanto cauteriata da giustificare e ingoiare anche la più sordida nequizia per non perdere la cadrega. Non possiamo pretendere di rovesciare nottetempo queste tendenze, che sono di natura strutturale, ma ci impegniamo a fare di tutto per bloccare la de-umanizzazione e il degrado ambientale e sociale e la profonda corruttela morale degli attuali padroni della città, rendendola di nuovo accessibile a una classe media civile, giovane attiva e colta che ne ripopoli le strade, le piazze e tutti i luoghi dove si elaborano i destini comuni della città.
E Milano va. La manomorta politica sul governo della città
Negli ultimi vent’anni circa la città è stata predata della sua anima tradizionale, dura, fattiva e pragmatica, ma al tempo stesso compassionevole e legata a una comune etica di fondo, con l’uso spudorato del mito dell’antipolitica: la politica della discussione e del confronto è stata squalificata come luogo dell’inanità e sostituita con la “politica del fare”. Ovviamente nessuno dice “fare cosa”, ma si capisce bene, fare i propri affari in primo luogo; ma anche qualcosa di più sottilmente perverso: un agitare e agitarsi nevrotico, cravatte strette e colli alti, doppiopetti attillati, capelli unti e allisciati, abbronzature da yacht vero o finto, scarpe da Brill di Pza de Duomo, telefonini sempre innestati, anche due, tre per volta, un muoversi, un promettere, un annunciare oggi, per dimenticare domani zampettando qui e là in cerca di una buona occasione, di un contatto fruttuoso, di una commessa sicura un birignao fastidioso da chi non ha tempo da perdere. I vecchi milanesi conoscevano bene questa specie di fare che si chiamava defà de pulìn e veniva in genere praticata da un ben preciso ceto sociale ai margini dei traffici che si chiamava bru-bru. Oggi i bru-bru sono al potere e sullo scranno con le conseguenze che pure il dialetto milanese ha da tempo codificato. Il mantra era che Milano doveva uscire dalla crisi, e che Milano andava. Devo confessare che in un paio di occasioni mi sono illuso anche io che tra i bru-bru ci fosse gente serie che credeva alle parole dette e aveva una visione genuinamente liberale e uso questa parola ormai camolata dall’abuso che ne è stato fatto per esprimere una speranza mai sopita, e raramente soddisfatta, nella cultura italiana. Poi ho visto che le persone che avevano queste idee nella maggioranza sono state brutalmente messe da parte o che le annunciate iniziative erano delle sòle tremende utili solo a coprire gli affari più sfrenati. Milano non andava e soprattutto non andava in nessuna direzione e per dare una idea di quel che appariva allora, mi cito, come non si dovrebbe se non fosse che la data (marzo, 2005, la data esatta della pubblicazione sul Corriere non me la ricordo
E Milano va. Da qualche anno la città sembra aver imboccato la strada di una ripresa economica destinata a riportare la metropoli lombarda alla testa di quelle classifiche che, da qualche tempo, l’avevano relegata su posizioni non troppo lusinghiere. I segni possono essere letti sia negli eventi - il concorso internazionale per il Quartiere della Fiera; l’apertura della Nuova Fiera a Pero, la riapertura della tradizionale sede scaligera, l’insediamento residenziale Santa Giulia - sia in una sorta di “risalita del morale” notata da tutti gli osservatori delle classi dirigenti cittadine. Il Financial Times del 15 Marzo, nella sua autorevole rassegna italiana, titola con squilli: “Milano ha piani grandiosi per un nuovo domani”. Milano, dunque, va. Ma dove? La domanda è legittima perché sugli stessi fogli dei quotidiani in cui vengono vantate le qualità economiche, compaiono segni di incrinature che non è possibile trascurare in nome di un ottimismo municipale di maniera.
Intanto si manifestano seri problemi di natura istituzionale dei quali la Scala è il più emblematico. Non sono passate molte settimane dalla fastosa inaugurazione del teatro ricostruito, che tutto il sistema Scala si incrina come un decrepito mascherone di gesso. E’ appena finita (si fa per dire) la complessa vicenda della autostrada Milano-Mare che si apre la vertenza AEM, mentre l’amministrazione comunale è da molto tempo paralizzata da un conflitto tra il Sindaco e il Consiglio (e anche parti della stessa Giunta) che assomiglia sempre più a una rissa difficilmente comprensibile.
Si ripresentano poi con allarmante ostinazione problemi collettivi che non trovano soluzione. L’inquinamento e la congestione del traffico hanno raggiunto livelli allarmanti, e superato di molto la soglia imposta dall’Unione Europea, ma l’amministrazione (e forse sarebbe più corretto dire anche l’insieme della città) non è stata in grado di formulare uno straccio di ipotesi di soluzione. La protesta dei cittadini cade assolutamente nel vuoto. Mi ricordo che in una delle ultime appassionate apparizioni pubbliche prima della morte, Padre Turoldo disse che la nostra città aveva perso la capacità di “ascoltare” (anticipando l’opera del famoso sociologo francese, Michel Crozier, proprio su l’”ecouter”). Sono passati molti anni e la situazione è peggiorata a tal punto che quel grande intellettuale religioso ne sarebbe assolutamente inorridito. Le proteste sul problema del traffico ( o quelle sul rumore, lo smog e altri problemi di tutti) cadono nel vuoto pneumatico più spinto.
E infine vi sono segni inquietanti che richiamano l’attenzione sui problemi sociali della città. Nella Milano del lusso più sfrenato e dei fasti della comunicazione, dall’inizio dell’anno vi sono state 10 morti in solitudine scoperte solo dopo molti giorni; sembra certo che centinaia di baraccati vivano in condizioni estreme; una intera famiglia campa sulla misera pensione del figlio minorato, ma decine di migliaia di famiglie abituate da anni a un confortante agio lombardo, sentono il morso della paura di non arrivare alla fine del mese.
Una cosa appare sempre più certa: sono due le Milano che vanno, ma in direzioni opposte. Una sale, grazie al progetto che, nei modi ben descritti dal Financial Times, sta facendo di Milano uno dei centri dello sviluppo capitalistico europeo. L’altra scende al di sotto delle condizioni minime di sopravvivenza. Una delle ragioni è che sta scomparendo quella classe media agiata, fatta di impiegati, tecnici, professionisti, artigiani, ma anche di aristocrazia operaia colta, che serviva da collante e da mediatore dei conflitti cittadini, perché le sue condizioni materiali la sottraevano alla paura del presente e le permettevano di programmare il futuro. Venendo meno questa classe sociale, presa nella forbice tra i molto ricchi e i molto poveri e decimata dal precariato della flessibilità, anche quella politica riformista, illuminata e innovatrice, che per anni ha costituito il marchio della politica cittadina, scompare dalla scena. Anzi scompare persino la politica, perché di recente i milanesi sono stati indotti a credere, falsamente, che la città possa essere governata senza politica. Ma spero stiano imparando che quando si dice “qui non si fa politica”, vuol dire che la politica la fanno solo in pochi: quelli che comandano.
Non ho da aggiungere molto a quello che ho detto allora, se non per rimarcare che nel frattempo Milano non è andata da nessuna parte se non in basso. Eppure Milano è ricca di risorse e di persone, ha università, centri di cultura, grandi fondazioni, grandi ospedali, istituzioni importanti di ricerca che sono stati o emarginati, o sviliti, quando non è stato possibile appropriarsene. Il tessuto innovativo e fattivo delle sue imprese è rimasto rilevante, anche se non è difficile vedere che la città ha perso molto mordente e che certi mutamenti, per esempio la transizione dal design (che coinvolgeva molti strati sociali e competenze) alla moda e alla pubblicità che hanno dimostrato spesso tendenze auto segreganti non sono andati nel senso dell’arricchimento civile ma piuttosto in quello della mercificazione. E allora? Il problema di Milano non è economico, ma politico, Milano è una città ricca, ma con una decrescente qualità della vita, se per qualità della vita si intende, come si deve, non solo il reddito (livello di vita) ma anche la gradevolezza in tutti i sensi, urbanistica, ambientale, sociale, culturale del contesto in cui questo reddito viene consumato. Nella Milano di un tempo non molto lontano il reddito prodotto in città veniva anche speso qui, oggi chi ha molti soldi va a Montecarlo (chiuso nelle gated communities di ricchi paranoici per il timore dei ladri e della finanza) o in qualche grande resort, e chi ha meno soldi ma può comunque permetterselo parte il venerdì per tornare il martedì. Il Giornale in un articolo che cerca di nascondere la pochezza e la contraddittorietà delle idee dietro la battuta (“Quel «clan dei 51» Cuore a sinistra e portafogli a destra”, giovedì 14 aprile 2011) ritira fuori la battuta vecchia come il cucco (e già la vetustà del riferimento la dice lunga) elaborata se ricordo bene per definire i radicali francesi al tempo di Mendes-France o prima ancora. Ci vuole tutto lo sfrontato chutzpah di cui è capace la destra italiana perché un giornalista stipendiato dalla famiglia dell’uomo più ricco e potente del paese si metta a fare i conti in tasca agli avversari; se fossi ricco come dice Il Giornale, ma ahimè non lo sono, risponderei “scusi signor giornalista, ma perché se sono ricco devo anche per forza essere poco intelligente e votare per Berlusconi”? L’articolo è peraltro interessante perché è la summa di molte incoerenze che sarebbero apparenti a chiunque non fosse obbligato a scrivere per un padrone “Il centrodestra milanese guidato da Letizia Moratti non ha sempre dato una immagine brillante poiché i tentennamenti hanno superato spesso le decisioni, i personalismi lo spirito di corpo, le gelosie tra istituzioni il necessario lavoro comune. Si è perso tempo, molto tempo. Da qui al 2015 non c’è più un secondo da perdere e invece, un po’ ancora, inspiegabilmente, si cincischia. Non possiamo permettercelo e certamente la coalizione di centrosinistra fatta di ponti e di pontieri aumenterebbe il livello del pantano, che è quanto di più distante da ciò di cui c’è bisogno.” Con che faccia si permette chi ha governato così male per anni di parlare di governabilità e di dire che la sinistra “farebbe aumentare il pantano” Signori miei, nel pantano ci avete messo voi, una volta tanto davvero senza aiuto di nessuno, e che pantano! Con che faccia vi permettete di dire che la sinistra lo farebbe crescere? Siamo già oltre il livello di guardia: di qui in poi se si tolgono i responsabili di questo disastro il pericolo può solo diminuire.Non voglio neppure chiamare in causa l’EXPO, basta quello che c’è scritto su Il Giornale e non si capisce come i milanesi dovrebbero votare per chi ha dimostrato tanta inettitudine per ingordigia.
Più interessante in un cero senso, anche se rituale, è la frase “Una volta tolti i ponti rimangono i fossati.” Già ma i fossati li avete scavati proprio voi, fossati tra chi comanda e la legalità, fossati contro “i comunisti”; fossati contro i diversi, che siano negher o culattoni o teruni o “giudici di merda”, per usare solo alcuni dei garbati termini usati da questa destra, che non è neppure capace di gestire un evento come l’Expo o un sistema di controllo del traffico come l’ECOPASS o di tappare le buche nelle strade. Il fossato viene persino scavato contro il Cardinale Tettamanzi come ha osato fare un bosino come Caldiroli che dovrebbe occuparsi delle sue parrocchie celtiche. Però è vero, Milano non è una città senza conflitti, solo che in passato è sempre riuscita a trovare un compromesso per attraversare i fossati, non per scavarli più profondi. E forse vale la pena di ricordare a grandi tratti questa caratteristica della nostra città, per non ricadere in un municipalismo di maniera da O mia bela Madunina.
Il lato oscuro di Milano
Dalle pagine del Corriere di Domenica 26 luglio 2009 Corrado Stajano, scavando sotto il manto di plastica che sembra rivestire la Milano del marketing urbano ci ha dipinto una Milano amara, della quale non si parla volentieri, pur essendo ben nota a chi si occupa professionalmente di questa città dai più diversi punti di vista: storici, economici e sociali. «Milano era una volta una città dura, ma anche affettuosa, ironica, partecipe. L'imperatrice Maria Teresa aveva lasciato il segno di una buona amministrazione che fu recepita nei secoli; il socialismo umanitario primonovecentesco, nutrito da una borghesia avanzata, aveva dato vita a modelli comunitari d'avanguardia, si era preoccupato del futuro dei giovani aprendo scuole d'arti e mestieri, aveva capito l'importanza di costruire case popolari nel centro della città, aveva caldeggiato la nascita di villaggi operai e fondato associazioni di mutuo soccorso. Memorie stridenti in un tempo di degrado civile e di restaurazione politica. Milano, ora, è una città incattivita, priva di umani abbandoni, che ha cancellato anche il suo linguaggio e ha nascosto chissà dove il suo antico spirito solidale.»
Questa lamentela si è sentita più volte. E’ forse più di una ironia aneddotica che Milano, città che nella sua lunga storia fu capitale solo per un tempo relativamente breve (alla fine dell’Impero Romano tra il 286 quando Mediolanum fu designata residenza dell’Imperatore d’Occidente Marco Aurelio Massimiano e il 402 quando dopo le incursioni dei Visigoti il figlio di Tedosio trasferì la capitale a Ravenna) venga oggi immacabilmente chiamata “capitale” di un qualche tipo: “capitale economica”, “capitale morale”, capitale umorale, persino. Infatti è nel periodo romano che cominciò a prendere corpo quella immagine diarchica che poi rimase appiccicata come una etichetta, ma più ancora come denuncia di una aspirazione mai soddisfatta. Infatti in quel secolo Milano era già città prevalentemente cristiana che si contrapponeva a una Roma pervicacemente pagana, e i suoi grandi furono Ambrogio che non era un prete, ma un funzionario imperiale di Treviri nominato vescovo, ma conosciuto come “vescovo da combattimento”, e Agostino, filosofo da lui battezzato. Di qui il famoso rito ambrosiano di cui i milanesi vanno giustamente fieri, in particolare perché gli regala tre giorni in più di letizia a Carnevale, che oggi vengono usati con molta abilità per sostituire la vacanza annuale che nel mondo anglosassone è nota come “spring break” e che più che un insieme di riti religiosi marca una differenza di atteggiamento.
Povera Milano, città ricca e infelice! E se fosse dunque un destino genetico? Cerchiamo di rileggere, riedito da Maria Corti che ne aveva già curato l’edizione del 1974, da cui cito, il famoso testo di city marketing scritto nel 1288 da Bonvesin della Riva. Tutti citano il lavoro per farci sapere che Milano aveva 200 chiese con 480 altari (e altre 2050 chiese con 2600 altari nel contado) che servivano una popolazione che il Bonvesin calcola (pur essendo conscio dell’enormità della cifra) in 700 mila abitanti nel contado e 200mila in città. E tanti dovevano essere per sostenere 40.000 adulti armati, 1500 notai, 120 giureconsulti e 600 messi comunali. Ma la cifra esce fuori quadro se andiamo a vedere che per nutrirli erano giornalmente sufficienti milleduecento moggi di grano e “il moggio è una misura equivalente a otto staia e al peso di un uomo di grossa corporatura”( diciamo 80 chili?). E fa dunque poco meno di una tonnellata, con la quale non si arriverebbero a dare, se non ho sbagliato i conti, 5 grammi di grano a ognuno dei 200mila. E’ chiaro che il buon monaco aveva più amore per la propria città che per la precisione statistica Le solite esagerazioni ambrosiane, insomma, che però non diminuiscono la ricchezza e grandezza materiale di Milano, che era reale. Ma se tutti citano Bonvesin per le meraviglie, pochi si ricordano delle miserie che il nostro antenato non riesce a nascondere, sbottando nella invettiva della distinzione XV dell’ottavo capitolo da cui apprendiamo che nella sua città le cose non vanno poi tanto bene perché “in domo tua nutritur qui te dentibus invidis dilacerare mollitur”, cioè ci si sbrana allegramente. E, a quanto racconta il Buonvicino del Ticinese, per ragioni non molto diverse (arroganza e avidità) da quelle che hanno causato gli sbranamenti della lunga storia milanese che, tuttavia dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente entrò nel novero delle città ricche, ma spesso sottomesse ad altri poteri. Ricca Milano lo fu quasi sempre. Ai tempi della cosiddetta “scoperta” delle Indie Occidentali, Milano raccoglieva in tasse una somma annuale comparabile con quella del Regno di Francia.
Ma la ricchezza porta con se tensioni sociali, tendenze autoritaristiche e anche criminalità, perché chi vuole rubare, frodare e malversare non lo fa dove non ci sono soldi. Nel maggio del 1898 il generale Fiorenzo Bava Beccaris fa sparare sulla folla con almeno 80 morti e innumerevoli feriti e, due anni dopo, a Monza viene ucciso per vendetta Umberto I. E le tensioni non finirono lì: ho un benchmark nei racconti della mia famiglia. Mio nonno, Cap.Art. Luigi Martinotti era stato mandato da Torino con le sue truppe in funzione antisommossa (la data esatta non la so, ma era tra il 1907, anno in cui mio nonno era rientrato da un giro del mondo e la guerra, in cui mio nonno morì) e mia nonna ricordava frequentemente quell’evento come una occasione importante perché il nonno le aveva telegrafato di prendere i suoi migliori vestiti e raggiungerlo a Milano, dove nelle pause del servizio l’avrebbe portata alla Scala. Vedete un po’, i punti di vista. Però se andiamo poi a vedere la storia amministrativa nei pochi anni che seguono, nascono a Milano (come in altre grandi città italiane) tutte quelle istituzioni del welfare municipale e anche di socialismo municipale che ressero e fecero ricca e felice la città per quasi un secolo: le utilità pubbliche dei trasporti dell’energia, dei rifiuti, le farmacie comunali, le scuole civiche, la centrale del latte, ricoveri e asili per anziani e giovani, case popolari e via dicendo. Ed è assi significativo che queste istituzioni che ressero anche durante il Fascismo siano quasi tutte entrate in crisi dagli anni settanta in poi quando si è prodotta quella profonda mutazione sociale, economica, politica e culturale che ha rotto un equilibrio precedente.
Il richiamo storico è meno surrettizio di quel che parrebbe. Oggi il problema principale dell’area milanese deriva dallo squilibrio tra la sua crescita, territoriale ed economica, e il suo assetto istituzionale. Per fare solo un piccolo, ma significativo esempio, se guardiamo a Milano-comune troviamo una popolazione che negli ultimi anni si è ristretta ed è invecchiata in modo abnorme e le cui caratteristiche socio-demografiche sono perciò divenute difficilmente compatibili con l’elevato grado di ricchezza e attività che caratterizza la città. E’ chiaro che questa prospettiva limitata continua ad offuscare la nostra visuale. Milano infatti non è più solo quella città di meno di un milione e mezzo di abitanti per la quale sono state costruite, anche in tempi recentissimi, con il nuovo statuto, le sue istituzioni. E’ anche una città che estende la sua influenza su un raggio amplissimo, essendo capace di attrarre i 300.000 giapponesi che la visitano ogni anno grazie a un settore industriale, quello della moda, che caratterizza la sua immagine esterna, influenza la sua economia interna senza peraltro essere veramente integrato nella società milanese. Ma Milano è sopratutto una seconda città addensata attorno alla prima, e inestricabilmente legata ad essa. Questa città è da sempre parte della ricchezza di Milano ma, mentre veniva sistematicamente inclusa nella analisi del frate duecentesco (che parla continuamente di città e contado come di due parti della stessa entità) è invece scomparsa dalle statistiche sulla Milano di sette secoli dopo, e anche dalla visione dei milanesi. Un piano come il PGT che determinerà l’assetto urbanistico della città pressoché interamente giocato sul territorio comunale è come un intervento medico su un corpo malato che si limitasse alla cosmesi del viso.
Le tre inquietudini delle città contemporanee
Sarebbe però ingiusto, nei confronti di Milano e in generale di chi ascolta e degli elettori, non dire che i mali di cui parla Stajano, non affliggono solo la metropoli lombarda; anche se qui la maggior parte della classe dirigente locale non sembra essere particolarmente interessata a comprendere e correggere. Milano, come altre grandi città, si trova al centro di tre dinamiche sociali che, trasformando radicalmente l’habitat urbano di tutto il mondo, ingenerano ovunque profonde inquietudini.
Il primo processo è la recessione dei confini. Il xx secolo ha cancellato o fatto arretrare gran parte dei confini visivi, fisici e psicologici della specie umana, e questo più generale processo ha investito anche l’ambiente costruito. Muovendo dagli antichi limiti fisici delle mura, i confini della città recedono progressivamente, sotto la pressione combinata di due traiettorie tecnologiche. In primo luogo quella della mobilità fisica, con l’automobile individuale che permette a milioni di persone di insediarsi attorno ai centri urbani in una fascia definita dall’equilibrio tra il costo dell’abitazione e quello del trasporto (fascia amplissima, perché il costo dell’energia per il trasporto è stato finora trascurabile). Questa dinamica ha sostanzialmente distrutto la città tradizionale immergendola nelle “terre sconfinate” dello sprawl, o periurbano metropolitano. In secondo luogo, la traiettoria tecnologica dell’informazione, che ha garantito a queste residenze atomizzate la lontananza non solo dal pozzo dell’acqua, e delle altre sorgenti energetiche, ma anche dalla fonte delle informazioni. Se, come dice una nota vignetta su Tucson (Arizona) “il garage ha mangiato la città”, la televisione ha trasferito l’agorà nel tinello. Il problema è che i sistemi sociali, come tutti i sistemi viventi, hanno bisogno della pelle: di un tegumento o confine da cui dipende la coesione sociale. Un malato di schizofrenia, dice Oliver Sacks, prova la sensazione di non avere la pelle: analogamente la recessione dei confini elimina la pelle della comunità urbana e ne intacca la coesione. Tuttavia quest’area non è una zona virtuale, anche se non ha confini precisi esiste in simbiosi sistemica con la Milano comunale e oggi è impossibile operare separando le due entità: il risultato è quello che vediamo, una città centrale soffocata dal pendolarismo soprattutto veicolare.
La seconda dinamica è la grande diffusione delle PNR, o Popolazioni Non Residenti, (pendolari, city users, “metropolitan businesspersons”) che porta con sé trasformazioni economiche, politiche e sociali di grande portata a scapito degli abitanti. Se vogliamo mentre la prima trasformazione lavora in orizzontale, questa lavora in verticale, ma von lo stesso effetto negativo sugli abitanti. E’ un processo in atto da qualche decennio, legato al marketing urbano, le cui diseconomie sono state sottolineate da più parti; ma gran parte delle classi dirigenti, soprattutto italiane, si è buttata su questa novità in modo spensierato: cercando di ricavarne vantaggi immediati senza pensare alle conseguenze della mercificazione dei luoghi, che possono trasformare una comunità, nella città interamente mercificata cantata da Kurt Weil e Bertold Brecht in Mahagonny. Si è promosso un aziendalismo d’accatto che pretende di trattare l’intera città (e non la macchina dell’ amministrazione comunale) non tanto come una realtà anche innegabilmente economica, ma come una azienda tout-court. I termini “azienda paese”,”azienda Milano”, non sono soltanto uno scotto di imprecisione pagato alla puerilizzazione del linguaggio mediatico, ma diventano termini ideologici e corruttori della natura della comunità urbana che invece, per definizione, non può essere ridotta ad azienda. Nel 1992, introducendo il concetto di una “metropoli di seconda generazione”, basata sul consumo, avvertivo che vi sarebbero stati conflitti crescenti tra abitanti e consumatori dei luoghi e che gli abitanti sarebbero stati sconfitti, in un processo di progressiva limitazione dei loro diritti politici. Quasi vent’anni dopo devo constatare che è proprio quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Il terzo processo coincide con la diffusione della società dell’immagine. E in particolare con quella complessificazione e reciproca reazione tra conoscenza e realtà che alcuni teorici hanno chiamato “doppia ermeneutca”, ma non è necessario qui che ci soffermiamo a commentare termini tecnici. Il fenomeno è sotto gli ochi di tutti. Non esiste più (almeno nella cultura dominante) una realtà sociale autonoma, che cultura e politica hanno il dovere di comprendere, per poter prevedere, prevenire e guidare (savoir, pour prevoir pour pouvoir, secondo la classica formulazione comtiana). Esiste solo una opinione pubblica che va perennemente stimolata in modo da poterla poi continuamente prendere a pretesto per il perseguimento dei fini dei potenti ;“il tal percento degli italiani – americani, francesi, spagnoli eccetera - mi è favorevole” oppure “ il tal percento dice che ha paura a uscire di sera”, e così la macchina mediatica si mette in modo e spalleggia il caudillo di turno aumentando il senso di insicurezza, che verrà a sua volta rilevato dai sondaggi e usato per il prossimo giro. “And so on, and so on, spinning the spin”. Il pubblico articolato viene sempre più sostituito, purtroppo anche nell’eloquio di sinistra da una indistinta moltitudine e, si sa, le moltitudini non si governano da sole, ma vanno governate, e a ciò i propongono i guru venditori di ricerche o di politiche speculative,con un proprio linguaggio esoterico sempre in bilico tra gli interessi del padrone di turno e quelli di un pubblico decerebrato o tradotto in minute corporazioni di questuanti in competizione per le risorse pubbliche.
Il linguaggio politico corrente genera grandi confusioni, ma ha soprattutto il grave difetto di essere un linguaggio tendenzialmente iniziatico e quindi escludente, perché usa termini in grande misura derivati da dibattiti tra intellettuali o dalle discussioni parlamentari. Infatti usa o termini astratti, che pure hanno una lunga storia e una importante collocazione del pensiero politico, come libertà, uguaglianza, stato, mercato, federalismo e così via, ma che ognuno interpreta a suo modo, oppure termini giuridici o paragiuridici come privacy, legittimo impedimento, conferimento (dei rifiuti), esondazione, conflitto di interessi, par condicio e simili, quando non vere e proprie parole-patacca, in genere con l’intento di denigrare, generalizzando, anche le istanze più normali: così ogni richiesta di corretta applicazione della legge diventa “giustizialismo”, la critica ai potenti di turno diventa “demonizzazione”, l’espressione di posizioni critiche della maggioranza in un partito, “frazionismo”, “deviazionismo” o simili. Il personale politico, soprattutto ai livelli più bassi, si impadronisce del suono più che del reale significato (quando ce l’hanno) di questi termini e ne fa sfoggio, per lo più a sproposito, per dimostrare la propria competenza. Le esigenze di semplificazione e di puerilizzazione dei media costantemente sotto la pressione per ottenere quella sintesi estrema che gli anglosassoni chiamano sound bite, aumentano l’imprecisione facendo arrivare alla maggioranza dei cittadini suoni che spesso hanno perso ogni reale significato, ma che tutti ripetono sciattamente, quando non chiudono del tutto la disposizione ricettiva della mente. Prendiamo un termine come “riformista” o “riformismo”: nella tradizione dei movimenti operai e socialisti il termine era chiaro e designava quelle famiglie di pensiero socialista che si proponeva di cambiare la società con modi legali e senza ricorrere alla violenza. I riformisti erano dunque coloro che si contrapponevano ai rivoluzionari e nonostante poi nel concreto vi fossero sfumature e sovrapposizioni come in tutte le cose, la distinzione era concettualmente chiara e comprensibile a tutti. Con il venire meno della famiglia rivoluzionaria, la distinzione perde di senso, ma il termine è rimasto e nel mondo politico italiano tutti sanno che i riformisti sono sostanzialmente i socialisti moderati, e più in generale chi fa riferimento al centro-sinistra, tra cui anche gli ex “miglioristi” del PCI, con l’esclusione da un lato di posizioni più radicali e dall’altro di tutte le famiglie di destra, quelle per le quali il termine sinistra suscita rigetto. Con l’evoluzione della situazione italiana e mondiale, il termine, sempre nel linguaggio del mondo politico, ha mantenuto la connotazione di sinistra socialista moderata, che ingloba ora anche buona parte del quadro politico medio-alto dell’ex-PCI(PDS,DS eccetera) e che ha anche un quotidiano di riferimento Il Riformista, dedicato a tracciare rigorosamente il confine a sinistra. Fin qui nulla di male o di strano, il termine “riformista” ha perso il suo significato originario, ma gli addetti ai lavori sanno più o meno cosa vuol dire. Le cose si complicano, però, se usciamo dal ristretto ambito del gergo politico: in questo caso “riformista” non connota più una precisa zona dello spettro politico, ma diventa un termine generico (paradossalmente riprendendo parte del suo seni letterale) riformisti sono tutti, Berlusconi che vuole “rivoltare l’Italia come un calzino”, Sacconi, Gelmini, Tremonti, Maroni, Fini e compagnia di giro tutti sono riformisti, persino Bossi che è in effetti Ministro per le riforme del federalismo. Che cosa ne può capire il comune cittadino che non è al corrente di tutte le sottigliezze della vicenda? Chi mai non è “riformista” nel nostro paese? Persino il Cardinale Bagnasco che appartiene a uno stato straniero, invoca le riforme come soluzione ai problemi italiani. Ma se tutti sono riformisti che senso ha usare questa parola? Ecco perché in un documento politico si dovrebbe fare lo sforzo per tradurre (o ritradurre) il gergo tecnico in parole significative per tutti.
La mercificazione dei luoghi.
Queste importanti trasformazioni non sono il prodotto di un progetto coerente, ma derivano tutte dalla spinta verso la mercificazione dei luoghi, che viene presentata con termini finto tecnici come “marketing-urbano”, che intendiamoci bene è di per sé una attività legittima (credo di essere stato uno tra i primi a introdurre il concetto nel mio testo del 1992) in un mondo in cui il mercato delle popolazioni mobili rappresenta una parte importante dell’economia locale. Purtroppo spesso la mercificazione dei luoghi peggiora le tendenze centrifughe e segregative che abbiamo cisto essere in atto e hanno effetti negativi se si accompagnano a un degrado morale giustificato dall’ottenimento del profitto a tutti i costi e in tutti i modi, senza controllo e senza riscontro. Ma, diranno gli ideologi della “growth machine”, questa transizione da capitale morale a Mahagonny, è resa necessaria dalla competizione territoriale: il nostro territorio (altra parola, con “capitale morale” più oscuratrice che chiarificatrice) deve concorrere e competere con altre realtà. E così il futuro viene puntato sulla cambiale (e speriamo che non sia un assegno in bianco) dei molti milioni di city users che arriveranno qui con l’EXPO a versare il loro obolo ai developers milanesi. Temo, temo molto, che in questo ragionamento, al di là dell’attendibilità delle stime (che cominciano a essere riviste via via che, con la crisi, si fa strada una visione più sobria dell’operazione) manchi totalmente la considerazione della natura e delle competenze di quelli che Nicolò Costa, chiama “serious tourists”, cioè il turismo che conta davvero. Se, in questa popolazione strategica, misuriamo per ciascuna delle grandi città europee la notorietà, l’attrattività, la conoscenza diretta e la condivisione della esperienza, emerge nettamente il punto debole di Milano. Città come Parigi o Barcellona, e (in misura di poco inferiore) Roma, registrano percentuali del 100% sulle quattro variabili. Milano, invece, è conosciuta dal 100% dei “serious tourists”, ma solo il 41% ci è stato di persona, mentre appena un misero 13% desidera ritornarci - e pochissimi ne parlano con altri. Conclude Costa, “Milano è rimasta l’unica città italiana ad avere un problema di attrattività: in cui si ‘deve’ andare senza il ‘piacere’ di andarci” . Si va volentieri in una città felice, come Berlino, non in una metropoli infelice come Milano, e non basteranno i pur bravissimi architetti di tutto il mondo impegnati nell’EXPO a riempire il vuoto morale della città.
Eppure a Milano esiste, eccome, una società civile colta e desiderosa di eventi di qualità, pronta ad accorrere quando vengono presentati eventi di qualità come il MITO, o come è provato dal grande successo dell’apertura Ferragostana di Brera che ha giustamente premiato la solerte e appassionata competenza di funzionari costretti spesso a lavorare nell’ombra, o iniziative come la Verdi oppure la Storia di Milano alle Grazie e vari altri. La moneta buona, se qualcuno la usa, la vince su quella di latta. Ma la maggioranza che si è impadronita di questa città mercificandone allo spasimo tutte le espressioni culturali fornisce un esempio anche abbastanza straordinario, se vogliamo, della fatuità e del costo complessivo di una politica non interessata a ascoltare l’opinione dei cittadini ma a manipolarla. Si guardi alla faccenda delle famose 10.000 (100.000?) piante. Il sindaco coglie una occasione Spero che l’avvertimento di Stajano non venga archiviato come una curiosità estiva, o peggio bollato dai vessilliferi della “growth machine” come disfattismo, ma preso come seria materia di riflessione non solo letteraria, ma anche economica, sociale e politica. C’è davvero qualcosa che stride negli ingranaggi di una macchina mediatica che si è impegnata a insegnare al mondo la cultura del cibo e quella dell’ambiente, partendo da una città tra le più inquinate in Europa che non è più la “capitale morale”, ma si avvicina molto a diventare quella del panino mangiato in piedi (e nemmeno tanto buono).
Cosa fare?
Tre suggerimenti per Milano
A questo punto per concludere vorrei contribuire riproponendo un progetto in tre punti che vale soprattutto, anche se non solo, per Milano:
• riportare il cittadino al centro della politica comunale;
• riportare i cittadini, soprattutto giovani, nel centro di Milano;
• porre mano alla transizione verso la eMilano.
L’ ideologia antipolitica che, da tre mandati ormai, domina la filosofia di governo nella nostra città, ha cancellato quasi del tutto la cittadinanza dal discorso pubblico. Questa filosofia ha risvolti ben precisi nell’estetica della città (che punta al monumentale piuttosto che all’ospitale) nel rapporto tra amministrazione e cittadini, diventati oggetto di sfruttamento (come nella logica punitiva invece che educativa delle contravvenzioni) o di quel generico fastidio che trasuda dall’atteggiamento dell’amministrazione allo sportello, e persino nella prepotenza con cui sono stati impostati i rapporti tra maggioranza e opposizione, ma anche tra diversi organi dell’Amministrazione. Questa situazione va capovolta, la città non è né una azienda e neppure un condominio (simbolo tra l’altro della peggiore litigiosità meschina), ma un corpo sociale che va governato con la politica. La buona politica comprende anche la buona amministrazione, ma non può identificarvisi. Dobbiamo riportare il cittadino al centro della politica comunale. I cittadini vogliono più politica e gli va data. La contrapposizione tra partiti e società civile è certamente un discorso aperto, ma non può essere risolto con una finta liquidazione del partitismo, che ha eliminato la sostanza della vita politica (costituita dalla partecipazione organizzata), ma ne ha conservato le peggiori croste della corruzione, dell’interesse privato più impudente, del cadreghinismo più sfacciato e dell’aziendalismo d’accatto, con cui da troppo tempo siamo bombardati senza sosta. Segni anche se vogliamo minori, ma gravi se presi tutti assieme, come l’uso delle cariche pubbliche per remunerare parenti,figli, amanti o famigli sono un indicatore della diffusione di quella che nel linguaggio dei penitenzieri si chiama “coscienza cauteriata” (in francese blaseé) cioè una crescente incapacità di distinguere tra il bene e il male, non solo ma anche di sfregiare chi cerca di farlo, in nome di una supposta superiorità dell’intelligenza disincantata (sempre al libro paga dei potenti però) in una versione degradata da Raskolinkov de noantri. Così chi si ribella alle oscenità più invereconde diventa un codino e persino le più minimali ed essenziali regole di buona procedura politica come la verifica delle firme di presentazione delle liste sono un fastidioso optional. Non vorrei essere accusato di paragoni impropri e certo non sono la stessa cosa ma invito a una rilettura delle pagine sul linguaggio fascista di autori come Denis Mack Smith o Carlo Emilio Gadda, solo per non dimenticare che queste pose non sono una innovazione culturale ma la riproposizione in bassa lega dei peggiori sedimenti del dannunzianesimo e del marinettismo nostrani. Riportare il cittadino, inteso come titolare di diritti al centro della politica, significa anche fare uno sforzo serio nel modo di parlare. Ho sentito amici in ammirazione per la “bellissima” campagna pubblicitaria della Moratti. A me sembra una oscenità per le dimensioni esorbitanti e sfacciate della spesa e per lo chutzpah inverecondo delle menzogne raccontate.
Si obietta che l’allontanamento della politica dai cittadini (non comunque il percorso inverso che a loro sempre si rimprovera) non è colpa dell’amministrazione, che non può essere tenuta responsabile di un processo strutturale generale come la metropolizzazione. Vero, ma c’è modo e modo di affrontare queste grandi trasformazioni: Milano si è distinta in passato per aver saputo affrontare le peggiori devastazioni della urbanizzazione industriale, prima, e della sua fine, poi, e persino quelle della guerra, con quella illuminata politica riformista di cui sindaci come Caldara, Greppi e Aniasi sono stati esempi illustri. Ora ci vuole qualcuno di quella levatura che prenda in mano il governo della transizione a una società della conoscenza, sapendo bene che dietro gli scintillii del quarzo possono nascondersi i veleni del degrado umano, come in quei meravigliosi pesci tropicali più mortali dei cobra. L’allontanamento della politica dai cittadini è stato prevalentemente causato da una tecnologia obsoleta come la televisione generalista, e quello dei cittadini dal centro, in grandissima misura, dalla possibilità di aprire in casa, oltre ai rubinetti dell’acqua o dell’energia, anche quelli dell’informazione, risucchiando l’agorà nel tinello di una abitazione privata, che può così situarsi dovunque nel profondo della metropoli sconfinata là dove il costo dei trasporti e della rendita fondiaria trovano il loro equilibrio.
Una delle conseguenze del disprezzo delle esigenze dei cittadini, soprattutto i meno abbienti, è inscritta nella violenta trasformazione subita dalla popolazione milanese nel torno del secolo. Milano, e il suo centro storico in particolare, si è spopolata di abitanti in favore delle PNR, Popolazioni Non Residenti. Avevo segnalato questa tendenza e i rischi connessi già alla fine degli anni ’80, ma non sembra che le amministrazioni comunali si siano rese minimamente conto dei problemi che questa transizione comporta. Le PNR portano soldi - anche se non sempre quanti ne vengono promessi- ma consumano la città, anche fisicamente, accrescendo congestione e inquinamento ed erodendo quel rapporto tra individui e luoghi fisici su cui si è basato fino a oggi il buon funzionamento della comunità urbana. Il centro ha espulso e continua a espellere la sua classe media giovane, il risultato è una città invecchiata e arricchita oltre misura, anche se le due caratteristiche non si combinano nello stesso individuo. Fate un giro di Piazza del Duomo e dintorni verso le 20 di sera per cogliere un flash della desolazione che vi si accompagna. Per questo il secondo obiettivo del progetto è riportare i cittadini, soprattutto giovani, nel centro di Milano. Si dice:”troppo costoso” “va contro il mercato”, ma, oltre al fatto che la politica deve regolare il mercato e non viceversa, e che siamo alle soglie di un probabile sboom dell’immobiliare, c’è qualcosa che non funziona nelle cifre. Tra il massimo del suo sviluppo (1973) e il censimento del 2001 Milano-comune ha perso circa mezzo milione di abitanti - fanno cinquecentomila vani almeno. Si dice che siano andati ad attività economiche, ma non torna: nello stesso periodo Milano ha perso poco meno di 50mila “unità locali”, cioè sedi fisiche di imprese, più difficile da stimare in vani, ma non meno di altri 100mila. Dove sono andati tutti questi potenziali spazi abitativi?
Questo tema ha un risvolto molto importante e centrale nella vita di un complesso metropolitano come quello milanese che coinvolge milioni di persone e i loro diritti di accessibilità, ma anche per la difesa di tutti dalle devastazioni della eccessiva mobilità dissipativa: la mobilità è il perno, ma anche il grande male della meta-città contemporanea. Non è vero che tutto sia perduto, i lavori e le simulazioni di Casiroli di Ponti e di altri esperti di mobilità dimostrano che in Lombardia è ancora possibile riproporre un tessuto di trasporti pubblica (non solo quello della TAV, che costa in Italia non si capisce bene a favore di chi, o meglio si capisce benissimo) che rimedi allo sprawl e che permetta così un migliore equilibrio della mobilità. Il PGT va nel senso opposto, provocherà un maelstrom di risucchiamento verso il comune centrale di proporzioni colossali. Certo chi vende cubatura e petrolio non potrà che esserne felice, ma chi deve pagare le esternalità negative di queste industrie, dovrà pagare sempre più caro. Il Comune di Milano non ha ovviamente la competenza per regolare la mobilità della regione metropolitana, ma deve avere la forza politica di lanciare una grande operazione di sistemazione della mobilità nell’area con tutti i soggetti coinvolti. E non si tratta solo di mettere la cosmesi alla Stazione Centrale trasformando il percorso dall’arrivo dei mezzi ai binari da 40 secondi a 3.40 secondi per obbligare il viaggiatore a passare davanti a un negozio di Brooks Brothers per comprarsi la cravattta o le scarpe dato che ha perso il treno. Si tratta di rispettare le esigenze, la dignità e la salute di milioni di cittadini dell’area costretti ogni giorno a viaggiare come bestiame.
Gli obiettivi che abbiamo indicato per una nuova centralità politica e concreta dei cittadini oggi non possono essere perseguiti senza gli strumenti appropriati. Per quanto si possa e si debba ricostruire buona parte della funzione abitativa in centro, non si cambierà più la struttura urbana contemporanea, che ha trasformato la città in una meta-città spalmata su una area molto vasta. Per ricostruire una socialità non spaziale occorre guardare al futuro e porre mano alla transizione verso la eMilano. Per questo i vecchi strumenti non bastano più: né la società civile né il mercato sono in grado di compiere quei salti tecnologici che aprono nuove ere. Internet l’ha creata uno stato, non il mercato. Le TIC, Tecnologie della Informazione e della Comunicazione, hanno un potenziale straordinario per ricostruire, su nuove basi, una comunità distrutta dalle prime fasi della transizione informazionale. Ma vanno guidate, bisogna che si passi dall’eGovernment, inteso come puro e semplice “portale dell’Amministrazione” (interpretato spesso solo come “portone” o “facciata” dell’Amministrazione) all’eGovernance, che, rispondendo genuinamente alle direttive di Lisbona, applichi in un contesto tecnologicamente maturo le pratiche che possono ricreare una nuova socialità non soggetta alla “tirannia dello spazio”. Queste pratiche non sono tecno-utopiche, ma sono quelle in cui sono già immersi i giovani di oggi: dalla chiacchiera all’elearning, dall’incontro e l’amicizia, alla solidarietà, la politica e il lavoro.
Un decisivo salto tecnologico verso la eMilano obbligherebbe la politica comunale a sviluppare due funzioni atrofizzate: ascoltare e informare. In una delle sue ultime e sofferte uscite pubbliche, nel pieno della tempesta di Tangentopoli, Padre Turoldo lamentò che il governo della città e tutta la città intera, avevano perso la capacità di ascoltare. Era ed è vero, naturalmente: Michel Crozier, nel suo libro su La crise de l’intelligence, critica l’atteggiamento burocratico della programmazione dall’alto, come incapace di écouter. Ma questo ascolto non è certo quello stereotipato e costipante dei sondaggi che servono solo (più o meno bene) a soddisfare il narcisismo degli uomini politici e sono geneticamente incapaci di cogliere quei segnali deboli che rappresentano le vere innovazioni nel sistema politico. Per “ascoltare” occorre quella passione per la politica, quella propensione al Verstehen, alla comprensione, e al rapporto con gli altri che è tipico dei grandi uomini di governo. Ma occorrono anche gli strumenti appropriati: nell’ eGovernance il simmetrico dell’ ascoltare è informare. Informare è una azione che richiede onestà e trasparenza; l’uso furbastro di immagini, parole e numeri che purtroppo pervade il mondo dei cosiddetti comunicatori e degli uffici stampa dei potenti, non è “informare”, ma solo manipolare. Dà il là l’Amministrazione comunale, con la crescente oscurità delle sue statistiche, anche se di questo aspetto occorrerebbe parlare con più profondità degli accenni che posso fare qui. Un tempo l’informazione statistica comunale di Milano era nota per la sua ricchezza, disponibilità, intelligenza. Alessandro Buzzi Donato, purtroppo scomparso quasi contemporaneamente ad Aldo Aniasi di cui fu amico, per molti anni responsabile dell’Ufficio Statistica del Comune, era sempre a disposizione di chiunque, specie gruppi di cittadini attivi, si rivolgesse a lui per avere dati. Oggi, nonostante la buona volontà dei dirigenti, l’Ufficio Statistica è diventato marginale e la difficoltà di avere dati sulla società milanese cresce più che proporzionalmente alla quantità di dati che vengono prodotti (dall’Amministrazione e da altri Enti) in modo sempre più feudalizzato e sempre più lontano da quella intelligenza collettiva, senza la quale lo sviluppo nella società dell’informazione non decolla. Per un progetto di governo della città il buon uso e l’uso innovativo e politicamente progressivo delle informazioni, non è una appendice tecnica al programma, che poi nessuno legge, ma sempre più un elemento centrale della visione del futuro.
Va da sé che ascoltare e informare sono solo ingredienti essenziali per bene operare. Per ascoltare e informare, per creare una intelligenza collettiva attiva e vibrante, occorre la messa in opera di una cyberinfrastructure (come si chiama oggi tecnicamente) le cui dimensioni di costo, complessità, mobilitazione di forza lavoro e intelligenze, non sono inferiori a quelle che nella città industriale si resero necessarie per dotare di trasporti pubblici, elettricità, e altri servizi una grande metropoli. Per fare, tra i cento possibili, un esempio banale, ma non irrilevante, una cyberinfrastructure che utilizzasse una rete efficiente e capillare di MPPDs cioè Mobility, Proximity, Propinquity Devices, permetterebbe, con l’adozione di trasmissioni senza fili (della famiglia dei telepass) di controllare la sosta selvaggia senza far ricorso agli orribili piloncini in acciaio inossidabile di cui l’amministrazione ha riempito le strade di Milano, al costo, pare, di parecchie centinaia di euro ciascuno. La gestione della mobilità e della accessibilità sarà nei prossimi uno dei terreni su cui si misurerà l’equità sociale: la differenza tra un sistema “stupido”, come le targhe alterne, e un sistema “intelligente” in grado di governare gli accessi anche in base alle necessità e alle capacità individuali è lampante. Ovviamente, la stessa strumentazione utilizzabile per controllare la sosta può servire per numerosissime altre transazioni e anche per far intervenire i singoli cittadini nella conduzione della città. Proprio nel campo della mobilità si è avuta la prova che, come spiega molto efficacemente Amartya Sen, la concentrazione di potere nelle mani di una sola persona non aumenta l’efficienza. Anzi.
Tra l’altro, l’adozione di una visione realisticamente utopica, piuttosto che burocraticamente regressiva, come è l’attuale, di una eMilano proiettata verso il futuro con coraggio, e non solo con il mattone, oltre a offrire una grande occasione di sviluppo industriale, avrebbe l’enorme vantaggio di riconquistare a un progetto comune le nuove generazioni che vivono già nel mondo delle città digitali. Ma, senza un progetto pubblico, una politica di grande respiro per una nuova, grande, città digitale, la eMilano al servizio di tutti, non potrà prendere il volo. Avremo solo un futuro con più condomini e centri fieristici, ma con meno polis.
Da la Madunina a Mahagonny:Milano e la modernità sottratta
Intervento scritto al convegno:
CAMBIARE MILANO? SI PUO’
“Se non si sa da dove si viene, è impossibile capire dove andare ”
Martedì 19 aprile alle ore 21.00 incontro dibattito al Circolo De Amicis
Milano, lo sviluppo urbano e la sua area (abstract)
Nel 1941, anno in cui non si fece il censimento perché si era in guerra e molti milanesi combattevano in Cirenaica proprio nelle zone in cui si combatte ancora oggi, Milano aveva più o meno la stessa popolazione che al censimento del 2001, ma era un città totalmente diversa, con una popolazione che rappresentava molti diversi strati sociali, tutte le età e un ricco tessuto produttivo industriale e artigianale che dava vita a una classe operaia qualificata, di tecnici e funzionari colti e imprenditori illuminati che assieme formavano quella classe media colta e civile che ha caratterizzato la città .Oggi anche Milano paga le conseguenze della più stravolgente trasformazione che ha investito le grandi città di tutto il mondo: la “recessione dei confini” della città in un vasto territorio sconfinato. Questo fenomeno non ha soltanto dissolto la città nel perturbano con conseguenze profondamente negative sul piano energetico e ambientale e dei costi di sostenibilità, ma ha anche cambiato la struttura sociale della città e in generale della società e della politica come era già avvenuto per gli Stati Uniti anni prima. Si tratta di un fenomeno difficilmente reversibile perché prodotto dalla diffusione del trasporto individuale che ha permesso a milioni di individui e di famiglie, soprattutto giovani e con figli, di collocarsi a piacere in un ampia fascia di equilibrio tra il costo della rendita (sempre più elevato al centro) e il costo del trasporto, crescente verso la periferia, ma finora, complessivamente, non particolarmente elevato. In più i servizi a rete, tra cui da ultimo quelli che distribuiscono informazione, hanno permesso a chi si insedia nelle “terre sconfinate” del periurbano di portare con se fino a distanze notevoli le caratteristiche della vita urbana, in aree che non molto tempo fa avrebbero imposto modelli di vita rurale. La televisione e il PC, questi grandi rubinetti dell’informazione, hanno di fatto risucchiato l’agorà nel tinello di casa trasferendo alle reti informative la socialità politica e il suo controllo. Nel frattempo il centro della città ha subìto un crescente processo di mercificazione dei luoghi consegnando allo sfruttamento del city-marketing, incrementi sfrenati di rendita che hanno progressivamente espulso le popolazioni più deboli, le giovani famiglie con figli, mentre le PNR, Popolazioni Non Residenti, di lavoratori, consumatori e visitatori temporanei, hanno dislocato i residenti sfigurando e mercificando le aree centrali in cui molte funzioni di servizio - badanti e addetti ai servizi personali di ogni genere, in particolare alla guardiania, addetti al catering e ai più bassi servizi, non escludendo il terziario minuto povero e l’accattonaggio - sono state affidate a popolazioni interstiziali di nuovi venuti, che appaiono minacciosi ai residenti invecchiati e talvolta impoveriti e impauriti. Questo fenomeno è avvenuto in modo particolarmente violento e sregolato a Milano negli anni a cavallo del cambio di secolo in cui gli incrementi di rendita non sono stati che in minima parte riutilizzati per azioni rimediali e di riequilibrio, come è avvenuto in città più civili e come lo era stata Milano prima di venire bevuta dal pensiero unico e affidata, grazie anche al blocco di potere che sostiene la Signora Moratti, ai settori più feroci e localmente irresponsabili della speculazione capitalistica. La forsennata politica di de-regolazione urbanistica e sociale ha prodotto una città con un enorme buco nero notturno al suo centro, e il PGT rischia di costellare la città di altri buchi neri, luoghi totalmente mercificati dove dopo le 20 di sera c’è un deserto protetto solo dalle telecamere, ma senza presenza umana. Non è la città che vogliamo, perché questa città è inefficiente, costosa e inumana, in cui solo i ricchi asserragliati possono sentirsi tranquilli, ma certo non felici, e che respinge anche i visitatori, perché “si torna volentieri solo nelle città in cui si può passeggiare” e le ricerche confermano che di tutte le grandi città concorrenti, da Roma a Barcellona a Parigi, Milano è quella con la più bassa percentuale di visitatori che ci vuole ritornare. Una maggioranza politica avida, rozza e svergognata, perfettamente impersonata dalle sfacciate politiche di annuncio della Signora Moratti, ha sottratto Milano alla modernità trasformandola in una città totalmente mercatizzata, ma di un mercato monopolistico e favorito abusivamente dalla politica, che esclude la maggioranza dei cittadini dalla vita politica attiva, consegnando la città agli interessi più sordidamente speculativi, con non poche ramificazioni nella mafia e nella criminalità organizzata, ripetutamente e autorevolmente denunciate, ma non da chi dovrebbe farlo per dovere istituzionale o pura e semplice posizione sociale. Se poi qualcuno ritiene che il richiamo a Mahagonny, la città dei vizi di Brecht e Kurt Weil, ci hanno pensato Lele Mora, Emilio Fede e il CF di Arcore a farci vedere come stanno le cose. Ma sopratutto ci pensano le centinaia di membri della classe dirigente con la coscienza tanto cauteriata da giustificare e ingoiare anche la più sordida nequizia per non perdere la cadrega. Non possiamo pretendere di rovesciare nottetempo queste tendenze, che sono di natura strutturale, ma ci impegniamo a fare di tutto per bloccare la de-umanizzazione e il degrado ambientale e sociale e la profonda corruttela morale degli attuali padroni della città, rendendola di nuovo accessibile a una classe media civile, giovane attiva e colta che ne ripopoli le strade, le piazze e tutti i luoghi dove si elaborano i destini comuni della città.
E Milano va. La manomorta politica sul governo della città
Negli ultimi vent’anni circa la città è stata predata della sua anima tradizionale, dura, fattiva e pragmatica, ma al tempo stesso compassionevole e legata a una comune etica di fondo, con l’uso spudorato del mito dell’antipolitica: la politica della discussione e del confronto è stata squalificata come luogo dell’inanità e sostituita con la “politica del fare”. Ovviamente nessuno dice “fare cosa”, ma si capisce bene, fare i propri affari in primo luogo; ma anche qualcosa di più sottilmente perverso: un agitare e agitarsi nevrotico, cravatte strette e colli alti, doppiopetti attillati, capelli unti e allisciati, abbronzature da yacht vero o finto, scarpe da Brill di Pza de Duomo, telefonini sempre innestati, anche due, tre per volta, un muoversi, un promettere, un annunciare oggi, per dimenticare domani zampettando qui e là in cerca di una buona occasione, di un contatto fruttuoso, di una commessa sicura un birignao fastidioso da chi non ha tempo da perdere. I vecchi milanesi conoscevano bene questa specie di fare che si chiamava defà de pulìn e veniva in genere praticata da un ben preciso ceto sociale ai margini dei traffici che si chiamava bru-bru. Oggi i bru-bru sono al potere e sullo scranno con le conseguenze che pure il dialetto milanese ha da tempo codificato. Il mantra era che Milano doveva uscire dalla crisi, e che Milano andava. Devo confessare che in un paio di occasioni mi sono illuso anche io che tra i bru-bru ci fosse gente serie che credeva alle parole dette e aveva una visione genuinamente liberale e uso questa parola ormai camolata dall’abuso che ne è stato fatto per esprimere una speranza mai sopita, e raramente soddisfatta, nella cultura italiana. Poi ho visto che le persone che avevano queste idee nella maggioranza sono state brutalmente messe da parte o che le annunciate iniziative erano delle sòle tremende utili solo a coprire gli affari più sfrenati. Milano non andava e soprattutto non andava in nessuna direzione e per dare una idea di quel che appariva allora, mi cito, come non si dovrebbe se non fosse che la data (marzo, 2005, la data esatta della pubblicazione sul Corriere non me la ricordo
E Milano va. Da qualche anno la città sembra aver imboccato la strada di una ripresa economica destinata a riportare la metropoli lombarda alla testa di quelle classifiche che, da qualche tempo, l’avevano relegata su posizioni non troppo lusinghiere. I segni possono essere letti sia negli eventi - il concorso internazionale per il Quartiere della Fiera; l’apertura della Nuova Fiera a Pero, la riapertura della tradizionale sede scaligera, l’insediamento residenziale Santa Giulia - sia in una sorta di “risalita del morale” notata da tutti gli osservatori delle classi dirigenti cittadine. Il Financial Times del 15 Marzo, nella sua autorevole rassegna italiana, titola con squilli: “Milano ha piani grandiosi per un nuovo domani”. Milano, dunque, va. Ma dove? La domanda è legittima perché sugli stessi fogli dei quotidiani in cui vengono vantate le qualità economiche, compaiono segni di incrinature che non è possibile trascurare in nome di un ottimismo municipale di maniera.
Intanto si manifestano seri problemi di natura istituzionale dei quali la Scala è il più emblematico. Non sono passate molte settimane dalla fastosa inaugurazione del teatro ricostruito, che tutto il sistema Scala si incrina come un decrepito mascherone di gesso. E’ appena finita (si fa per dire) la complessa vicenda della autostrada Milano-Mare che si apre la vertenza AEM, mentre l’amministrazione comunale è da molto tempo paralizzata da un conflitto tra il Sindaco e il Consiglio (e anche parti della stessa Giunta) che assomiglia sempre più a una rissa difficilmente comprensibile.
Si ripresentano poi con allarmante ostinazione problemi collettivi che non trovano soluzione. L’inquinamento e la congestione del traffico hanno raggiunto livelli allarmanti, e superato di molto la soglia imposta dall’Unione Europea, ma l’amministrazione (e forse sarebbe più corretto dire anche l’insieme della città) non è stata in grado di formulare uno straccio di ipotesi di soluzione. La protesta dei cittadini cade assolutamente nel vuoto. Mi ricordo che in una delle ultime appassionate apparizioni pubbliche prima della morte, Padre Turoldo disse che la nostra città aveva perso la capacità di “ascoltare” (anticipando l’opera del famoso sociologo francese, Michel Crozier, proprio su l’”ecouter”). Sono passati molti anni e la situazione è peggiorata a tal punto che quel grande intellettuale religioso ne sarebbe assolutamente inorridito. Le proteste sul problema del traffico ( o quelle sul rumore, lo smog e altri problemi di tutti) cadono nel vuoto pneumatico più spinto.
E infine vi sono segni inquietanti che richiamano l’attenzione sui problemi sociali della città. Nella Milano del lusso più sfrenato e dei fasti della comunicazione, dall’inizio dell’anno vi sono state 10 morti in solitudine scoperte solo dopo molti giorni; sembra certo che centinaia di baraccati vivano in condizioni estreme; una intera famiglia campa sulla misera pensione del figlio minorato, ma decine di migliaia di famiglie abituate da anni a un confortante agio lombardo, sentono il morso della paura di non arrivare alla fine del mese.
Una cosa appare sempre più certa: sono due le Milano che vanno, ma in direzioni opposte. Una sale, grazie al progetto che, nei modi ben descritti dal Financial Times, sta facendo di Milano uno dei centri dello sviluppo capitalistico europeo. L’altra scende al di sotto delle condizioni minime di sopravvivenza. Una delle ragioni è che sta scomparendo quella classe media agiata, fatta di impiegati, tecnici, professionisti, artigiani, ma anche di aristocrazia operaia colta, che serviva da collante e da mediatore dei conflitti cittadini, perché le sue condizioni materiali la sottraevano alla paura del presente e le permettevano di programmare il futuro. Venendo meno questa classe sociale, presa nella forbice tra i molto ricchi e i molto poveri e decimata dal precariato della flessibilità, anche quella politica riformista, illuminata e innovatrice, che per anni ha costituito il marchio della politica cittadina, scompare dalla scena. Anzi scompare persino la politica, perché di recente i milanesi sono stati indotti a credere, falsamente, che la città possa essere governata senza politica. Ma spero stiano imparando che quando si dice “qui non si fa politica”, vuol dire che la politica la fanno solo in pochi: quelli che comandano.
Non ho da aggiungere molto a quello che ho detto allora, se non per rimarcare che nel frattempo Milano non è andata da nessuna parte se non in basso. Eppure Milano è ricca di risorse e di persone, ha università, centri di cultura, grandi fondazioni, grandi ospedali, istituzioni importanti di ricerca che sono stati o emarginati, o sviliti, quando non è stato possibile appropriarsene. Il tessuto innovativo e fattivo delle sue imprese è rimasto rilevante, anche se non è difficile vedere che la città ha perso molto mordente e che certi mutamenti, per esempio la transizione dal design (che coinvolgeva molti strati sociali e competenze) alla moda e alla pubblicità che hanno dimostrato spesso tendenze auto segreganti non sono andati nel senso dell’arricchimento civile ma piuttosto in quello della mercificazione. E allora? Il problema di Milano non è economico, ma politico, Milano è una città ricca, ma con una decrescente qualità della vita, se per qualità della vita si intende, come si deve, non solo il reddito (livello di vita) ma anche la gradevolezza in tutti i sensi, urbanistica, ambientale, sociale, culturale del contesto in cui questo reddito viene consumato. Nella Milano di un tempo non molto lontano il reddito prodotto in città veniva anche speso qui, oggi chi ha molti soldi va a Montecarlo (chiuso nelle gated communities di ricchi paranoici per il timore dei ladri e della finanza) o in qualche grande resort, e chi ha meno soldi ma può comunque permetterselo parte il venerdì per tornare il martedì. Il Giornale in un articolo che cerca di nascondere la pochezza e la contraddittorietà delle idee dietro la battuta (“Quel «clan dei 51» Cuore a sinistra e portafogli a destra”, giovedì 14 aprile 2011) ritira fuori la battuta vecchia come il cucco (e già la vetustà del riferimento la dice lunga) elaborata se ricordo bene per definire i radicali francesi al tempo di Mendes-France o prima ancora. Ci vuole tutto lo sfrontato chutzpah di cui è capace la destra italiana perché un giornalista stipendiato dalla famiglia dell’uomo più ricco e potente del paese si metta a fare i conti in tasca agli avversari; se fossi ricco come dice Il Giornale, ma ahimè non lo sono, risponderei “scusi signor giornalista, ma perché se sono ricco devo anche per forza essere poco intelligente e votare per Berlusconi”? L’articolo è peraltro interessante perché è la summa di molte incoerenze che sarebbero apparenti a chiunque non fosse obbligato a scrivere per un padrone “Il centrodestra milanese guidato da Letizia Moratti non ha sempre dato una immagine brillante poiché i tentennamenti hanno superato spesso le decisioni, i personalismi lo spirito di corpo, le gelosie tra istituzioni il necessario lavoro comune. Si è perso tempo, molto tempo. Da qui al 2015 non c’è più un secondo da perdere e invece, un po’ ancora, inspiegabilmente, si cincischia. Non possiamo permettercelo e certamente la coalizione di centrosinistra fatta di ponti e di pontieri aumenterebbe il livello del pantano, che è quanto di più distante da ciò di cui c’è bisogno.” Con che faccia si permette chi ha governato così male per anni di parlare di governabilità e di dire che la sinistra “farebbe aumentare il pantano” Signori miei, nel pantano ci avete messo voi, una volta tanto davvero senza aiuto di nessuno, e che pantano! Con che faccia vi permettete di dire che la sinistra lo farebbe crescere? Siamo già oltre il livello di guardia: di qui in poi se si tolgono i responsabili di questo disastro il pericolo può solo diminuire.Non voglio neppure chiamare in causa l’EXPO, basta quello che c’è scritto su Il Giornale e non si capisce come i milanesi dovrebbero votare per chi ha dimostrato tanta inettitudine per ingordigia.
Più interessante in un cero senso, anche se rituale, è la frase “Una volta tolti i ponti rimangono i fossati.” Già ma i fossati li avete scavati proprio voi, fossati tra chi comanda e la legalità, fossati contro “i comunisti”; fossati contro i diversi, che siano negher o culattoni o teruni o “giudici di merda”, per usare solo alcuni dei garbati termini usati da questa destra, che non è neppure capace di gestire un evento come l’Expo o un sistema di controllo del traffico come l’ECOPASS o di tappare le buche nelle strade. Il fossato viene persino scavato contro il Cardinale Tettamanzi come ha osato fare un bosino come Caldiroli che dovrebbe occuparsi delle sue parrocchie celtiche. Però è vero, Milano non è una città senza conflitti, solo che in passato è sempre riuscita a trovare un compromesso per attraversare i fossati, non per scavarli più profondi. E forse vale la pena di ricordare a grandi tratti questa caratteristica della nostra città, per non ricadere in un municipalismo di maniera da O mia bela Madunina.
Il lato oscuro di Milano
Dalle pagine del Corriere di Domenica 26 luglio 2009 Corrado Stajano, scavando sotto il manto di plastica che sembra rivestire la Milano del marketing urbano ci ha dipinto una Milano amara, della quale non si parla volentieri, pur essendo ben nota a chi si occupa professionalmente di questa città dai più diversi punti di vista: storici, economici e sociali. «Milano era una volta una città dura, ma anche affettuosa, ironica, partecipe. L'imperatrice Maria Teresa aveva lasciato il segno di una buona amministrazione che fu recepita nei secoli; il socialismo umanitario primonovecentesco, nutrito da una borghesia avanzata, aveva dato vita a modelli comunitari d'avanguardia, si era preoccupato del futuro dei giovani aprendo scuole d'arti e mestieri, aveva capito l'importanza di costruire case popolari nel centro della città, aveva caldeggiato la nascita di villaggi operai e fondato associazioni di mutuo soccorso. Memorie stridenti in un tempo di degrado civile e di restaurazione politica. Milano, ora, è una città incattivita, priva di umani abbandoni, che ha cancellato anche il suo linguaggio e ha nascosto chissà dove il suo antico spirito solidale.»
Questa lamentela si è sentita più volte. E’ forse più di una ironia aneddotica che Milano, città che nella sua lunga storia fu capitale solo per un tempo relativamente breve (alla fine dell’Impero Romano tra il 286 quando Mediolanum fu designata residenza dell’Imperatore d’Occidente Marco Aurelio Massimiano e il 402 quando dopo le incursioni dei Visigoti il figlio di Tedosio trasferì la capitale a Ravenna) venga oggi immacabilmente chiamata “capitale” di un qualche tipo: “capitale economica”, “capitale morale”, capitale umorale, persino. Infatti è nel periodo romano che cominciò a prendere corpo quella immagine diarchica che poi rimase appiccicata come una etichetta, ma più ancora come denuncia di una aspirazione mai soddisfatta. Infatti in quel secolo Milano era già città prevalentemente cristiana che si contrapponeva a una Roma pervicacemente pagana, e i suoi grandi furono Ambrogio che non era un prete, ma un funzionario imperiale di Treviri nominato vescovo, ma conosciuto come “vescovo da combattimento”, e Agostino, filosofo da lui battezzato. Di qui il famoso rito ambrosiano di cui i milanesi vanno giustamente fieri, in particolare perché gli regala tre giorni in più di letizia a Carnevale, che oggi vengono usati con molta abilità per sostituire la vacanza annuale che nel mondo anglosassone è nota come “spring break” e che più che un insieme di riti religiosi marca una differenza di atteggiamento.
Povera Milano, città ricca e infelice! E se fosse dunque un destino genetico? Cerchiamo di rileggere, riedito da Maria Corti che ne aveva già curato l’edizione del 1974, da cui cito, il famoso testo di city marketing scritto nel 1288 da Bonvesin della Riva. Tutti citano il lavoro per farci sapere che Milano aveva 200 chiese con 480 altari (e altre 2050 chiese con 2600 altari nel contado) che servivano una popolazione che il Bonvesin calcola (pur essendo conscio dell’enormità della cifra) in 700 mila abitanti nel contado e 200mila in città. E tanti dovevano essere per sostenere 40.000 adulti armati, 1500 notai, 120 giureconsulti e 600 messi comunali. Ma la cifra esce fuori quadro se andiamo a vedere che per nutrirli erano giornalmente sufficienti milleduecento moggi di grano e “il moggio è una misura equivalente a otto staia e al peso di un uomo di grossa corporatura”( diciamo 80 chili?). E fa dunque poco meno di una tonnellata, con la quale non si arriverebbero a dare, se non ho sbagliato i conti, 5 grammi di grano a ognuno dei 200mila. E’ chiaro che il buon monaco aveva più amore per la propria città che per la precisione statistica Le solite esagerazioni ambrosiane, insomma, che però non diminuiscono la ricchezza e grandezza materiale di Milano, che era reale. Ma se tutti citano Bonvesin per le meraviglie, pochi si ricordano delle miserie che il nostro antenato non riesce a nascondere, sbottando nella invettiva della distinzione XV dell’ottavo capitolo da cui apprendiamo che nella sua città le cose non vanno poi tanto bene perché “in domo tua nutritur qui te dentibus invidis dilacerare mollitur”, cioè ci si sbrana allegramente. E, a quanto racconta il Buonvicino del Ticinese, per ragioni non molto diverse (arroganza e avidità) da quelle che hanno causato gli sbranamenti della lunga storia milanese che, tuttavia dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente entrò nel novero delle città ricche, ma spesso sottomesse ad altri poteri. Ricca Milano lo fu quasi sempre. Ai tempi della cosiddetta “scoperta” delle Indie Occidentali, Milano raccoglieva in tasse una somma annuale comparabile con quella del Regno di Francia.
Ma la ricchezza porta con se tensioni sociali, tendenze autoritaristiche e anche criminalità, perché chi vuole rubare, frodare e malversare non lo fa dove non ci sono soldi. Nel maggio del 1898 il generale Fiorenzo Bava Beccaris fa sparare sulla folla con almeno 80 morti e innumerevoli feriti e, due anni dopo, a Monza viene ucciso per vendetta Umberto I. E le tensioni non finirono lì: ho un benchmark nei racconti della mia famiglia. Mio nonno, Cap.Art. Luigi Martinotti era stato mandato da Torino con le sue truppe in funzione antisommossa (la data esatta non la so, ma era tra il 1907, anno in cui mio nonno era rientrato da un giro del mondo e la guerra, in cui mio nonno morì) e mia nonna ricordava frequentemente quell’evento come una occasione importante perché il nonno le aveva telegrafato di prendere i suoi migliori vestiti e raggiungerlo a Milano, dove nelle pause del servizio l’avrebbe portata alla Scala. Vedete un po’, i punti di vista. Però se andiamo poi a vedere la storia amministrativa nei pochi anni che seguono, nascono a Milano (come in altre grandi città italiane) tutte quelle istituzioni del welfare municipale e anche di socialismo municipale che ressero e fecero ricca e felice la città per quasi un secolo: le utilità pubbliche dei trasporti dell’energia, dei rifiuti, le farmacie comunali, le scuole civiche, la centrale del latte, ricoveri e asili per anziani e giovani, case popolari e via dicendo. Ed è assi significativo che queste istituzioni che ressero anche durante il Fascismo siano quasi tutte entrate in crisi dagli anni settanta in poi quando si è prodotta quella profonda mutazione sociale, economica, politica e culturale che ha rotto un equilibrio precedente.
Il richiamo storico è meno surrettizio di quel che parrebbe. Oggi il problema principale dell’area milanese deriva dallo squilibrio tra la sua crescita, territoriale ed economica, e il suo assetto istituzionale. Per fare solo un piccolo, ma significativo esempio, se guardiamo a Milano-comune troviamo una popolazione che negli ultimi anni si è ristretta ed è invecchiata in modo abnorme e le cui caratteristiche socio-demografiche sono perciò divenute difficilmente compatibili con l’elevato grado di ricchezza e attività che caratterizza la città. E’ chiaro che questa prospettiva limitata continua ad offuscare la nostra visuale. Milano infatti non è più solo quella città di meno di un milione e mezzo di abitanti per la quale sono state costruite, anche in tempi recentissimi, con il nuovo statuto, le sue istituzioni. E’ anche una città che estende la sua influenza su un raggio amplissimo, essendo capace di attrarre i 300.000 giapponesi che la visitano ogni anno grazie a un settore industriale, quello della moda, che caratterizza la sua immagine esterna, influenza la sua economia interna senza peraltro essere veramente integrato nella società milanese. Ma Milano è sopratutto una seconda città addensata attorno alla prima, e inestricabilmente legata ad essa. Questa città è da sempre parte della ricchezza di Milano ma, mentre veniva sistematicamente inclusa nella analisi del frate duecentesco (che parla continuamente di città e contado come di due parti della stessa entità) è invece scomparsa dalle statistiche sulla Milano di sette secoli dopo, e anche dalla visione dei milanesi. Un piano come il PGT che determinerà l’assetto urbanistico della città pressoché interamente giocato sul territorio comunale è come un intervento medico su un corpo malato che si limitasse alla cosmesi del viso.
Le tre inquietudini delle città contemporanee
Sarebbe però ingiusto, nei confronti di Milano e in generale di chi ascolta e degli elettori, non dire che i mali di cui parla Stajano, non affliggono solo la metropoli lombarda; anche se qui la maggior parte della classe dirigente locale non sembra essere particolarmente interessata a comprendere e correggere. Milano, come altre grandi città, si trova al centro di tre dinamiche sociali che, trasformando radicalmente l’habitat urbano di tutto il mondo, ingenerano ovunque profonde inquietudini.
Il primo processo è la recessione dei confini. Il xx secolo ha cancellato o fatto arretrare gran parte dei confini visivi, fisici e psicologici della specie umana, e questo più generale processo ha investito anche l’ambiente costruito. Muovendo dagli antichi limiti fisici delle mura, i confini della città recedono progressivamente, sotto la pressione combinata di due traiettorie tecnologiche. In primo luogo quella della mobilità fisica, con l’automobile individuale che permette a milioni di persone di insediarsi attorno ai centri urbani in una fascia definita dall’equilibrio tra il costo dell’abitazione e quello del trasporto (fascia amplissima, perché il costo dell’energia per il trasporto è stato finora trascurabile). Questa dinamica ha sostanzialmente distrutto la città tradizionale immergendola nelle “terre sconfinate” dello sprawl, o periurbano metropolitano. In secondo luogo, la traiettoria tecnologica dell’informazione, che ha garantito a queste residenze atomizzate la lontananza non solo dal pozzo dell’acqua, e delle altre sorgenti energetiche, ma anche dalla fonte delle informazioni. Se, come dice una nota vignetta su Tucson (Arizona) “il garage ha mangiato la città”, la televisione ha trasferito l’agorà nel tinello. Il problema è che i sistemi sociali, come tutti i sistemi viventi, hanno bisogno della pelle: di un tegumento o confine da cui dipende la coesione sociale. Un malato di schizofrenia, dice Oliver Sacks, prova la sensazione di non avere la pelle: analogamente la recessione dei confini elimina la pelle della comunità urbana e ne intacca la coesione. Tuttavia quest’area non è una zona virtuale, anche se non ha confini precisi esiste in simbiosi sistemica con la Milano comunale e oggi è impossibile operare separando le due entità: il risultato è quello che vediamo, una città centrale soffocata dal pendolarismo soprattutto veicolare.
La seconda dinamica è la grande diffusione delle PNR, o Popolazioni Non Residenti, (pendolari, city users, “metropolitan businesspersons”) che porta con sé trasformazioni economiche, politiche e sociali di grande portata a scapito degli abitanti. Se vogliamo mentre la prima trasformazione lavora in orizzontale, questa lavora in verticale, ma von lo stesso effetto negativo sugli abitanti. E’ un processo in atto da qualche decennio, legato al marketing urbano, le cui diseconomie sono state sottolineate da più parti; ma gran parte delle classi dirigenti, soprattutto italiane, si è buttata su questa novità in modo spensierato: cercando di ricavarne vantaggi immediati senza pensare alle conseguenze della mercificazione dei luoghi, che possono trasformare una comunità, nella città interamente mercificata cantata da Kurt Weil e Bertold Brecht in Mahagonny. Si è promosso un aziendalismo d’accatto che pretende di trattare l’intera città (e non la macchina dell’ amministrazione comunale) non tanto come una realtà anche innegabilmente economica, ma come una azienda tout-court. I termini “azienda paese”,”azienda Milano”, non sono soltanto uno scotto di imprecisione pagato alla puerilizzazione del linguaggio mediatico, ma diventano termini ideologici e corruttori della natura della comunità urbana che invece, per definizione, non può essere ridotta ad azienda. Nel 1992, introducendo il concetto di una “metropoli di seconda generazione”, basata sul consumo, avvertivo che vi sarebbero stati conflitti crescenti tra abitanti e consumatori dei luoghi e che gli abitanti sarebbero stati sconfitti, in un processo di progressiva limitazione dei loro diritti politici. Quasi vent’anni dopo devo constatare che è proprio quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Il terzo processo coincide con la diffusione della società dell’immagine. E in particolare con quella complessificazione e reciproca reazione tra conoscenza e realtà che alcuni teorici hanno chiamato “doppia ermeneutca”, ma non è necessario qui che ci soffermiamo a commentare termini tecnici. Il fenomeno è sotto gli ochi di tutti. Non esiste più (almeno nella cultura dominante) una realtà sociale autonoma, che cultura e politica hanno il dovere di comprendere, per poter prevedere, prevenire e guidare (savoir, pour prevoir pour pouvoir, secondo la classica formulazione comtiana). Esiste solo una opinione pubblica che va perennemente stimolata in modo da poterla poi continuamente prendere a pretesto per il perseguimento dei fini dei potenti ;“il tal percento degli italiani – americani, francesi, spagnoli eccetera - mi è favorevole” oppure “ il tal percento dice che ha paura a uscire di sera”, e così la macchina mediatica si mette in modo e spalleggia il caudillo di turno aumentando il senso di insicurezza, che verrà a sua volta rilevato dai sondaggi e usato per il prossimo giro. “And so on, and so on, spinning the spin”. Il pubblico articolato viene sempre più sostituito, purtroppo anche nell’eloquio di sinistra da una indistinta moltitudine e, si sa, le moltitudini non si governano da sole, ma vanno governate, e a ciò i propongono i guru venditori di ricerche o di politiche speculative,con un proprio linguaggio esoterico sempre in bilico tra gli interessi del padrone di turno e quelli di un pubblico decerebrato o tradotto in minute corporazioni di questuanti in competizione per le risorse pubbliche.
Il linguaggio politico corrente genera grandi confusioni, ma ha soprattutto il grave difetto di essere un linguaggio tendenzialmente iniziatico e quindi escludente, perché usa termini in grande misura derivati da dibattiti tra intellettuali o dalle discussioni parlamentari. Infatti usa o termini astratti, che pure hanno una lunga storia e una importante collocazione del pensiero politico, come libertà, uguaglianza, stato, mercato, federalismo e così via, ma che ognuno interpreta a suo modo, oppure termini giuridici o paragiuridici come privacy, legittimo impedimento, conferimento (dei rifiuti), esondazione, conflitto di interessi, par condicio e simili, quando non vere e proprie parole-patacca, in genere con l’intento di denigrare, generalizzando, anche le istanze più normali: così ogni richiesta di corretta applicazione della legge diventa “giustizialismo”, la critica ai potenti di turno diventa “demonizzazione”, l’espressione di posizioni critiche della maggioranza in un partito, “frazionismo”, “deviazionismo” o simili. Il personale politico, soprattutto ai livelli più bassi, si impadronisce del suono più che del reale significato (quando ce l’hanno) di questi termini e ne fa sfoggio, per lo più a sproposito, per dimostrare la propria competenza. Le esigenze di semplificazione e di puerilizzazione dei media costantemente sotto la pressione per ottenere quella sintesi estrema che gli anglosassoni chiamano sound bite, aumentano l’imprecisione facendo arrivare alla maggioranza dei cittadini suoni che spesso hanno perso ogni reale significato, ma che tutti ripetono sciattamente, quando non chiudono del tutto la disposizione ricettiva della mente. Prendiamo un termine come “riformista” o “riformismo”: nella tradizione dei movimenti operai e socialisti il termine era chiaro e designava quelle famiglie di pensiero socialista che si proponeva di cambiare la società con modi legali e senza ricorrere alla violenza. I riformisti erano dunque coloro che si contrapponevano ai rivoluzionari e nonostante poi nel concreto vi fossero sfumature e sovrapposizioni come in tutte le cose, la distinzione era concettualmente chiara e comprensibile a tutti. Con il venire meno della famiglia rivoluzionaria, la distinzione perde di senso, ma il termine è rimasto e nel mondo politico italiano tutti sanno che i riformisti sono sostanzialmente i socialisti moderati, e più in generale chi fa riferimento al centro-sinistra, tra cui anche gli ex “miglioristi” del PCI, con l’esclusione da un lato di posizioni più radicali e dall’altro di tutte le famiglie di destra, quelle per le quali il termine sinistra suscita rigetto. Con l’evoluzione della situazione italiana e mondiale, il termine, sempre nel linguaggio del mondo politico, ha mantenuto la connotazione di sinistra socialista moderata, che ingloba ora anche buona parte del quadro politico medio-alto dell’ex-PCI(PDS,DS eccetera) e che ha anche un quotidiano di riferimento Il Riformista, dedicato a tracciare rigorosamente il confine a sinistra. Fin qui nulla di male o di strano, il termine “riformista” ha perso il suo significato originario, ma gli addetti ai lavori sanno più o meno cosa vuol dire. Le cose si complicano, però, se usciamo dal ristretto ambito del gergo politico: in questo caso “riformista” non connota più una precisa zona dello spettro politico, ma diventa un termine generico (paradossalmente riprendendo parte del suo seni letterale) riformisti sono tutti, Berlusconi che vuole “rivoltare l’Italia come un calzino”, Sacconi, Gelmini, Tremonti, Maroni, Fini e compagnia di giro tutti sono riformisti, persino Bossi che è in effetti Ministro per le riforme del federalismo. Che cosa ne può capire il comune cittadino che non è al corrente di tutte le sottigliezze della vicenda? Chi mai non è “riformista” nel nostro paese? Persino il Cardinale Bagnasco che appartiene a uno stato straniero, invoca le riforme come soluzione ai problemi italiani. Ma se tutti sono riformisti che senso ha usare questa parola? Ecco perché in un documento politico si dovrebbe fare lo sforzo per tradurre (o ritradurre) il gergo tecnico in parole significative per tutti.
La mercificazione dei luoghi.
Queste importanti trasformazioni non sono il prodotto di un progetto coerente, ma derivano tutte dalla spinta verso la mercificazione dei luoghi, che viene presentata con termini finto tecnici come “marketing-urbano”, che intendiamoci bene è di per sé una attività legittima (credo di essere stato uno tra i primi a introdurre il concetto nel mio testo del 1992) in un mondo in cui il mercato delle popolazioni mobili rappresenta una parte importante dell’economia locale. Purtroppo spesso la mercificazione dei luoghi peggiora le tendenze centrifughe e segregative che abbiamo cisto essere in atto e hanno effetti negativi se si accompagnano a un degrado morale giustificato dall’ottenimento del profitto a tutti i costi e in tutti i modi, senza controllo e senza riscontro. Ma, diranno gli ideologi della “growth machine”, questa transizione da capitale morale a Mahagonny, è resa necessaria dalla competizione territoriale: il nostro territorio (altra parola, con “capitale morale” più oscuratrice che chiarificatrice) deve concorrere e competere con altre realtà. E così il futuro viene puntato sulla cambiale (e speriamo che non sia un assegno in bianco) dei molti milioni di city users che arriveranno qui con l’EXPO a versare il loro obolo ai developers milanesi. Temo, temo molto, che in questo ragionamento, al di là dell’attendibilità delle stime (che cominciano a essere riviste via via che, con la crisi, si fa strada una visione più sobria dell’operazione) manchi totalmente la considerazione della natura e delle competenze di quelli che Nicolò Costa, chiama “serious tourists”, cioè il turismo che conta davvero. Se, in questa popolazione strategica, misuriamo per ciascuna delle grandi città europee la notorietà, l’attrattività, la conoscenza diretta e la condivisione della esperienza, emerge nettamente il punto debole di Milano. Città come Parigi o Barcellona, e (in misura di poco inferiore) Roma, registrano percentuali del 100% sulle quattro variabili. Milano, invece, è conosciuta dal 100% dei “serious tourists”, ma solo il 41% ci è stato di persona, mentre appena un misero 13% desidera ritornarci - e pochissimi ne parlano con altri. Conclude Costa, “Milano è rimasta l’unica città italiana ad avere un problema di attrattività: in cui si ‘deve’ andare senza il ‘piacere’ di andarci” . Si va volentieri in una città felice, come Berlino, non in una metropoli infelice come Milano, e non basteranno i pur bravissimi architetti di tutto il mondo impegnati nell’EXPO a riempire il vuoto morale della città.
Eppure a Milano esiste, eccome, una società civile colta e desiderosa di eventi di qualità, pronta ad accorrere quando vengono presentati eventi di qualità come il MITO, o come è provato dal grande successo dell’apertura Ferragostana di Brera che ha giustamente premiato la solerte e appassionata competenza di funzionari costretti spesso a lavorare nell’ombra, o iniziative come la Verdi oppure la Storia di Milano alle Grazie e vari altri. La moneta buona, se qualcuno la usa, la vince su quella di latta. Ma la maggioranza che si è impadronita di questa città mercificandone allo spasimo tutte le espressioni culturali fornisce un esempio anche abbastanza straordinario, se vogliamo, della fatuità e del costo complessivo di una politica non interessata a ascoltare l’opinione dei cittadini ma a manipolarla. Si guardi alla faccenda delle famose 10.000 (100.000?) piante. Il sindaco coglie una occasione Spero che l’avvertimento di Stajano non venga archiviato come una curiosità estiva, o peggio bollato dai vessilliferi della “growth machine” come disfattismo, ma preso come seria materia di riflessione non solo letteraria, ma anche economica, sociale e politica. C’è davvero qualcosa che stride negli ingranaggi di una macchina mediatica che si è impegnata a insegnare al mondo la cultura del cibo e quella dell’ambiente, partendo da una città tra le più inquinate in Europa che non è più la “capitale morale”, ma si avvicina molto a diventare quella del panino mangiato in piedi (e nemmeno tanto buono).
Cosa fare?
Tre suggerimenti per Milano
A questo punto per concludere vorrei contribuire riproponendo un progetto in tre punti che vale soprattutto, anche se non solo, per Milano:
• riportare il cittadino al centro della politica comunale;
• riportare i cittadini, soprattutto giovani, nel centro di Milano;
• porre mano alla transizione verso la eMilano.
L’ ideologia antipolitica che, da tre mandati ormai, domina la filosofia di governo nella nostra città, ha cancellato quasi del tutto la cittadinanza dal discorso pubblico. Questa filosofia ha risvolti ben precisi nell’estetica della città (che punta al monumentale piuttosto che all’ospitale) nel rapporto tra amministrazione e cittadini, diventati oggetto di sfruttamento (come nella logica punitiva invece che educativa delle contravvenzioni) o di quel generico fastidio che trasuda dall’atteggiamento dell’amministrazione allo sportello, e persino nella prepotenza con cui sono stati impostati i rapporti tra maggioranza e opposizione, ma anche tra diversi organi dell’Amministrazione. Questa situazione va capovolta, la città non è né una azienda e neppure un condominio (simbolo tra l’altro della peggiore litigiosità meschina), ma un corpo sociale che va governato con la politica. La buona politica comprende anche la buona amministrazione, ma non può identificarvisi. Dobbiamo riportare il cittadino al centro della politica comunale. I cittadini vogliono più politica e gli va data. La contrapposizione tra partiti e società civile è certamente un discorso aperto, ma non può essere risolto con una finta liquidazione del partitismo, che ha eliminato la sostanza della vita politica (costituita dalla partecipazione organizzata), ma ne ha conservato le peggiori croste della corruzione, dell’interesse privato più impudente, del cadreghinismo più sfacciato e dell’aziendalismo d’accatto, con cui da troppo tempo siamo bombardati senza sosta. Segni anche se vogliamo minori, ma gravi se presi tutti assieme, come l’uso delle cariche pubbliche per remunerare parenti,figli, amanti o famigli sono un indicatore della diffusione di quella che nel linguaggio dei penitenzieri si chiama “coscienza cauteriata” (in francese blaseé) cioè una crescente incapacità di distinguere tra il bene e il male, non solo ma anche di sfregiare chi cerca di farlo, in nome di una supposta superiorità dell’intelligenza disincantata (sempre al libro paga dei potenti però) in una versione degradata da Raskolinkov de noantri. Così chi si ribella alle oscenità più invereconde diventa un codino e persino le più minimali ed essenziali regole di buona procedura politica come la verifica delle firme di presentazione delle liste sono un fastidioso optional. Non vorrei essere accusato di paragoni impropri e certo non sono la stessa cosa ma invito a una rilettura delle pagine sul linguaggio fascista di autori come Denis Mack Smith o Carlo Emilio Gadda, solo per non dimenticare che queste pose non sono una innovazione culturale ma la riproposizione in bassa lega dei peggiori sedimenti del dannunzianesimo e del marinettismo nostrani. Riportare il cittadino, inteso come titolare di diritti al centro della politica, significa anche fare uno sforzo serio nel modo di parlare. Ho sentito amici in ammirazione per la “bellissima” campagna pubblicitaria della Moratti. A me sembra una oscenità per le dimensioni esorbitanti e sfacciate della spesa e per lo chutzpah inverecondo delle menzogne raccontate.
Si obietta che l’allontanamento della politica dai cittadini (non comunque il percorso inverso che a loro sempre si rimprovera) non è colpa dell’amministrazione, che non può essere tenuta responsabile di un processo strutturale generale come la metropolizzazione. Vero, ma c’è modo e modo di affrontare queste grandi trasformazioni: Milano si è distinta in passato per aver saputo affrontare le peggiori devastazioni della urbanizzazione industriale, prima, e della sua fine, poi, e persino quelle della guerra, con quella illuminata politica riformista di cui sindaci come Caldara, Greppi e Aniasi sono stati esempi illustri. Ora ci vuole qualcuno di quella levatura che prenda in mano il governo della transizione a una società della conoscenza, sapendo bene che dietro gli scintillii del quarzo possono nascondersi i veleni del degrado umano, come in quei meravigliosi pesci tropicali più mortali dei cobra. L’allontanamento della politica dai cittadini è stato prevalentemente causato da una tecnologia obsoleta come la televisione generalista, e quello dei cittadini dal centro, in grandissima misura, dalla possibilità di aprire in casa, oltre ai rubinetti dell’acqua o dell’energia, anche quelli dell’informazione, risucchiando l’agorà nel tinello di una abitazione privata, che può così situarsi dovunque nel profondo della metropoli sconfinata là dove il costo dei trasporti e della rendita fondiaria trovano il loro equilibrio.
Una delle conseguenze del disprezzo delle esigenze dei cittadini, soprattutto i meno abbienti, è inscritta nella violenta trasformazione subita dalla popolazione milanese nel torno del secolo. Milano, e il suo centro storico in particolare, si è spopolata di abitanti in favore delle PNR, Popolazioni Non Residenti. Avevo segnalato questa tendenza e i rischi connessi già alla fine degli anni ’80, ma non sembra che le amministrazioni comunali si siano rese minimamente conto dei problemi che questa transizione comporta. Le PNR portano soldi - anche se non sempre quanti ne vengono promessi- ma consumano la città, anche fisicamente, accrescendo congestione e inquinamento ed erodendo quel rapporto tra individui e luoghi fisici su cui si è basato fino a oggi il buon funzionamento della comunità urbana. Il centro ha espulso e continua a espellere la sua classe media giovane, il risultato è una città invecchiata e arricchita oltre misura, anche se le due caratteristiche non si combinano nello stesso individuo. Fate un giro di Piazza del Duomo e dintorni verso le 20 di sera per cogliere un flash della desolazione che vi si accompagna. Per questo il secondo obiettivo del progetto è riportare i cittadini, soprattutto giovani, nel centro di Milano. Si dice:”troppo costoso” “va contro il mercato”, ma, oltre al fatto che la politica deve regolare il mercato e non viceversa, e che siamo alle soglie di un probabile sboom dell’immobiliare, c’è qualcosa che non funziona nelle cifre. Tra il massimo del suo sviluppo (1973) e il censimento del 2001 Milano-comune ha perso circa mezzo milione di abitanti - fanno cinquecentomila vani almeno. Si dice che siano andati ad attività economiche, ma non torna: nello stesso periodo Milano ha perso poco meno di 50mila “unità locali”, cioè sedi fisiche di imprese, più difficile da stimare in vani, ma non meno di altri 100mila. Dove sono andati tutti questi potenziali spazi abitativi?
Questo tema ha un risvolto molto importante e centrale nella vita di un complesso metropolitano come quello milanese che coinvolge milioni di persone e i loro diritti di accessibilità, ma anche per la difesa di tutti dalle devastazioni della eccessiva mobilità dissipativa: la mobilità è il perno, ma anche il grande male della meta-città contemporanea. Non è vero che tutto sia perduto, i lavori e le simulazioni di Casiroli di Ponti e di altri esperti di mobilità dimostrano che in Lombardia è ancora possibile riproporre un tessuto di trasporti pubblica (non solo quello della TAV, che costa in Italia non si capisce bene a favore di chi, o meglio si capisce benissimo) che rimedi allo sprawl e che permetta così un migliore equilibrio della mobilità. Il PGT va nel senso opposto, provocherà un maelstrom di risucchiamento verso il comune centrale di proporzioni colossali. Certo chi vende cubatura e petrolio non potrà che esserne felice, ma chi deve pagare le esternalità negative di queste industrie, dovrà pagare sempre più caro. Il Comune di Milano non ha ovviamente la competenza per regolare la mobilità della regione metropolitana, ma deve avere la forza politica di lanciare una grande operazione di sistemazione della mobilità nell’area con tutti i soggetti coinvolti. E non si tratta solo di mettere la cosmesi alla Stazione Centrale trasformando il percorso dall’arrivo dei mezzi ai binari da 40 secondi a 3.40 secondi per obbligare il viaggiatore a passare davanti a un negozio di Brooks Brothers per comprarsi la cravattta o le scarpe dato che ha perso il treno. Si tratta di rispettare le esigenze, la dignità e la salute di milioni di cittadini dell’area costretti ogni giorno a viaggiare come bestiame.
Gli obiettivi che abbiamo indicato per una nuova centralità politica e concreta dei cittadini oggi non possono essere perseguiti senza gli strumenti appropriati. Per quanto si possa e si debba ricostruire buona parte della funzione abitativa in centro, non si cambierà più la struttura urbana contemporanea, che ha trasformato la città in una meta-città spalmata su una area molto vasta. Per ricostruire una socialità non spaziale occorre guardare al futuro e porre mano alla transizione verso la eMilano. Per questo i vecchi strumenti non bastano più: né la società civile né il mercato sono in grado di compiere quei salti tecnologici che aprono nuove ere. Internet l’ha creata uno stato, non il mercato. Le TIC, Tecnologie della Informazione e della Comunicazione, hanno un potenziale straordinario per ricostruire, su nuove basi, una comunità distrutta dalle prime fasi della transizione informazionale. Ma vanno guidate, bisogna che si passi dall’eGovernment, inteso come puro e semplice “portale dell’Amministrazione” (interpretato spesso solo come “portone” o “facciata” dell’Amministrazione) all’eGovernance, che, rispondendo genuinamente alle direttive di Lisbona, applichi in un contesto tecnologicamente maturo le pratiche che possono ricreare una nuova socialità non soggetta alla “tirannia dello spazio”. Queste pratiche non sono tecno-utopiche, ma sono quelle in cui sono già immersi i giovani di oggi: dalla chiacchiera all’elearning, dall’incontro e l’amicizia, alla solidarietà, la politica e il lavoro.
Un decisivo salto tecnologico verso la eMilano obbligherebbe la politica comunale a sviluppare due funzioni atrofizzate: ascoltare e informare. In una delle sue ultime e sofferte uscite pubbliche, nel pieno della tempesta di Tangentopoli, Padre Turoldo lamentò che il governo della città e tutta la città intera, avevano perso la capacità di ascoltare. Era ed è vero, naturalmente: Michel Crozier, nel suo libro su La crise de l’intelligence, critica l’atteggiamento burocratico della programmazione dall’alto, come incapace di écouter. Ma questo ascolto non è certo quello stereotipato e costipante dei sondaggi che servono solo (più o meno bene) a soddisfare il narcisismo degli uomini politici e sono geneticamente incapaci di cogliere quei segnali deboli che rappresentano le vere innovazioni nel sistema politico. Per “ascoltare” occorre quella passione per la politica, quella propensione al Verstehen, alla comprensione, e al rapporto con gli altri che è tipico dei grandi uomini di governo. Ma occorrono anche gli strumenti appropriati: nell’ eGovernance il simmetrico dell’ ascoltare è informare. Informare è una azione che richiede onestà e trasparenza; l’uso furbastro di immagini, parole e numeri che purtroppo pervade il mondo dei cosiddetti comunicatori e degli uffici stampa dei potenti, non è “informare”, ma solo manipolare. Dà il là l’Amministrazione comunale, con la crescente oscurità delle sue statistiche, anche se di questo aspetto occorrerebbe parlare con più profondità degli accenni che posso fare qui. Un tempo l’informazione statistica comunale di Milano era nota per la sua ricchezza, disponibilità, intelligenza. Alessandro Buzzi Donato, purtroppo scomparso quasi contemporaneamente ad Aldo Aniasi di cui fu amico, per molti anni responsabile dell’Ufficio Statistica del Comune, era sempre a disposizione di chiunque, specie gruppi di cittadini attivi, si rivolgesse a lui per avere dati. Oggi, nonostante la buona volontà dei dirigenti, l’Ufficio Statistica è diventato marginale e la difficoltà di avere dati sulla società milanese cresce più che proporzionalmente alla quantità di dati che vengono prodotti (dall’Amministrazione e da altri Enti) in modo sempre più feudalizzato e sempre più lontano da quella intelligenza collettiva, senza la quale lo sviluppo nella società dell’informazione non decolla. Per un progetto di governo della città il buon uso e l’uso innovativo e politicamente progressivo delle informazioni, non è una appendice tecnica al programma, che poi nessuno legge, ma sempre più un elemento centrale della visione del futuro.
Va da sé che ascoltare e informare sono solo ingredienti essenziali per bene operare. Per ascoltare e informare, per creare una intelligenza collettiva attiva e vibrante, occorre la messa in opera di una cyberinfrastructure (come si chiama oggi tecnicamente) le cui dimensioni di costo, complessità, mobilitazione di forza lavoro e intelligenze, non sono inferiori a quelle che nella città industriale si resero necessarie per dotare di trasporti pubblici, elettricità, e altri servizi una grande metropoli. Per fare, tra i cento possibili, un esempio banale, ma non irrilevante, una cyberinfrastructure che utilizzasse una rete efficiente e capillare di MPPDs cioè Mobility, Proximity, Propinquity Devices, permetterebbe, con l’adozione di trasmissioni senza fili (della famiglia dei telepass) di controllare la sosta selvaggia senza far ricorso agli orribili piloncini in acciaio inossidabile di cui l’amministrazione ha riempito le strade di Milano, al costo, pare, di parecchie centinaia di euro ciascuno. La gestione della mobilità e della accessibilità sarà nei prossimi uno dei terreni su cui si misurerà l’equità sociale: la differenza tra un sistema “stupido”, come le targhe alterne, e un sistema “intelligente” in grado di governare gli accessi anche in base alle necessità e alle capacità individuali è lampante. Ovviamente, la stessa strumentazione utilizzabile per controllare la sosta può servire per numerosissime altre transazioni e anche per far intervenire i singoli cittadini nella conduzione della città. Proprio nel campo della mobilità si è avuta la prova che, come spiega molto efficacemente Amartya Sen, la concentrazione di potere nelle mani di una sola persona non aumenta l’efficienza. Anzi.
Tra l’altro, l’adozione di una visione realisticamente utopica, piuttosto che burocraticamente regressiva, come è l’attuale, di una eMilano proiettata verso il futuro con coraggio, e non solo con il mattone, oltre a offrire una grande occasione di sviluppo industriale, avrebbe l’enorme vantaggio di riconquistare a un progetto comune le nuove generazioni che vivono già nel mondo delle città digitali. Ma, senza un progetto pubblico, una politica di grande respiro per una nuova, grande, città digitale, la eMilano al servizio di tutti, non potrà prendere il volo. Avremo solo un futuro con più condomini e centri fieristici, ma con meno polis.
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