I PARTITI SONO LA POLITICA
La confusione che ha regnato, nel corso di questa settimana, sotto il cielo del Parlamento italiano, in occasione delle votazioni sulla guerra libica (avete presente: mozioni della maggioranza e dell'opposizione approvate entrambe grazie al reciproco scambio di “non partecipazione” al voto; numeri ballerini; possibilità non rilevata da nessuno, dal punto di vista dei mezzi di informazione di massa, della crisi di governo evitata soltanto per provvidenziali “assenze”, ecc, ecc) ha dato la misura della difficoltà di rappresentanza reale che sono in grado di esercitare i cosiddetti “eletti dal popolo” (in realtà “nominati di regime”) ponendo ancora una volta l'accento sulla necessità di riflettere non soltanto (come è comunque necessario fare) sulla formula elettorale, ma anche (e soprattuto) sui partiti, sulla loro funzione, sulla loro struttura, sulla loro capacità di produrre una efficace presenza istituzionale, frutto di un adeguato dibattito politico ( beninteso: al centro, come in periferia).
Facile sviluppare subito due affermazioni in premessa:
a) i partiti restano strumento indispensabile e insuperabile per l'esercizio di una democrazia sufficientemente compiuta;
b) in questa fase, per quel che riguarda la situazione del nostro Paese, i partiti dispongono, insieme, del minimo della credibilità nel loro ruolo sociale ed insieme del massimo di potere di nomina e di potere di spesa (finanziamenti pubblici ingentissimi suddivisi tra una quantità assai elevata di soggetti e presenza di un ceto politico”largo”, tra funzionari e quant'altro, foraggiato da benefits fuori mercato).
Questa seconda affermazione non deve essere minimamente definita come frutto di una impostazione “qualunquista” ma riflesso di una analisi della situazione di fatto e quale esito di una collocazione complessiva del sistema che, dopo alterne vicende sulle quali cercheremo di ritornare, si può ben definire di “destra”.
La distinzione tra destra e sinistra, infatti, è rimasta netta, non solo dal punto di vista dei contenuti, ma anche della qualità dell'agire politico e va individuata con precisione, senza sconfinare nel politicismo di definirla base di un presunto bipolarismo sul quale rimane molto da discutere.
Dunque: perché il sistema politico italiano è collocato “a destra”?
Cerchiamo di non aver paura delle parole.
Diamo per acclarati tre indispensabili assunti:
1) è mutato radicalmente, nel corso degli ultimi decenni, il rapporto tra economia e politica (includendo in questo discorso anche il tema della “globalizzazione);
2) i sistemi politici nazionali hanno subito una crisi derivante da una diversa allocazione dei livelli decisionali, in alto (ad esempio l'Europa), in basso (ad esempio le Regioni, anche se questo punto non deve significare necessariamente l'artefatto discorso “federalista” che sta venendo avanti in Italia). Insomma, anche i sistemi politici hanno sofferto e soffrono quella che è stata definita lo “Stato Nazione”;
3) Cresce l'autorganizzazione dell'antagonismo sociale. Cresce per due motivi almeno, la complessificazione e la nuova stratificazione della società e l'impossibilità di reperire, appunto da parte delle espressioni dell'antagonismo sociale, uno sbocco di rappresentanza politica, Emerge così la tematica dei “nuovi beni” impossibile da inserire in un contesto di ipotesi politica di trasformazione complessiva della società (si tratta di un tema affrontato già da Ingrao, nel suo “Masse e potere”, siamo negli anni'80) ed assolutamente non risolto, salvo l'annegarsi dei partiti all'interno dei movimenti in forma, da un lato, codina e dall'altra opportunistica (si vede alla voce: potere di nomina e risorse economiche).
Allora, perché in un sistema politico italiano che per decenni abbiamo considerato all'avanguardia sul piano europeo proprio per la capacità di radicamento sociale dei suoi principali partiti politici ( un punto, però, sul quale a nostra giudizio andrebbe aperto un dibattito molto più spregiudicato: perché a sinistra questo radicamento sociale corrispose, soprattutto, ad una fortissima capacità di acculturazione sociale ma, contemporaneamente, ad un “blocco” del sistema che, ha rappresentato, appunto, il fattore che ha portato il sistema politico italiano alla “coda” di quelli europei) si sono verificati questo tipo di fenomeni.
Assegniamo alla sinistra le sue precise responsabilità, perché è stata la sinistra a scendere sul terreno dell'avversario (in un momento topico della storia, quando convergevano assieme tre fattori di grandissimo rilievo: la caduta del muro di Berlino, il trattato di Maastricht, “Tangentopoli”) barattando, quale merce di scambio, i propri livelli di rappresentatività e di radicamento sociale con l'acquisizione di una sorta di centralità esaustiva dell'idea del governo (ricordiamo: il PCI fu sciolto all'insegna dello slogan “sbloccare il sistema politico”, senza che i proponenti lo scioglimento indicassero alcun approdo sul piano teorico: né la liberaldemocrazia, né la socialdemocrazia, divisi fra qualcuno che pensava di continuare ad interpretare, in chiave tattica, il vecchio filone della “doppiezza” togliattiana sulla linea dei fronti popolari, ed altri che pensavano ad un mal digerito ed improponibile, come è stato alla prova dei fatti, “kennedismo”).
La risposta della destra è stata quella del populismo più bieco sul piano dell'agire politico, dell'allineamento al neo-liberismo selvaggio sul piano dell'economia e dell'esaltazione del consumismo individualistico attraverso l'uso strategico dei mezzi di comunicazione di massa e degli strumenti frutto dell'innovazione tecnologica.
Una risposta alla quale, ancora, una parte della sinistra ha risposto allineandosi proprio sul terreno più pericoloso, quello dell'agire politico ( al partito-azienda, si è risposto con un numero congruo di partitini-personali, mentre l'estrema sinistra perdeva ogni qualsiasi capacità di attrazione e radicamento sociale ed il PD, formatosi semplicemente per rispondere alla crisi verticale che stava attanagliando i soggetti originari non riesce a darsi una plausibile dimensione politica).
Per concludere, da quale parte dirigersi (sperando, dopo lo spettacolo offerto in questi giorni dal Parlamento, che la sinistra non intende semplicemente recuperare qualche posto in parlamento attraverso l'uso propagandistico dello strumento partito-personale per ripromuovere un vecchio, e già battuto, “ceto politico”)?
La direzione ci pare una sola (trascurando, in questo caso, il livello europeo che pure sarebbe indispensabile da affrontare): non tanto e non solo quella di un sonniniano “ritorno alla Statuto” (ci riferiamo all'articolo 49 della nostra Costituzione, laddove fra l'altro sarebbe necessario riflettere sul “metodo democratico” inteso anche dal punto di vista della vita interna dei partiti stessi e non solo della loro capacità di confronto esterno) ma quella di un pieno recupero del concetto di “rappresentanza politica”.
Il tema teorico del concetto di “rappresentanza politica” appare, in questa fase assolutamente centrale, eppure nessuno sembra accorgersene e risulta impossibile porlo al centro dell'agenda del dibattito: ci abbiamo provato, ancora una volta, in questa occasione formulando, infine, un esempio.
L'esempio è questo: ci si lamenta della sparizione, più o meno, del movimento pacifista, ma quale collegamento potrebbe esistere tra un movimento pacifista ed un livello di rappresentanza istituzionale all'interno della quale l'unica possibilità per dichiararsi contro la guerra è stata quella di uscire dall'aula?
Perché ricordiamolo ancora una volta: entrambe le mozioni, quella della maggioranza e quella dell'opposizione sono state approvate perché entrambe prevedevano la guerra, l'uso delle armi, l'ennesimo ripudio dell'articolo 11 della Costituzione (secondo il quale, invece, ad essere ripudiata dovrebbe essere la guerra).
Savona, li 26 Marzo 2011 Franco Astengo
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