giovedì 31 marzo 2011

Paneacqua.eu: La dottrina Obama

Paneacqua.eu: La dottrina Obama

Paneacqua.eu: Le sconfitte elettorali di Sarkozy e Merkel. Un vento di rivolta soffia sull'Europa?

Paneacqua.eu: Le sconfitte elettorali di Sarkozy e Merkel. Un vento di rivolta soffia sull'Europa?

Peppe Giudice: Il "Network" quale interlocutore per il socialismo nella sinistra

IL “NETWORK” QUALE INTERLOCUTORE

PER IL SOCIALISMO NELLA SINISTRA







E’ una fase politica in cui le espressioni associative possono svolgere un ruolo più importante di quelli che definiamo partiti.

Nella II Repubblica è difficile definire tali quelli esistenti, dai più grandi ai più piccoli. Si tratta di agglomerati di ceto politico che tende alla riproduzione della miseria intellettuale e politica di cui sono rappresentanti.

E’ inutile piangerci addosso: questa è l’Italia della II Repubblica.

Ma è ovvio che tra gli aderenti ed anche tra i dirigenti dei suddetti partiti c’è chi avverte tutta la precarietà della condizione attuale.

Il Network per Il Socialismo Europeo è nato per mettere in rete, con forme anche innovative, individui ed associazioni regionali e locali, che sono legati dal minimo denominatore di voler costruire in Italia un partito del socialismo europeo che superi a sinistra il PD e sia il perno della sinistra popolare e di governo di cui questo paese ha grande bisogno.

Per cui ci siamo ritrovati iscritti a SeL, al Ps, al PD a nessun partito, tutti accomunati da un obbiettivo che nessuno dei partiti attuali è in grado di garantire.

Non è in grado di farlo il PD che nasce da una fuoriuscita a destra dal socialismo europeo (ma nel cui corpo c’è comunque il grosso dell’elettorato progressista). Non SeL finora; se non si libera dei residui di movimentismo gruppettaro (ma su SeL voglio fare un discorso più ampio alla fine). Non assolutamente il PS+I di Nencini il quale sbandiera il marchio socialista per una politica di centro (tra PD e UDC).

Ma a parte la perversione politica nenciniana di cercare uno spazio a cavallo tra Centrosinistra e III Polo, è evidente che quello è un ectoplasma politico in fase di decomposizione. Se avvenisse (a mio avviso personale) sarebbe la fine meritata del grande equivoco di una costituente miserabile.

Anche chi troverà eccessivi e forti i miei giudizi, converrà però con me che il socialismo in Italia non lo può rappresentare il partito di Nencini. Non lo può rappresentare nella interlocuzione politica, non lo può rappresentare nel suo progetto.

Anche perché la definizione di una sinistra socialista è cosa che riguarda tutta la sinistra e non solo i socialisti “biografici” (come il sottoscritto).

Per questo abbiamo ritenuto importante (avendone ottenuto positivi riscontri) che tutti costoro che anelano ad una sinistra con certe caratteristiche si mettessero in rete, si confrontassero ed iniziassero a lavorare su un progetto politico di largo respiro. La strutturazione del sito (che tra pochi giorni sarà operativo) ci aiuterà ancora di più.

Ma dobbiamo cercare di allargare quanto più è possibile questo Network, sia per chi sta in rete, sia tramite le nostre personali relazioni.

Finora come Network abbiamo stabilito positive relazioni con pezzi significativi del gruppo dirigente nazionale di SeL, con la sinistra del PD, con settori della stessa FDS. Ora noi dobbiamo essere in grado di stabilire tali rapporti con gli iscritti, gli elettori di queste forze.

Ad esempio c’è tutta la vasta area ex SD in SeL che è nettamente favorevole ad una sinistra collocata nel PSE. Il network può dare loro voce. Idem per la sinistra PD. Dalla capacità di coinvolgere il maggior numero possibile di persone ed associazioni politicamente consapevoli, dipenderà la nostra forza di incidere nel dibattito politico.

Gli inizi sono promettenti. Il Network è nato a Dicembre 2010. Esso ha associato realtà importanti come il Gruppo di Volpedo e la Lega dei Socialisti di Livorno (con queste due realtà abbiamo costruito l’ottimo convegno del 19 Febbraio). E noto un certo entusiasmo.

Ma essendo aderente a SeL, mi preme di dire qualcosa in più su di essa.

SeL nasce come soggetto transitorio in vista di una più vasta aggregazione per confluire in un nuovo soggetto della sinistra. Che si caratterizzasse come sinistra popolare e di governo. Su questo credo che Vendola sia stato chiaro nel suo intervento a Firenze nell’Ottobre scorso.

Quindi non una sinistra confusamente movimentista erede di quella mentalità gruppettara e “post-maoista” che ha caratterizzato l’esperienza di Rifondazione (come ha riconosciuto le stesso Bertinotti, a Livorno).

Ora l’idea di un soggetto transitorio, era in qualche modo legato alla certezza delle elezioni anticipate e fondato sulla capacità di Vendola, alle primarie, di sfondare tra l’elettorato PD.

Le elezioni non si faranno. A questo punto si potranno fare a scadenza naturale nel 2013. Ciò è buono per chi deve lavorare sul medio periodo come noi (Network). Non è buono per una forza che aveva tutto scommesso sulla capacità del leader di scompaginare le carte.

Per cui oggi SEL vive il forte scarto tra un leader che comunque riesce a trainare consenso (forse un po’ meno di qualche mese fa, ma comunque SeL è sopra l’8%) ed un partito che non è riuscito a strutturarsi come tale. E che sconta la forte incomunicabilità tra le componenti che l’hanno formato – SD e ex rifondaroli in particolare. La capacità aggregante di Vendola è paradossalmente molto più forte fuori del partito che in esso.

Gli ex rifondaroli in realtà all’ombra della popolarità di Vendola, stanno tentando di ricostruire una forza movimentista, quando Vendola punta a qualificarsi come leader di una sinistra di governo. SD è quella che ha più creduto nel progetto SeL come capacità di superare le vecchie appartenenze. Ma con il senno di poi ha peccato di ingenuità che le è costata in molte realtà locali.

La verità è che molto forte è scarto politico e culturale tra chi vuole una sinistra di governo, ancorata al socialismo come SD (ed anche qualche singola personalità ex Rifondazione) e gli orfani di un movimentismo gruppettaro che alla sinistra non serve proprio. Alla sinistra oggi serve un grande progetto socialista (che implica cioè la critica al capitalismo) in grado di aggregare un consenso sociale e politico maggioritario su come uscire a sinistra dalla crisi del capitalismo neoliberale. Non ci serve né una sinistra declassata e storpiata alla Covatta né il movimentismo inconcludente dei Paolo Cento o delle Elettra Deiana. Certo oggi di mezzo ci sono le elezioni comunali e provinciali; dopo Maggio Vendola dovrà fare delle scelte forti. L’entrata di SeL nel PSE è di quelle che possono avere forte impatto.

Per tali ragioni mi auguro che il maggior numero possibile di compagni di SeL diano forza al discorso che come Network abbiamo iniziato.





PEPPE GIUDICE



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martedì 29 marzo 2011

In difesa di sorella acqua - micromega-online - micromega

In difesa di sorella acqua - micromega-online - micromega

Policy Network - Nordic social-democracy

Policy Network - Opinion

Peppe Giudice: Germania, Francia e.... Italia

In Germania la sinistra va bene. In Baden-Wuttenberg vanno benissimo i verdi. In Renania-Palatinato , regione tradizionalmente socialista (vi è nato Carlo Marx!), la SPD è al 36% - molto meno rispetto alle regionali del 2006 , ma in avanzata netta rispetto alle politiche del 2009 – e con i verdi (anche qui in forte avanzata) faranno il governo regionale. Ad Amburgo la SPD aveva comunque preso il 49%. In Francia alle cantonali i socialisti stravincono e Sarkozy (che fa a gara con Berlusconi a chi è più macchietta) precipita. In Gran Bretagna i laburisti di Miliband (liberatosi del postcraxismo locale, il blairismo) organizzano con i sindacati una grande manifestazione con mezzo milione di persone contro la politica economico del governo liberal-conservatore.

Per carità non voglio attribuire significati eccessivi a queste cose. Ma pare che in Europa inizi ad esserci un risveglio di sinistra.

In Italia c’è un piattume generale.

Un centrodestra in piena crisi di credibilità riesce comunque a galleggiare e sopravvivere, con un paese in grave decadenza sociale ed economica. Non c’è una chiara responsabilità della opposizione in tutto ciò? In una opposizione (come ben dice Sansonetti) che oltre a scandalizzarsi per le depravazioni sessuali del premier o per le sue vicende giudiziarie non ha assolutamente nulla da dire sul modo di uscire a sinistra dalla crisi economica e sociale.

Tale quadro evidenzia in modo netto gli effetti devastanti della cancellazione del socialismo dall’orizzonte politico-strategico della politica italiana. In un mondo progressista devastato dal nuovismo e dal nichilismo postmoderni, da intellettuali noiosi, ripetitivi e pieni di luoghi comuni che fanno gli indignati per professione. Che fanno grandissime manifestazioni per esprimere il loro narcisistico “furore civile” contro il “culo flaccido” di Berlusconi, ma non hanno una parola da dire (se non di circostanza) sulla condizione difficilissima di milioni di lavoratori, di precari, di nuovi poveri.

Ecco la conseguenza dell’abbandono del socialismo e dal lasciarlo in mano a uno che non conta niente e che ha ben altro in testa, come Nencini.

Negli altri paesi europei, nonostante Blair ed altri, il socialismo non è mai scomparso dalla memoria storica della sinistra. Ed è certo questo uno dei motivi per cui la sinistra riesce a rigenerasi anche dopo gravi sconfitte e comunque a mantenere il suo radicamento sociale. Perché la memoria socialista sta continuamente a ricordare alla sinistra di porre il lavoro e la giustizia sociale al centro della propria agenda.

L’ho detto e lo ripeto. Siamo riusciti, tramite il network e le altre associazioni a far entrare in comunicazione fra loro un certo numero di compagni (con storie individuali diverse) e siamo riusciti pure a produrre iniziative che hanno avuto un giusto riconoscimento. E’ ovvio però che il nostro lavoro è una goccia nel mare. Una goccia che ha suscitato interesse ed attratto attenzioni in tutta la sinistra (come dimostra il documento sulla politica economica in Europa).

E’ anche chiaro che è sul PD (o meglio, una parte di esso) e su SeL che occorrerà una campagna di pressione affinchè si possa produrre quel processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra nel PSE. Lontani dalle elezioni e dalle primarie Vendola potrebbe oggi dare una scossa forte all’attuale assetto. Una diretta confluenza di SeL nel socialismo europeo, sarebbe un forte schiaffo politico al PD. Proprio un caro compagno di SeL della mia regione (proveniente da SD) mi diceva: dal PD molti certamente entrerebbero in SeL se essa facesse una chiara scelta identitaria. Non c’è dubbio, gli ho risposto.

E’ su questo stretto crinale tra SeL e PD che si gioca la partita. Il Ps di Nencini è quello che è, ma soprattutto è in fase di decomposizione ; la sinistra della Fed è più o meno nelle stesse condizioni (con qualche frazione di punto in più): c’è da notare che comunque dentro essa c’è chi è interessato ad un discorso di sinistra di governo.

Vendola deve capire che per portare avanti il suo obiettivo strategico occorre avere la forza di liberarsi di coloro che non hanno il suo stesso passo politico. Diciamo la verità: molti ex rifondaroli si sono ritrovati in sel senza condividere l’idea di una sinistra di governo. Mentre magari c’è gente nella Fed c’è chi vuole superare il minoritarismo. Anche qui c’è da scomporre e ricomporre.



PEPPE GIUDICE

Equality in the Good Society

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Napolitano: “Libia, il mondo non poteva non reagire” | Libertà e Giustizia

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Gim Cassano: spazio lib-lab » La crisi libica e l’Italia: il fiasco della politica estera personale del cav. Berlusconi.

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lunedì 28 marzo 2011

Internazionale » Cosa resta della sinistra egiziana

Internazionale » Cosa resta della sinistra egiziana

Appunti per una relazione sul federalismo - qdR magazine

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28-03-2011 Libia. Il giorno dopo del giorno dopo - Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

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Alfonso Gianni: Paneacqua.eu: Cresce l'opposizione sociale alle decisioni europee

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noiseFromAmeriKa : Andamento del PIL italiano negli anni 1995-2009

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Luca Telese » Formigoni: il “moralista” tra Saddam e la Minetti

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Far vedere i sorci verdi alla Merkel | Lo Spazio della Politica

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[EM.MA] Il ritorno di una sinistra variopinta | LeRagioni.it

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La gauche regarde vers 2012, l'UMP minimise sa défaite - LeMonde.fr#xtor=RSS-3208#xtor=RSS-3208#xtor=RSS-3208#xtor=RSS-3208

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Cantonales : les départements qui changent de majorité - LeMonde.fr#ens_id=1468778&xtor=RSS-3208#ens_id=1468778&xtor=RSS-3208#ens_id=1468778&xtor=RSS-3208#ens_id=1468778&xtor=RSS-3208

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Perché l'Italia non cresce 4 / Il welfare squilibrato tra giovani e anziani - Il Sole 24 ORE

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Generazione revolution: da Benghazi a Lampedusa

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UN'EFFIMERA PRIMAVERA

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REDDITO DA CAPITALE

REDDITO DA CAPITALE

domenica 27 marzo 2011

L'Europa senza classe dirigente - LASTAMPA.it

L'Europa senza classe dirigente - LASTAMPA.it

Andrea Ermano: Un po' oltre questa fase

dall'avvenire dei lavoratori


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Un po' oltre

questa fase


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di Andrea Ermano


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“Che ci facciamo noi laggiù?” – chiedono i media britannici al premier Cameron con riferimento alle operazioni militari in Libia. E sembra che già un mese fa da Londra siano partite un bel po’ di truppe speciali per preparare l'insurrezione, riferisce il Sunday Mirror. Un mese dopo, gli insorti di Bengasi sono stati sottratti al “bagno di sangue” ed è senza dubbio un bel risultato umanitario.

L'operazione Odissea all’alba non ha sortito effetti specifici sulla tirannia di Gheddafi, causando invece una scossa di assestamento nel “nuovo ordine mondiale”, con il quadrilatero Brasile-Russia-India-Cina (BRIC) che rivendica ormai una sua primazia di affidabilità a fronte dello scoordinamento euro-americano. Ora tutti si appellano alla “soluzione politico-diplomatica”, che prevedibilmente sarà fonte di nuove tensioni.


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Fatichiamo a cogliere l'esatta finalità di tutto questo. Proviamo allora a ripercorrere alcune notizie dell'ultimo anno, apparentemente disparate.

Nell’estate scorsa, mentre Mosca si vedeva assediata dagli incendi per siccità, giunse dal Cremlino la notizia secondo cui erano state sospese fino a nuovo ordine le esportazioni di grano, cosa che – diessero subito avveduti commentatori – avrebbe nuociuto all’Egitto, dipendente dalle forniture cerealicole russe.

Sempre nell'estate scorsa, quando Marchionne avviò il suo rilancio condizionato di Pomigliano d’Arco, presero a circolare strategie aziendali sulla nuova area emergente dell’economia globalizzata, che si estenderebbe dall’Iraq al Marocco.

In autunno si parlò della strana "campagna d’Africa" che Pechino porta avanti ormai da tempo con l’acquisto massiccio di terreni coltivabili, materie prime, beni alimentari ecc.

Sotto Natale siamo stati informati che incombeva sull’Africa e altre regioni povere del mondo uno spaventoso aumento dei prezzi alimentari. Era il risultato dell’embargo russo e del consumismo cinese nonché delle consuete speculazioni finanziarie (futures ecc.) che i nostri garzoni di borsa moltiplicano per ritagliarsi una fetta di lesso.

A febbraio ci siamo svegliati stupefatti: tumulti nel mondo arabo per il pane!


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Vent’anni fa, riflettendo sulla necessità di produrre energia senza rischiare nuove Cernobyl (e senza continuare a surriscaldare l'atmosfera), un fisico tedesco si accorse che i deserti della Terra ricevono dal Sole "in sei ore più energia di quanta l’umanità consumi durante un anno".

Quel fisico, il dottor Gerhard Knies, si mise al lavoro. E nel 2003 promosse un incontro informale tra la fondazione ecologista Hamburger Klimaschutz Fonds, il CNR del Regno di Giordania e il Club di Roma. Ne seguì un’intensa fase di studi, ricerche e sperimentazioni.

Nel 2009 un consorzio tedesco (formato da RWE, Eon, Deutsche Bank, MAN, Siemens e Schott Solar) ha istituito la Desertec Foundation, con una proiezione di spesa pari a 400 miliardi di euro e l’obiettivo di produrre “fino al 15% del fabbisogno energetico euroccidentale” (http://www.desertec.org/de/globale-mission/).

Nel novembre scorso è stata inaugurata in Marocco la prima centrale elio-elettrica. In sostanza si tratta di una macchina a vapore, gigantesca, costituita da ordini di specchi parabolici che convogliano la luce su lunghi sifoni cilindrici dai quali, grazie all’elevata temperatura, fuoriesce un getto continuo di vapore che aziona speciali turbine idroelettriche.


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"Desertec" è in sostanza un mega-sistema di macchine a vapore, che si fonda su ordini di specchi parabolici che convogliano la luce solare su lunghi sifone cilindrici capaci di vaporizzare l'acqua per le turbine elettriche (v. foto sopra e http://www.desertec.org/en/concept/technologies/). Nell'immagine qui sotto la rete energetica prevista nel progetto. Nel novembre scorso è stata inaugurata in Marocco la prima centrale di questo tipo (produzione giornaliera pari a 20 megawatt).


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Due ex ministri degli esteri italiani, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, ci hanno spiegato che, grazie a queste nuove tecnologie, il deserto libico può produrre energia elettrica quanta ne basta per l’Africa e l’Europa messe assieme.

È perciò che il Parlamento unanime (con l'eccezione di Furio Colombo e dei radicali) ha stipulato il famoso contratto d’amicizia con Gheddafi? In caso affermativo, sia lecito chiedere a chi di dovere se questo "capolavoro di diplomazia" bipartisan sia avvenuto come solitario colpo di genio italico o all’interno di un solido quadro di alleanze.

Frattanto, la Banca mondiale ha stanziato qualche miliardo di dollari nella cosa. Anche la Francia ha attivato un suo progetto, il Transgreen. Lo stesso vale presumilmente per diversi altri paesi. Insomma, si profila una corsa allo sfruttamento energetico dei deserti.

E l’immane tragedia giapponese può avere impresso alla dinamica una brusca accelerazione, soprattutto in conseguenza del ripensamento sul nucleare da parte dell'opinione pubblica internazionale.


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Se è vero che i deserti della Terra ricevono energia pari a centinaia di volte il fabbisogno mondiale, come sostiene il dott. Knies, ne consegue che gli interessi energetici in ballo nella partita contro Gheddafi potrebbero superare la questione petrolifera tutta intera, e di qualche ordine di grandezza.

Il che, sul piano della valutazione storica, comporta un rischio di tensioni e guai molto seri. Evidentemente, occorre lavorare alla pacificazione dell’area mediterranea, senza egoismi nazionali, miopi e suicidi.

L’attuale crisi militare nasce in ultima analisi dalla carenza di pane nel Maghreb. Sicché l’Occidente – dopo avere mobilitato armi, aerei e missili per ragioni umanitarie – dovrebbe mettere ora coerentemente in atto un Piano Marshall per l’alimentazione umanitaria, l’educazione umanitaria, la ricerca umanitaria, il lavoro umanitario: “Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgenti di vita per milioni di vite umane che lottano contro la fame!”.

Socialists call European Council results ‘A never-ending story of Conservative mismanagement” | PES

Socialists call European Council results ‘A never-ending story of Conservative mismanagement” | PES

Protests in Syria: Road to Damascus | The Economist

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Milano, i mille tentacoli della mafia - micromega-online - micromega

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Franco Astengo: I partiti sono la politica

I PARTITI SONO LA POLITICA
La confusione che ha regnato, nel corso di questa settimana, sotto il cielo del Parlamento italiano, in occasione delle votazioni sulla guerra libica (avete presente: mozioni della maggioranza e dell'opposizione approvate entrambe grazie al reciproco scambio di “non partecipazione” al voto; numeri ballerini; possibilità non rilevata da nessuno, dal punto di vista dei mezzi di informazione di massa, della crisi di governo evitata soltanto per provvidenziali “assenze”, ecc, ecc) ha dato la misura della difficoltà di rappresentanza reale che sono in grado di esercitare i cosiddetti “eletti dal popolo” (in realtà “nominati di regime”) ponendo ancora una volta l'accento sulla necessità di riflettere non soltanto (come è comunque necessario fare) sulla formula elettorale, ma anche (e soprattuto) sui partiti, sulla loro funzione, sulla loro struttura, sulla loro capacità di produrre una efficace presenza istituzionale, frutto di un adeguato dibattito politico ( beninteso: al centro, come in periferia).
Facile sviluppare subito due affermazioni in premessa:
a) i partiti restano strumento indispensabile e insuperabile per l'esercizio di una democrazia sufficientemente compiuta;
b) in questa fase, per quel che riguarda la situazione del nostro Paese, i partiti dispongono, insieme, del minimo della credibilità nel loro ruolo sociale ed insieme del massimo di potere di nomina e di potere di spesa (finanziamenti pubblici ingentissimi suddivisi tra una quantità assai elevata di soggetti e presenza di un ceto politico”largo”, tra funzionari e quant'altro, foraggiato da benefits fuori mercato).
Questa seconda affermazione non deve essere minimamente definita come frutto di una impostazione “qualunquista” ma riflesso di una analisi della situazione di fatto e quale esito di una collocazione complessiva del sistema che, dopo alterne vicende sulle quali cercheremo di ritornare, si può ben definire di “destra”.
La distinzione tra destra e sinistra, infatti, è rimasta netta, non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche della qualità dell'agire politico e va individuata con precisione, senza sconfinare nel politicismo di definirla base di un presunto bipolarismo sul quale rimane molto da discutere.
Dunque: perché il sistema politico italiano è collocato “a destra”?
Cerchiamo di non aver paura delle parole.
Diamo per acclarati tre indispensabili assunti:
1) è mutato radicalmente, nel corso degli ultimi decenni, il rapporto tra economia e politica (includendo in questo discorso anche il tema della “globalizzazione);
2) i sistemi politici nazionali hanno subito una crisi derivante da una diversa allocazione dei livelli decisionali, in alto (ad esempio l'Europa), in basso (ad esempio le Regioni, anche se questo punto non deve significare necessariamente l'artefatto discorso “federalista” che sta venendo avanti in Italia). Insomma, anche i sistemi politici hanno sofferto e soffrono quella che è stata definita lo “Stato Nazione”;
3) Cresce l'autorganizzazione dell'antagonismo sociale. Cresce per due motivi almeno, la complessificazione e la nuova stratificazione della società e l'impossibilità di reperire, appunto da parte delle espressioni dell'antagonismo sociale, uno sbocco di rappresentanza politica, Emerge così la tematica dei “nuovi beni” impossibile da inserire in un contesto di ipotesi politica di trasformazione complessiva della società (si tratta di un tema affrontato già da Ingrao, nel suo “Masse e potere”, siamo negli anni'80) ed assolutamente non risolto, salvo l'annegarsi dei partiti all'interno dei movimenti in forma, da un lato, codina e dall'altra opportunistica (si vede alla voce: potere di nomina e risorse economiche).
Allora, perché in un sistema politico italiano che per decenni abbiamo considerato all'avanguardia sul piano europeo proprio per la capacità di radicamento sociale dei suoi principali partiti politici ( un punto, però, sul quale a nostra giudizio andrebbe aperto un dibattito molto più spregiudicato: perché a sinistra questo radicamento sociale corrispose, soprattutto, ad una fortissima capacità di acculturazione sociale ma, contemporaneamente, ad un “blocco” del sistema che, ha rappresentato, appunto, il fattore che ha portato il sistema politico italiano alla “coda” di quelli europei) si sono verificati questo tipo di fenomeni.
Assegniamo alla sinistra le sue precise responsabilità, perché è stata la sinistra a scendere sul terreno dell'avversario (in un momento topico della storia, quando convergevano assieme tre fattori di grandissimo rilievo: la caduta del muro di Berlino, il trattato di Maastricht, “Tangentopoli”) barattando, quale merce di scambio, i propri livelli di rappresentatività e di radicamento sociale con l'acquisizione di una sorta di centralità esaustiva dell'idea del governo (ricordiamo: il PCI fu sciolto all'insegna dello slogan “sbloccare il sistema politico”, senza che i proponenti lo scioglimento indicassero alcun approdo sul piano teorico: né la liberaldemocrazia, né la socialdemocrazia, divisi fra qualcuno che pensava di continuare ad interpretare, in chiave tattica, il vecchio filone della “doppiezza” togliattiana sulla linea dei fronti popolari, ed altri che pensavano ad un mal digerito ed improponibile, come è stato alla prova dei fatti, “kennedismo”).
La risposta della destra è stata quella del populismo più bieco sul piano dell'agire politico, dell'allineamento al neo-liberismo selvaggio sul piano dell'economia e dell'esaltazione del consumismo individualistico attraverso l'uso strategico dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti frutto dell'innovazione tecnologica.
Una risposta alla quale, ancora, una parte della sinistra ha risposto allineandosi proprio sul terreno più pericoloso, quello dell'agire politico ( al partito-azienda, si è risposto con un numero congruo di partitini-personali, mentre l'estrema sinistra perdeva ogni qualsiasi capacità di attrazione e radicamento sociale ed il PD, formatosi semplicemente per rispondere alla crisi verticale che stava attanagliando i soggetti originari non riesce a darsi una plausibile dimensione politica).
Per concludere, da quale parte dirigersi (sperando, dopo lo spettacolo offerto in questi giorni dal Parlamento, che la sinistra non intende semplicemente recuperare qualche posto in parlamento attraverso l'uso propagandistico dello strumento partito-personale per ripromuovere un vecchio, e già battuto, “ceto politico”)?
La direzione ci pare una sola (trascurando, in questo caso, il livello europeo che pure sarebbe indispensabile da affrontare): non tanto e non solo quella di un sonniniano “ritorno alla Statuto” (ci riferiamo all'articolo 49 della nostra Costituzione, laddove fra l'altro sarebbe necessario riflettere sul “metodo democratico” inteso anche dal punto di vista della vita interna dei partiti stessi e non solo della loro capacità di confronto esterno) ma quella di un pieno recupero del concetto di “rappresentanza politica”.
Il tema teorico del concetto di “rappresentanza politica” appare, in questa fase assolutamente centrale, eppure nessuno sembra accorgersene e risulta impossibile porlo al centro dell'agenda del dibattito: ci abbiamo provato, ancora una volta, in questa occasione formulando, infine, un esempio.
L'esempio è questo: ci si lamenta della sparizione, più o meno, del movimento pacifista, ma quale collegamento potrebbe esistere tra un movimento pacifista ed un livello di rappresentanza istituzionale all'interno della quale l'unica possibilità per dichiararsi contro la guerra è stata quella di uscire dall'aula?
Perché ricordiamolo ancora una volta: entrambe le mozioni, quella della maggioranza e quella dell'opposizione sono state approvate perché entrambe prevedevano la guerra, l'uso delle armi, l'ennesimo ripudio dell'articolo 11 della Costituzione (secondo il quale, invece, ad essere ripudiata dovrebbe essere la guerra).
Savona, li 26 Marzo 2011 Franco Astengo

Che succede in Siria? Tramballi e Trombetta a l’interprete | l'interprete internazionale

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Roma, manifestazione per l'acqua libera e contro l'atomo - Lettera43

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Yemen e Siria, focolai in lista d’attesa | LeRagioni.it

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A Damasco la svolta di Obama - LASTAMPA.it

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Per chi suona la campana portoghese - LASTAMPA.it

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Le « modèle » allemand

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Due voci importanti della sinistra intervengono sulla guerra in Libia. | Circolo "Giustizia e Libertà" di Sassari

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sabato 26 marzo 2011

Antonio Caputo: Sulla responsabilità dei giudici

GIUDICI IRRESPONSABILI? E RIFORME EPOCALI

E' del tutto ovvio che anche i Giudici debbano essere responsabili, civilmente(oltreche penalmente), per i danni cagionati nell'esercizio delle funzioni.
Ne va di mezzo il principio di uguaglianza che sostanzia lo stato di diritto.
La legge Vassalli del 1988 ha fissato, a pena di inammissibilita', i presupposti della domanda risarcitoria per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell'esercizio delle funzioni, o diniego di giustizia, escludendo che possa dar luogo a responsabilita l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ovvero di valutazione del fatto e dalla prova.
Non puo' ammettersi diversa conseguenza, in considerazione del carattere fortemente valutativo dell'attivita' giudiziaria, che attua la garanzia costituzionale dell'indipendenza del giudice e, con essa, del giudizio, come rilevato costantemente dalla Corte Costituzionale.
Ne' puo' ritenersi che il giudice sia obbligato a decidere conformemente all'interpretazione effettuata precedentemente dallo stesso o da altro giudice in relazione ad un'altra controversia.
Se cosi' fosse, sarebbe ad esempio forse, ancora in vigore il cosiddetto delitto d'onore..
Secondo la legge Vassalli, che chiama in causa anche lo Stato (che', in caso di incapienza del giudice responsabile, il danneggiato non otterrebbe soddisfazione), la colpa gave ricorre sempre nei seguenti casi:
a) grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risultra incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
c) negazione determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) emissione di provvedimento concernente la liberta' della persona fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
Tutto e' perfettibile, ma il principio di indipendenza deve essere rispettato.
Ed e' assodato che qualunque intervento non richiede alcuna "riforma epocale" costituzionale, come declamato dall'ineffabile premier.
A meno che non si intenda, come a questo punto della storia appare evidente, compromettere il principio di indipendemnza della Magistratura, presidio dello stato di diritto, senza di che e' inutile parlare di Costituzione.
La Costituzione, in tal caso, come nello Statuto di Hamas sarebbe consisterebbe nella "volonta' di Allah": alias Furherprinzip sovraordinato alla LEGGE.
E' notizia di venerdi:
La Commissione Giustizia della camera, con il voto dei ineffabile parlamentare "radicale" (nel senso di Hamas?), relatore il leghista Pini, ha cancellato la responsabilita' per dolo o colpa grave.
Introducendo il principio rivoluzionario (nel senso che anche la reazione e' una rivoluzione) della " violazione manifesta del diritto".
Dunque apoditticamente : qualunque "violazione ", a prescindere da una qualunque tipizzazione rispettosa, come la legge Vassalli della Costituzione (qualunque costituzione necessariamnete fondata sulla separazione dei poteri).
Norma intimidatoria senz'altro, perche' indurra' il giudice a valutazioni compiacenti il potente di turno e conformistiche nel senso dell'appiattimento, del chi me lo fa fare.
Con buona pace per il "piccolo giudice" di Porte aperte.
E se i giudici si mettessero anche tacitamente d'accordo, nel senso che tutte le sentenze di primo grado venissero acriticamente confermate nei superiori gradi di giudizio. dove starebbe la manifesta violazione del diritto?
Giudicata a quel punto da chi?
Che tristezza!
Antonio Caputo

Nella crisi dell'euro una sfida per l'Europa / globi / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

Nella crisi dell'euro una sfida per l'Europa / globi / Sezioni / Home - Sbilanciamoci

LRB · Perry Anderson · Lula’s Brazil

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venerdì 25 marzo 2011

Una strana guerra | Etica ed Economia

Una strana guerra | Etica ed Economia

Paneacqua.eu: Comunicare a Sinistra

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Paneacqua.eu: Paolo Leon: "La tassa sulle transazione finanziarie, un provvedimento essenziale"

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The Wrong German Foreign Policy

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Rethinking Equality and Justice for a Good Society

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Policy Network - Shaping a New Internationalism

Policy Network - Opinion

nelMerito.com - IL DECLINO DELL'ITALIA

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Un mondo senza leadership - LASTAMPA.it

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[EM.MA] Un intervento che s’ha da fare | LeRagioni.it

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Tomaso Greco: Israele, Palestina, Siria “oltre” Gheddafi. E l’Europa stavolta che fa? | LeRagioni.it

Israele, Palestina, Siria “oltre” Gheddafi. E l’Europa stavolta che fa? | LeRagioni.it

Paolo Costa: Grande Globo » Blog Archive » Corsera, una storia italiana

Grande Globo » Blog Archive » Corsera, una storia italiana

Members of the Europeans for Financial Reform coalition joined demonstration | Europeans For Financial Reform

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Il Portogallo sotto assedio | EU Progress

Il Portogallo sotto assedio | EU Progress

Eddyburg.it - Libia e guerra umanitaria. Le tesi e il contesto

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Paneacqua.eu: Non la vogliono chiamare guerra

Paneacqua.eu: Non la vogliono chiamare guerra

Aldo Penna: Il 1848 arabo

Il 1848 arabo

La vicenda libica con il suo corollario di polemiche, abiure e condanne, svolgerà un importante esempio verso l'Africa mediterranea e il vicino oriente contaminato dalla dilagante richiesta di partecipazione, se non di democrazia, e di miglioramento delle condizioni economiche.
Intanto l'unica potenza globale di questa fase storica, gli Stati Uniti, hanno rinunciato al diritto del più forte rivendicato da Bush e imposto attraverso la decisione di invadere l'Iraq. Se si cercasse una similitudine con l'impero romano, Obama è l'imperatore filosofo Marco Aurelio, quanto il suo predecessore può essere paragonato agli imperatori della fase espansiva.

L'astensione di Cina e Russia e il sostegno della Lega Araba, pur con i distinguo seguiti all'imposizione della no fly zone, segnano un passo importantissimo. I despoti che reggono da decenni le sorti delle comunità arabe, succeduti alla secolare dominazione ottomana, e alle prese con inattesi moti di piazza, stanno riflettendo su quale strategia seguire. Un pensatore arabo ha paragonato le rivolte del 2011 al 48 europeo. Quelle rivoluzioni quasi dappertutto dopo una breve parentesi riportarono al potere le stesse case regnanti, ma il processo di costituzionalizzazione del potere sovrano ebbe un'accelerazione intensa e da lì derivarono i miglioramenti nel campo dei diritti politici ed economici che nei decenni seguenti cambiarono le condizioni di vita dei popoli europei.

Le elite che dominano come satrapie i loro possedimenti con abissali differenze di status tra le caste e la società civile, stanno cercando di disinnescare il contagio. L'esempio libico, con l'intervento delle democrazie occidentali, diventa un monito: chi volesse intraprendere la strada della repressione, rischia. L'applicazione del principio di responsabilità, un principio che a fatica si fa strada, significa che "la comunità internazionale è responsabile della sorte della popolazione, quando chi detiene il potere non possa o non voglia difendere i civili o sia, come in questo caso, il colpevole delle violazioni dei diritti umani".
La diplomazia italiana ha dato un fulgido esempio di viltà e indifferenza. Vile nella timida condanna delle sanguinose repressioni di Gheddafi, indifferente alla possibilità che la rivolta soccombesse in un bagno di sangue, anzi quasi rivendicando il diritto di voltarsi dall'altra parte. Con un presidente sorridente e servile con i dittatori non c'era da attendersi altro.


Aldo Penna

European Identity: Between Myth and Reality

European Identity: Between myth and reality



Secondo incontro del Gruppo Spinelli





Martedì 15 si è tenuto il Parlamento Europeo, a Bruxelles, il secondo incontro del Gruppo Spinelli e il tema del dibattito, a cui hanno partecipato Ulrich Beck e Amin Maalouf , è stata l’identità europea. Beck ha indivduato nel modo in cui è stato affrontato questo tema un abuso che ha causato rigetto nei cittadini europei. L’Europa è accusata di molte cose e una è che viene eccessivamente presa come oggetto di discussione per la sua identità, serve un modo nuovo di affrontare la questione. In un discorso del genere bisogna cercare di superare le frontiere per vedere come gli altri ci considerano, creare un confronto ma sempre sforzandoci di considerarci concittadini degli altri essere umani, sconfiggere la convinzione istintiva che ci rende prigionieri dell’idea del nostro stato perché dentro di noi supponiamo che l’umanità sia naturalmente divisa in stati. Ovviamente c’è contrapposizione fra gli stati. Ci sono dualismi che sono insiti nella nostra mente ma non possiamo capire l’Europa da un punto di vista nazionale. Beck ha quindi riportato alcuni risultati della ricerca che ha effettuato per “L’Europa cosmopolita”. Nel libro l’autore ha cercato di capire se si potesse toccare l’Europa nel quotidiano. Ha infatti studiato il numero di famiglie europee (miste) e altri elementi di aggregazione, dati molto difficili da studiare. Il risultato del lavoro è che non siamo capaci di dire questa è l’Europa, viviamo infatti in un periodo cosmopolizzato. Abbiamo bisogno di esempi per comprendere la situazione, parliamo di un rene. La situazione è che mentre parliamo di bioetica c’è gente che nel 2011 non si fa scrupoli a vendere un organo per denaro, questo per dire com è la situazione. Nancy Sheper-Hughes ha spiegato che gli esclusi, le prostitute, gli extracomunitari sono donatori naturali perché la realtà odierna offre questo. C’è un commerciodi organi che non è mai stato sconfitto, siamo in una società che è schiava di queste logiche e rendono le persone anonime, sole. Ci sono troppe discriminazioni, troppi poveri al mondo. Ci sono realtà dove la gente è ridotta a questo, basti pensare a quello che succede nelle favelas brasiliane, per esempio. Quello che ognuno di noi può fare per combattere tutto questo è pensare di essere un’unica entità con l’umanità, e quindi sconfiggere l’esclusione, il male del nostro tempo. Non possiamo ignorare il nostro vicino. Dobbiamo cambiare la nostra società per vivere in una in cui non venga ignorato il prossimo e per fare questo abbiamo davanti tre possibilità: il negazionismo o il rifiuto, l’apatia oppure puntare sul cambiamento. Il negare è la soluzione più seguita dai politici e questo ha dei rischi, basti pensare a Giappone e Africa del nord. Dobbiamo cercare la nostra mentalità, siamo infatti convinti di poter prevedere tutto, poter istituzionalizzare le crisi come nel 19esimo e nel 20esimo secolo ma siamo oggi davanti a una realtà completamente nuova. La situazione in queste due aree geografiche non era prevedibile. Come possiamo reagire come esseri umani e cittadini a una crisi del genere? Come inseriamo l’Europa in questo scenario? Le soluzioni immaginabili sono due: creare uno stato federale oppure un metodo di governo europeo ingovernativo ma entrambe le soluzioni sono inadeguate. I l problema della federazione europea è che può essere vista come un autocolonialismo e uno stato così non può essere voluto dai cittadini. Dobbiamo però renderci conto che l’Europa non è solamente accanto a noi ma è dentro di noi, è una parte imprescindibile delle politiche nazionali. I nazionalisti pensano che l’Unione sia un nemico ma l’UE ha una forza che nessuno le può contestare, può infatti scambiare politiche nazionali in azioni concrete. È importante trasmettere l’idea che l’Europa non deve essere concepita come un superstato ma come un progetto cosmopolita, può ergersi dalle rovine delle nazioni. Per tanto tempo il progresso di integrazione europea è andato avanti riuscendo a cancellare i contrasti, deve proseguire sulla strada della cosmopolitizzazione, è l’unica soluzione. Bisogna agire su diversi livelli per generare il senso di appartenenza all’Europa. Si tratta di cerchi concentrici che non si escludono a vicenda ma si completano e dobbiamo cercare di integrare questi livelli







Amin Maalouf ha detto di condividere le idee e i timori del Gruppo Spinelli. Ha dichirato che l’Unione Europea è uno dei più grandi progetti del nostro tempo. Ha paragonato quanto è successo in Europa e Medio Oriente, sua terra di origine e ha indicato in quello che hanno fatto gli Europei la via della saggezza. L’Europa è oggi un laboratorio, un laboratorio come non se ne è mai visti nella storia dell’umanità, è riuscita a gestire le sue differenze e a trasformare il suo passato coloniale imperialista in un grande esperimento di democrazia. Maalouf ha detto che in 35 anni ha visto progressi entusiasmanti ma purtroppo un affievolimento negli ultimi anni, soprattutto dopo la caduta del muro. L’Europa deve trovare oggi il coraggio di fare l’ultimo più grande sforzo della sua millenaria storia di civiltà e diventare finalmente una federazione. Una volta Europa era una parola magica, oggi si parla sempre di più invece di politica nazionale e non si vedono obiettivi ambiziosi all’orizzonte. Il motivo del disinganno che la circonda è che i governi danno sempre la colpa dell’Europa, l’impressione oggi è che l’Europa non sia più un traguardo ma una realtà fredda contro la quale il cittadino deve munirsi per difendere i propri diritti, soprattutto sociali davanti a un liberismo assassino. Un altro grave problema è che non siamo stati attenti alla costruzione di un’appartenenza all’Europa. L’uomo ha sempre determinato la sua identità in opposizione all’altro con discriminanti quali la religione o la lingua, oltre a questo atteggiamento c’è n’è però un altro per cui tutto ciò che l’uomo è lo rende unico al mondo. Invece di diventare esclusione questo atteggiamento favorisce l’inclusione. C’è però oggi in Europa la tendenza a considerare preponderante tutto ciò che ci dice che l’altro è diverso, come la lingua o il colore della pelle. L’identità europea è difficile da definire ma non possiamo non discuterne. Un’idea difficile da definire viene definita con l’opposizione dell’altro: Cina, Africa,…e ci porta a tratteggiarne i contorni. L’identità dell’Europa non è stata scritta ma non è una pagina bianca. È il risultato delle identità precedenti e tutti gli europei devono riconoscersi in questo patriottismo e le generazioni successive avranno il diritto di concorrere a definirla in prima persona. Gli immigrati in primis devono percepire un sentimento di accoglienza, così che possano sentire il desiderio di arricchire e di proteggere il nostro territiorio ma anche la possibilità di portare il loro contributo. Senza di questo l’idea d’Europa perderebbe il suo senso e ciò dipende dai valori comuni ai quali tutti dovrebbero aderire. Non bisogna però abbandonarsi al relativismo. Dobbiamo difendere tutti i diritti e la diversità delle espressioni culturali ma sui valori, a partire da quello di democrazia per cui si è sparso tanto sangue europeo, non si può transigere. Attraverso la costruzione europea abbiamo avviato un cantiere per fondare la nostra casa comune. Abbiamo iniziato ma l’errore è stato pensare che il sentimento di appartenenza sarebbe andato avanti da solo. È chiaro che il sentimento avrebbe dovuto diventare motore della nostra Europa, bisogna ora sviluppare un sentimento di appartenenza all’Europa che non deve sostituirne altri. Se fin dall’inizio avessimo messo l’Europa nel percorso federalista ci saremmo trovati ora nella situazione degli USA. Le tredici colonie avevano certo più somiglianze e uscivano da una guerra contro una potenza coloniale ma costruendo la base tutto si sarebbe sviluppato pian piano. In Europa invece abbiamo lasciato da parte lo stato federaledi Hamilton e quindi non abbiamo permesso lo sviluppo di un percorso logico. è giunto il momento di farlo. Dobbiamo far sì che l’Europa abbia un’identitàe avviare a questo fine un’iniziativa pedagogica forte.

La deputata Isabelle Durant, che ha svolto il ruolo di mediatrice nel dibattito si è detta stupita da quanto accaduto in Nordafrica e ha detto che con quello che è successo sono stati sconfessati coloro che pensavano che in Africa questi valori non fossero considerati importanti quanto in Europa. Ha invitato quindi i due relatori ad approfondire la questione.

Maalouf ha risposto che è difficile parlare di questa questione perché è vasta e negli ultimi due mesi anch’egli è rimasto sconvolto da quello che è successo in Libia, soprattutto dal fatto che l’occidente non è stato risoluto nel difendere la democrazia, Gheddafi ha infatti ripreso il controllo di gran parte paese con delle stragi. Ha detto di pensare che ci sia stato cinismo da parte delle potenze che subito hanno appoggiato il movimento e poi non si sono volute sbilanciare. La gente scende in strada e chiede i propri diritti in modo perfino superiore a quanto hanno fatto altri popoli ma la reazione occidentale è stata: “ma Gheddafi bloccava l’afflusso di clandestini, ora cosa accadrà?”. Quando si vuol fare la guerra o non la si vuol fare si alimentano pretesti e riguardo alla situazione libica è stato detto che ci sarebbe stata una crisi economica se fossero venute a mancare risorse energetiche garantite dai regimi.



Beck ha detto di non sapere se l’azione militare sia quella giusta. L’identità cosmopolita è qualcosa che ci porta ad essere preoccupati dalla situazione che sta vivendo la Libia ma come Europa non abbiamo preso posizione intellettuale o politica, ci troviamo davanti un nemico e non sappiamo reagire. È vero che in Africa c’era mancanza di democrazia ma la democrazia così com’è oggi è zoppicante. Non può essere identificata con il voto, Le giovani generazioni devono reinventarla per renderla adatta al nostro tempo. Dobbiamo cercare di dare un’ottica europea al nostro lavoro quotidiano, una tendenza che pian piano deve essere fatta propria da tutti. I cambiamenti che stanno subendo i paesi nordafricani non possono escludere una nuova realtà politica che includa noi e loro, dobbiamo cominciare a ripensare i rapporti fra Europa e Mediterraneo.



Daniel Cohn Bendit, concludendo il dibattito, ha ricordato che il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che creava una no fly-zone e aiuti umanitari ma nessun parlamento ha colto. I liberali tedeschi o i verdi, per esempio, che hanno votato a favore hanno poi trovato poi una condanna delle loro decisioni da parte dei parlamenti nazionali, c’è quindi, purtroppo, uno scarto fra livello nazionale e europeo.

giovedì 24 marzo 2011

Ernst Hillebrand: Redistribuzione dimenticata - Perché la distribuzione primaria del reddito è fondamentale per l'uguaglianza e la giustizia - Lega dei Socialisti Lombardia

Ernst Hillebrand: Redistribuzione dimenticata - Perché la distribuzione primaria del reddito è fondamentale per l'uguaglianza e la giustizia - Lega dei Socialisti Lombardia

'Guerra, l'Italia ha già perso' - l’Espresso

'Guerra, l'Italia ha già perso' - l’Espresso

Il Riformista: Questa guerra non è giusta, ma inevitabile

Il Riformista

In Libia si allontana il lieto fine | Linkiesta.it

In Libia si allontana il lieto fine | Linkiesta.it

Per una nuova politica economica in Europa

Per una nuova politica economica in Europa *





Il 24 e il 25 marzo si tiene a Bruxelles una riunione del Consiglio Europeo sul tema delle misure con cui affrontare la crisi attraversata dall’Unione Monetaria Europea (UME). Le scelte che sembrano profilarsi continuano ad essere ispirate a un approccio conservatore e “rigorista”. È necessaria pertanto una campagna che susciti consapevolezza e mobilitazione attorno alla necessità di una svolta nella nuova politica economica europea.



La crisi dell’euro, costi sociali e insufficienza delle misure proposte



La crisi economica mondiale, la cui principale ragione di fondo va rinvenuta nella caduta della capacità di consumo dei lavoratori dei paesi industrializzati nell’ultimo trentennio, ha avuto un impatto disomogeneo nell’Unione Monetaria Europea, esaltando la divaricazione tra due aree d’Europa, una “centrale” e forte, e l’altra “periferica” e debole.

A ben vedere, infatti, la crescita registrata negli scorsi anni in alcuni paesi della periferia si è rivelata effimera, dal momento che si è tradotta in un boom dell’edilizia residenziale più che in un vero rafforzamento industriale. Al tempo stesso, l’incremento del debito pubblico in Spagna e Irlanda ha origine nella necessità di coprire l’indebitamento del settore bancario verso le banche dei paesi forti, e non dunque in irresponsabili politiche di spesa pubblica. Il più forte aumento dei salari nominali (sebbene non di quelli reali) nella periferia, che è seguito alla pur fittizia crescita, ha accentuato la perdita di competitività di quei paesi. In questa vicenda non ci sono paesi buoni e cattivi, ma scelte di fondo sbagliate riconducibili alla filosofia neo-liberista. Questa ha ispirato sia il neo-mercatilismo dei paesi centrali, che attraverso la moderazione salariale ha condotto a bassi consumi interni ed esportazioni competitive, sia il maldestro tentativo dei paesi periferici di importare attraverso la moneta unica (che per definizione impedisce accomodamenti del conflitto sociale attraverso gli aggiustamenti del cambio) ulteriori dosi di disciplina, flessibilità e precarietà nel mercato del lavoro. In questo contesto, gli aiuti europei a favore dei paesi indebitati sono stati resi disponibili a tassi di interesse elevati che, sommandosi all’imposizione di misure di bilancio restrittive, non potranno che aggravarne la crisi, rendendo vani gli enormi prezzi sociali e occupazionali causati da quelle stesse misure. L’intervento della Banca Centrale Europea (BCE) a sostegno dei titoli pubblici di quei paesi – una interessante novità – è stato del tutto insufficiente.

Purtroppo le misure in corso di approvazione nel prossimo summit non modificano tale impostazione. Esse si limitano infatti a un marginale incremento del fondo salva-stati già esistente e a definire l’entità di quello che lo sostituirà nel 2013, con un piccolo ritocco all’ingiù dei tassi usurai praticati alla Grecia. Soprattutto, si deliberano piani di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL dei paesi ad alto debito, anche attraverso nuove privatizzazioni, ed un meccanismo di sanzioni per i paesi che non vi si attengono. Queste misure confermano il perdurante orientamento conservatore delle politiche europee, indifferente all’aumento della disoccupazione, ai tagli allo stato sociale e all’istruzione, alle prospettive di milioni di cittadini europei, in particolare a quelle delle giovani generazioni.

Contemporaneamente, la BCE sembra volersi sottrarre al proprio dovere di sostegno dei titoli pubblici dei paesi più indebitati, mentre al contempo sin avvia verso un improvvido aumento dei tassi di interesse che nulla può contro l’aumento dei costi dell’energia, alimentari e materie prime.

La filosofia che prevale è quella del rigore. Alla deflazione di salari e prezzi interni, la cosiddetta “svalutazione interna”, è assegnato il compito di far riguadagnare a tali paesi la competitività perduta Si tratta di una logica distruttiva, che nega prospettive al modello sociale europeo e che rischia di mettere in pericolo la tenuta stessa dell’Unione Monetaria, come chiarito nella “Lettera” sottoscritta da oltre 250 economisti italiani e stranieri nello scorso giugno.

Cosa proponiamo in alternativa?



Per una nuova politica economica europea



Per evitare la deflagrazione dell’UME non è possibile fare semplicemente affidamento su un sistema di garanzie all’emissione dei titoli dei paesi fortemente indebitati - i cosiddetti Eurobonds, o l’Agenzia Europea per il debito. Queste proposte, di per sé pure interessanti, sono da sole insufficienti, e diventano null’altro che fumo negli occhi, se accompagnate dall’accettazione di nefaste politiche di bilancio restrittive e da una politica monetaria del tutto indifferente allo sviluppo e all’occupazione e preoccupata solo di contenere l’inflazione. Le forze progressiste e il mondo del lavoro, in Europa e in Italia, devono essere consapevoli che occorre una svolta di politica economica per uscire dalla crisi della zona euro e porre le condizioni per uno sviluppo armonico e duraturo.

Sono quattro le misure da mettere in campo immediatamente per intraprendere un percorso che contemperi la stabilizzazione della crisi debitoria con una ripresa dello sviluppo e della crescita occupazionale anche nei paesi periferici:



à 1. occorrerebbe abbandonare le politiche di abbattimento del debito pubblico, chiedendo ai paesi indebitati di stabilizzare nel medio periodo i livelli attuali del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, come proposto per l’Italia dall’Appello degli economisti del 2006. Contemporaneamente, i Paesi con surplus commerciale dovrebbero abbandonare le politiche di moderazione salariale ed effettuare politiche fiscali espansive, tali da riportare in equilibrio la loro bilancia commerciale e contribuendo in questo modo al rilancio delle esportazioni dei paesi indebitati e alla stabilizzazione del debito;



à 2. la politica monetaria dovrebbe essere orientata a promuovere lo sviluppo, assicurando tassi di interesse sui debiti pubblici sostenibili (sostanzialmente tenere molto bassi i tassi di interesse a lungo termine), tali cioè da realizzare l’obiettivo 1 senza mortificare spesa sociale, occupazione e crescita;



à 3. la dinamica della domanda interna e la politica salariale dovrebbero essere orientate al perseguimento, in particolare nei paesi con avanzi con l’estero, di un tasso di inflazione non inferiore a quello di riferimento europeo – da accrescere al 3%. Al tempo stesso i salari reali dovranno crescere in ciascun paese non meno della produttività. Anche per favorire ciò dovranno essere introdotte forme di tutela quali il salario minimo garantito (come sta scritto in una recente risoluzione del parlamento europeo) e forme di libera contrattazione sindacale atte a garantire quel risultato. I paesi che continuassero a praticare politiche deflazionistiche e restrittive, al fine di realizzare obiettivi d’inflazione inferiori a quello europeo, cercando di guadagnare così competitività a spese dei partners, dovrebbero essere soggetti a misure di pressione volte a incoraggiare un mutamento di quelle politiche;



à 4. occorrerebbe contrastare la speculazione internazionale e i fenomeni di dumping sociale in particolare da parte dei paesi esterni all’Unione Monetaria, con forme di regolamentazione e imposizione fiscale sulle transazioni finanziarie speculative (come la Tobin tax) e sul commercio sleale e di armonizzazione fiscale.



Le proposte ora delineate non possono non richiedere un mutamento profondo delle istituzioni economiche europee, e in particolare:

à a) va ufficializzato il ruolo dell’Eurogruppo (il consiglio dei ministri economici) come sede di coordinamento della politica fiscale e monetaria con l’obiettivo prioritario della piena occupazione;

à b) lo statuto della BCE va modificato, contemperando l’obiettivo della stabilità dei prezzi a quello della massima occupazione (similmente a quanto avviene per la FED statunitense). Che scelte vitali per milioni di cittadini, quali quelle della politica monetaria, siano nelle mani di una istituzione tecnocratica non vincolata alle scelte popolari espresse dai Parlamenti nazionali ed europeo, dovrebbe risultare intollerabile per la sinistra e i sindacati europei. Quindi va valorizzato il ruolo di indirizzo delle politiche economiche.



Le vicende che hanno accompagnato la crisi mostrano che dietro la pressione degli eventi sono possibili rapidi passi in avanti, precedentemente quasi impensabili. La mobilitazione della sinistra europea deve spingere tale processo più in là anche accrescendo la coscienza di massa su questi temi.



In questo quadro sarebbe possibile rilanciare il modello sociale e cooperativo europeo sui tre pilastri di:

à ricerca del consenso dei lavoratori e delle loro organizzazioni nei riguardi delle politiche del lavoro e distributive volte ad assicurare una più equa distribuzione del reddito che, in un quadro non inflazionistico, sostenga attraverso più elevati salari reali la domanda interna nei vari paesi;

àpiù armonico equilibrio territoriale ed implementazione di un meccanismo di riequilibrio rispetto agli shock asimmetrici garantito da consistente finanziamento del bilancio dell’Unione;

à sostegno ai sistemi di welfare state come strumento di coesione sociale;

à sostenibilità ambientale con lo sviluppo di consumi sociali e nella conoscenza, e investimenti in tecnologie sostenibili.



Il rilancio delle competitività nazionali, in particolare nella periferia, non potrà mai avvenire in un quadro di caduta di occupazione, spese sociali, istruzione e innovazione. Al riguardo, ciascun paese deve riacquistare la sovranità completa nella politica industriale che includa un intervento attivo del settore pubblico, di programmazione e partecipazione diretta, nei settori industriale, energetico e bancario. I sistemi bancari nazionali vanno in particolare riformati nella direzione di farne strumento di supporto a uno sviluppo reale e sostenibile e non drogato da bolle speculative.

L’Europa a un bivio



Le proposte liberiste e rigoriste che verranno avanzate nel prossimo vertice aggraveranno il carattere dualistico dell’economia europea: un “centro” poderoso che persegue politiche neo-mercantiliste di vender molto agli altri e comprar poco da loro, e una “periferia” destinata al declino economico, sociale, ambientale e all’instabilità politica. Le misure sul tappeto a Bruxelles sono profondamente sbagliate e non potranno che accentuare la minaccia della deflagrazione monetaria, sociale e politica dell’Europa. È indispensabile una diversa politica economica volta alla crescita concertata ed equilibrata della occupazione e dei consumi sociali, nel rispetto dell’ambiente. Su questi temi il mondo progressista italiano ed europeo deve perciò farsi promotore di una campagna che accresca la consapevolezza e la mobilitazione popolare.



I firmatari del documento sono:

Network per il socialismo europeo

AltraMente scuola per tutti

Associazione per il rinnovamento della sinistra

Associazione culturale in Movimento

Centro studi Cercare ancora

Fondazione Buozzi

Fondazione Nenni

Lavoro e Libertà

Le nuove ragioni del socialismo

Marx XXI

Socialismo 2000

mercoledì 23 marzo 2011

Piero Ignazi La rivista il Mulino: L'afonia degli interventisti

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PES Network launches debate about a European-wide phase out of nuclear energy | PES

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How many zeroes are there in a trillion? On Economics, Neoliberalism and Economic Justice | openDemocracy

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New Statesman - Ethical dimensions of an interventionist foreign policy

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Con chi stare in Maghreb - micromega-online - micromega

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L’attrazione fatale della guerra giusta - micromega-online - micromega

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Libia, che fare | Italia2013

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Piero Bevilacqua: Eddyburg.it - Beni comuni e predazione privata

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Paneacqua.eu: Dalla parte di Bengasi

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Paneacqua.eu: Partiti e politica nella tunisia di oggi

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Paneacqua.eu: Pil, benessere, ben-essere

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Paneacqua.eu: Una riflessione sul caso Libia e le politiche future

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Paneacqua.eu: Il diritto e la forza (perché la Libia)

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Documento della Sinistra Socialista sulla guerra in Libia ed il nuovo quadro delle relazioni internazionali

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spazio lib-lab: Guerra nel Mediterraneo

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Guido Martinotti: BOSSI GHEDDAFI E BERLUSCONI. IL TEATRINO DEI PUPI | Arcipelago Milano

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IL SINDACO MORATTI LA MAFIA E LE TRE TAVOLETTE | Arcipelago Milano

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martedì 22 marzo 2011

Luigi Covatta: La peculiarità del socialismo italiano mondoperaio

mondoperaio

The workplace and socialdemocracy Policy Network - Opinion

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Cohn-Bendit: “Chi scende in piazza sta col dittatore. Vendola si ricordi della Spagna del ´36″ - micromega-online - micromega

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Tomaso Greco: L’intervento militare in Libia e i limiti della nostra politica estera | LeRagioni.it

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Europa-Italia. Un progetto alternativo per la crescita

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Internazionale » A new arab generation

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“Il male minore”, di Luigi Manconi « Giovanni Taurasi

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Angelo Del Boca: Libia: i ‘Tornado’ della pace | Blog di Giuseppe Casarrubea

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LO STANDARD RETRIBUTIVO

LO STANDARD RETRIBUTIVO

lunedì 21 marzo 2011

Statement of the SI Presidium in Athens19 March 2011

Statement of the SI Presidium in Athens19 March 2011



Socialist International Presidium meeting
Athens, Greece, 19 March 2011



The democratic struggles in the Arab World

The Presidium of the Socialist International is today gathered in Athens, in the foothills of the Acropolis, at a crucial moment for democrats and the Arab world, where citizens have been mobilising for democracy, rights and freedoms. From Greece, the cradle of democracy and the land that gave us this term, we stand alongside those who are driving these historic changes across northern Africa and the Middle East.

As a global movement which has democracy at its core, we are greatly encouraged by these developments. At this crucial moment, we have addressed alongside leaders from the region ways to deepen our support for them and the people from all walks of life who are uniting behind this common cause.

We express our unambiguous solidarity to those engaged in the struggle for democracy, not just at this moment in northern Africa and the Middle East, but also to those who defend democracy at every moment, in other parts of the world. Our International has a significant history of contributions to previous democratic struggles; in southern Europe in the 70s, South America and the Caribbean in the 80s, and again in Central and Eastern Europe and Asia in the 90s, social democratic, labour and socialist parties of the Socialist International were actively engaged in the process of democratisation. It is vital that we use these experiences, supporting today’s democrats and recognising this moment which holds a similar significance for the Arab world.

This Arab Spring started with the revolution in Tunisia and gained powerful momentum with the inspiring events that swept Egypt. Citizens of Tunisia and citizens of Egypt made their voice heard and were able to push forward a democratic wave for change. These postmodern revolutions have the common characteristic that they were initiated by young men and women who transcended factional and social divides using the only weapons they had access to, modern technologies and social media. They managed in a very spontaneous way to make their claims known to the world, underlining the despair created by societies paralysed by corruption, nepotism and unjust concentration of wealth.

The success of the transition to democracy in Egypt and Tunisia is vitally important for the entire region and in particular for those who have encountered violence and repression in response to their demands. In Libya we see that the voice of the people was not heard by the regime, and a very dangerous situation is unfolding. We condemn all attacks on innocent civilians and support the implementation of necessary measures that can save human lives and promote a democratic outcome of the crisis. Extremely concerned with the violence against civilians in Yemen we express our full solidarity with the Yemeni Socialist Party. A clear, timely and effective transition to full democracy in Egypt, a key country in the region, would be crucial to the advancement of democracy across the wider region. In Tunisia we are equally committed to accompanying this process, supporting all democratic actors there, among them the FDTL. In Morocco, we welcome positive developments, with an important constitutional reform under way backed by our member party the USFP. In this context we also reiterate our support for the absolute right of the Palestinian people to freedom, democracy and statehood.

The journey towards democracy in these countries is part of the continuation of an ongoing process of world democratisation, which has seen the number of countries under a democratic system rise steadily during the last twenty years. Our organisation is contributing to a democratic future in many countries around the world which have only recently made their own transitions and where the SI has parties in government. The challenge in many places is to develop democracy, to enshrine its principles in the institutions of the state and to ensure that it evolves and matures.

This process of making democratic governance successful has many characteristics, but among the most crucial are the principles of free and fair elections, the recognition of democratic election results, the accountability of those in power, equal opportunity to participate and the enjoyment and recognition of all fundamental freedoms and rights and a free media. But democracy is more than simply the holding of elections, it is the right to exercise a vote free of intimidation or fear, to participate in a transparent electoral process and to campaign and be heard as an opposition candidate. A democracy is defined by strong institutions, which act impartially, independently and to the benefit of all citizens.

The Presidium of the Socialist International, meeting in Athens on 19 March 2011, underlines the importance of the democratic cause to the identity of social democracy, and on this basis, our organisation stands ready to work with all democratic forces emerging today across the Arab world, which equally share our commitment to good governance, social justice, sustainability and peace.


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Libia, una missione, molti dubbi | Libertà e Giustizia

Libia, una missione, molti dubbi | Libertà e Giustizia

Luciano Pellicani: Manifesto | fondazione nenni il blog

Manifesto | fondazione nenni il blog

Sinistra e libertà: No alla guerra e no a Gheddafi

"No alla

guerra e no a Gheddaffi. La posizione di SEL Il Coordinamento Nazionale di
Sinistra Ecologia Libertà, riunitosi oggi a Roma con la relazione di Nichi
Vendola e la discussione successiva, ha approvato il seguente documento
sulla vicenda libica:

La guerra contro la Libia è la

risposta più sbagliata e pericolosa alla domanda di democrazia che si è
affermata in tutto il Mediterraneo nel corso degli ultimi mesi.

Chiediamo un immediato cessate il fuoco per consentire l'avvio di un
negoziato tra le parti che abbia come interesse superiore quello della
protezione delle popolazioni civili, con l'obiettivo di mantenere l'

integrità e l'autonomia di quel Paese sotto un nuovo governo democratico.
Chiediamo che si apra subito un corridoio umanitario per consentire ai
profughi di salvarsi dalla guerra e l'immediata predisposizione degli
strumenti più adeguati per garantire ad essi un'

accoglienza su tutto il territorio europeo A meno di ventiquattro ore
dall'avvio dei bombardamenti da parte della Coalizione dei volenterosi
appare evidente che lo scenario più probabile è quello di una vera e propria
escalation militare, che potrebbe portare ad esiti che vanno ben oltre la
stessa risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell'

Onu, ivi compresa l'invasione militare terrestre delle forze della
coalizione. Il presidente Sarkozy ha ribadito, fin dall'avvio dei
bombardamenti francesi, che l'obiettivo da perseguire è quello di "andare
fino in fondo", prefigurando uno scenario di guerra che è ben distante dalle
iniziali dichiarazioni di protezione delle parti che avevano partecipato
alla ribellione contro il regime totalitario del colonnello Gheddafi. Per
questo, fin da subito, come Sinistra Ecologia Libertà, avevamo espresso la
netta contrarietà per la parte della risoluzione 1973 che consentiva l'uso
dell'offensiva militare ad una coalizione di cui, oggi, l'Italia fa
pienamente parte. Questa risoluzione è tardiva, a fronte di una situazione
sul campo libico che necessitava un celere intervento politico e diplomatico
a favore degli insorti quando questi ultimi avevano il pieno controllo di
una parte importante del Paese e prima che Gheddafi potesse riorganizzare le
sue forze e procedere alla riconquista delle zone liberate dal suo regime.

Le settimane che sono trascorse hanno evidenziato la debolezza dell'

intervento politico della comunità internazionale, che non è riuscita
neppure ad imporre le sanzioni economiche e commerciali che avrebbero
davvero indebolito il regime di Gheddafi, dal congelamento dei conti e delle
partecipazioni azionarie legate al rais fino all'indispensabile e totale
embargo del commercio delle armi.

Siamo convinti che il

principio della non interferenza negli affari dei singoli stati sia un
delitto contro un principio più grande ed importante, quello del rispetto
dei diritti umani. Siamo altresi' convinti che ogni qual volta la parola
"umanitario" si sia accostata alla guerra si siano prodotte violazioni e
violenze ancora più gravi. La realpolitik seleziona i diritti umani a
seconda degli obiettivi strategici. Accade così che in Yemen si spari sulla
folla che protesta, provocando decine di vittime, che in Bahrein ci sia
l'intervento repressivo dell'Arabia Saudita, per non parlare di quanto
accade da anni in Somalia o, più recentemente, in Costa d'Avorio, senza che
vi sia una reazione degna da parte della comunità internazionale a garanzia
del principio, evidentemente per essa NON universale, della tutela dei
diritti umani.

Consideriamo il

colonnello Gheddafi uno dei peggiori dittatori del pianeta. Senza
esitazioni, mentre gran parte dei paesi occidentali lo riveriva, ne abbiamo
denunciato le nefandezze. Mentre il presidente del Consiglio Berlusconi si
affannava nel baciamano al tiranno, grato per i suoi servigi economici ed
ancor di più per la ferocia con la quale la Libia controllava il flusso dei
migranti dall'Africa, noi eravamo dalla parte di chi chiedeva la revoca del
trattato con la Libia e l'immediata messa in opera di misure che
proteggessero le vite dei migranti detenuti nel deserto libico.

Siamo stati fin dall'inizio e senza esitazioni dalla parte delle popolazioni
che, sollevandosi, hanno rovesciato i regimi autocratici della Tunisia e
dell'Egitto, cosi' come abbiamo sostenuto e sosterremo le mobilitazioni per
la libertà e la democrazia in Marocco, Algeria, Yemen, Bahrein e Albania. Lo
abbiamo fatto con convinzione, sicuri che il complice silenzio di Paesi oggi
in prima fila nella guerra, come la Francia e l'Italia, fosse motivato da
opportunismo balbettante oltre che dalla reale incomprensione di ciò che in
quei Paesi stesse accadendo, a partire dalla scomparsa dell'orizzonte
fondamentalista nella narrazione di quelle società. È evidente, infatti, che
gli unici soggetti che avessero rapporti con quelle realtà fossero le forze
della società civile internazionale, nelle quali pienamente ci riconosciamo,
e non certo le diplomazie a lungo complici dei regimi.

Per noi il no alla guerra e l'inimicizia e l'avversione nei confronti di
Gheddafi hanno ugual rilievo. Dobbiamo uscire dal vicolo cieco tra inerzia e
guerra per generalizzare il tema dei diritti umani e della democrazia.

Per questo chiediamo che il nostro Paese non partecipi, in ottemperanza
all'articolo 11 della Costituzione e anche in ragione del passato
colonialista dell'Italia, alla guerra promossa dalla cosiddetta Coalizione
dei volenterosi e che, al contrario, l'

Italia si faccia promotrice di una iniziativa politica per determinare il
cessate il fuoco e l'apertura del tavolo negoziale, oltre a richiedere
l'applicazione delle parti della risoluzione 1973 che consentirebbero di
promuovere un' intervento positivo per il cambio del regime e la protezione
dei civili. Per ottenere questo risultato è fondamentale il coinvolgimento
dell'Unione Africana e della stessa Lega Araba, che stanno prendendo
pesantemente le distanze dall'intervento militare. Gli stessi Paesi che si
sono astenuti sulla risoluzione 1973, a partire dalla Cina passando per la
Germania, il Brasile e la Russia, stanno indicando nell'intervento militare
una forzatura della stessa risoluzione. Insistiamo nel credere che sia il
tempo del cessate il fuoco per consentire a forze di interposizione sotto
chiaro mandato dell'Onu, di Paesi che non abbiano partecipato all'attacco di
queste ore e che non abbiano interessi economici diretti nell'area, di
garantire la transizione alla democrazia e la protezione dei civili.

Siamo molto preoccupati per ciò che l'intervento militare può voler dire per
le stesse domande di democrazia espresse in quell'area, pregiudicando la
direzione progressista delle rivoluzioni arabe: dal silenzio dei governi
occidentali alla guerra come unico strumento di relazione internazionale,
siamo di fronte al peggior volto dell'

occidente.

Riteniamo che ci debba essere un ruolo completamente diverso dell'Europa.
L'iniziativa francese e l'inerzia tedesca rappresentano l'

evidente assenza di una politica comune. Le pericolose dichiarazioni di
irresponsabilità dei governi europei, in cui l'Italia tristemente primeggia,
nei confronti dei profughi ne evidenzia la regressione culturale e civile.
Essere una superpotenza affacciata su un mare in ebollizione comporta
tutt'altre responsabilità. Si adotti, quindi, una vera politica
euro-mediterranea, che impedisca alla guerra di essere la "continuazione
dell'inesistenza della politica". Si affronti l'

emergenza profughi sospendendo il Frontex e determinando una nuova politica
di accoglienza ed integrazione di uomini e donne i cui diritti umani non
possono essere difesi con le bombe nei Paesi di provenienza, per poi essere
calpestati appena mettano piede sul suolo europeo. Non si dimentichi mai che
la più grande violazione dei diritti umani Gheddafi l'ha messa in opera
proprio sui migranti, su mandato delle potenze europee, e che di queste
violazioni in primo luogo dovrà rispondere al Tribunale penale
internazionale. Una politica euromediterranea che sappia tutelare davvero i
diritti e la sicurezza delle popolazioni, a partire dal riconoscimento dei
diritti e della sicurezza reciproca di Israele e Palestina.

Siamo convinti che questo

sia il momento di coinvolgere l'opinione pubblica in una generale
mobilitazione per i diritti umani, la democrazia e la pace. Proprio per
questo chiediamo di non militarizzare innanzitutto i pensieri, di non
abbandonare mai lo spirito critico e la cognizione delle conseguenze che gli
atti di queste ore possono determinare. La costruzione della pace è l'unica
alternativa e non possiamo scoraggiarci dicendo che il suo raggiungimento
sia pieno di ostacoli. Costruire la pace significa dire la verità,
emanciparsi da ogni logica di campo, essere contro i dittatori senza
esitazioni e stare sempre dalla parte delle popolazioni che subiscono le
violenze delle guerre.

Sinistra Ecologia

Libertà domenica 20 marzo 2011 ore 19,43

domenica 20 marzo 2011

Barbara Castle - the best among them | Left Foot Forward

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Manfredi Mangano: Libia, Italia, Europa

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Stefano Petrucciani - L'individuo proprietario fa una pessima figura

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Eddyburg.it - La guerra di Libia

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VOLENDO PSI!: DEAD MAN WALKING

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Franco Astengo: Guerra, politica, disordine

GUERRA, POLITICA, DISORDINE
La guerra è tornata, come sempre storicamente è stato, ad occupare le prime pagine, il massimo dell'attenzione dell'opinione pubblica internazionale, scalzando, almeno in queste ore, la tragedia giapponese: una gerarchia di valori probabilmente del tutto arbitraria ma apparentemente ormai stabilita.
Eppure è la tragedia giapponese quella che richiama maggiormente le coscienze alla riflessione per l'intreccio tra il “fato” e l'incauta “opera dell'uomo”, tale da richiamare davvero un'Apocalisse.
Purtuttavia è necessario occuparci della guerra che appare, ancora una volta e verrebbe da dire come sempre, il punto terminale dell'esplosione delle contraddizioni più forti: economia, religione,nazionalismo,odio razziale, volontà imperiali alla fine si intrecciano, nelle forme più diverse, e danno origine, quali fattori scatenanti, alle grandi tragedie della storia, nell'impossibilità di verificare equilibri, di alimentare tensioni ideali, di promuovere una diversa cultura.
La guerra, molto spesso adottata negli ultimi decenni che avrebbero dovuto essere di apparente “pace”, mostra per intero il vero volto di questa presunta e tanto acclamata “post-modernità”: il disordine.
Viviamo un'era “disordinata” priva di punti di riferimento, nell'abbandono delle ideologie, nella caduta dei valori di riferimento, nell'assenza di elementi unificanti che pure avevano contribuito a far sì che si potesse avanzare nella storia.
Non esaminiamo in questa sede, per evidenti ragioni di economia del testo, i tanti passaggi che, almeno dal '900 in avanti, abbiamo vissuto: le epoche degli imperialismi, dei totalitarismi, della divisione del mondo in blocchi, delle contrapposte ideologie; tutte scaturigini di tragedie immani, al riguardo delle quali però esisteva una possibilità di proclamazione di “senso”.
Tutto ciò oggi sembra abbandonato e la politica, ai grandi livelli internazionali come ai più modesti campi del ristretto ambiente locale, sembra non poter più governare nulla: una politica corrosa dai personalismi, percorsa da ambizioni smodate, priva di soggetti di riferimento capaci di tenere assieme idealità, progetti, programmi.
La guerra quale metafora del caos in cui la politica ci ha gettato; la guerra come “ratio”, quasi taglio del nodo gordiano della confusione, della fine dell'esistenza delle grandi ragioni del “dover essere” (pensiamo, sull'altare della crisi libica, una crisi settoriale, che pare si voglia affrontare come fu affrontata, all'epoca di Napoleone III, la costruzione dell'impero coloniale francese).
La guerra come scenario, all'interno della vicenda italiana, dell'impazzimento di un sistema politico dove i processi del Capo del Governo risultano essere il “perno” del sistema, dove le forze politiche al minimo della credibilità “storica” nominano “praticamente” le persone incaricate della rappresentanza politica (che mai più, naturalmente, si sognano di esercitare, in un quadro istituzionale, a livello centrale e periferico, del tutto desolante), dove l'opposizione appare frastagliata ed incapace di promuovere nuove idee se non quelle di muoversi nel solco tracciato dall'avversario, sia sul piano della progettualità corrente, sia sul piano della concezione dell'agire politico.
Guerra e tragedia giapponese, un intreccio che non ferma, in una piccola città di Provincia come Savona (antico laboratorio politico: dell'egemonia del PCI, della “questione morale” pre-Tangentopoli, del cedimento ai “poteri forti” capaci di scambiare, all'interno di un francobollo beninteso, il processo di chiusura dell'industria con piccoli assaggi di speculazione edilizia) un meccanismo di personalizzazione della politica formato “mignon” (ed anche un po' ridicolo) con la Città invasa da manifestoni di candidati ad elezioni comunali, sull'esito delle quali non pende nessuna incertezza, ad un mese circa dalla presentazione delle liste; manifestoni fuori luogo, senza ragione se non quella di soddisfare l'ambizione di personaggi che puntano ad entrare nella Giunta o nel Consiglio o a fare il Sindaco ( quello uscente, preso dalla paura di non si sa che, ha invaso gli spazi pubblicitari della Città credo generando anche un poco di fastidio nei normali cittadini) di un Comune di meno di 60.000 abitanti al riguardo del quale nessuno di questi signori ha, finora (pur avendolo amministrato) mosso una virgola in funzione di delineare un futuro.
Abbiamo sviluppato soltanto un esempio del disordine che impera, e che non rende la situazione eccellente: la situazione è pessima tra Tripoli, Fukhuiama, Savona; pessima perché è il disordine che sembra guidare le azioni degli uomini, sia di fronte alle tragedie epocali, sia rispetto al semplice esercizio di una democrazia comunale.
Un intreccio che forse potrà essere giudicato forzato, ma guardando al fondo, riflettendo per davvero riteniamo se ne possano comprendere le ragioni.
Savona, li 19 Marzo 2011 Franco Astengo

Diego Dilettoso: Dopo Fukuyama, Fukushima

Caro Giovanni,
Ti spedisco un articolo in francese apparso ieri su Libération, nella speranza possa interessare i compagni della mailing list. Una ventina d’anni fa, Francis Fukuyama sosteneva che la vittoria del mercato sul comunismo sanciva la fine della storia. Peccato che una delle conseguenze di questo mercato trionfante sia che aziende quotate in borsa si trovino a gestire le centrali nucleari, con i risultati che ben conosciamo... Stiamo marciando a grandi passi “dalla fine della storia” alla “fine dell’umanità”! Eppure, pare ci sia ancora gente in Italia pronta a sostenere che il nucleare d’ultima generazione è sicuro e che non bisogna fare gli sciacalli riaprendo il dibattito in questo momento.
Ma se non è questo il momento di dibattere, ora che il governo cerca di reintrodurre surrettiziamente il nucleare, fregandosene degli esiti del referendum di 25 anni fa e del disastro di Fukushima, quando si dovrebbe parlarne? Il Giappone, uno dei paesi più avanzati del mondo, si è appena auto-distrutto con l’atomo, eppure c’è ancora chi vorrebbe far spendere al governo miliardi di euro per re-introdurre una forma d’energia superata, in un paese che non è certo conosciuto per le norme di sicurezza e per l’efficienza, oltretutto sapendo quanto sia elevato il rischio sismico. Eppoi, il nucleare della quarta generazione non esiste ancora e casomai ci sarà tra 30 anni, se mai esisterà.
Resta un ultimo problemino: dove le mettiamo le scorie radiottive? A casa di Chicco Testa oppure ad Arcore?
Un caro saluto,
Diego
*
* *
Fin de l’histoire et fin du monde
Par DANIÈLE SALLENAVE

«Fukushima», la centrale nucléaire japonaise, est aujourd’hui, dans le monde entier, synonyme de menace invisible et de mort annoncée. Mais un autre nom semble lui faire écho. Celui de Francis Fukuyama qui, en 1989, dans un article retentissant, avait prédit que le triomphe de l’économie de marché sur le communisme mettrait un terme définitif à l’«histoire» de l’humanité. Petite parenthèse : c’est la catastrophe nucléaire de Tchernobyl, en 1986, qui avait porté les derniers coups à l’Union soviétique… Ce qui semblait avoir échappé à Fukuyama.

L’article de Fukuyama était moins un constat qu’une prophétie, une révélation. En grec : une apocalypse. L’apocalypse du bonheur, tout à fait dans la tradition religieuse. Fin des guerres, développement de la technique, âge d’or de la démocratie, du marché et de la consommation. L’accident nucléaire de Fukushima a fait de nouveau retentir les trompettes de l’apocalypse jusque dans les propos du commissaire européen à l’Energie. Décidément le vocabulaire religieux a la vie dure ! Cette fois, ce n’est plus la «fin de l’histoire», qui est annoncée, mais bel et bien la «fin du monde» naturel, historique et humain… Mais pas de chance pour Fukuyama. Ce qui avait ruiné le système soviétique menace de ruiner à son tour celui qui en a triomphé. Ce qu’annonce Fukushima, en effet, ce n’est pas la victoire, mais la condamnation d’un capitalisme de l’hyperconsommation et de l’hypertechnicité.

Espérons qu’il restera des hommes pour profiter de la leçon.

Dernier ouvrage paru: «la Vie éclaircie» (Gallimard, 2010)

Franco Bartolomei: Il consenso interessato della sinistra all'intervento in Libia

La circostanza che nel voto al Consiglio di Sicurezza si siano astenute tutte le potenze economiche del BRIC (Russia Cina Brasile India) , paesi strutturalmente e geogaficamente non interessati al controllo commerciale e strategico del petrolio Libico, a differenza di quelli che hanno votato a favore dell'intervento, e la Germania, che ha ormai consolidato il suo baricentro di interessi costituito dall'ancoraggio strategico all'espansione nell'Est Europeo ed in Asia, e governa senza problemi gli equilibri finanziari e monetari dell'area Euro dall'alto della solidita' dei suoi equilibri di Bilancio e della forza e competitivita' della sua struttura produttiva, lascia quasi intendere che la decisione dell'Onu sia sata volutamente riservata alla risoluzione degli interessi strategici atlantici nel nord -africa , in attuazione di una sorta di nuova ripartizione globale degli interessi e di influenze nelle diverse aree del mondo.



L' ulteriore circostanza che ,in contemporanea, i paesi occidentali favorevoli all'intervento in Libia stiamno consentendo , al contrario,all''esercito Saudita di salvare l'emiro del Bahreim reprimendo i ribelli , costituisce la conferma che la ridefinizione degli assetti politici nel Magreb dovra' assolutamente avvenire senza incrinare in alcun modo ill tradizionale concordato di interessi strategici tra le monarchie del Golfo e le potenze occidentali strategicamente collegate agli Stati Uniti.

La Vicenda Libica, dopo il voto ONU, si va incamminando quindi verso un intervento militare occidentale , che inevitabilmente nei giorni a seguire avra' lo scopo di distruggere la leaderschip del " colonnello", dissolvendo d'un colpo quasi quaranta anni di autonome relazioni bilaterali, costruite dal nostro paese in pieno esercizio della propria autonoma sovranita' nazionale e con notevole reciproco interesse.



Da questa vicenda traiamo ancora una volta la convinzione che è sulla politica internazionale che si misura l'autonomia reale di una forza della sinistra dai poteri forti e dalle relazioni geopolitiche su cui questi organizzano i propri interessi.



Il significato reale di questo concetto lo abbiamo compreso a suo tempo per Craxi, ed ineluttabilmente avremo modo di comprenderlo senza infingimenti, nei prossimi giorni, anche per gli attuali protagonisti dei nuovi processi politici della sinistra Italiana.



Appare comunque evidente ,fin da ora, come l'imbarazzata dichiarazione di Vendola di condivisione sostanziale del merito del voto ONU : “Bisogna impedire il massacro dei civili in Libia, ma bisogna anche evitare che si replichino copioni tragici” e poi: “Dobbiamo impedire che Gheddafi completi la sua macelleria civile, ma anche vigilare con cautela perchè l’opzione militare non si trasformi in qualcosa di imprevedibile”, dimostra chiaramente il suo

riallineamento , sul terreno dei rapporti internazionali, allla posizione filo-atlantica del PD adottata da tempo da D'Alema e Prodi.



Questa viene peraltro assunta nonostante in questo caso si sia materializzata una divisione all'interno della stessa Unione Europa tra Francia ,GB,e Germania, che avrebbe potuto favorire una ben diversa articolazione di posizioni della Sinistra Italiana, rispetto ad uno scacchiere in cui la nostra autonomia nazionale è sempre stata espressa attraverso una posizione di dialogo e collaborazione con il governo libico guidato da Gheddafi.


Esiste in realta' una ragione sostanziale di questa ulteriore svolta nelle scelte di politica estera della sinistra " ufficiale", la quale evitando volutamente di contestare apertamente il rapporto tra l'azione della Francia e della GranBretagna ed i loro interessi Geopolitici in relazione al controllo delle fonti di approvvigionamento petrolifero , o di contestare la scelta Americana di azzerare il nostro protagonismo nel Magreb, sceglie di legare direttamente , forse piu' di altre volte , le proprie scelte sulla politica internazionale alla fattibilita' di una linea di politica interna finalizzata a scalzare Berlusconi, che per come si e' venuta determinando non puo' prescindere da una ulteriore manifestazione di affidabilita' verso il sistema di relazioni internazionali,strategiche, politiche e finanziarie nel quale è inserito il paese .




Questa vicenda libica aiuta a capire meglio perche' i poteri forti internazionali hanno scaricato di brutto Berlusconi, al quale rimane ormai in mano una sola carta buona per tentare di salvare il suo governo : la notevole affidabilita' per la Germania e la Bce della politica di bilancio di Tremonti, che mette al riparo la posizione italiana nel sistema euro.


Tutto l'attacco mediatico, e non solo, aveva ed ha come nocciolo centrale l'asse di politica internazionale- economica con Libia e Russia.

L'offensiva e' riuscita in pieno ed il Berlusca pieno di paura per il suo isolamento interno ed internazionale ha mollato di brutto Gheddafi, e si è a sua volta riallineato al progetto in atto di risistemazione degli assetti politici nord -africani, impostato dalla nuova politica Americana, propedeutico ad una ulteriore fase di integrazione economica di quei mercati, che non prevede piu' per il futuro una autonomia di manovra dell'italia su quello scacchiere.



Il progetto del governo di CLN, come ho detto piu' volte, non fonda le sue radici su una offensiva vincente della sinistra sul tereno sociale politico e culturale,frutto di una capacita' autonoma di identita', rappresentativita' e proposta, ma e' un progetto di alleanze tutto politico che trae linfa essenzialmente da questa pressione dei poteri forti, finanziari -editoriali- monetari- decisionali- industiali , interni ed internazionali, su Berlusconi.



Il sistema di alleanze che regge questa ipotesi del CLN, che allo stato rimane l'unica proposta sul tavolo per attaccare il Berlusca,implica necessariamente uno stretto allineamento a tutti i centri di potere occidentali che stanno ricollocando il loro consenso in posizione avversa a Berlusconi, e sostengono l'attacco finalizzato a costruire un nuovo equilibrio politico.



Questa è la spiegazione vera del consenso dei gruppi dirigenti della sinistra , Vendola compreso, al di la' della utile rappresentazione, artificiosa e propagandistica ,di una sorta di insopportabile mostruosita del regime libico, alla posizione espressa all' ONU da USA,Francia e Gran Bretagna, e non " una comprensibile difficolta' ad elaborare una posizione di sinistra omogenea ad una visione alternativa di governo di governo", come dicono i fini intellettuali ex PCI che,dando somma prova di falsa coscenza, amano chiamare le cose non con il loro nome.



FRANCO BARTOLOMEI, segreteria nazionale del Partito Socialista Italiano