Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 31 gennaio 2010
sabato 30 gennaio 2010
venerdì 29 gennaio 2010
giovedì 28 gennaio 2010
mercoledì 27 gennaio 2010
martedì 26 gennaio 2010
lunedì 25 gennaio 2010
domenica 24 gennaio 2010
sabato 23 gennaio 2010
venerdì 22 gennaio 2010
giovedì 21 gennaio 2010
AldoGiannuli.it » Archivio Blog » Se proprio vogliamo discutere di cosa fu il craxismo…(4) Errori politici, intuizioni senza seguito, scelte discutibili.
mercoledì 20 gennaio 2010
martedì 19 gennaio 2010
lunedì 18 gennaio 2010
UN REVISIONISMO CON LO SPADONE DI "BRENNO": "VAE VICTIS". Un’intervista a Giovanni De Luna: «Craxi al posto di De Gasperi, Salò al posto della Liberazione. Così legittimano Berlusconi» - di Bianca Di Giovanni.
domenica 17 gennaio 2010
Lucia Annunziata: La cattiva coscienza degli usa
16/1/2010, LaStampa - La cattiva coscienza degli Usa, LUCIA ANNUNZIATA
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6860&ID_sezione=&sezione=
Un sogno luminoso sembra sorgere dalle macerie di Haiti, il sisma è
una drammatica forma di eterogenesi dei fini. Per dimensioni, per
miseria, per contrasto, l’orrore in cui sono morti gli ultimi della
terra, sembra far scorgere di nuovo all’Occidente un segno morale
nelle sue azioni. Guardare nell’abisso e chiedersi se non sia
possibile reinventare la storia. Guardare al biforcarsi della strada
tra quello che gli uomini possono fare o vogliono fare, tra decisione
e passività, tra immaginazione e realtà. In fondo ai due sentieri c’è
non solo il futuro di milioni di persone, ma il rispetto per sé stesse
delle nostre buone democrazie occidentali.
Di questo parla l’incredibile sforzo umanitario messo in atto dalle
nostre nazioni. Stati Uniti innanzitutto - che in queste ore sembrano
aver guardato negli occhi il loro ruolo di padri-vessatori-padroni dei
Caraibi, assumendosene le responsabilità. Il soccorso ad Haiti di
Washington ha assunto dimensioni materiali e intellettuali che non si
ricordano a memoria recente. Un ingente stanziamento di soldi e di
uomini, benedetto da una promessa che ricalca le parole che Obama di
solito riserva al suo Paese: «Voglio parlare direttamente alla gente
di Haiti. Non sarete abbandonati, non sarete dimenticati. Nell’ora del
vostro più intenso bisogno, l’America è con voi». Un intento firmato
da una straordinaria unità politica della leadership americana:
accanto a Obama, Hillary Clinton, Biden, ma anche Clinton e Bush.
Impossibile non leggere in questa coreografia, intensità di sforzi e
unità di intenti, il disegno che gli Stati Uniti evocano: riprendere
in mano la storia - quella fra Haiti e gli Usa - e riscriverla, per il
bene di milioni di persone, ma, in definitiva, soprattutto per il bene
e l’onore della stessa America.
I torti che Washington ha da farsi perdonare non sono infatti solo
quelli delle origini: che la rivoluzione americana sia stata
schiavista è ormai un fatto passato. Più dolenti sono invece le colpe
maturate dalle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni -
democratici e repubblicani, Clinton e Bush, uguali. Non a caso i due
ex Presidenti sono stati chiamati ad aiutare e non a caso entrambi si
sono immediatamente - e umilmente - resi disponibili.
Ci sono ragioni specifiche per cui Haiti non è governabile da due
decenni, cioè dalla fine dei 30 anni di dittatura dei Duvalier. Stato
senza Stato, frontiere attraversabili con poche centinaia di dollari
di corruzione, mano d’opera disperata, hanno fatto di questa isola il
maggiore aeroporto illegale per lo smercio del traffico di droga
dall’America Latina verso Usa e Europa. Secondo le stime ufficiali del
governo americano, il 20 per cento di tutta la droga che arriva in Usa
viene spedita attraverso Haiti. È ormai l’unica industria del Paese,
dopo la fine del turismo a causa della criminalità. Nel 2003 Haiti è
stata poi messa sotto osservazione americana per un secondo tipo di
traffico non meno pericoloso: secondo Washington l’isola è la base per
entrate clandestine in Usa di potenziali terroristi o immigrati da
Paesi a rischio, come Pakistan e Palestina.
Dei due ex Presidenti, forse Bush è quello che porta sulle spalle la
responsabilità minore - se minore è il peccato dell’oblio. Che Bush
abbia scelto infatti di non focalizzare la sua attenzione politica su
questo disastro, mentre gli Usa erano impegnati in Iraq e Medioriente,
è stato quasi naturale. Ma è grazie a questa disattenzione che il
ciclone del 1998 fu quasi ignorato in America. L’ultima volta che si è
sentito parlare di Haiti, nell’epoca di George Bush è stato attraverso
un appello dell’Onu nell’aprile del 2003, in cui si chiedeva alla
comunità internazionale una donazione di 84 milioni di dollari per
combattere la crisi umanitaria del Paese.
E’ Bill Clinton, che invece tentò una politica vera, ad avere la
responsabilità del maggiore fallimento. Due giorni fa, nelle prime ore
del disastro, è stato proprio un suo collaboratore, David Rothkopf che
guidava l’agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti, a
fare pubblicamente autocritica. Nel 1991 venne eletto nelle prime
elezioni democratiche del Paese il sacerdote Jean-Bernard Aristide,
considerato dai democratici americani come un Mandela dei Caraibi. Ma
Aristide provocò il definitivo collasso politico del nuovo Stato.
Venne quasi immediatamente deposto, riportato al potere nel 1994 con
l’appoggio militare e politico di Clinton; venne di nuovo deposto e di
nuovo nel 2001 rimesso in sella. Questo indiscusso appoggio, dice ora
David Rothkopf, fu il vero errore: «Alla fine venne fuori che Aristide
non era il santo che le commosse star di Hollywood e i giornalisti
americani liberal sostenevano». Eppure, continua, «sapevamo, ce lo
aveva detto l’intelligence, chi era Aristide, ma abbiamo guardato
dall’altra parte». Non fu un errore dovuto a malafede, ma, al
contrario, a un’illusione: «Vedemmo Aristide come la possibile
affermazione di una politica fondata sulla speranza». Ma il risultato
è lo stesso. Per questo Clinton è rimasto impegnato con Haiti. Per
questo oggi viene richiamato ad avere un ruolo.
Il fardello di decenni è ora tutto raccolto da Barack Obama, nero lui
stesso - e il colore della pelle non è un dettaglio. Se Obama ridesse
speranza ad Haiti, salverebbe gli errori del passato, e bilancerebbe
forse nel suo cuore, e in quello di molti dei suoi votanti, le
decisioni di guerra fatte dagli Usa, e oggi da lui stesso, su altri
fronti.
Da Haiti insomma qualcosa può ripartire. La storia forse si può
riscrivere. Di questo parlano queste ore. E se Cuba, l’Arcinemica, ha
deciso di acconsentire ad aprire agli Yankee i suoi spazi aerei, per
facilitare le operazioni di soccorso, forse a questo nuovo inizio gli
Usa non sono i soli a pensare
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6860&ID_sezione=&sezione=
Un sogno luminoso sembra sorgere dalle macerie di Haiti, il sisma è
una drammatica forma di eterogenesi dei fini. Per dimensioni, per
miseria, per contrasto, l’orrore in cui sono morti gli ultimi della
terra, sembra far scorgere di nuovo all’Occidente un segno morale
nelle sue azioni. Guardare nell’abisso e chiedersi se non sia
possibile reinventare la storia. Guardare al biforcarsi della strada
tra quello che gli uomini possono fare o vogliono fare, tra decisione
e passività, tra immaginazione e realtà. In fondo ai due sentieri c’è
non solo il futuro di milioni di persone, ma il rispetto per sé stesse
delle nostre buone democrazie occidentali.
Di questo parla l’incredibile sforzo umanitario messo in atto dalle
nostre nazioni. Stati Uniti innanzitutto - che in queste ore sembrano
aver guardato negli occhi il loro ruolo di padri-vessatori-padroni dei
Caraibi, assumendosene le responsabilità. Il soccorso ad Haiti di
Washington ha assunto dimensioni materiali e intellettuali che non si
ricordano a memoria recente. Un ingente stanziamento di soldi e di
uomini, benedetto da una promessa che ricalca le parole che Obama di
solito riserva al suo Paese: «Voglio parlare direttamente alla gente
di Haiti. Non sarete abbandonati, non sarete dimenticati. Nell’ora del
vostro più intenso bisogno, l’America è con voi». Un intento firmato
da una straordinaria unità politica della leadership americana:
accanto a Obama, Hillary Clinton, Biden, ma anche Clinton e Bush.
Impossibile non leggere in questa coreografia, intensità di sforzi e
unità di intenti, il disegno che gli Stati Uniti evocano: riprendere
in mano la storia - quella fra Haiti e gli Usa - e riscriverla, per il
bene di milioni di persone, ma, in definitiva, soprattutto per il bene
e l’onore della stessa America.
I torti che Washington ha da farsi perdonare non sono infatti solo
quelli delle origini: che la rivoluzione americana sia stata
schiavista è ormai un fatto passato. Più dolenti sono invece le colpe
maturate dalle amministrazioni Usa negli ultimi venti anni -
democratici e repubblicani, Clinton e Bush, uguali. Non a caso i due
ex Presidenti sono stati chiamati ad aiutare e non a caso entrambi si
sono immediatamente - e umilmente - resi disponibili.
Ci sono ragioni specifiche per cui Haiti non è governabile da due
decenni, cioè dalla fine dei 30 anni di dittatura dei Duvalier. Stato
senza Stato, frontiere attraversabili con poche centinaia di dollari
di corruzione, mano d’opera disperata, hanno fatto di questa isola il
maggiore aeroporto illegale per lo smercio del traffico di droga
dall’America Latina verso Usa e Europa. Secondo le stime ufficiali del
governo americano, il 20 per cento di tutta la droga che arriva in Usa
viene spedita attraverso Haiti. È ormai l’unica industria del Paese,
dopo la fine del turismo a causa della criminalità. Nel 2003 Haiti è
stata poi messa sotto osservazione americana per un secondo tipo di
traffico non meno pericoloso: secondo Washington l’isola è la base per
entrate clandestine in Usa di potenziali terroristi o immigrati da
Paesi a rischio, come Pakistan e Palestina.
Dei due ex Presidenti, forse Bush è quello che porta sulle spalle la
responsabilità minore - se minore è il peccato dell’oblio. Che Bush
abbia scelto infatti di non focalizzare la sua attenzione politica su
questo disastro, mentre gli Usa erano impegnati in Iraq e Medioriente,
è stato quasi naturale. Ma è grazie a questa disattenzione che il
ciclone del 1998 fu quasi ignorato in America. L’ultima volta che si è
sentito parlare di Haiti, nell’epoca di George Bush è stato attraverso
un appello dell’Onu nell’aprile del 2003, in cui si chiedeva alla
comunità internazionale una donazione di 84 milioni di dollari per
combattere la crisi umanitaria del Paese.
E’ Bill Clinton, che invece tentò una politica vera, ad avere la
responsabilità del maggiore fallimento. Due giorni fa, nelle prime ore
del disastro, è stato proprio un suo collaboratore, David Rothkopf che
guidava l’agenzia clintoniana per la ripresa economica di Haiti, a
fare pubblicamente autocritica. Nel 1991 venne eletto nelle prime
elezioni democratiche del Paese il sacerdote Jean-Bernard Aristide,
considerato dai democratici americani come un Mandela dei Caraibi. Ma
Aristide provocò il definitivo collasso politico del nuovo Stato.
Venne quasi immediatamente deposto, riportato al potere nel 1994 con
l’appoggio militare e politico di Clinton; venne di nuovo deposto e di
nuovo nel 2001 rimesso in sella. Questo indiscusso appoggio, dice ora
David Rothkopf, fu il vero errore: «Alla fine venne fuori che Aristide
non era il santo che le commosse star di Hollywood e i giornalisti
americani liberal sostenevano». Eppure, continua, «sapevamo, ce lo
aveva detto l’intelligence, chi era Aristide, ma abbiamo guardato
dall’altra parte». Non fu un errore dovuto a malafede, ma, al
contrario, a un’illusione: «Vedemmo Aristide come la possibile
affermazione di una politica fondata sulla speranza». Ma il risultato
è lo stesso. Per questo Clinton è rimasto impegnato con Haiti. Per
questo oggi viene richiamato ad avere un ruolo.
Il fardello di decenni è ora tutto raccolto da Barack Obama, nero lui
stesso - e il colore della pelle non è un dettaglio. Se Obama ridesse
speranza ad Haiti, salverebbe gli errori del passato, e bilancerebbe
forse nel suo cuore, e in quello di molti dei suoi votanti, le
decisioni di guerra fatte dagli Usa, e oggi da lui stesso, su altri
fronti.
Da Haiti insomma qualcosa può ripartire. La storia forse si può
riscrivere. Di questo parlano queste ore. E se Cuba, l’Arcinemica, ha
deciso di acconsentire ad aprire agli Yankee i suoi spazi aerei, per
facilitare le operazioni di soccorso, forse a questo nuovo inizio gli
Usa non sono i soli a pensare
sabato 16 gennaio 2010
Peppe Giudice: Socialismo, craxismo, modernità
Socialismo, craxismo e modernità
La teoria critica della società (quella della “scuola di Francoforte) è quella che storicamente, ha per prima sviluppato una critica organica della modernità.
I principali esponenti di tale impostazione, Theodor Adorno e Jurgen Habermas, però divergono nelle loro conclusioni. Per Adorno la modernità è un progetto fallito, per Habermas resta invece un progetto incompiuto. Il pessimismo di Adorno ha aperto la strada da un lato al post-moderno e dall’altro al sostanziale nichilismo di un pezzo dell’estrema sinistra antimoderna ed inconsapevolmente nostalgica del mondo precapitalistico e preindustriale, l’atteggiamento positivo di Habermas apre la strada ad una idea di modernità aperta e riflessiva che confluisce nel patrimonio culturale del socialismo democratico.
Habermas in particolar modo critica la riduzione della razionalità operata dal capitalismo a ragione tecnico-strumentale ed all’occultamento del suo altro aspetto essenziale: quello discorsivo.
In sintesi viene qui criticata la riduzione della modernità all’utilitarismo borghese (su queste premesse filosofiche del resto si fonda la teoria economica borghese dell’utilità marginale) ed ad ideologia apologetica del capitalismo.
L’altro aspetto della modernità, quello della ragione critico-discorsiva, esprime al contrario un progetto di emancipazione umana che sfocia nel concetto moderno di democrazia.
Ruffolo diceva che capitalismo e democrazia sono i due figli , conflittuali fra loro, della modernità e che la storia dell’epoca moderna e contemporanea è soprattutto storia di compromessi realizzati e falliti tra di essi.
Il socialismo che porta a pieno compimento l’idea democratica estendendo essa dal terreno politico-normativo a quello economico e sociale, è quindi uno dei due coni in cui la modernità si è sviluppata.
Una premessa doverosa per affrontare un tema (rapporto tra socialismo e modernizzazione) talvolta sfiorato in modo superficiale e ricca di luoghi comuni quando si legge la storia degli anni 80.
Secondo questa “vulgata” ripetuta dal programma di Minoli (peraltro serio ed equilibrato) che ripercorreva la vicenda politica ed umana di Bettino Craxi, il PSI craxiano si pose alla guida del processo di modernizzazione del paese nel cuore degli anni 80.
In genere quando si parla di modernizzazione “craxiana” ci si riferisce a due fenomeni: quello della “Grande Riforma delle istituzioni” e l’attenzione ai nuovi ceti ed alle nuove professionalità che emergevano in quegli anni.
Sulla Grande riforma c’è poco da dire: fu un espediente propagandistico (come lo fu la “questione morale” per il PCI). Nessuna proposta organica di riforma dello stato e delle istituzioni fu prodotta dal PSI in quegli anni.
Ma si pone un problema: può un partito socialista separare astrattamente il discorso della riforma istituzionale da quello delle riforme sociali? Il progetto socialista del 1978 (Congresso di Torino) legava organicamente il tema della riforma delle istituzioni politiche ad un progetto di trasformazione in senso socialista e democratico della società. La propaganda degli anni 80 no. La riforma delle istituzioni diveniva uno slogan che restava appeso a se stesso.
Per quanto riguarda i nuovi ceti emergenti. Alla I Conferenza programmatica di Rimini del 1982 con lo slogan “meriti e bisogni” si tentava una operazione di costruzione di un blocco sociale che avrebbe dovuto tenere insieme la base tradizionale della sinistra – classe operaia , un mondo del lavoro che stava comunque mutando, con le nuove professioni ed i ceti che appunto emergevano dallo sviluppo che caratterizzò l’Italia nella parte centrale degli anni 80. Insomma c’era la preoccupazione di far sì che l’intera sinistra fosse in grado di allargare la sua base sociale.
Il problema qual’era però? Quei ceti emergenti erano anche “rampanti” espressione di egoismo ed individualismo aggressivo e ben poco disposti ad allearsi con il mondo del lavoro che esprimeva, sia pur nelle sue mutazioni, interessi e valori diametralmente opposti e non componibili.
Questi ceti rampanti erano per lo più legati al boom del Made in Italy, gente impegnata nel settore del design nell’alta moda. Espressione quindi di un consumismo “alto” che , a lungo andare finisce sempre per essere il segno distintivo dei “cafoni arricchiti” (quelli che indossano anche le mutande firmate).
Ora una cosa è sostenere il “Made in Italy” quale settore che garantisce crescita della produzione, esportazioni ed occupazione (qualunque governo serio lo farebbe), ben altra cosa è identificare un partito (il PSI) come il “partito del Made in Italy”, ponendosi alla testa (magari inconsapevolmente) di questo rampantismo sociale che certo era in aperta rottura con l’etica socialista.
Ecco come una lettura superficiale dei processi di modernizzazione che non tiene conto del loro carattere contraddittorio può generare una subcultura politica che ha rappresentato uno stimolo ad una deriva negativa del PSI.
Negli anni 80 si stavano iniziando a verificare dei forti processi di trasformazione dell’economia che comunque mettevano in discussione la tenuta della base tradizionale della sinistra degli anni 70 ed 80. Di fronte a tali mutamenti una parte della sinistra reagì con la difesa di un mondo che in parte non c’era più (è la posizione del Berlinguer degli anni 80) , un’altra parte (De Michelis e Martelli) con il cavalcare acriticamente processi di modernizzazione che in sé recavano comunque istanze fortemente contraddittorie.
Ma un altro settore della sinistra (quella in cui mi sono sempre identificato) con Lombardi, Ruffolo, Carniti, Trentin si pose il tema vero che sfuggiva al demonizzatori ed agli apolegeti (entrambi acritici) della modernità: come governare da sinistra ed in senso socialista il grande mutamento tecnologico in atto in quegli anni. Purtroppo questa posizione restò minoritaria.
Tornando al PSI di quegli anni: si ebbe una sovrapposizione rispetto alla base politica e sociale del partito (che comunque è rimasta fino alla fine) di un ceto rampante (Ruffolo li definisce i “craxini”) “spesso arrogante e scostumato, povero di meriti e ricchi di bisogni” (la definizione è sempre di Ruffolo), che nel corso del tempo attirò nei confronti del partito l’antipatia di un pezzo largo di opinione pubblica (e favorì l’azione liquidatoria da parte dei poteri forti e di pezzo della magistratura).
Altra cosa era l’idea socialista riformatrice degli anni 60, fortemente presente nel progetto socialista del 1978. Una idea di modernità aperta ed inclusiva (alla Habermas) in cui lo sviluppo economico è al servizio di un progetto di civilizzazione e di sviluppo della democrazia, con una forte contestazione della degenerazione consumista (l’alienazione del consumo avulso dai bisogni e dalla utilità effettiva di un bene).
Comunque nel 1988 cessò la fase virtuosa dello sviluppo (la stagnazione dell’economia americana ebbe effetti sulle esportazioni europee) e quel castello di sabbia fondato sull’ottimismo di maniera vacillò.
Lo stesso Craxi se ne rende conto e nella sua relazione alla II Conferenza programmatica di Rimini ne porta i segni (compreso una forte preoccupazione che il crollo del comunismo favorisse il ritorno di un capitalismo selvaggio. Ne riporto alcuni passi:
“la crisi verticale del comunismo mondiale e il crollo a catena dei suoi regimi dell'Est europeo accresce enormemente la responsabilità delle democrazie dell'Occidente di fronte alle necessità ed alle incognite del futuro. Per questo futuro non può bastare il modello di un capitalismo che, pur con le sue contraddizioni appare vincente sul terreno dello sviluppo, ma che non sarebbe in grado di dare soluzioni adeguate alle problematiche sociali. Un futuro rispetto al quale gli stessi istituti di democrazia non sempre paiono sufficientemente attrezzati per assicurare la crescita equilibrata delle Nazioni e la giustizia sociale. Il mondo intero, del resto, è attraversato in modo sempre più marcato dalla grande diseguaglianza che divide i Paesi ricchi dai Paesi in via di sviluppo e ancor più dai Paesi poveri e poverissimi. E' questa forse la principale "questione sociale" del nostro tempo. E' una diseguaglianza che sta inesorabilmente aumentando un giorno dopo l'altro. Il mondo delle società industriali opulente ed avanzate è pieno di retorica e prodigo di buone parole, ma avaro di fatti e di opere concrete. Tutto ciò che si fa oggi per ridurre i grandi squilibri che esistono nel mondo è largamente al di sotto di ciò che si dovrebbe e si potrebbe fare. I dati nudi, crudi, ed incontrovertibili nelle loro proiezioni dicono che, di questo passo, i Paesi poveri sono destinati a diventare solo più poveri ed i Paesi ricchi sempre più ricchi. Se questa tendenza non verrà rovesciata, se non si moltiplicheranno gli sforzi diretti a riequilibrare la situazione, a ridurre il peso soffocante del debito del Terzo Mondo, a favorire un nuovo sviluppo, si prepareranno anni difficili carichi di aspre contraddizioni, di tensioni e di conflitti di ogni genere.”…… “Il progresso scientifico e tecnologico ha portato straordinari benefici alla nostra vita e alla nostra salute, ma ha creato e crea rischi per noi e per le generazioni future. Abbiamo opportunità di produzioni, di consumi e di svago che mai avevamo raggiunto ma queste maggiori possibilità e questa vita più ricca, lorda la terra, l'acqua, l'aria, logora il territorio, degrada il nostro patrimonio culturale.”… “un mercato abbandonato a soli attori economici genera squilibri, poteri prevaricanti ed abusi che impediscono un progresso armonico, danneggiano la collettività e, nel tempo lungo, le stesse attività economiche. Lo Stato deve intervenire sul mercato ma con precise regole: regole che impongano standard professionali e patrimoniali a chi svolge determinate attività, regole limitative delle concentrazioni e a tutela della concorrenza, che assicurino trasparenza ed informazione, che sanzionino diritti e responsabilità, che diano argini alle attività finanziarie e neutralizzino le loro potenzialità speculative e destabilizzanti. Il sistema misto che caratterizza l'economia italiana ha dato risultati positivi e non può essere travolto nel nome di indefinite privatizzazioni agitate talvolta con una demagogia ideologica che nasconde il peggio piuttosto che proposte entro i limiti di una pratica e giustificata concretezza ed utilità. L'impresa pubblica ha ancora molte funzioni da svolgere: c'è ancora il Mezzogiorno, che ha bisogno di infrastrutture, insediamenti produttivi e servizi. Ci sono produzioni e tecnologie verso le quali le partecipazioni statali possono canalizzare le loro risorse finanziarie. C'è il contributo che esse possono dare alla concorrenza e all'efficienza stessa dei mercati. In campo finanziario, l'esplosione delle attività e il moltiplicarsi degli intermediari hanno fatto saltare molte regole del passato, hanno messo a dura prova le capacità degli organi di vigilanza ed hanno occupato un vasto territorio al di fuori di ogni disciplina di trasparenza e di responsabilità”
E’ insomma un Craxi diverso che si rende conto che il futuro è colmo di incertezze, che l’ottimismo di maniera sulla modernizzazione non è più do moda. Ed è un Craxi più affine alla tradizione del socialismo italiano. Se queste sue riflessioni, all’alba di tangentopoli, si fossero trasformate in iniziativa politica vera …..ma la storia non si fa con i “se”.
PEPPE GIUDICE
La teoria critica della società (quella della “scuola di Francoforte) è quella che storicamente, ha per prima sviluppato una critica organica della modernità.
I principali esponenti di tale impostazione, Theodor Adorno e Jurgen Habermas, però divergono nelle loro conclusioni. Per Adorno la modernità è un progetto fallito, per Habermas resta invece un progetto incompiuto. Il pessimismo di Adorno ha aperto la strada da un lato al post-moderno e dall’altro al sostanziale nichilismo di un pezzo dell’estrema sinistra antimoderna ed inconsapevolmente nostalgica del mondo precapitalistico e preindustriale, l’atteggiamento positivo di Habermas apre la strada ad una idea di modernità aperta e riflessiva che confluisce nel patrimonio culturale del socialismo democratico.
Habermas in particolar modo critica la riduzione della razionalità operata dal capitalismo a ragione tecnico-strumentale ed all’occultamento del suo altro aspetto essenziale: quello discorsivo.
In sintesi viene qui criticata la riduzione della modernità all’utilitarismo borghese (su queste premesse filosofiche del resto si fonda la teoria economica borghese dell’utilità marginale) ed ad ideologia apologetica del capitalismo.
L’altro aspetto della modernità, quello della ragione critico-discorsiva, esprime al contrario un progetto di emancipazione umana che sfocia nel concetto moderno di democrazia.
Ruffolo diceva che capitalismo e democrazia sono i due figli , conflittuali fra loro, della modernità e che la storia dell’epoca moderna e contemporanea è soprattutto storia di compromessi realizzati e falliti tra di essi.
Il socialismo che porta a pieno compimento l’idea democratica estendendo essa dal terreno politico-normativo a quello economico e sociale, è quindi uno dei due coni in cui la modernità si è sviluppata.
Una premessa doverosa per affrontare un tema (rapporto tra socialismo e modernizzazione) talvolta sfiorato in modo superficiale e ricca di luoghi comuni quando si legge la storia degli anni 80.
Secondo questa “vulgata” ripetuta dal programma di Minoli (peraltro serio ed equilibrato) che ripercorreva la vicenda politica ed umana di Bettino Craxi, il PSI craxiano si pose alla guida del processo di modernizzazione del paese nel cuore degli anni 80.
In genere quando si parla di modernizzazione “craxiana” ci si riferisce a due fenomeni: quello della “Grande Riforma delle istituzioni” e l’attenzione ai nuovi ceti ed alle nuove professionalità che emergevano in quegli anni.
Sulla Grande riforma c’è poco da dire: fu un espediente propagandistico (come lo fu la “questione morale” per il PCI). Nessuna proposta organica di riforma dello stato e delle istituzioni fu prodotta dal PSI in quegli anni.
Ma si pone un problema: può un partito socialista separare astrattamente il discorso della riforma istituzionale da quello delle riforme sociali? Il progetto socialista del 1978 (Congresso di Torino) legava organicamente il tema della riforma delle istituzioni politiche ad un progetto di trasformazione in senso socialista e democratico della società. La propaganda degli anni 80 no. La riforma delle istituzioni diveniva uno slogan che restava appeso a se stesso.
Per quanto riguarda i nuovi ceti emergenti. Alla I Conferenza programmatica di Rimini del 1982 con lo slogan “meriti e bisogni” si tentava una operazione di costruzione di un blocco sociale che avrebbe dovuto tenere insieme la base tradizionale della sinistra – classe operaia , un mondo del lavoro che stava comunque mutando, con le nuove professioni ed i ceti che appunto emergevano dallo sviluppo che caratterizzò l’Italia nella parte centrale degli anni 80. Insomma c’era la preoccupazione di far sì che l’intera sinistra fosse in grado di allargare la sua base sociale.
Il problema qual’era però? Quei ceti emergenti erano anche “rampanti” espressione di egoismo ed individualismo aggressivo e ben poco disposti ad allearsi con il mondo del lavoro che esprimeva, sia pur nelle sue mutazioni, interessi e valori diametralmente opposti e non componibili.
Questi ceti rampanti erano per lo più legati al boom del Made in Italy, gente impegnata nel settore del design nell’alta moda. Espressione quindi di un consumismo “alto” che , a lungo andare finisce sempre per essere il segno distintivo dei “cafoni arricchiti” (quelli che indossano anche le mutande firmate).
Ora una cosa è sostenere il “Made in Italy” quale settore che garantisce crescita della produzione, esportazioni ed occupazione (qualunque governo serio lo farebbe), ben altra cosa è identificare un partito (il PSI) come il “partito del Made in Italy”, ponendosi alla testa (magari inconsapevolmente) di questo rampantismo sociale che certo era in aperta rottura con l’etica socialista.
Ecco come una lettura superficiale dei processi di modernizzazione che non tiene conto del loro carattere contraddittorio può generare una subcultura politica che ha rappresentato uno stimolo ad una deriva negativa del PSI.
Negli anni 80 si stavano iniziando a verificare dei forti processi di trasformazione dell’economia che comunque mettevano in discussione la tenuta della base tradizionale della sinistra degli anni 70 ed 80. Di fronte a tali mutamenti una parte della sinistra reagì con la difesa di un mondo che in parte non c’era più (è la posizione del Berlinguer degli anni 80) , un’altra parte (De Michelis e Martelli) con il cavalcare acriticamente processi di modernizzazione che in sé recavano comunque istanze fortemente contraddittorie.
Ma un altro settore della sinistra (quella in cui mi sono sempre identificato) con Lombardi, Ruffolo, Carniti, Trentin si pose il tema vero che sfuggiva al demonizzatori ed agli apolegeti (entrambi acritici) della modernità: come governare da sinistra ed in senso socialista il grande mutamento tecnologico in atto in quegli anni. Purtroppo questa posizione restò minoritaria.
Tornando al PSI di quegli anni: si ebbe una sovrapposizione rispetto alla base politica e sociale del partito (che comunque è rimasta fino alla fine) di un ceto rampante (Ruffolo li definisce i “craxini”) “spesso arrogante e scostumato, povero di meriti e ricchi di bisogni” (la definizione è sempre di Ruffolo), che nel corso del tempo attirò nei confronti del partito l’antipatia di un pezzo largo di opinione pubblica (e favorì l’azione liquidatoria da parte dei poteri forti e di pezzo della magistratura).
Altra cosa era l’idea socialista riformatrice degli anni 60, fortemente presente nel progetto socialista del 1978. Una idea di modernità aperta ed inclusiva (alla Habermas) in cui lo sviluppo economico è al servizio di un progetto di civilizzazione e di sviluppo della democrazia, con una forte contestazione della degenerazione consumista (l’alienazione del consumo avulso dai bisogni e dalla utilità effettiva di un bene).
Comunque nel 1988 cessò la fase virtuosa dello sviluppo (la stagnazione dell’economia americana ebbe effetti sulle esportazioni europee) e quel castello di sabbia fondato sull’ottimismo di maniera vacillò.
Lo stesso Craxi se ne rende conto e nella sua relazione alla II Conferenza programmatica di Rimini ne porta i segni (compreso una forte preoccupazione che il crollo del comunismo favorisse il ritorno di un capitalismo selvaggio. Ne riporto alcuni passi:
“la crisi verticale del comunismo mondiale e il crollo a catena dei suoi regimi dell'Est europeo accresce enormemente la responsabilità delle democrazie dell'Occidente di fronte alle necessità ed alle incognite del futuro. Per questo futuro non può bastare il modello di un capitalismo che, pur con le sue contraddizioni appare vincente sul terreno dello sviluppo, ma che non sarebbe in grado di dare soluzioni adeguate alle problematiche sociali. Un futuro rispetto al quale gli stessi istituti di democrazia non sempre paiono sufficientemente attrezzati per assicurare la crescita equilibrata delle Nazioni e la giustizia sociale. Il mondo intero, del resto, è attraversato in modo sempre più marcato dalla grande diseguaglianza che divide i Paesi ricchi dai Paesi in via di sviluppo e ancor più dai Paesi poveri e poverissimi. E' questa forse la principale "questione sociale" del nostro tempo. E' una diseguaglianza che sta inesorabilmente aumentando un giorno dopo l'altro. Il mondo delle società industriali opulente ed avanzate è pieno di retorica e prodigo di buone parole, ma avaro di fatti e di opere concrete. Tutto ciò che si fa oggi per ridurre i grandi squilibri che esistono nel mondo è largamente al di sotto di ciò che si dovrebbe e si potrebbe fare. I dati nudi, crudi, ed incontrovertibili nelle loro proiezioni dicono che, di questo passo, i Paesi poveri sono destinati a diventare solo più poveri ed i Paesi ricchi sempre più ricchi. Se questa tendenza non verrà rovesciata, se non si moltiplicheranno gli sforzi diretti a riequilibrare la situazione, a ridurre il peso soffocante del debito del Terzo Mondo, a favorire un nuovo sviluppo, si prepareranno anni difficili carichi di aspre contraddizioni, di tensioni e di conflitti di ogni genere.”…… “Il progresso scientifico e tecnologico ha portato straordinari benefici alla nostra vita e alla nostra salute, ma ha creato e crea rischi per noi e per le generazioni future. Abbiamo opportunità di produzioni, di consumi e di svago che mai avevamo raggiunto ma queste maggiori possibilità e questa vita più ricca, lorda la terra, l'acqua, l'aria, logora il territorio, degrada il nostro patrimonio culturale.”… “un mercato abbandonato a soli attori economici genera squilibri, poteri prevaricanti ed abusi che impediscono un progresso armonico, danneggiano la collettività e, nel tempo lungo, le stesse attività economiche. Lo Stato deve intervenire sul mercato ma con precise regole: regole che impongano standard professionali e patrimoniali a chi svolge determinate attività, regole limitative delle concentrazioni e a tutela della concorrenza, che assicurino trasparenza ed informazione, che sanzionino diritti e responsabilità, che diano argini alle attività finanziarie e neutralizzino le loro potenzialità speculative e destabilizzanti. Il sistema misto che caratterizza l'economia italiana ha dato risultati positivi e non può essere travolto nel nome di indefinite privatizzazioni agitate talvolta con una demagogia ideologica che nasconde il peggio piuttosto che proposte entro i limiti di una pratica e giustificata concretezza ed utilità. L'impresa pubblica ha ancora molte funzioni da svolgere: c'è ancora il Mezzogiorno, che ha bisogno di infrastrutture, insediamenti produttivi e servizi. Ci sono produzioni e tecnologie verso le quali le partecipazioni statali possono canalizzare le loro risorse finanziarie. C'è il contributo che esse possono dare alla concorrenza e all'efficienza stessa dei mercati. In campo finanziario, l'esplosione delle attività e il moltiplicarsi degli intermediari hanno fatto saltare molte regole del passato, hanno messo a dura prova le capacità degli organi di vigilanza ed hanno occupato un vasto territorio al di fuori di ogni disciplina di trasparenza e di responsabilità”
E’ insomma un Craxi diverso che si rende conto che il futuro è colmo di incertezze, che l’ottimismo di maniera sulla modernizzazione non è più do moda. Ed è un Craxi più affine alla tradizione del socialismo italiano. Se queste sue riflessioni, all’alba di tangentopoli, si fossero trasformate in iniziativa politica vera …..ma la storia non si fa con i “se”.
PEPPE GIUDICE
venerdì 15 gennaio 2010
Giorgio Ruffolo: il breve regno di re Bettino
“IL BREVE REGNO DI RE BETTINO”
di GIORGIO RUFFOLO
Repubblica - 14 gennaio 2010
La prima volta che vidi Craxi mi sembrò un omone un po' impacciato: come chi tema, muovendosi, di sfasciare qualche cosa. Timore, se c' era, non del tutto infondato. Personaggio singolare, anzi plurale perché non facile a essere ridotto a una dimensione, come fanno quelli, numerosi, che lo detestano e quelli, altrettanto numerosi, che lo idolatrano.
Personalmente, sono stato un critico di Craxi, ma non un oppositore. Ne ho apprezzato molti lati e ne ho disapprovato altri, sempre apertamente. Credo di poterne parlare sine ira et studio. Senza la pretesa di giudicare. Ma di dire semplicemente ciò che penso. Penso che fosse un leader politico di alto livello, di gran lunga superiore alla media dei suoi rivali, ma non un genio politico. Che sia stato capace di concepire un' impresa grande, ma incapace di restarne all' altezza. Che la sua fine sia degna di grande rispetto e di umana solidarietà. Non di ammirazione. Mi limito ad esprimermi succintamente su tre questioni vessatissime: la corruzione, il disegno politico, il duello a sinistra.
La corruzione. Craxi denunciò in un discorso al Parlamento rimasto giustamente famoso
l' universalità del finanziamento illecito dei partiti. Aveva indubbiamente ragione. Ma, a parte
l' improponibilità giuridica dell' argomento (un reato non è estinto dalla sua condivisione) è un fatto che Craxi abbia assunto in quel sistema un ruolo di primo piano. Non ne era certo un passivo fruitore, ne diventò un attivo organizzatore. Peggio. Giunto al potere nel partito, permise che vi dilagasse uno spudorato termidoro, una corte di adulatori arroganti, scarsi di meriti e ricchi di bisogni. C' è poi da dire che la politica ha un alto grado di tolleranza per il malcostume quando esso è sovrastato da un grande disegno politico. E vengo al secondo punto. Quel disegno politico, mancato clamorosamente, e vergognosamente, da Nenni alla fine della guerra, Craxi l' aveva:
l' autonomia socialista. Alcuni di noi, io tra quelli, pensavano che quell' autonomia, conquistata sganciandosi dalla subordinazione comunista, lui l' avrebbe giocata nella creazione di una alternativa di sinistra, come Mitterrand. Probabilmente Craxi stesso questa prospettiva in un certo momento la coltivò. Ma in lui il rischio del futuro fu vinto dalle rendite del presente. E quando il crollo dell' Urss gli presentò un' occasione suprema, non seppe sganciarsi da quella che era diventata un' alleanza opportunistica e priva di avvenire, il cosiddetto Caf, per correre l' alea che ogni politico, se è grande veramente, deve accettare: di perdere o di guadagnare tutto in un colpo solo. Il suo invito di andare al mare, agli italiani che chiedevano un segno decisivo di cambiamento, è la tragica prova del suo declino. Resta il terzo punto. Il duello a sinistra. Su questo, le responsabilità comuniste sono superiori a quelle craxiane, perché più antiche. Come Mario Pirani ha spiegato in modo impeccabile, la prospettiva strategica dei comunisti non era l' alternativa, tanto meno quella socialista. Era il compromesso con i cattolici. I socialisti, pobre semilla, dovevano seguire o scomparire. I comunisti, che pure avevano partecipato sia pure marginalmente alle spoglie di tangentopoli, ebbero un' inopinata fortuna: di vedere travolti i socialisti proprio nel momento in cui, a cent' anni dalla nascita del loro partito e dopo il disastro storico del comunismo, avrebbero potuto celebrare il loro trionfo. Ma gli ormai post-comunisti confermarono il loro tenacissimo antisocialismo: preferendo, all' assunzione della eredità storica socialista, una identità artefatta che ancora oggi dimostra il suo pallore; e consegnando alla destra estrema un cospicuo regalo elettorale.
di GIORGIO RUFFOLO
Repubblica - 14 gennaio 2010
La prima volta che vidi Craxi mi sembrò un omone un po' impacciato: come chi tema, muovendosi, di sfasciare qualche cosa. Timore, se c' era, non del tutto infondato. Personaggio singolare, anzi plurale perché non facile a essere ridotto a una dimensione, come fanno quelli, numerosi, che lo detestano e quelli, altrettanto numerosi, che lo idolatrano.
Personalmente, sono stato un critico di Craxi, ma non un oppositore. Ne ho apprezzato molti lati e ne ho disapprovato altri, sempre apertamente. Credo di poterne parlare sine ira et studio. Senza la pretesa di giudicare. Ma di dire semplicemente ciò che penso. Penso che fosse un leader politico di alto livello, di gran lunga superiore alla media dei suoi rivali, ma non un genio politico. Che sia stato capace di concepire un' impresa grande, ma incapace di restarne all' altezza. Che la sua fine sia degna di grande rispetto e di umana solidarietà. Non di ammirazione. Mi limito ad esprimermi succintamente su tre questioni vessatissime: la corruzione, il disegno politico, il duello a sinistra.
La corruzione. Craxi denunciò in un discorso al Parlamento rimasto giustamente famoso
l' universalità del finanziamento illecito dei partiti. Aveva indubbiamente ragione. Ma, a parte
l' improponibilità giuridica dell' argomento (un reato non è estinto dalla sua condivisione) è un fatto che Craxi abbia assunto in quel sistema un ruolo di primo piano. Non ne era certo un passivo fruitore, ne diventò un attivo organizzatore. Peggio. Giunto al potere nel partito, permise che vi dilagasse uno spudorato termidoro, una corte di adulatori arroganti, scarsi di meriti e ricchi di bisogni. C' è poi da dire che la politica ha un alto grado di tolleranza per il malcostume quando esso è sovrastato da un grande disegno politico. E vengo al secondo punto. Quel disegno politico, mancato clamorosamente, e vergognosamente, da Nenni alla fine della guerra, Craxi l' aveva:
l' autonomia socialista. Alcuni di noi, io tra quelli, pensavano che quell' autonomia, conquistata sganciandosi dalla subordinazione comunista, lui l' avrebbe giocata nella creazione di una alternativa di sinistra, come Mitterrand. Probabilmente Craxi stesso questa prospettiva in un certo momento la coltivò. Ma in lui il rischio del futuro fu vinto dalle rendite del presente. E quando il crollo dell' Urss gli presentò un' occasione suprema, non seppe sganciarsi da quella che era diventata un' alleanza opportunistica e priva di avvenire, il cosiddetto Caf, per correre l' alea che ogni politico, se è grande veramente, deve accettare: di perdere o di guadagnare tutto in un colpo solo. Il suo invito di andare al mare, agli italiani che chiedevano un segno decisivo di cambiamento, è la tragica prova del suo declino. Resta il terzo punto. Il duello a sinistra. Su questo, le responsabilità comuniste sono superiori a quelle craxiane, perché più antiche. Come Mario Pirani ha spiegato in modo impeccabile, la prospettiva strategica dei comunisti non era l' alternativa, tanto meno quella socialista. Era il compromesso con i cattolici. I socialisti, pobre semilla, dovevano seguire o scomparire. I comunisti, che pure avevano partecipato sia pure marginalmente alle spoglie di tangentopoli, ebbero un' inopinata fortuna: di vedere travolti i socialisti proprio nel momento in cui, a cent' anni dalla nascita del loro partito e dopo il disastro storico del comunismo, avrebbero potuto celebrare il loro trionfo. Ma gli ormai post-comunisti confermarono il loro tenacissimo antisocialismo: preferendo, all' assunzione della eredità storica socialista, una identità artefatta che ancora oggi dimostra il suo pallore; e consegnando alla destra estrema un cospicuo regalo elettorale.
Riccardo Lombardi, un pensiero rivoluzionario forte
Ciao Giovanni, ti segnalo questo articolo uscito sull'agenzia italia di roma il giorno 15 gennaio:
RICCARDO LOMBARDI: VENTURA, UN PENSIERO RIVOLUZIONARIO FORTE =
(AGI) - Roma, 15 gen. - Oggi che la politica e' ridotta a pura gestione del
potere fino al punto di violentare idee e storia e un dirigente di primo piano
come Massimo D'Alema puo' arruolare anche Gramsci tra i fautori del Concordato
tra Chiesa e stato fascista, riscoprire la figura e il pensiero di Riccardo
Lombardi e' un esercizio assolutamente salutare. Lo scrive sul
settimnale 'Left', Andrea Ventura, dottore in Economia Politica a Scienze
Politiche dell'Universita' di Firenze, in merito al libro di Carlo Patrignani
in uscita il 21 prossimo 'Lombardi e il fenicottero' (Edizioni L'Asino
d'oro). "Lombardi fa parte di quella generazione che, all'opposto, subordinava -
sostiene l'economista - l'azione politica alla riflessione sui grandi nodi
dello sviluppo sociale e civile del paese. Discutere delle sue idee quindi di
per se' getta luce sulle miserie della politica odierna". Tanto che l'Ingegnere
socialista previde con un decennio d'anticipo la fine dello stesso Psi. "Un Psi
cosi' non ha motivo di esistere" fu la conclusione della sua arringa il 30
giugno 1984 ad un Comitato Centrale prima muto poi tutto in piedi scandire il
suo nome quando a fatica riguadagnava l'uscita. Mai Bettino Craxi, un
Fuhrerprinzip per Lombardi, si era sentito criticato in modo cosi' severo e
perentorio. (AGI)
(AGI) - Roma, 15 gen. - Dal libro emerge, "in modo lampante il passaggio
storico, il cambio di clima, il cambio di paradigma politico e di assetto delle
forze in campo che avviene tra gli anni '70 e gli anni '80 quasi che nello
scorcio di pochi anni e in particolare tra il 1976 e il 1979, nel periodo cioe'
che ha visto il Pci entrare nell'area di governo, si fosse consumata ogni
possibilita' di offrire ai movimenti degli anni '70 uno sbocco in grado di
avviare un mutamento negli assetti politici e sociali del paese. Questo arresto
si e' poi rapidamente trasformato in una sconfitta di portata storica - spiega
ancora Ventura - Il lavoro di Patrignani mostra la distanza tra le posizioni
Lombardi e il paradigma fondamentale all'interno del quale si muovevano le
principali forze politiche del paese. Lombardi, infatti, aveva ben chiari i
limiti dall'assioma fondamentale del marxismo per il quale il superamento dei
rapporti di produzione capitalistici costituisce la condizione essenziale per
la costruzione di una societa' socialista, ma al contempo era convinto che ogni
riflessione sull'economia dovesse partire dal concetto di alienazione di Marx.
Egli era dunque distante sia dal riformismo del partito socialista, che
comportava l'abbandono di ogni prospettiva di superamento del capitalismo, sia
dalla proposta di "compromesso storico" avanzata nel 1973 dal Pci di
Berlinguer, che in modo assolutamente paradossale legava la possibilita' di una
prospettiva socialista, cioe' di superamento dell'alienazione, all'accordo con
una forza politica dichiaratamente cristiana come la Dc. Lontano dunque dalla
rinuncia alla trasformazione sociale, ma anche da queste devastanti
contraddizioni, pur nella profonda attenzione verso tutto cio' che si muoveva
all'interno del mondo cattolico e in campo comunista, Lombardi non solo si
definiva "a-comunista", ma riteneva che nessuna riflessione sulla scissione
mezzi-fini e sui crimini dello stalinismo potesse prescindere da una critica
piu' profonda al nucleo platonico cristiano di tutte quelle filosofie per le
quali la storia avrebbe una sua razionalita' legata al compimento di un fine
ultimo trascendente, del quale qualcuno, uomo, stato, partito o chiesa, sarebbe
l'interprete". (AGI)
(AGI) - Roma, 15 gen. - Lombardi fu "profondamente democratico ma anche
rivoluzionario - continua Ventura - La sua pratica politica, definita
come "riformismo rivoluzionario" per il voler tenere insieme la prospettiva di
governo con quella dei movimenti di massa, non poteva che basarsi su di una
dimensione culturale. Questa, nello specifico, veniva a configurarsi nella
proposta di una societa' "diversamente ricca": una societa' distante sia dal
modello capitalistico sia da quello dei paesi del socialismo reale, che oltre
al benessere economico fosse in grado di domandare piu' cultura, piu' tempo
libero, "piu' capacita' degli operai di leggere Dante o apprezzare Picasso".
Avanzata fin dagli anni '60, questa proposta culturale si differenziava
nettamente dalla "austerita'" di Berlinguer e dai "sacrifici" della svolta
della CGIL dell'EUR del 1977 le quali, piuttosto che proporre una diversa
realizzazione di identita' umana, invitavano alla rinuncia e al rispetto delle
compatibilita' con gli assetti economici e politici in essere".
Il libro e' accompagnato da una prefazione di Marco Pannella ed e' arricchito
da interviste allo stesso Pannella, a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo e
Tullia Carettoni. "Esso non guarda al passato ma offre una prospettiva di
ricerca che, nel momento in cui la crisi pone problemi nuovi alla politica,
all'economia e alla cultura, presenta - conclude Ventura - aspetti di
sorprendente attualita'".
RICCARDO LOMBARDI: VENTURA, UN PENSIERO RIVOLUZIONARIO FORTE =
(AGI) - Roma, 15 gen. - Oggi che la politica e' ridotta a pura gestione del
potere fino al punto di violentare idee e storia e un dirigente di primo piano
come Massimo D'Alema puo' arruolare anche Gramsci tra i fautori del Concordato
tra Chiesa e stato fascista, riscoprire la figura e il pensiero di Riccardo
Lombardi e' un esercizio assolutamente salutare. Lo scrive sul
settimnale 'Left', Andrea Ventura, dottore in Economia Politica a Scienze
Politiche dell'Universita' di Firenze, in merito al libro di Carlo Patrignani
in uscita il 21 prossimo 'Lombardi e il fenicottero' (Edizioni L'Asino
d'oro). "Lombardi fa parte di quella generazione che, all'opposto, subordinava -
sostiene l'economista - l'azione politica alla riflessione sui grandi nodi
dello sviluppo sociale e civile del paese. Discutere delle sue idee quindi di
per se' getta luce sulle miserie della politica odierna". Tanto che l'Ingegnere
socialista previde con un decennio d'anticipo la fine dello stesso Psi. "Un Psi
cosi' non ha motivo di esistere" fu la conclusione della sua arringa il 30
giugno 1984 ad un Comitato Centrale prima muto poi tutto in piedi scandire il
suo nome quando a fatica riguadagnava l'uscita. Mai Bettino Craxi, un
Fuhrerprinzip per Lombardi, si era sentito criticato in modo cosi' severo e
perentorio. (AGI)
(AGI) - Roma, 15 gen. - Dal libro emerge, "in modo lampante il passaggio
storico, il cambio di clima, il cambio di paradigma politico e di assetto delle
forze in campo che avviene tra gli anni '70 e gli anni '80 quasi che nello
scorcio di pochi anni e in particolare tra il 1976 e il 1979, nel periodo cioe'
che ha visto il Pci entrare nell'area di governo, si fosse consumata ogni
possibilita' di offrire ai movimenti degli anni '70 uno sbocco in grado di
avviare un mutamento negli assetti politici e sociali del paese. Questo arresto
si e' poi rapidamente trasformato in una sconfitta di portata storica - spiega
ancora Ventura - Il lavoro di Patrignani mostra la distanza tra le posizioni
Lombardi e il paradigma fondamentale all'interno del quale si muovevano le
principali forze politiche del paese. Lombardi, infatti, aveva ben chiari i
limiti dall'assioma fondamentale del marxismo per il quale il superamento dei
rapporti di produzione capitalistici costituisce la condizione essenziale per
la costruzione di una societa' socialista, ma al contempo era convinto che ogni
riflessione sull'economia dovesse partire dal concetto di alienazione di Marx.
Egli era dunque distante sia dal riformismo del partito socialista, che
comportava l'abbandono di ogni prospettiva di superamento del capitalismo, sia
dalla proposta di "compromesso storico" avanzata nel 1973 dal Pci di
Berlinguer, che in modo assolutamente paradossale legava la possibilita' di una
prospettiva socialista, cioe' di superamento dell'alienazione, all'accordo con
una forza politica dichiaratamente cristiana come la Dc. Lontano dunque dalla
rinuncia alla trasformazione sociale, ma anche da queste devastanti
contraddizioni, pur nella profonda attenzione verso tutto cio' che si muoveva
all'interno del mondo cattolico e in campo comunista, Lombardi non solo si
definiva "a-comunista", ma riteneva che nessuna riflessione sulla scissione
mezzi-fini e sui crimini dello stalinismo potesse prescindere da una critica
piu' profonda al nucleo platonico cristiano di tutte quelle filosofie per le
quali la storia avrebbe una sua razionalita' legata al compimento di un fine
ultimo trascendente, del quale qualcuno, uomo, stato, partito o chiesa, sarebbe
l'interprete". (AGI)
(AGI) - Roma, 15 gen. - Lombardi fu "profondamente democratico ma anche
rivoluzionario - continua Ventura - La sua pratica politica, definita
come "riformismo rivoluzionario" per il voler tenere insieme la prospettiva di
governo con quella dei movimenti di massa, non poteva che basarsi su di una
dimensione culturale. Questa, nello specifico, veniva a configurarsi nella
proposta di una societa' "diversamente ricca": una societa' distante sia dal
modello capitalistico sia da quello dei paesi del socialismo reale, che oltre
al benessere economico fosse in grado di domandare piu' cultura, piu' tempo
libero, "piu' capacita' degli operai di leggere Dante o apprezzare Picasso".
Avanzata fin dagli anni '60, questa proposta culturale si differenziava
nettamente dalla "austerita'" di Berlinguer e dai "sacrifici" della svolta
della CGIL dell'EUR del 1977 le quali, piuttosto che proporre una diversa
realizzazione di identita' umana, invitavano alla rinuncia e al rispetto delle
compatibilita' con gli assetti economici e politici in essere".
Il libro e' accompagnato da una prefazione di Marco Pannella ed e' arricchito
da interviste allo stesso Pannella, a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo e
Tullia Carettoni. "Esso non guarda al passato ma offre una prospettiva di
ricerca che, nel momento in cui la crisi pone problemi nuovi alla politica,
all'economia e alla cultura, presenta - conclude Ventura - aspetti di
sorprendente attualita'".
Gaetano Colantuono: se si ritorna a crispi
Dall'Avvenire dei lavoratori
Se si ritorna a Crispi
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L’incredibile, allucinata requisitoria dell’on. Cicchitto – già affiliato alla P2 – nel corso del dibattito parlamentare sull’aggressione al presidente del consiglio (per una sintesi cfr. il Fatto Quotidiano, 16 dicembre) è una sorta di revival degli anni Settanta, ma di segno sconvolto: criminalizzazione delle opposizioni ed evocazione di trame e di congiure sotto forma di network. Si rivela così un tipico meccanismo psicologico, per cui la repulsione esacerbata di una realtà si accompagna al suo desiderio. E l’oggetto di questo voluttuoso timore sono gli anni Settanta. Quando si sparava sulle manifestazioni e i responsabili in divisa di omicidi erano coperti da un’imperturbabile impunità, solo recentemente appena scalfita dalle laboriose indagini sui “fatti di Genova”, col loro penoso esito riduttivo, con le loro conseguenze nel grado di fiducia nelle “istituzioni” italiche.
È ovvia la nostra solidarietà a quelle persone e a quegli organi di stampa colpiti dagli attacchi di colui che può essere considerato l’incarnazione, quasi un rudere, della degenerazione del PSI nella seconda metà degli anni Settanta – per chi scrive argomento di rovello storico sin dai tempi del liceo. Un nostro maestro, Gaetano Arfé, ha ricordato alcune volte aneddoti riguardanti l’attuale capogruppo delle destre alla Camera. Qui mette conto ricordare solo il colloquio di Arfé con un amareggiato Riccardo Lombardi, quando, in occasione della diffusione dei nomi degli affiliati alla P2, fu chiaro chi fosse uno dei suoi giovani più attivi (e commenta Arfé: Lombardi era troppo fiducioso verso i giovani). Ne derivò un memorabile schiaffo da parte di Lombardi. Potenza simbolica: un capo del CLNAI che schiaffeggia un rampante affiliato alla P2, la Resistenza contro la Propaganda Due. Ahimé, uno schiaffo non bastava per salvare un partito dalla “mutazione antropologica”, che proprio i giovani rampanti di allora fiutarono, avallarono, tradussero in quotidiana prassi. Si tratta di un tema che va ripreso, anche perché è lì che si forma uno dei percorsi dell’attuale (ma ormai permanente) anomalia etico-politica in Italia.
Come ogni discorso istituzionale – ma ormai occorre sottintendere, un istituzionale degradato, direi “sputtanato” – quello tenuto dall’on. Cicchetto va letto anche per le assenze, per l’implicito. Ciò che non dice e ciò che falsifica in modo strumentale, certo; ma anche e soprattutto in relazione a quelle forze – politiche e culturali – che costui non avuto la bontà di citare fra i cospiratori. Per chi non lo avesse notato, brillano le assenze dei quotidiani e degli organi di informazione della sinistra, in primis il manifesto. Mancano i partiti e le associazioni della sinistra, espulse dal Parlamento, dall’informazione nazionale e da molti enti locali. Mancano i movimenti dissidenti che hanno rianimato l’opposizione alle destre negli ultimi anni, in primis i social forum, in cui il respiro politico-culturale andava ben oltre i (discutibili) V[affa]-day e i (pur lodevoli) NoB-day.
Insomma, l’attuale compagine governativa dimostra di non limitarsi più al predominio ma di far prove (inconsapevolmente?) di egemonia, almeno in uno dei suoi aspetti: si è scelta da sola e per proprio conto la propria opposizione, radicalizzando contro di essa i toni dello scontro politico e così catalizzando su questa parte rilevante dell’opinione politica. Quella estrerna, estranea e avversa a sé.
Le altre opposizioni – quelle della sinistra, quelle suicidatesi nel corso degli ultimi quattro anni di oscillazioni, lacerazioni e incertezze – devono tornare a combattere la lotta per il proprio riconoscimento. Siamo tornati a prima di Crispi, l’ex garibaldino che rappresentò ai massimi livelli istituzionali l’involuzione degli ideali risorgimentali nell’Italia post-unitaria. Un salto nel passato nient’affatto invidiabile. E una lettura solo occasionale di Salvemini già ci mette in guardia dal ricorrente crispismo dei riformisti nostrani.
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Gaetano Colantuono
Se si ritorna a Crispi
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L’incredibile, allucinata requisitoria dell’on. Cicchitto – già affiliato alla P2 – nel corso del dibattito parlamentare sull’aggressione al presidente del consiglio (per una sintesi cfr. il Fatto Quotidiano, 16 dicembre) è una sorta di revival degli anni Settanta, ma di segno sconvolto: criminalizzazione delle opposizioni ed evocazione di trame e di congiure sotto forma di network. Si rivela così un tipico meccanismo psicologico, per cui la repulsione esacerbata di una realtà si accompagna al suo desiderio. E l’oggetto di questo voluttuoso timore sono gli anni Settanta. Quando si sparava sulle manifestazioni e i responsabili in divisa di omicidi erano coperti da un’imperturbabile impunità, solo recentemente appena scalfita dalle laboriose indagini sui “fatti di Genova”, col loro penoso esito riduttivo, con le loro conseguenze nel grado di fiducia nelle “istituzioni” italiche.
È ovvia la nostra solidarietà a quelle persone e a quegli organi di stampa colpiti dagli attacchi di colui che può essere considerato l’incarnazione, quasi un rudere, della degenerazione del PSI nella seconda metà degli anni Settanta – per chi scrive argomento di rovello storico sin dai tempi del liceo. Un nostro maestro, Gaetano Arfé, ha ricordato alcune volte aneddoti riguardanti l’attuale capogruppo delle destre alla Camera. Qui mette conto ricordare solo il colloquio di Arfé con un amareggiato Riccardo Lombardi, quando, in occasione della diffusione dei nomi degli affiliati alla P2, fu chiaro chi fosse uno dei suoi giovani più attivi (e commenta Arfé: Lombardi era troppo fiducioso verso i giovani). Ne derivò un memorabile schiaffo da parte di Lombardi. Potenza simbolica: un capo del CLNAI che schiaffeggia un rampante affiliato alla P2, la Resistenza contro la Propaganda Due. Ahimé, uno schiaffo non bastava per salvare un partito dalla “mutazione antropologica”, che proprio i giovani rampanti di allora fiutarono, avallarono, tradussero in quotidiana prassi. Si tratta di un tema che va ripreso, anche perché è lì che si forma uno dei percorsi dell’attuale (ma ormai permanente) anomalia etico-politica in Italia.
Come ogni discorso istituzionale – ma ormai occorre sottintendere, un istituzionale degradato, direi “sputtanato” – quello tenuto dall’on. Cicchetto va letto anche per le assenze, per l’implicito. Ciò che non dice e ciò che falsifica in modo strumentale, certo; ma anche e soprattutto in relazione a quelle forze – politiche e culturali – che costui non avuto la bontà di citare fra i cospiratori. Per chi non lo avesse notato, brillano le assenze dei quotidiani e degli organi di informazione della sinistra, in primis il manifesto. Mancano i partiti e le associazioni della sinistra, espulse dal Parlamento, dall’informazione nazionale e da molti enti locali. Mancano i movimenti dissidenti che hanno rianimato l’opposizione alle destre negli ultimi anni, in primis i social forum, in cui il respiro politico-culturale andava ben oltre i (discutibili) V[affa]-day e i (pur lodevoli) NoB-day.
Insomma, l’attuale compagine governativa dimostra di non limitarsi più al predominio ma di far prove (inconsapevolmente?) di egemonia, almeno in uno dei suoi aspetti: si è scelta da sola e per proprio conto la propria opposizione, radicalizzando contro di essa i toni dello scontro politico e così catalizzando su questa parte rilevante dell’opinione politica. Quella estrerna, estranea e avversa a sé.
Le altre opposizioni – quelle della sinistra, quelle suicidatesi nel corso degli ultimi quattro anni di oscillazioni, lacerazioni e incertezze – devono tornare a combattere la lotta per il proprio riconoscimento. Siamo tornati a prima di Crispi, l’ex garibaldino che rappresentò ai massimi livelli istituzionali l’involuzione degli ideali risorgimentali nell’Italia post-unitaria. Un salto nel passato nient’affatto invidiabile. E una lettura solo occasionale di Salvemini già ci mette in guardia dal ricorrente crispismo dei riformisti nostrani.
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Gaetano Colantuono
Andrea Ermano: Ics anni dopo
Dall'avvenire dei lavoratori
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Ics anni dopo
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Fu vera gloria? O non anche infamia?
Questo, in breve, il dilemma Craxi a dieci anni dalla scomparsa.
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di Andrea Ermano
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Le sue ossa stanno sepolte in Tunisia, nel luogo dell'autoesilio con cui egli reagì alle inchieste di Tangentopoli. Quando morì, per il suo rango istituzionale d'ex premier, Palazzo Chigi propose i funerali di Stato. L'offerta venne respinta dalla famiglia, con sdegno analogo a quello manifestato anni prima dai congiunti di Aldo Moro.
Fu vera gloria, quella di Bettino Craxi?
Un uomo di cui si dibatte accesamente a dieci anni dalla morte, e ognuno dice la sua, ognuno ha un sentimento un risentimento un odio un affetto... È sotto gli occhi di tutti il suo trionfo postumo nella memoria e nel sentimento del popolo garibaldino.
Ma fu anche infamia, la sua?
Senz'alcun dubbio Craxi, grande premier, non rappresentò la miglior leadership che la storia del socialismo italiano tramandi. L'uso delle mazzette, non solo come strumento di competizione verso Dc e Pci, ma anche come fattore strutturale nella lotta interna al Psi, finì per mutare quel vecchio e glorioso baluardo d'umanità scapigliata in qualcosa di molto differente.
Ma, si sa, il partito per i socialisti è strumento, non fine. E Craxi di quello strumento aveva bisogno per un suo disegno d'innovazione. Amava l'Italia. L'amava molto, moltissimo, troppo. Quando la prese in consegna, primo presidente del Consiglio socialista, l'Italia versava in uno stato pietoso, avvilita da una profonda crisi economica e attraversata da terroristi assassini. La trasformò in un paese meno violento, meno depresso e più contento delle proprie capacità.
Amava l'Italia. Avrebbe voluto riformarla. Capiva l'urgenza delle riforme. Detestava l'ipocrisia gattopardesca dei dollari e dei rubli. Voleva portare al governo una vera classe dirigente. E di fronte ai briganti decise di far "brigante e mezzo", come dice Marco Pannella, vecchio sodale di Craxi fin dai tempi dell'università.
Primum vivere deinde philosophari, sentenziò una volta Ghino di Tacco. E imbarcò nel Psi un esercito di mercenari, sbarcando del pari quel coeacervo di correnti litigiose che gli parvero votate a soccombere nella morsa tra l'ortodossia comunista e l'unità politica dei cattolici.
Dimentico dell'insegnamento di Machiavelli sui mercenari – onerosi in tempo di pace, infami in tempo di guerra – finì travolto non dalle correnti e in fondo nemmeno da Tangentopoli (non s'offendano gli onorevoli giudici), ma da una fisima tutta craxiana e assurda: riformare la patria della Controriforma.
Così, quando l'establishment se lo ritrovò tra le mani o quasi, non vide l'ora di poterlo sottoporre allo scannamento rituale (una sorte oggettivamente diversa rispetto a quella toccata ad altri leader europei come Kohl o Chirac). E allora Bettino risolse: "Non tornerò in Italia né da vivo né da morto".
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La scomparsa di Craxi è coincisa con il collasso del progetto diessino. Amato e D'Alema volevano restituirci (ricordate?) "una grande forza socialista democratica di stampo europeo capace di concorrere al governo del Paese". Poi la doppia virata veltroniana ha condotto i DS dentro al PD, Prodi fuori dal governo e la sinistra, tutta, al naufragio.
Ora che Bersani è al timone del partito nuovo, Bobo Craxi giudica "evidente che il centrosinistra va sempre più verso la formazione di un soggetto socialdemocratico". Speriamo. Sarebbe soltanto che ora.
Ciò detto a proposito della situazione in Italia sia consentito aggiungere qui alcune poche parole sul socialismo d'emigrazione.
"Socialismo d'emigrazione" è il filo di una continuità politico-organizzativa che finora ha retto alla lunga durata sfidando il tempo e l'arroganza del potere. Nel nostro Paese, infatti, l'esistenza stessa di una formazione politica socialista viene messa in forse ripetutamente e periodicamente. È successo varie volte durante il secolo trascorso. Eppure la nostra più antica tradizione politico-organizzativa batte bandiera rossa, grazie al socialismo d'emigrazione.
È stato Craxi, nel centenario del Psi, a mettere in luce questa funzione di continuità del socialismo d'emigrazione. Lo ha fatto pubblicando la raccolta de L'Avvenire dei lavoratori a direzione siloniana. Silone aveva assunto la guida del Centro Estero socialista dopo l'invasione nazista della Francia dove aveva sede la direzione del Psi in esilio. Il passaggio delle consegne avvenne nel 1941 e Silone mantenne la leadership fino alla "ricostruzione in Italia di un forte Partito Socialista", resa possibile grazie al lavoro clandestino ed eroico di Colorni.
Nelle Avventure di Tonio Zappa Silone narra di un cafone abruzzese che prende la valigia e vaga per l'Europa, risucchiato in una ridda di miseria, di emarginazione e di lotta di classe (dall'alto) che egli subisce, fin dentro la galera: "Non ti basta che migliaia d'operai si spostino da un carcere d'Europa all'altro?", chiede Tonio a fine racconto.
Sono gli anni della grande crisi, quando l'America vara il new deal mentre l'Europa scivola nel nazi-fascismo: “Migliaia di Tonio Zappa si spostavano da un paese all’altro in cerca di pane. Ma il pane sfuggiva loro. Peregrinavano di paese in paese, ma la crisi li precedeva”.
Ogni riferimento alla condizione migrante nel nostro Paese è puramente intenzionale.
Il socialismo d'emigrazione nasce a fine Ottocento, in un'epoca di sanguinose persecuzioni anti-italiane: quattro operai ammazzati e ottanta feriti all'imbocco della galleria del Gottardo. Protestavano contro condizioni inumane (ma, a ben vedere, non peggiori di quelle in cui versano certi immigrati nell'Italia di oggi).
La caccia all'italiano culmina a Zurigo nei violentissimi Krawalle, che perdurano diversi giorni: "Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno", ci ricorda Gian Antonio Stella dalle colonne del Corriere della Sera: "Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo".
Queste, dunque, le radici del socialismo d'emigrazione, quello della continuità politico-organizzativa, stessa faccia e stessa razza degli schiavi di Rosarno.
Ciò detto, care e cari, andate. Planate pure sull'altra sponda del mare, tra le dune magrebine, con le vostre telecamere per grazia ricevuta. Ma, giunti a quella lapide, appoggiate tutto sulla sabbia. E portate anche il nostro saluto, per favore, unitamente a quello dei nostri fratelli schiavi d'Italia.
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O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
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Ics anni dopo
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Fu vera gloria? O non anche infamia?
Questo, in breve, il dilemma Craxi a dieci anni dalla scomparsa.
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di Andrea Ermano
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Le sue ossa stanno sepolte in Tunisia, nel luogo dell'autoesilio con cui egli reagì alle inchieste di Tangentopoli. Quando morì, per il suo rango istituzionale d'ex premier, Palazzo Chigi propose i funerali di Stato. L'offerta venne respinta dalla famiglia, con sdegno analogo a quello manifestato anni prima dai congiunti di Aldo Moro.
Fu vera gloria, quella di Bettino Craxi?
Un uomo di cui si dibatte accesamente a dieci anni dalla morte, e ognuno dice la sua, ognuno ha un sentimento un risentimento un odio un affetto... È sotto gli occhi di tutti il suo trionfo postumo nella memoria e nel sentimento del popolo garibaldino.
Ma fu anche infamia, la sua?
Senz'alcun dubbio Craxi, grande premier, non rappresentò la miglior leadership che la storia del socialismo italiano tramandi. L'uso delle mazzette, non solo come strumento di competizione verso Dc e Pci, ma anche come fattore strutturale nella lotta interna al Psi, finì per mutare quel vecchio e glorioso baluardo d'umanità scapigliata in qualcosa di molto differente.
Ma, si sa, il partito per i socialisti è strumento, non fine. E Craxi di quello strumento aveva bisogno per un suo disegno d'innovazione. Amava l'Italia. L'amava molto, moltissimo, troppo. Quando la prese in consegna, primo presidente del Consiglio socialista, l'Italia versava in uno stato pietoso, avvilita da una profonda crisi economica e attraversata da terroristi assassini. La trasformò in un paese meno violento, meno depresso e più contento delle proprie capacità.
Amava l'Italia. Avrebbe voluto riformarla. Capiva l'urgenza delle riforme. Detestava l'ipocrisia gattopardesca dei dollari e dei rubli. Voleva portare al governo una vera classe dirigente. E di fronte ai briganti decise di far "brigante e mezzo", come dice Marco Pannella, vecchio sodale di Craxi fin dai tempi dell'università.
Primum vivere deinde philosophari, sentenziò una volta Ghino di Tacco. E imbarcò nel Psi un esercito di mercenari, sbarcando del pari quel coeacervo di correnti litigiose che gli parvero votate a soccombere nella morsa tra l'ortodossia comunista e l'unità politica dei cattolici.
Dimentico dell'insegnamento di Machiavelli sui mercenari – onerosi in tempo di pace, infami in tempo di guerra – finì travolto non dalle correnti e in fondo nemmeno da Tangentopoli (non s'offendano gli onorevoli giudici), ma da una fisima tutta craxiana e assurda: riformare la patria della Controriforma.
Così, quando l'establishment se lo ritrovò tra le mani o quasi, non vide l'ora di poterlo sottoporre allo scannamento rituale (una sorte oggettivamente diversa rispetto a quella toccata ad altri leader europei come Kohl o Chirac). E allora Bettino risolse: "Non tornerò in Italia né da vivo né da morto".
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La scomparsa di Craxi è coincisa con il collasso del progetto diessino. Amato e D'Alema volevano restituirci (ricordate?) "una grande forza socialista democratica di stampo europeo capace di concorrere al governo del Paese". Poi la doppia virata veltroniana ha condotto i DS dentro al PD, Prodi fuori dal governo e la sinistra, tutta, al naufragio.
Ora che Bersani è al timone del partito nuovo, Bobo Craxi giudica "evidente che il centrosinistra va sempre più verso la formazione di un soggetto socialdemocratico". Speriamo. Sarebbe soltanto che ora.
Ciò detto a proposito della situazione in Italia sia consentito aggiungere qui alcune poche parole sul socialismo d'emigrazione.
"Socialismo d'emigrazione" è il filo di una continuità politico-organizzativa che finora ha retto alla lunga durata sfidando il tempo e l'arroganza del potere. Nel nostro Paese, infatti, l'esistenza stessa di una formazione politica socialista viene messa in forse ripetutamente e periodicamente. È successo varie volte durante il secolo trascorso. Eppure la nostra più antica tradizione politico-organizzativa batte bandiera rossa, grazie al socialismo d'emigrazione.
È stato Craxi, nel centenario del Psi, a mettere in luce questa funzione di continuità del socialismo d'emigrazione. Lo ha fatto pubblicando la raccolta de L'Avvenire dei lavoratori a direzione siloniana. Silone aveva assunto la guida del Centro Estero socialista dopo l'invasione nazista della Francia dove aveva sede la direzione del Psi in esilio. Il passaggio delle consegne avvenne nel 1941 e Silone mantenne la leadership fino alla "ricostruzione in Italia di un forte Partito Socialista", resa possibile grazie al lavoro clandestino ed eroico di Colorni.
Nelle Avventure di Tonio Zappa Silone narra di un cafone abruzzese che prende la valigia e vaga per l'Europa, risucchiato in una ridda di miseria, di emarginazione e di lotta di classe (dall'alto) che egli subisce, fin dentro la galera: "Non ti basta che migliaia d'operai si spostino da un carcere d'Europa all'altro?", chiede Tonio a fine racconto.
Sono gli anni della grande crisi, quando l'America vara il new deal mentre l'Europa scivola nel nazi-fascismo: “Migliaia di Tonio Zappa si spostavano da un paese all’altro in cerca di pane. Ma il pane sfuggiva loro. Peregrinavano di paese in paese, ma la crisi li precedeva”.
Ogni riferimento alla condizione migrante nel nostro Paese è puramente intenzionale.
Il socialismo d'emigrazione nasce a fine Ottocento, in un'epoca di sanguinose persecuzioni anti-italiane: quattro operai ammazzati e ottanta feriti all'imbocco della galleria del Gottardo. Protestavano contro condizioni inumane (ma, a ben vedere, non peggiori di quelle in cui versano certi immigrati nell'Italia di oggi).
La caccia all'italiano culmina a Zurigo nei violentissimi Krawalle, che perdurano diversi giorni: "Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno", ci ricorda Gian Antonio Stella dalle colonne del Corriere della Sera: "Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo".
Queste, dunque, le radici del socialismo d'emigrazione, quello della continuità politico-organizzativa, stessa faccia e stessa razza degli schiavi di Rosarno.
Ciò detto, care e cari, andate. Planate pure sull'altra sponda del mare, tra le dune magrebine, con le vostre telecamere per grazia ricevuta. Ma, giunti a quella lapide, appoggiate tutto sulla sabbia. E portate anche il nostro saluto, per favore, unitamente a quello dei nostri fratelli schiavi d'Italia.
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O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
giovedì 14 gennaio 2010
Giusi La Ganga: Craxi
C R A X I
Avevo già conosciuto Craxi durante manifestazioni o comizi, ma la prima volta che lo incontrai a quattr’occhi fu nel novembre del 1976.
Da luglio era segretario, dopo la sconfitta elettorale e le dimissioni di De Martino, espresso da un gruppo di quarantenni che aveva preso la guida del partito, e che lo aveva proposto come segretario per le insistenze di Nenni e Mancini, ma che lo considerava solo un “primus inter pares”.
Sempre a luglio ero diventato segretario provinciale di Torino. Avevo 28 anni ed ero uno dei pochi esponenti della corrente di Giolitti, quella degli “intellettuali”, scelto probabilmente proprio perché non avevo un grande seguito e costituivo un punto di equilibrio fra le maggiori correnti.
Craxi cercava nuovi quadri dirigenti da valorizzare e che gli consentissero di avere più forza nel partito. La corrente autonomista del PSI, fondata da Nenni e guidata da Craxi, era infatti piccola e poco radicata in molte regioni.
Mi invitò ad andarlo a trovare nel suo ufficio di piazza Duomo, a Milano. Fu un incontro lungo e ricco. Mi colpì innanzitutto l’ambiente;
quadri dappertutto, montagne di libri e di carte, oggetti e cimeli da ogni parte del mondo, una tangibile prova di grandi relazioni internazionali.
Fisicamente era grande e grosso come me e scoprimmo che eravamo entrambi siciliani d’origine, di due paesi vicini sui Nebrodi, terra di rifugio nei secoli di perseguitati d’ogni genere. Da lì i nostri genitori erano venuti a Milano e a Torino, sposando ragazze del posto. Eravamo dei “terroni” del Nord.
Nacque una simpatia istintiva, anche se lui metteva soggezione. Era brusco, andava al sodo nei giudizi, aveva una visione ampia dei problemi, ma anche attento ai particolari. Era curioso di uomini e cose. Fu chiaro: dovevamo lavorare per restituire ai socialisti e a riformisti la guida della sinistra italiana. Per farlo dovevamo rinnovarci, aprendo il PSI alle influenze del socialismo europeo.
Cominciò così una collaborazione durata vent’anni.
In questi giorni di molte ipocrite riabilitazioni voglio ricordarlo per come lo conobbi e lo apprezzai io.
La prima cosa che mi viene di sottolineare è che Craxi era un uomo della sinistra italiana, anticomunista in nome di una sinistra liberale e riformista. In tutte le mille conversazioni private con lui ebbi sempre chiaro quel che pensava, e che mi faceva essere d’accordo con lui.
La sinistra italiana doveva profondamente cambiare per uscire dalla condizione di doppia subalternità alla DC e al PCI, e la collaborazione con la DC, indispensabile per ragioni interne e internazionali, doveva essere in qualche modo sempre competitiva, perché, “in nuce”, era la collaborazione fra due poli alternativi. Così era in Europa e così avrebbe dovuto essere in Italia.
Gli era chiaro che ad ostacolare questo disegno era la natura consociativa della Repubblica nata con il CLN e la propensione al dialogo diretto che DC e PCI mostravano ogni volta che i socialisti lo consentivano.
Aveva chiara l’origine pre-marxista della sinistra italiana e Garibaldi era non soltanto un mito romantico ma una figura simbolica.
Aveva tratto da Nenni un impianto istintivamente popolare, che gli faceva amare poco o nulla la tradizionale grassa borghesia del Nord, rappresentata da famiglie autoperpetuantesi e protese alla ricerca di risorse pubbliche per sostenere i propri affari. Ciò spiega la costante attenzione agli “uomini nuovi” che potessero emergere nell’economia, sostituendosi ad elites poco dinamiche e che percepiva come naturalmente ostili.
Come è normale, nella prassi discuteva con tutti, ma la diffidenza che provava era probabilmente percepita dai suoi interlocutori.
In generale i conservatori, i moderati e la destra in genere lo apprezzavano per il suo anticomunismo ma ne temevano le radici di sinistra.
Nella primavera del ’78 si tiene a Torino il Congresso, durante i giorni drammatici del sequestro Moro. La posizione socialista a favore del tentativo di salvare la vita del leader DC viene spiegata come una spregiudicata mossa per rompere l’asse DC-PCI. Non nego che ci fosse un calcolo politico (Berlinguer definì più volte Craxi un “giocatore di poker”), ma posso testimoniare che alla base di quella scelta vi era anche l’angoscia sincera che Craxi mostrava ad ogni passaggio della vicenda. Alla base c’era l’idea della tutela della vita umana di fronte alla spietata “ragion di stato”, un umanesimo socialista che cercava interlocutori, distinguendosi dalla zelante “fermezza” di cui i comunisti volevano dar prova, anche per esorcizzare le radici militar-comuniste delle BR.
Un anno dopo divento deputato. Nel giorno di inaugurazione della legislatura Craxi scrive per l’Avanti! un fondo in cui pone la questione delle riforme istituzionali. E’ la prima volta (a parte Pacciardi, trattato quasi come un fascista) che un leader democratico affronta il tema della modernizzazione delle istituzioni e della revisione della Costituzione.
Fu un argomento costante della battaglia di Craxi. Oggi lo si riconosce ma insieme ne si deforma il senso. Nulla aveva a che spartire lo spirito dei socialisti di allora con molte proposte di oggi, che delineano una democrazia plebiscitaria e senza partiti, senza equilibri e contrappesi, in sostanziale discontinuità con la democrazia repubblicana della Costituente.
L’idea di Craxi era di riprendere tesi e proposte accantonate alla Costituente (si pensi per esempio a Calamandrei), nonché le migliori esperienze francesi e tedesche, per rafforzare le istituzioni, che, senza cambiamenti, si sarebbero sempre più deteriorate.
Trentadue anni dopo, i fatti testimoniano quanto quell’intuizione fosse lungimirante.
Le elezioni del ’79 rinnovano radicalmente il gruppo parlamentare socialista. Craxi, quarantenne, alleva una generazione di trentenni, che segue con attenzione. Ho vivo il ricordo delle tante serate trascorse in fumose trattorie, oggi scomparse, a tirar tardi discutendo con passione.
Craxi raccontava: storie apprese da suo padre, Prefetto di Como alla Liberazione, racconti di Nenni sulla guerra di Spagna, le intricate vicende dei rapporti Nenni-Mussolini. Si formò così il gruppo dirigente che guidò il PSI per quindici anni.
Il Congresso di Palermo del ’81 segna la definitiva conquista della maggioranza nel partito da parte della corrente autonomista, che cambia nome. Diventa “riformista”, come ai tempi di Turati. L’autonomia dei socialisti è conquistata, ora le riforme.
Palermo è il Congresso del “Viva l’Italia”, la canzone che diventa quasi una parola d’ordine, il rilancio di un patriottismo democratico, garibaldino, sottratto alle grinfie della Destra. L’Inno di Mameli risuona per la prima volta in un Congresso, affiancato all’Inno dei Lavoratori, che ora, non so perché, non si sente più. Craxi conclude il Congresso in maniche di camicia, con le lacrime agli occhi, in un clima di grande entusiasmo.
L’anno dopo, Rimini. I meriti e i bisogni. Un messaggio di modernità e giustizia.
Le elezioni dell’83 aprono la strada della guida del governo. La fase più alta dell’esperienza di Craxi. Molti ne hanno sottolineato i passaggi più significativi: scala mobile e relativo referendum, Sigonella, revisione del Concordato. Di quella fase a me preme ricordare un episodio, che ben spiega l’idea che Craxi aveva del primato della politica.
All’epoca, fra le altre cose, seguivo per conto del partito i sondaggi e in quella veste gli avevo segnalato le difficoltà del referendum sulla scala mobile, dove in sostanza si chiedeva agli italiani di rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Cosa che è sempre difficile da far capire e accettare. Lui non si scompose e mi replicò che i sondaggi si fanno non per adeguarvisi passivamente, ma, se necessario, per riuscire a far cambiare idea alla gente. Il leader deve assumersi il rischio di ciò che ritiene l’interesse generale e la politica deve guidare la società e non subirne gli umori. Quanta distanza da Berlusconi e Veltroni!
Dopo l’87 si apre la fase più difficile: una sorta di traversata nel deserto in attesa di un ritorno alla guida del paese, che, nelle sue intenzioni, avrebbe consentito finalmente lo sfondamento a sinistra e conseguentemente l’alternativa alla DC.
Ma nel frattempo si addensavano le nubi. Lo stato del partito non era buono. La traduzione in periferia della politica di Craxi era quanto mai discutibile e provocava reazioni crescenti. Io ero da tempo responsabile degli enti locali e ogni giorno cercavo di correggere le intemperanze periferiche. La centralità della posizione socialista non doveva tanto essere usata per massimizzare il potere in sè, quanto per innescare processi politici. Ma spesso non avveniva così, e cresceva il rancore verso un ceto politico vissuto come arrogante e inamovibile.
Mentre al centro la politica era padrona, in periferia spesso era ancella, al servizio di altro. Questo valeva anche per il finanziamento del partito, che anche il PSI, come gli altri, reperiva in forme non trasparenti. Ma se per molti questo era un mezzo, al servizio di un progetto, per alcuni diventava un fine. Faceva il resto la fragile struttura del partito, che, a differenza del PCI, non disponeva di eroici ex partigiani o dei Greganti di turno, che gestivano un sistema ancora oggi in gran parte sconosciuto e di cui gli eredi continuano a non parlare.
La degenerazione del sistema politico, che era generale, sembrava, per effetto di queste circostanze, riguardare soprattutto i socialisti. Che pagavano anche un minor radicamento nelle strutture dello stato (Magistratura, Servizi segreti, alta burocrazia). A questo bisogna aggiungere l’inevitabile sovraesposizione di chi doveva continuamente combattere su due fronti all’interno, di chi cercava di emanciparsi da una servile acquiescenza alla politica americana, di chi sosteneva la causa dei palestinesi, di chi sosteneva e alimentava il dissenso all’Est e i democratici schiacciati da regimi dittatoriali in tutto il mondo.
C’erano le premesse per gli eventi successivi.
L’anno decisivo fu sicuramente il 1989.
Il crollo del comunismo nell’Est mette in moto la situazione. Craxi da un lato esalta la natura di sinistra del PSI (“Una bandiera rossa di cui non ci dobbiamo vergognare”, disse facendola esporre dal balcone di via del Corso a Roma, il giorno della caduta del muro di Berlino), moltiplica i contatti con i “miglioristi” del PCI, divenuto, in fretta e senza particolari autocritiche, PDS, modifica la scritta sul simbolo del Garofano, aggiungendo le parole “Unità Socialista”; dall’altro tiene in piedi il rapporto con la DC aspettando l’ineluttabile collasso a sinistra.
Questa tattica attendista, pur giustificata dall’enorme diffidenza verso lo spregiudicato antisocialismo del giovane gruppo dirigente del PDS (i “nipotini di Berlinguer”), diventa un rischio, se protratta troppo a lungo.
E qui le vicende politiche si intrecciano con quelle personali e private.
Alla fine del ’89 Craxi ha un grave malore. Nessuno drammatizza, ma resta lontano da Roma per un mese. Quando torna, sono fra i primi ad incontrarlo. Mi fa una strana impressione: sembra invecchiato e poco combattivo. Ad un certo punto mi guarda fisso: “Non sai cosa vuol dire guardare la morte negli occhi”. Lì per lì non diedi particolare importanza alla cosa. Si ritornò tutti al lavoro.
A distanza di anni, ripensando mille volte a quei momenti decisivi mi sono formato un’opinione. La crescente circospezione , l’immobilismo con cui affrontammo la fase terminale del pentapartito ha anche una spiegazione soggettiva, una certa stanchezza che intorpidiva le analisi e le decisioni. Craxi era un leader forte ed era difficile contraddirlo. Ognuno di noi avrebbe forse potuto e dovuto fare di più, ma era comunque molto difficile.
D’altra parte vi erano molte apparenti buone ragioni per una tattica non aggressiva. Il PDS rifiutava anche nel nome l’approdo socialista, molti dei suoi dirigenti, che ci parlavano di nascosto, preconizzavano l’imminente collasso del partito, i risultati elettorali parziali continuavano ad essere buoni.
Craxi e tutti noi sottovalutammo le capacità di sopravvivenza del PDS, che era l’erede di un partito comunista anomalo, diverso da quello francese, socialdemocratico nella prassi amministrativa e profondamente radicato in alcune parti del paese. La stessa scelta di cambiare nome mantenendo una continuità storica, pur molto discutibile, agevolava la transizione.
Inoltre, aspettando l’Unità Socialista, non ci accorgemmo che il paese stava sbandando. La fine della guerra fredda stava scongelando il sistema politico, liberando energie positive, ma anche spinte demagogiche, populiste e qualunquiste.
Un grande rilancio delle riforme, la rottura degli equilibri politici e una svolta modernizzatrice era nelle possibilità di Craxi. Non fu così. Certo c’era sempre qualche buona ragione che induceva a temporeggiare. Ricordo che nel ’91, quando ci fu una crisi nella quale La Malfa uscì dal governo, si pensò ad elezioni anticipate, che probabilmente avrebbero indirizzato il malessere del paese in direzioni diverse da quelle che poi prese. Craxi ci pensò. A me disse, a crisi ricomposta, che dal PDS gli avevano chiesto aiuto per rinviare alla scadenza naturale del ’92 elezioni che li vedevano totalmente impreparati. Probabilmente è vero, ma il Craxi di 10 anni prima non si sarebbe certo fermato per questo.
Alla fine del ’91 Chiaromonte, uno dei dirigenti comunisti che più stimava e frequentava, avvertì Craxi che le speranze di una riconciliazione a sinistra stavano sfumando. Gli disse che i “nipotini di Berlinguer” avevano scelto di combattere con ogni mezzo, anche “per via giudiziaria”.
Craxi me lo raccontò, scettico su quel che potesse significare. Gli risposi che, per la mia esperienza torinese, non era cosa che si potesse sottovalutare. Ma ormai il tempo stava scadendo.
Ciononostante le elezioni del ’92 danno un risultato discreto. Il governo mantiene una risicata maggioranza aritmetica. Ma la bufera ormai incalza e travolge qualunque equilibrio. Craxi stenta ad accettare l’idea di poter essere un bersaglio diretto. Spera di poter formare un governo, poi ripiega su Amato. Ma ormai la politica cede il passo alla canea mediatica, alle inchieste, ai cappi sventolati in Parlamento, alle monetine lanciate per strada, ai suicidi, alle morti sospette.
Il lavacro purificatore purtroppo non purificherà granchè, ma questo lo si scoprirà più tardi.
L’ultima mossa politica fu il suo famoso discorso alla Camera, in cui invitava tutti ad un bagno di verità. Nessuno aprì bocca. Fece forse l’errore di non dar seguito a quel discorso con un pubblico atto di autoaccusa, che potesse rimettere in movimento un’iniziativa politica. Sbagliò forse l’intero gruppo dirigente a non autoaccusarsi, dando a questo un significato politico che facilitasse il superamento della crisi. Ognuno se la cavò come potè.
Craxi, ferito e deluso, nel ’94 lascia l’Italia. Lo vidi ancora prima che partisse. Molti oggi dicono che non avrebbe dovuto andarsene. Ma allora non lo pensavo, e non glielo dissi. Troppo forte era il desiderio di linciaggio, troppo grandi i rischi, anche per la sua vita.
Lo andai a trovare in Tunisia. Era un leone in gabbia, carte dappertutto, fax in ebollizione, segnato dal diabete, con un piede martoriato.
Girai con lui per Hammamet. Era salutato da tutti con simpatia. In alcuni caffè esponevano la sua foto. Zoppicava. Eppure manteneva integri i tratti della sua personalità. Attento anche alle vicende private degli amici, affettuoso con me, come sempre. Cenai più volte a casa sua, sempre piena di gente. Scherzando ci dicemmo che sembrava di essere a Cascais.
Ci sentivamo ogni tanto al telefono. Ma non quanto avrei voluto. Ognuno di noi era immerso nei propri problemi e nel proprio dolore.
Chi non lo ha conosciuto stenta a credere che, dietro il suo modo di fare brusco, si nascondesse un uomo capace di affettuosità e grande dolcezza.
Che aveva della politica un’idea alta e nobile, che combatteva duramente ma rispettava gli avversari.
In uno dei momenti di maggiore scontro con il PCI, l’Avanti! aveva attaccato con rudezza Giancarlo Pajetta. Craxi si arrabbiò molto. Davanti a me chiamò Intini e lo rimproverò. “Ricordati che Giancarlo è un eroe, che ha dedicato la sua vita alla lotta per la libertà. E poi ha quarant’anni più di te e merita il tuo e nostro rispetto”.
Anche Craxi merita, oltre all’affetto di chi ha vissuto e lavorato con lui, il rispetto che si deve a chi ha combattuto generosamente la propria battaglia in nome di ideali e passioni che solo una sinistra cieca e settaria può regalare ad altri.
Giusi La Ganga
Torino, 19 gennaio 2010
Avevo già conosciuto Craxi durante manifestazioni o comizi, ma la prima volta che lo incontrai a quattr’occhi fu nel novembre del 1976.
Da luglio era segretario, dopo la sconfitta elettorale e le dimissioni di De Martino, espresso da un gruppo di quarantenni che aveva preso la guida del partito, e che lo aveva proposto come segretario per le insistenze di Nenni e Mancini, ma che lo considerava solo un “primus inter pares”.
Sempre a luglio ero diventato segretario provinciale di Torino. Avevo 28 anni ed ero uno dei pochi esponenti della corrente di Giolitti, quella degli “intellettuali”, scelto probabilmente proprio perché non avevo un grande seguito e costituivo un punto di equilibrio fra le maggiori correnti.
Craxi cercava nuovi quadri dirigenti da valorizzare e che gli consentissero di avere più forza nel partito. La corrente autonomista del PSI, fondata da Nenni e guidata da Craxi, era infatti piccola e poco radicata in molte regioni.
Mi invitò ad andarlo a trovare nel suo ufficio di piazza Duomo, a Milano. Fu un incontro lungo e ricco. Mi colpì innanzitutto l’ambiente;
quadri dappertutto, montagne di libri e di carte, oggetti e cimeli da ogni parte del mondo, una tangibile prova di grandi relazioni internazionali.
Fisicamente era grande e grosso come me e scoprimmo che eravamo entrambi siciliani d’origine, di due paesi vicini sui Nebrodi, terra di rifugio nei secoli di perseguitati d’ogni genere. Da lì i nostri genitori erano venuti a Milano e a Torino, sposando ragazze del posto. Eravamo dei “terroni” del Nord.
Nacque una simpatia istintiva, anche se lui metteva soggezione. Era brusco, andava al sodo nei giudizi, aveva una visione ampia dei problemi, ma anche attento ai particolari. Era curioso di uomini e cose. Fu chiaro: dovevamo lavorare per restituire ai socialisti e a riformisti la guida della sinistra italiana. Per farlo dovevamo rinnovarci, aprendo il PSI alle influenze del socialismo europeo.
Cominciò così una collaborazione durata vent’anni.
In questi giorni di molte ipocrite riabilitazioni voglio ricordarlo per come lo conobbi e lo apprezzai io.
La prima cosa che mi viene di sottolineare è che Craxi era un uomo della sinistra italiana, anticomunista in nome di una sinistra liberale e riformista. In tutte le mille conversazioni private con lui ebbi sempre chiaro quel che pensava, e che mi faceva essere d’accordo con lui.
La sinistra italiana doveva profondamente cambiare per uscire dalla condizione di doppia subalternità alla DC e al PCI, e la collaborazione con la DC, indispensabile per ragioni interne e internazionali, doveva essere in qualche modo sempre competitiva, perché, “in nuce”, era la collaborazione fra due poli alternativi. Così era in Europa e così avrebbe dovuto essere in Italia.
Gli era chiaro che ad ostacolare questo disegno era la natura consociativa della Repubblica nata con il CLN e la propensione al dialogo diretto che DC e PCI mostravano ogni volta che i socialisti lo consentivano.
Aveva chiara l’origine pre-marxista della sinistra italiana e Garibaldi era non soltanto un mito romantico ma una figura simbolica.
Aveva tratto da Nenni un impianto istintivamente popolare, che gli faceva amare poco o nulla la tradizionale grassa borghesia del Nord, rappresentata da famiglie autoperpetuantesi e protese alla ricerca di risorse pubbliche per sostenere i propri affari. Ciò spiega la costante attenzione agli “uomini nuovi” che potessero emergere nell’economia, sostituendosi ad elites poco dinamiche e che percepiva come naturalmente ostili.
Come è normale, nella prassi discuteva con tutti, ma la diffidenza che provava era probabilmente percepita dai suoi interlocutori.
In generale i conservatori, i moderati e la destra in genere lo apprezzavano per il suo anticomunismo ma ne temevano le radici di sinistra.
Nella primavera del ’78 si tiene a Torino il Congresso, durante i giorni drammatici del sequestro Moro. La posizione socialista a favore del tentativo di salvare la vita del leader DC viene spiegata come una spregiudicata mossa per rompere l’asse DC-PCI. Non nego che ci fosse un calcolo politico (Berlinguer definì più volte Craxi un “giocatore di poker”), ma posso testimoniare che alla base di quella scelta vi era anche l’angoscia sincera che Craxi mostrava ad ogni passaggio della vicenda. Alla base c’era l’idea della tutela della vita umana di fronte alla spietata “ragion di stato”, un umanesimo socialista che cercava interlocutori, distinguendosi dalla zelante “fermezza” di cui i comunisti volevano dar prova, anche per esorcizzare le radici militar-comuniste delle BR.
Un anno dopo divento deputato. Nel giorno di inaugurazione della legislatura Craxi scrive per l’Avanti! un fondo in cui pone la questione delle riforme istituzionali. E’ la prima volta (a parte Pacciardi, trattato quasi come un fascista) che un leader democratico affronta il tema della modernizzazione delle istituzioni e della revisione della Costituzione.
Fu un argomento costante della battaglia di Craxi. Oggi lo si riconosce ma insieme ne si deforma il senso. Nulla aveva a che spartire lo spirito dei socialisti di allora con molte proposte di oggi, che delineano una democrazia plebiscitaria e senza partiti, senza equilibri e contrappesi, in sostanziale discontinuità con la democrazia repubblicana della Costituente.
L’idea di Craxi era di riprendere tesi e proposte accantonate alla Costituente (si pensi per esempio a Calamandrei), nonché le migliori esperienze francesi e tedesche, per rafforzare le istituzioni, che, senza cambiamenti, si sarebbero sempre più deteriorate.
Trentadue anni dopo, i fatti testimoniano quanto quell’intuizione fosse lungimirante.
Le elezioni del ’79 rinnovano radicalmente il gruppo parlamentare socialista. Craxi, quarantenne, alleva una generazione di trentenni, che segue con attenzione. Ho vivo il ricordo delle tante serate trascorse in fumose trattorie, oggi scomparse, a tirar tardi discutendo con passione.
Craxi raccontava: storie apprese da suo padre, Prefetto di Como alla Liberazione, racconti di Nenni sulla guerra di Spagna, le intricate vicende dei rapporti Nenni-Mussolini. Si formò così il gruppo dirigente che guidò il PSI per quindici anni.
Il Congresso di Palermo del ’81 segna la definitiva conquista della maggioranza nel partito da parte della corrente autonomista, che cambia nome. Diventa “riformista”, come ai tempi di Turati. L’autonomia dei socialisti è conquistata, ora le riforme.
Palermo è il Congresso del “Viva l’Italia”, la canzone che diventa quasi una parola d’ordine, il rilancio di un patriottismo democratico, garibaldino, sottratto alle grinfie della Destra. L’Inno di Mameli risuona per la prima volta in un Congresso, affiancato all’Inno dei Lavoratori, che ora, non so perché, non si sente più. Craxi conclude il Congresso in maniche di camicia, con le lacrime agli occhi, in un clima di grande entusiasmo.
L’anno dopo, Rimini. I meriti e i bisogni. Un messaggio di modernità e giustizia.
Le elezioni dell’83 aprono la strada della guida del governo. La fase più alta dell’esperienza di Craxi. Molti ne hanno sottolineato i passaggi più significativi: scala mobile e relativo referendum, Sigonella, revisione del Concordato. Di quella fase a me preme ricordare un episodio, che ben spiega l’idea che Craxi aveva del primato della politica.
All’epoca, fra le altre cose, seguivo per conto del partito i sondaggi e in quella veste gli avevo segnalato le difficoltà del referendum sulla scala mobile, dove in sostanza si chiedeva agli italiani di rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Cosa che è sempre difficile da far capire e accettare. Lui non si scompose e mi replicò che i sondaggi si fanno non per adeguarvisi passivamente, ma, se necessario, per riuscire a far cambiare idea alla gente. Il leader deve assumersi il rischio di ciò che ritiene l’interesse generale e la politica deve guidare la società e non subirne gli umori. Quanta distanza da Berlusconi e Veltroni!
Dopo l’87 si apre la fase più difficile: una sorta di traversata nel deserto in attesa di un ritorno alla guida del paese, che, nelle sue intenzioni, avrebbe consentito finalmente lo sfondamento a sinistra e conseguentemente l’alternativa alla DC.
Ma nel frattempo si addensavano le nubi. Lo stato del partito non era buono. La traduzione in periferia della politica di Craxi era quanto mai discutibile e provocava reazioni crescenti. Io ero da tempo responsabile degli enti locali e ogni giorno cercavo di correggere le intemperanze periferiche. La centralità della posizione socialista non doveva tanto essere usata per massimizzare il potere in sè, quanto per innescare processi politici. Ma spesso non avveniva così, e cresceva il rancore verso un ceto politico vissuto come arrogante e inamovibile.
Mentre al centro la politica era padrona, in periferia spesso era ancella, al servizio di altro. Questo valeva anche per il finanziamento del partito, che anche il PSI, come gli altri, reperiva in forme non trasparenti. Ma se per molti questo era un mezzo, al servizio di un progetto, per alcuni diventava un fine. Faceva il resto la fragile struttura del partito, che, a differenza del PCI, non disponeva di eroici ex partigiani o dei Greganti di turno, che gestivano un sistema ancora oggi in gran parte sconosciuto e di cui gli eredi continuano a non parlare.
La degenerazione del sistema politico, che era generale, sembrava, per effetto di queste circostanze, riguardare soprattutto i socialisti. Che pagavano anche un minor radicamento nelle strutture dello stato (Magistratura, Servizi segreti, alta burocrazia). A questo bisogna aggiungere l’inevitabile sovraesposizione di chi doveva continuamente combattere su due fronti all’interno, di chi cercava di emanciparsi da una servile acquiescenza alla politica americana, di chi sosteneva la causa dei palestinesi, di chi sosteneva e alimentava il dissenso all’Est e i democratici schiacciati da regimi dittatoriali in tutto il mondo.
C’erano le premesse per gli eventi successivi.
L’anno decisivo fu sicuramente il 1989.
Il crollo del comunismo nell’Est mette in moto la situazione. Craxi da un lato esalta la natura di sinistra del PSI (“Una bandiera rossa di cui non ci dobbiamo vergognare”, disse facendola esporre dal balcone di via del Corso a Roma, il giorno della caduta del muro di Berlino), moltiplica i contatti con i “miglioristi” del PCI, divenuto, in fretta e senza particolari autocritiche, PDS, modifica la scritta sul simbolo del Garofano, aggiungendo le parole “Unità Socialista”; dall’altro tiene in piedi il rapporto con la DC aspettando l’ineluttabile collasso a sinistra.
Questa tattica attendista, pur giustificata dall’enorme diffidenza verso lo spregiudicato antisocialismo del giovane gruppo dirigente del PDS (i “nipotini di Berlinguer”), diventa un rischio, se protratta troppo a lungo.
E qui le vicende politiche si intrecciano con quelle personali e private.
Alla fine del ’89 Craxi ha un grave malore. Nessuno drammatizza, ma resta lontano da Roma per un mese. Quando torna, sono fra i primi ad incontrarlo. Mi fa una strana impressione: sembra invecchiato e poco combattivo. Ad un certo punto mi guarda fisso: “Non sai cosa vuol dire guardare la morte negli occhi”. Lì per lì non diedi particolare importanza alla cosa. Si ritornò tutti al lavoro.
A distanza di anni, ripensando mille volte a quei momenti decisivi mi sono formato un’opinione. La crescente circospezione , l’immobilismo con cui affrontammo la fase terminale del pentapartito ha anche una spiegazione soggettiva, una certa stanchezza che intorpidiva le analisi e le decisioni. Craxi era un leader forte ed era difficile contraddirlo. Ognuno di noi avrebbe forse potuto e dovuto fare di più, ma era comunque molto difficile.
D’altra parte vi erano molte apparenti buone ragioni per una tattica non aggressiva. Il PDS rifiutava anche nel nome l’approdo socialista, molti dei suoi dirigenti, che ci parlavano di nascosto, preconizzavano l’imminente collasso del partito, i risultati elettorali parziali continuavano ad essere buoni.
Craxi e tutti noi sottovalutammo le capacità di sopravvivenza del PDS, che era l’erede di un partito comunista anomalo, diverso da quello francese, socialdemocratico nella prassi amministrativa e profondamente radicato in alcune parti del paese. La stessa scelta di cambiare nome mantenendo una continuità storica, pur molto discutibile, agevolava la transizione.
Inoltre, aspettando l’Unità Socialista, non ci accorgemmo che il paese stava sbandando. La fine della guerra fredda stava scongelando il sistema politico, liberando energie positive, ma anche spinte demagogiche, populiste e qualunquiste.
Un grande rilancio delle riforme, la rottura degli equilibri politici e una svolta modernizzatrice era nelle possibilità di Craxi. Non fu così. Certo c’era sempre qualche buona ragione che induceva a temporeggiare. Ricordo che nel ’91, quando ci fu una crisi nella quale La Malfa uscì dal governo, si pensò ad elezioni anticipate, che probabilmente avrebbero indirizzato il malessere del paese in direzioni diverse da quelle che poi prese. Craxi ci pensò. A me disse, a crisi ricomposta, che dal PDS gli avevano chiesto aiuto per rinviare alla scadenza naturale del ’92 elezioni che li vedevano totalmente impreparati. Probabilmente è vero, ma il Craxi di 10 anni prima non si sarebbe certo fermato per questo.
Alla fine del ’91 Chiaromonte, uno dei dirigenti comunisti che più stimava e frequentava, avvertì Craxi che le speranze di una riconciliazione a sinistra stavano sfumando. Gli disse che i “nipotini di Berlinguer” avevano scelto di combattere con ogni mezzo, anche “per via giudiziaria”.
Craxi me lo raccontò, scettico su quel che potesse significare. Gli risposi che, per la mia esperienza torinese, non era cosa che si potesse sottovalutare. Ma ormai il tempo stava scadendo.
Ciononostante le elezioni del ’92 danno un risultato discreto. Il governo mantiene una risicata maggioranza aritmetica. Ma la bufera ormai incalza e travolge qualunque equilibrio. Craxi stenta ad accettare l’idea di poter essere un bersaglio diretto. Spera di poter formare un governo, poi ripiega su Amato. Ma ormai la politica cede il passo alla canea mediatica, alle inchieste, ai cappi sventolati in Parlamento, alle monetine lanciate per strada, ai suicidi, alle morti sospette.
Il lavacro purificatore purtroppo non purificherà granchè, ma questo lo si scoprirà più tardi.
L’ultima mossa politica fu il suo famoso discorso alla Camera, in cui invitava tutti ad un bagno di verità. Nessuno aprì bocca. Fece forse l’errore di non dar seguito a quel discorso con un pubblico atto di autoaccusa, che potesse rimettere in movimento un’iniziativa politica. Sbagliò forse l’intero gruppo dirigente a non autoaccusarsi, dando a questo un significato politico che facilitasse il superamento della crisi. Ognuno se la cavò come potè.
Craxi, ferito e deluso, nel ’94 lascia l’Italia. Lo vidi ancora prima che partisse. Molti oggi dicono che non avrebbe dovuto andarsene. Ma allora non lo pensavo, e non glielo dissi. Troppo forte era il desiderio di linciaggio, troppo grandi i rischi, anche per la sua vita.
Lo andai a trovare in Tunisia. Era un leone in gabbia, carte dappertutto, fax in ebollizione, segnato dal diabete, con un piede martoriato.
Girai con lui per Hammamet. Era salutato da tutti con simpatia. In alcuni caffè esponevano la sua foto. Zoppicava. Eppure manteneva integri i tratti della sua personalità. Attento anche alle vicende private degli amici, affettuoso con me, come sempre. Cenai più volte a casa sua, sempre piena di gente. Scherzando ci dicemmo che sembrava di essere a Cascais.
Ci sentivamo ogni tanto al telefono. Ma non quanto avrei voluto. Ognuno di noi era immerso nei propri problemi e nel proprio dolore.
Chi non lo ha conosciuto stenta a credere che, dietro il suo modo di fare brusco, si nascondesse un uomo capace di affettuosità e grande dolcezza.
Che aveva della politica un’idea alta e nobile, che combatteva duramente ma rispettava gli avversari.
In uno dei momenti di maggiore scontro con il PCI, l’Avanti! aveva attaccato con rudezza Giancarlo Pajetta. Craxi si arrabbiò molto. Davanti a me chiamò Intini e lo rimproverò. “Ricordati che Giancarlo è un eroe, che ha dedicato la sua vita alla lotta per la libertà. E poi ha quarant’anni più di te e merita il tuo e nostro rispetto”.
Anche Craxi merita, oltre all’affetto di chi ha vissuto e lavorato con lui, il rispetto che si deve a chi ha combattuto generosamente la propria battaglia in nome di ideali e passioni che solo una sinistra cieca e settaria può regalare ad altri.
Giusi La Ganga
Torino, 19 gennaio 2010
Francesco Somaini: Craxi
Craxi – di Francesco Somaini
Scritto il 10 febbraio 2005 (a commento del discorso di Piero Fassino al 3° Congresso Nazionale dei Democratici di Sinistra – Roma, 3-5 febbraio 2005).
Quando Piero Fassino, nel suo discorso dell’altro giorno, ha richiamato il nome di Craxi (assieme a quelli di Turati, di Nenni e di Saragat) come parte di quella grande famiglia del Socialismo riformista alla quale i DS dichiarano oggi di richiamarsi (ma intanto realizzano una federazione che di socialista sembra avere francamente assai poco), io non sono tra quelli che si sono particolarmente impressionati.
Ho visto, certo, che alcuni hanno reagito con entusiasmo, come se di Craxi vi fosse stato un meditato e solenne riconoscimento storico e politico. Ho notato, egualmente, che altri hanno invece tirato fuori il solito argomento del “va bene, ma non basta”, mentre altri ancora, per contro, si sono detti letteralmente disgustati.
A me invece quel richiamo al nome di Craxi è parso più che altro un riferimento sbrigativo, un po’ banale, e arriverei a dire perfino sciatto: quasi un liquidare il discorso su Craxi con qualche superficiale frase di circostanza, senza tenere conto delle implicazioni profonde che l’argomento, invece, dovrebbe a mio avviso sollevare.
Il fatto è che io penso che la questione Craxi non sia uno di quei temi di cui ci si possa sbarazzare con poche battute (nemmeno tenendo conto di doverne parlare in una relazione politica ad ampio spettro).
Al contrario, per me che sono socialista (e che sono stato a lungo anche craxiano), il tema Craxi è un argomento difficile, controverso, e particolarmente impegnativo, che richiede lo sforzo di formulare un giudizio storicamente complesso e meditato.
In realtà, ho notato che molti sono soliti impostare i loro ragionamenti su Craxi, dividendo Craxi in due parti, come fosse una mela.
Da una parte ci sarebbe un primo Craxi, buono; dall'altro un secondo Craxi, cattivo.
Generalmente coloro che compiono questa operazione “storiografica” sono peraltro portati a dissentire sul punto in cui dividere queste due metà, o meglio sul momento in cui si dovrebbe collocare il passaggio dall'una all'altra fase (alcuni, come ad esempio Flores d’Arcais, ancora in una sua recentissima dichiarazione, risolvono solipsisticamente il problema facendo coincidere questa presunta cesura con il momento della loro rottura personale con Craxi stesso: il che non mi pare un metodo molto serio).
Io - che, sia detto per inciso, non ho sinceramente alcuna stima di Flores, perchè mi pare persona intollerante e aggressiva – penso in realtà che questo distinguere tra due differenti Craxi sia un'operazione intellettualmente non troppo corretta.
Certo, nella vicenda umana di Craxi, c'è evidentemente una grossa cesura, ma questa è la cesura che separa il Craxi politico dal Craxi della latitanza.
Il Craxi latitante (che la si smetta, una buona volta, di parlare di esilio!) è oggettivamente un Craxi che si trova a vivere un'esperienza del tutto diversa rispetto a quello che era stato tutto il suo precedente vissuto. Ad Hammamet Craxi si trova in effetti catapultato in una dimensione talmente altra rispetto al prima da rendere inevitabile il riconoscere la realtà di una svolta radicale nella sua esistenza (a prescindere da quel che si pensi sulla sua discutibile scelta di sottrarsi alla giustizia).
Ma il Craxi precedente al 1994, il Craxi politico, non può essere, a mio avviso, spaccato in due.
Non trovo francamente molto convincente, perciò, pensare ad una fase in cui prevalesse la luce (e da salvare), rispetto ad un'altra in cui sarebbero prevalse le ombre (e come tale da respingere). Luci e ombre, nella vicenda di Craxi, si compenetrano di continuo, ed egli va considerato nella sua interezza, come una figura chiaroscurale, con tratti negativi (che sono molti) ma anche dei tratti positivi (ce ne fu dopo tutto più di qualcuno, come deve riconoscere perfino l’inacidito Flores d’Arcais).
Craxi in effetti ebbe delle intuizioni politiche importanti e commise degli errori clamorosi. Fece a volte delle scelte giuste e coraggiose, e altre volte ne compì di sbagliate o anche di totalmente deprecabili.
Facciamo qualche esempio.
Nel 1979, mentre il PCI, in nome di un pacifismo francamente un po’ peloso, sfilava sotto la base di Comiso, avallando di fatto la mossa dell'URSS che aveva puntato gli SS 20 contro l'Europa, Craxi pronunciava un sì determinante all'installazione degli euromissili. La fermezza di Craxi in quella vicenda, così come quella del socialdemocratico Helmut Schmidt in Germania, contribuì in modo decisivo a mandare in fumo il disegno sovietico di alterare gli equilibri geostrategici dell'Europa. La fermezza di Italia e Germania in quella circostanza si rivelò un passaggio cruciale nel portare al fallimento dei disegni di grandeur imperiale del gruppo dirigente brezneviano, e come tale contribuì anche al successivo crollo, di lì ad un decennio, del blocco comunista. Se nel 1979 Craxi e Schimdt avessero agito diversamente, oggi ci troveremmo probabilmente in un mondo diverso, e non credo, nonostante tutto, che sarebbe un mondo migliore.
D'altro canto, per restare alla politica estera, lo stesso Craxi, nel 1982, non condannò i generali argentini che avevano attaccato le Falkland inglesi. Un regime fascista di militari massacratori cercava di rafforzarsi attraverso una politica estera arrogante e aggressiva, e Craxi, per pigri calcoli elettoralistici, non prese una posizione ferma.
Craxi, da presidente del consiglio, firmò la revisione del concordato con la Chiesa cattolica, cedendo su punti decisivi come l'insegnamento della religione nelle scuole. E' una cosa che da convinto laicista non gli so francamente perdonare, come non so perdonargli le aperture di quegli anni a Comunione e Liberazione. Sempre Craxi - e di nuovo per un malriposto opportunismo - sposò la politica proibizionistica e repressiva in fatto di lotta alla droga, mandando a farsi benedire la tradizione libertaria del Socialismo italiano. Su queste cose non ci si sarebbe dovuti permettere di sbandare.
Ancora: Craxi abolì la scala mobile, permettendo di mettere un freno alla spirale dell'inflazione. Fu una scelta difficile, ma non si può negare che fosse stata una scelta coraggiosa. Io penso che sia stato dopo tutto un bene sul piano politico. Era importante rompere in qualche modo il potere di veto del PCI, che allora controllava la CGIL (che in realtà non voleva il referendum, ma lo dovette subire). Bisognava riaffermare il primato della politica e anche salvaguardare il principio dell’autonomia sindacale.
Nel merito, peraltro, è anche vero che il prezzo di quella politica deflazionistica fu principalmente fatto pagare ai lavoratori (che in realtà, a dispetto di quel che diceva la propaganda di allora, hanno poi visto, nel corso degli anni, diminuire sensibilmente il loro potere d'acquisto). Forse in quel momento non c’erano molte alternative, ma sulla questione il giudizio rimane quanto meno controverso. Non c’è dubbio però che mentre agli operai Craxi toglieva gli scatti della contingenza, agli Agnelli “regalava” l'Alfa Romeo affinché la smantellassero in poco tempo (e tra l’altro nessuno ci è venuto mai a raccontare se per caso gli Agnelli avessero regalato qualcosa a Craxi per ringraziarlo: forse che di casa Agnelli è proibito parlare?).
Sempre Craxi è stato poi tra i responsabili (ma in questo non è stato il solo) della gigantesca voragine del debito pubblico. I problemi economici che oggi gravano sulle nostre spalle e che graveranno domani su quelle dei nostri figli sono in massima parte imputabili ad una politica di sperpero che Craxi condivise in pieno e di cui porta la responsabilità.
Craxi per giunta protesse Berlusconi, avallando – anche con brutte leggi “su misura” – la sua non limpida scalata alla concentrazione di un enorme potere mediatico ed editoriale. Io francamente non credo che oggi Craxi sarebbe un berlusconiano, ma certo dobbiamo anche a Craxi (sebbene non soltanto a lui) se oggi ci troviamo questo pagliaccio sul groppone.
D'altro canto - sul conto delle voci con segno positivo - io ricorderei che dobbiamo in buona misura a Craxi il fatto che all'Italia sia stata risparmiata quella che sarebbe stata l'esiziale esperienza del compromesso storico. Craxi fu in effetti uno strenuo avversario del compromesso storico (che identificava come un abbraccio mortale tra comunisti e democristiani, a spese di tutti gli altri).
In questo egli mostrò a mio parere di avere una visione più lungimirante ed aperta della democrazia (anche se era forse l'istinto autoconservativo la principale molla della sua azione). Per lui infatti la democrazia doveva fondarsi sull'alternanza di forze contrapposte, e non sullo "storico" saldarsi di grandi tradizioni politiche (a mio modo di vedere non c'è del resto niente di più micidiale e becero, sul piano culturale, del cosiddetto cattocomunismo).
Certo, anche Craxi, naturalmente, strinse delle alleanze con la DC. Ma nella sua visione politica questa alleanza, e perfino il famigerato ed orrendo CAF (il patto spartitorio con Andreotti e Forlani), fu sempre pensata come una necessità tattica, come una soluzione transitoria imposta dalla realtà di un sistema bloccato. Non a caso Craxi concepiva quell'alleanza in termini fortemente conflittuali. Il compromesso con i democristiani, in altre parole, era per lui una soluzione puramente contingente, non un disegno di prospettiva strategica. Sul lungo periodo Craxi si poneva certamente l'obiettivo di mandare la DC all'opposizione, mentre Berlinguer, al contrario, giudicando impercorribile la strada di una sfida della Sinistra alle forze moderate, aveva immaginato il compromesso "storico" tra cattolici e comunisti, come una sorta di incontro epocale. Dal mio punto di vista continuo a ritenere di gran lunga più limpida ed apprezzabile la visione di Craxi rispetto a quella di Berlinguer, la quale era per certi versi una prospettiva non democratica, proprio perchè il compromesso storico avrebbe imprigionato la democrazia italiana nella morsa asfissiante della grande alleanza tra le due "Chiese", mentre Craxi si poneva il problema di arrivare ad una democrazia compiuta.
Insomma, come vedete, luci e ombre, chiari e scuri.
Personalmente, peraltro, io ho sempre ritenuto che tutta la vicenda di Craxi - Tangentopoli compresa - si possa spiegare alla luce di un dato centrale: una preoccupazione dominante, e direi quasi ossessiva, che segnò interamente il suo percorso politico (dagli esordi negli anni Cinquanta come giovane autonomista nenniano, fino alla caduta clamorosa del 1993). Questa preoccupazione dominante era quella di spezzare l'egemonia comunista sulla Sinistra Italiana; di ribaltare i rapporti di forza a Sinistra.
Il fatto che in Italia la Sinistra fosse egemonizzata da un Partito Comunista, e non da un Partito Socialdemocratico come nel resto dell'Europa Occidentale, era per Craxi un'anomalia dolorosa (e, in questo, io credo che egli avesse pienamente ragione, come del resto viene oggi riconosciuto in ampia misura anche da molti degli stessi ex-comunisti!).
Dunque l'obiettivo di Craxi, che accompagnò tutta la sua vicenda, fu fondamentalmente sempre quello di dover fare di tutto per poter porre termine a quello stato di cose.
Craxi sperava di poter fare come fece Mitterrand in Francia: Mitterrand nel 1971 aveva raccolto un partito socialista (la vecchia SFIO) ridotto al 5 %, e in pochi anni seppe trasformare il nuovo PSF nel primo partito di Francia, mettendo all'angolo i comunisti (e costringendoli ad allearsi con lui). Ebbene: Craxi inseguiva lo stesso disegno, perseguiva la stessa prospettiva, e tutta la sua azione politica si può in un certo senso comprendere alla luce di questo disegno.
Sì, anche Tangentopoli, lo ripeto, si può in una qualche misura spiegare in questa chiave.
Craxi infatti, cresciuto nella pratica del realismo politico di Nenni, immaginò che la sfida a Sinistra si dovesse vincere in primo luogo affermando la centralità socialista sul terreno dell'occupazione del potere.
Il punto però è che il perseguimento di questo obiettivo in breve finì per oscurare tutto il resto.
L'occupazione del potere, la ricerca di un consenso puramente clientelare, e la necessità di denaro per perseguire tale disegno, finirono per diventare nel corso degli anni Ottanta uno dei tratti dominanti del PSI craxiano, fino ad assumere delle valenze pervasive, che fecero perdere completamente di vista identità, idealità, e valori.
Il PSI di Craxi si lasciò completamente travolgere da questa logica compulsiva. E a un certo punto la ricerca della centralità socialista arrivò a perdere ogni connotato di strumentalità e divenne il fine principale della politica socialista. Si voleva il potere per il potere, il denaro per il denaro.
Si fece strada una mentalità predatoria. Il PSI craxiano, a cominciare proprio dallo stretto enoturage del leader, si trasformò in un certo senso in una banda di predoni.
Di questa trasformazione Bettino Craxi porta oggettivamente delle enormi responsabilità. Il PSI non fu ucciso da un "complotto politico-giudiziario", come molti socialisti continuano ancor oggi a pensare. Il PSI crollò perchè era un partito ormai marcio. E la più completa cecità di fronte alla "questione morale" condannò il PSI alla rovina.
A fronte di questa degenerazione prodottasi nel campo socialista, è in fondo del tutto comprensibile che Berlinguer - legato, per parte sua, ad un'idea ascetica della politica - avesse sentito sempre più forte il bisogno di rimarcare la sua distanza abissale rispetto a ciò che il PSI stava diventando.
Sarebbe però a mio avviso un errore sottolineare questa componente morale di Berlinguer ,senza cogliere anche l'altro lato della medaglia, che era quello - diciamolo pure - dell'ipocrisia comunista.
Berlinguer infatti esaltava la diversità e la dignità comunista (a fronte della volgarità e della crassa arroganza craxiane), ma intanto il suo partito partecipava anch’esso al sistema delle tangenti (seppure in forme peculiari, come ad esempio attraverso l’espediente di riservare quote di lavori pubblici, a costi maggiorati, alle imprese cooperative, facendo poi ricadere parte di quel “plusvalore” verso le casse del partito).
Ma quel che è peggio è che il PCI di Berlinguer, nonostante tutti gli "strappi", continuava regolarmente ad intascare sotto banco migliaia di dollari (anzi di rubli) dal Partito Comunista Sovietico. A parole il PCI aveva più volte preso le distanze dall'URSS (quell'URSS che aveva mandato i carri armati a Praga nel '68, che aveva invaso l'Afghanistan nel '79, che aveva di fatto soffocato la stagione polacca di Solidarnosc nell '81). Ma in concreto il grande apparato del PCI berlingueriano continuava a mantenersi in piedi anche grazie a quello che Gianni Cervetti (colui che materialmente procedeva alla riscossione degli assegni) ha chiamato in un suo libro "L'oro di Mosca".
Troppo comodo proclamarsi "diversi" mentre si viene cospicuamente foraggiati da una grande potenza straniera (oltre tutto da una potenza imperiale che si regge sulla negazione della libertà e sull'oppressione dei popoli ad essa soggetti)!
E non dimentichiamo, dopo tutto, che mentre il PCI di Berlinguer si faceva finanziare dall'URSS, Craxi finanziava (magari anche con i proventi delle mazzette) i movimenti del dissenso nei paesi dell'Est. Anzi, tra le cose di cui io sono particolarmente orgoglioso nei miei ricordi di militante socialista nell'era di Craxi, vi è proprio il fatto di avere potuto collaborare, da giovane attivista, alla campagna elettorale che nel 1984 portò Jiri Pelikan ad essere eletto al Parlamento Europeo. A Strasburgo andò a sedere un esponente del dissenso cecoslovacco, portando così in quella sede la voce di chi si batteva per la libertà.
Allora, nel 1984, io avevo vent'anni anni, e anche se non tutto nel PSI mi andava a genio, ero ancora decisamente un craxiano convinto.
Il mio entusiasmo per Craxi risaliva a qualche anno prima, al tempo della cosiddetta "polemica ideologica" del 1979, quando Craxi - con il famoso saggio su Proudhon (che fu scritto probabilmente da Luciano Pellicani) - rilanciò tutto il valore della tradizione del Socialismo libertario di contro alla tradizione leninista.
Sulla scorta di quella polemica culturale, io feci delle letture che hanno di fatto segnato tutta la mia vita. A Craxi, e alla sua iniziativa di allora, posso dunque riconoscere di dovere in qualche modo la scoperta, già intorno ai sedici-diciassette anni, della migliore letteratura del Socialismo europeo.
In un'epoca in cui i miei coetanei si lasciavano prendere dal cosiddetto "riflusso" e dalle lusinghe del disimpegno, e mentre altri ancora si attardavano a inseguire stanchi miti rivoluzionari e di violenza, a me, adolescente, capitò di imbattermi felicemente nel Socialismo liberale, e in autori come Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Eduard Bernstein: fu un incontro felice, che mi portò ad approfondire quello che ancora oggi io considero un imprescindibile referente culturale e ideale (anche se devo riconoscere, a tale riguardo, di dovere moltissimo anche a mio padre, che di quei libri e di quegli autori aveva da tempo riempito la biblioteca di casa).
Tornando al 1984, ricordo anche che nell'inverno di quell'anno mi capitò di trovarmi a Verona per assistere a quel celebre congresso socialista in cui Berlinguer (che sarebbe poi morto pochi mesi più tardi) venne sonoramente fischiato. Io c'ero, e fui tra coloro che fischiarono.
A più di vent'anni di distanza, devo dire che non sono pentito di quei fischi.
Certo: oggi, a differenza di allora, sono disposto a riconoscere che nell'insistenza di Berlinguer sulla sua "diversità" antropologica rispetto al craxismo, nel suo bisogno di rimarcare le distanze rispetto alla volgarità, all'ostentazione, e all'arroganza del PSI craxiano c'erano moltissime ragioni valide.
Rispetto a quel modello politico, di spregiudicatezza, di rampantismo, di arroganza, di cinismo, Berlinguer aveva intuito la necessità di ribadire un'assoluta estraneità, di ordine nemmeno politico, ma appunto morale, cioè prepolitico.
Però, lo ripeto, c'era per me qualcosa di ipocrita in quell'atteggiamento, perchè si respingeva il rampantismo craxiano senza fare fino in fondo i conti con la pesante eredità comunista. In questo, non tanto la persona di Berlinguer, ma tutta la storia del PCI - questa storia fatta continuamente di svolte, ma mai di una vera e piena assunzione di responsabilità - meritava a mio avviso di essere fischiata.
In Craxi questa componente di ipocrisia invece non c'era. Craxi, bisognerà pur dirlo, non fu mai un ipocrita.
Il suo celebre discorso alla Camera del 1993, quando disse chiaramente che il sistema di finanziamento dei partiti era quello che era, e che non c'era nessuno in quell'aula che potesse dire di non esserne a conoscenza, fu oggettivamente un discorso onesto: per lo meno sul piano dell'onestà intellettuale.
Il punto però è che quel discorso, oltre ad essere un discorso per molti versi banditesco, che tradiva quasi del sarcasmo per l'idea stessa di legalità, era in fondo anche l'autodenuncia di un autentico fallimento storico.
Perchè, certo, era effettivamente ipocrita e codino chi cercava di nascondere che quello fosse il sistema. Ma lui, Craxi, non si era forse adagiato completamente in quello stato di cose? Non ci aveva sguazzato?
Si era forse mai posto il problema di dover fare qualcosa per modificare la situazione? Macchè! Anzi, aveva sempre irriso con fastidio chiunque lo avesse criticato su questo punto. A sollevare la questione morale nel PSI si veniva presi semplicemente per dei mentecatti e degli sprovveduti.
Ma Craxi era il leader di un partito che si definiva socialista, e che come tale avrebbe dovuto porsi più di ogni altro il problema di farsi portatore di una differente eticità politica, di un senso alto dello Stato e della cosa pubblica, di una difesa chiara della legalità. Che ne è infatti del Socialismo se ci si riduce a diventare esattamente eguali agli altri (e anzi peggio degli altri, proprio per quella smaccata e arrogante ostentazione di amoralità)?
Il discorso di Craxi del 1993 fu certamente un discorso senza ipocrisia, ma fu anche un discorso che mise drammaticamente in luce come Craxi avesse portato il suo partito a perdere drammaticamente la propria ragione d'essere.
Il PSI di Craxi aveva del resto da tempo perduto la propria identità socialista anche perchè Craxi aveva di fatto ucciso la democrazia interna.
Il vecchio PSI pre-craxiano, con le sue correnti, le sue lacerazioni, le sue divisioni era un partito ancora relativamente democratico al proprio interno. Una Babele, certo, ma una Babele in cui il dibattito politico ed il confronto culturale costituivano una ricchezza importante. Il PCI, dove vigeva un'agghiaggiante (e, di nuovo, ipocrita) abitudine ad esibire sempre uno stolido unanimismo di facciata, se la sognava una vitalità politica di quel genere!
Nel suo disordine, nel suo caos spesso inconcludente, il PSI pre-craxiano era dunque un partito vivo. Un caso interessante da studiare, per chi, come me, si interessa delle forme della politica! Sta di fatto però che questa vivacità, questa ricchezza di dibattito politico, con Craxi finì in breve per inaridirsi completamente.
Craxi non sopportava il dissenso. Non amava le critiche. E nel giro di qualche anno riuscì a imporre ordine nel vecchio PSI, ad un prezzo che fu però molto alto.
Una volta - sarà stato (credo) il 1986 - il figlio di Craxi, Bobo, col quale all'epoca mi capitava di incontrarmi abbastanza spesso, mi sorprese con una frase che mi raggelò, e che non ho mai dimenticato.
Mi disse: "vedi, io sono come mio padre: preferisco un leccaculo, che so che mi seguirà per tornaconto personale, piuttosto che qualcuno che si picchi di pensare con la sua testa, e che si permetta di criticare". Per me quella frase fu fulminante, come una frustata.
Che nel PSI ci fosse un certo andazzo a propendere verso l’adulazione l'avevo in realtà ormai compreso (con non poco fastidio). Ma che il principio di un partito fondato sull’adulazione venisse così palesemente conclamato (ed elevato quasi a massima politica) mi colpì molto, e fu anche per quello, tra l’altro, che, più o meno in quel periodo, io smisi di considerarmi craxiano (restando però socialista).
Quella frase d'altronde esprimeva bene quello che era diventato il PSI sotto Craxi. Craxi aveva in effetti fatto proprio questo: aveva trasformato un partito indisciplinato, ma pieno di spiriti liberi, in un partito di leccaculo, appagati di perseguire il loro tornaconto personale all'ombra del leader indiscusso. In questa sua opera, diciamo così, di “disciplinamento” (o di “normalizzazione”), Craxi mostrò di avere una concezione che non direi nemmeno feudale, ma piuttosto barbarica, della politica. La fedeltà alla leadership contava più di ogni altra cosa.C’era un capo cui si doveva assoluta dedizione, e in cambio si veniva ammessi alla spartizione del bottino (in nome di quella logica predatoria di cui parlavo sopra). Davvero è un’immagine che richiama per molti versi quella di quei capi barbarici, circondati dai loro “antrustiones”, di cui parlava Tacito nella “Germania”.
Nel PSI di Craxi non a caso, coloro che portavano idee furono ben presto emarginati, mentre emergevano coloro che si piegavano al capo (o che entravano in qualche modo in affari con lui).
Riccardo Lombardi aveva intuito precocemente questo processo, e sin dal 1979 aveva denunciato il farsi largo di un pericoloso Führerprinzip nel PSI, ed aveva parlato di una preoccupante "mutazione genetica" nel corpo del partito. E in effetti la selezione della classe dirigente nel PSI craxiano fu oggettivamente qualcosa di spaventoso. Ci fu una sorta di liquidazione sistematica dei migliori, a vantaggio di quella banda di personaggi variegati, che Rino Formica una volta definì causticamente con la nota espressione di "nani e ballerine".
In questo contesto, un personaggio come il famigerato Mario Chiesa, che pensava di poter diventare sindaco di Milano estorcendo più denaro degli altri, e conquistandosi per questa via l'attenzione e la benevolenza del "capo", non fu la figura estemporanea di un mitomane o di un pazzo: era la corretta espressione antropologica di quello che il PSI era diventato. Il PSI di Craxi nel corso degli anni Ottanta finì per diventare un partito di ladri e di yes men. E questo deve pure essere ricordato.
Lo ripeto. Per me è difficile fare un discorso sereno su Craxi, perchè è un argomento che mi coinvolge non poco. In Craxi, come ho detto, ci sono dopo tutto anche delle luci, e queste dovrebbero indurci a mio avviso a non liquidarlo in modo troppo sbrigativo, come pura negatività.
Ci sono parimenti molte ombre, e queste dovrebbero sconsigliare di fare di Craxi quell'immaginetta o quel santino che qualcuno oggi vorrebbe proporre.
Craxi resta Craxi: una figura controversa da studiare e da ripensare in modo critico e meditato, con rispetto anche, ma cercando soprattutto di soppesare con attenzione i pro e i contro.
La cosa peggiore, forse, è respingerlo o riabilitarlo così, a cuor leggero, senza lo sforzo di affontare fino in fondo le questioni scomode che la sua vicenda solleva (in positivo come in negativo), e senza trarre un vero ammaestramento da quel che è stato.
Un saluto.
Francesco Somaini.
Scritto il 10 febbraio 2005 (a commento del discorso di Piero Fassino al 3° Congresso Nazionale dei Democratici di Sinistra – Roma, 3-5 febbraio 2005).
Quando Piero Fassino, nel suo discorso dell’altro giorno, ha richiamato il nome di Craxi (assieme a quelli di Turati, di Nenni e di Saragat) come parte di quella grande famiglia del Socialismo riformista alla quale i DS dichiarano oggi di richiamarsi (ma intanto realizzano una federazione che di socialista sembra avere francamente assai poco), io non sono tra quelli che si sono particolarmente impressionati.
Ho visto, certo, che alcuni hanno reagito con entusiasmo, come se di Craxi vi fosse stato un meditato e solenne riconoscimento storico e politico. Ho notato, egualmente, che altri hanno invece tirato fuori il solito argomento del “va bene, ma non basta”, mentre altri ancora, per contro, si sono detti letteralmente disgustati.
A me invece quel richiamo al nome di Craxi è parso più che altro un riferimento sbrigativo, un po’ banale, e arriverei a dire perfino sciatto: quasi un liquidare il discorso su Craxi con qualche superficiale frase di circostanza, senza tenere conto delle implicazioni profonde che l’argomento, invece, dovrebbe a mio avviso sollevare.
Il fatto è che io penso che la questione Craxi non sia uno di quei temi di cui ci si possa sbarazzare con poche battute (nemmeno tenendo conto di doverne parlare in una relazione politica ad ampio spettro).
Al contrario, per me che sono socialista (e che sono stato a lungo anche craxiano), il tema Craxi è un argomento difficile, controverso, e particolarmente impegnativo, che richiede lo sforzo di formulare un giudizio storicamente complesso e meditato.
In realtà, ho notato che molti sono soliti impostare i loro ragionamenti su Craxi, dividendo Craxi in due parti, come fosse una mela.
Da una parte ci sarebbe un primo Craxi, buono; dall'altro un secondo Craxi, cattivo.
Generalmente coloro che compiono questa operazione “storiografica” sono peraltro portati a dissentire sul punto in cui dividere queste due metà, o meglio sul momento in cui si dovrebbe collocare il passaggio dall'una all'altra fase (alcuni, come ad esempio Flores d’Arcais, ancora in una sua recentissima dichiarazione, risolvono solipsisticamente il problema facendo coincidere questa presunta cesura con il momento della loro rottura personale con Craxi stesso: il che non mi pare un metodo molto serio).
Io - che, sia detto per inciso, non ho sinceramente alcuna stima di Flores, perchè mi pare persona intollerante e aggressiva – penso in realtà che questo distinguere tra due differenti Craxi sia un'operazione intellettualmente non troppo corretta.
Certo, nella vicenda umana di Craxi, c'è evidentemente una grossa cesura, ma questa è la cesura che separa il Craxi politico dal Craxi della latitanza.
Il Craxi latitante (che la si smetta, una buona volta, di parlare di esilio!) è oggettivamente un Craxi che si trova a vivere un'esperienza del tutto diversa rispetto a quello che era stato tutto il suo precedente vissuto. Ad Hammamet Craxi si trova in effetti catapultato in una dimensione talmente altra rispetto al prima da rendere inevitabile il riconoscere la realtà di una svolta radicale nella sua esistenza (a prescindere da quel che si pensi sulla sua discutibile scelta di sottrarsi alla giustizia).
Ma il Craxi precedente al 1994, il Craxi politico, non può essere, a mio avviso, spaccato in due.
Non trovo francamente molto convincente, perciò, pensare ad una fase in cui prevalesse la luce (e da salvare), rispetto ad un'altra in cui sarebbero prevalse le ombre (e come tale da respingere). Luci e ombre, nella vicenda di Craxi, si compenetrano di continuo, ed egli va considerato nella sua interezza, come una figura chiaroscurale, con tratti negativi (che sono molti) ma anche dei tratti positivi (ce ne fu dopo tutto più di qualcuno, come deve riconoscere perfino l’inacidito Flores d’Arcais).
Craxi in effetti ebbe delle intuizioni politiche importanti e commise degli errori clamorosi. Fece a volte delle scelte giuste e coraggiose, e altre volte ne compì di sbagliate o anche di totalmente deprecabili.
Facciamo qualche esempio.
Nel 1979, mentre il PCI, in nome di un pacifismo francamente un po’ peloso, sfilava sotto la base di Comiso, avallando di fatto la mossa dell'URSS che aveva puntato gli SS 20 contro l'Europa, Craxi pronunciava un sì determinante all'installazione degli euromissili. La fermezza di Craxi in quella vicenda, così come quella del socialdemocratico Helmut Schmidt in Germania, contribuì in modo decisivo a mandare in fumo il disegno sovietico di alterare gli equilibri geostrategici dell'Europa. La fermezza di Italia e Germania in quella circostanza si rivelò un passaggio cruciale nel portare al fallimento dei disegni di grandeur imperiale del gruppo dirigente brezneviano, e come tale contribuì anche al successivo crollo, di lì ad un decennio, del blocco comunista. Se nel 1979 Craxi e Schimdt avessero agito diversamente, oggi ci troveremmo probabilmente in un mondo diverso, e non credo, nonostante tutto, che sarebbe un mondo migliore.
D'altro canto, per restare alla politica estera, lo stesso Craxi, nel 1982, non condannò i generali argentini che avevano attaccato le Falkland inglesi. Un regime fascista di militari massacratori cercava di rafforzarsi attraverso una politica estera arrogante e aggressiva, e Craxi, per pigri calcoli elettoralistici, non prese una posizione ferma.
Craxi, da presidente del consiglio, firmò la revisione del concordato con la Chiesa cattolica, cedendo su punti decisivi come l'insegnamento della religione nelle scuole. E' una cosa che da convinto laicista non gli so francamente perdonare, come non so perdonargli le aperture di quegli anni a Comunione e Liberazione. Sempre Craxi - e di nuovo per un malriposto opportunismo - sposò la politica proibizionistica e repressiva in fatto di lotta alla droga, mandando a farsi benedire la tradizione libertaria del Socialismo italiano. Su queste cose non ci si sarebbe dovuti permettere di sbandare.
Ancora: Craxi abolì la scala mobile, permettendo di mettere un freno alla spirale dell'inflazione. Fu una scelta difficile, ma non si può negare che fosse stata una scelta coraggiosa. Io penso che sia stato dopo tutto un bene sul piano politico. Era importante rompere in qualche modo il potere di veto del PCI, che allora controllava la CGIL (che in realtà non voleva il referendum, ma lo dovette subire). Bisognava riaffermare il primato della politica e anche salvaguardare il principio dell’autonomia sindacale.
Nel merito, peraltro, è anche vero che il prezzo di quella politica deflazionistica fu principalmente fatto pagare ai lavoratori (che in realtà, a dispetto di quel che diceva la propaganda di allora, hanno poi visto, nel corso degli anni, diminuire sensibilmente il loro potere d'acquisto). Forse in quel momento non c’erano molte alternative, ma sulla questione il giudizio rimane quanto meno controverso. Non c’è dubbio però che mentre agli operai Craxi toglieva gli scatti della contingenza, agli Agnelli “regalava” l'Alfa Romeo affinché la smantellassero in poco tempo (e tra l’altro nessuno ci è venuto mai a raccontare se per caso gli Agnelli avessero regalato qualcosa a Craxi per ringraziarlo: forse che di casa Agnelli è proibito parlare?).
Sempre Craxi è stato poi tra i responsabili (ma in questo non è stato il solo) della gigantesca voragine del debito pubblico. I problemi economici che oggi gravano sulle nostre spalle e che graveranno domani su quelle dei nostri figli sono in massima parte imputabili ad una politica di sperpero che Craxi condivise in pieno e di cui porta la responsabilità.
Craxi per giunta protesse Berlusconi, avallando – anche con brutte leggi “su misura” – la sua non limpida scalata alla concentrazione di un enorme potere mediatico ed editoriale. Io francamente non credo che oggi Craxi sarebbe un berlusconiano, ma certo dobbiamo anche a Craxi (sebbene non soltanto a lui) se oggi ci troviamo questo pagliaccio sul groppone.
D'altro canto - sul conto delle voci con segno positivo - io ricorderei che dobbiamo in buona misura a Craxi il fatto che all'Italia sia stata risparmiata quella che sarebbe stata l'esiziale esperienza del compromesso storico. Craxi fu in effetti uno strenuo avversario del compromesso storico (che identificava come un abbraccio mortale tra comunisti e democristiani, a spese di tutti gli altri).
In questo egli mostrò a mio parere di avere una visione più lungimirante ed aperta della democrazia (anche se era forse l'istinto autoconservativo la principale molla della sua azione). Per lui infatti la democrazia doveva fondarsi sull'alternanza di forze contrapposte, e non sullo "storico" saldarsi di grandi tradizioni politiche (a mio modo di vedere non c'è del resto niente di più micidiale e becero, sul piano culturale, del cosiddetto cattocomunismo).
Certo, anche Craxi, naturalmente, strinse delle alleanze con la DC. Ma nella sua visione politica questa alleanza, e perfino il famigerato ed orrendo CAF (il patto spartitorio con Andreotti e Forlani), fu sempre pensata come una necessità tattica, come una soluzione transitoria imposta dalla realtà di un sistema bloccato. Non a caso Craxi concepiva quell'alleanza in termini fortemente conflittuali. Il compromesso con i democristiani, in altre parole, era per lui una soluzione puramente contingente, non un disegno di prospettiva strategica. Sul lungo periodo Craxi si poneva certamente l'obiettivo di mandare la DC all'opposizione, mentre Berlinguer, al contrario, giudicando impercorribile la strada di una sfida della Sinistra alle forze moderate, aveva immaginato il compromesso "storico" tra cattolici e comunisti, come una sorta di incontro epocale. Dal mio punto di vista continuo a ritenere di gran lunga più limpida ed apprezzabile la visione di Craxi rispetto a quella di Berlinguer, la quale era per certi versi una prospettiva non democratica, proprio perchè il compromesso storico avrebbe imprigionato la democrazia italiana nella morsa asfissiante della grande alleanza tra le due "Chiese", mentre Craxi si poneva il problema di arrivare ad una democrazia compiuta.
Insomma, come vedete, luci e ombre, chiari e scuri.
Personalmente, peraltro, io ho sempre ritenuto che tutta la vicenda di Craxi - Tangentopoli compresa - si possa spiegare alla luce di un dato centrale: una preoccupazione dominante, e direi quasi ossessiva, che segnò interamente il suo percorso politico (dagli esordi negli anni Cinquanta come giovane autonomista nenniano, fino alla caduta clamorosa del 1993). Questa preoccupazione dominante era quella di spezzare l'egemonia comunista sulla Sinistra Italiana; di ribaltare i rapporti di forza a Sinistra.
Il fatto che in Italia la Sinistra fosse egemonizzata da un Partito Comunista, e non da un Partito Socialdemocratico come nel resto dell'Europa Occidentale, era per Craxi un'anomalia dolorosa (e, in questo, io credo che egli avesse pienamente ragione, come del resto viene oggi riconosciuto in ampia misura anche da molti degli stessi ex-comunisti!).
Dunque l'obiettivo di Craxi, che accompagnò tutta la sua vicenda, fu fondamentalmente sempre quello di dover fare di tutto per poter porre termine a quello stato di cose.
Craxi sperava di poter fare come fece Mitterrand in Francia: Mitterrand nel 1971 aveva raccolto un partito socialista (la vecchia SFIO) ridotto al 5 %, e in pochi anni seppe trasformare il nuovo PSF nel primo partito di Francia, mettendo all'angolo i comunisti (e costringendoli ad allearsi con lui). Ebbene: Craxi inseguiva lo stesso disegno, perseguiva la stessa prospettiva, e tutta la sua azione politica si può in un certo senso comprendere alla luce di questo disegno.
Sì, anche Tangentopoli, lo ripeto, si può in una qualche misura spiegare in questa chiave.
Craxi infatti, cresciuto nella pratica del realismo politico di Nenni, immaginò che la sfida a Sinistra si dovesse vincere in primo luogo affermando la centralità socialista sul terreno dell'occupazione del potere.
Il punto però è che il perseguimento di questo obiettivo in breve finì per oscurare tutto il resto.
L'occupazione del potere, la ricerca di un consenso puramente clientelare, e la necessità di denaro per perseguire tale disegno, finirono per diventare nel corso degli anni Ottanta uno dei tratti dominanti del PSI craxiano, fino ad assumere delle valenze pervasive, che fecero perdere completamente di vista identità, idealità, e valori.
Il PSI di Craxi si lasciò completamente travolgere da questa logica compulsiva. E a un certo punto la ricerca della centralità socialista arrivò a perdere ogni connotato di strumentalità e divenne il fine principale della politica socialista. Si voleva il potere per il potere, il denaro per il denaro.
Si fece strada una mentalità predatoria. Il PSI craxiano, a cominciare proprio dallo stretto enoturage del leader, si trasformò in un certo senso in una banda di predoni.
Di questa trasformazione Bettino Craxi porta oggettivamente delle enormi responsabilità. Il PSI non fu ucciso da un "complotto politico-giudiziario", come molti socialisti continuano ancor oggi a pensare. Il PSI crollò perchè era un partito ormai marcio. E la più completa cecità di fronte alla "questione morale" condannò il PSI alla rovina.
A fronte di questa degenerazione prodottasi nel campo socialista, è in fondo del tutto comprensibile che Berlinguer - legato, per parte sua, ad un'idea ascetica della politica - avesse sentito sempre più forte il bisogno di rimarcare la sua distanza abissale rispetto a ciò che il PSI stava diventando.
Sarebbe però a mio avviso un errore sottolineare questa componente morale di Berlinguer ,senza cogliere anche l'altro lato della medaglia, che era quello - diciamolo pure - dell'ipocrisia comunista.
Berlinguer infatti esaltava la diversità e la dignità comunista (a fronte della volgarità e della crassa arroganza craxiane), ma intanto il suo partito partecipava anch’esso al sistema delle tangenti (seppure in forme peculiari, come ad esempio attraverso l’espediente di riservare quote di lavori pubblici, a costi maggiorati, alle imprese cooperative, facendo poi ricadere parte di quel “plusvalore” verso le casse del partito).
Ma quel che è peggio è che il PCI di Berlinguer, nonostante tutti gli "strappi", continuava regolarmente ad intascare sotto banco migliaia di dollari (anzi di rubli) dal Partito Comunista Sovietico. A parole il PCI aveva più volte preso le distanze dall'URSS (quell'URSS che aveva mandato i carri armati a Praga nel '68, che aveva invaso l'Afghanistan nel '79, che aveva di fatto soffocato la stagione polacca di Solidarnosc nell '81). Ma in concreto il grande apparato del PCI berlingueriano continuava a mantenersi in piedi anche grazie a quello che Gianni Cervetti (colui che materialmente procedeva alla riscossione degli assegni) ha chiamato in un suo libro "L'oro di Mosca".
Troppo comodo proclamarsi "diversi" mentre si viene cospicuamente foraggiati da una grande potenza straniera (oltre tutto da una potenza imperiale che si regge sulla negazione della libertà e sull'oppressione dei popoli ad essa soggetti)!
E non dimentichiamo, dopo tutto, che mentre il PCI di Berlinguer si faceva finanziare dall'URSS, Craxi finanziava (magari anche con i proventi delle mazzette) i movimenti del dissenso nei paesi dell'Est. Anzi, tra le cose di cui io sono particolarmente orgoglioso nei miei ricordi di militante socialista nell'era di Craxi, vi è proprio il fatto di avere potuto collaborare, da giovane attivista, alla campagna elettorale che nel 1984 portò Jiri Pelikan ad essere eletto al Parlamento Europeo. A Strasburgo andò a sedere un esponente del dissenso cecoslovacco, portando così in quella sede la voce di chi si batteva per la libertà.
Allora, nel 1984, io avevo vent'anni anni, e anche se non tutto nel PSI mi andava a genio, ero ancora decisamente un craxiano convinto.
Il mio entusiasmo per Craxi risaliva a qualche anno prima, al tempo della cosiddetta "polemica ideologica" del 1979, quando Craxi - con il famoso saggio su Proudhon (che fu scritto probabilmente da Luciano Pellicani) - rilanciò tutto il valore della tradizione del Socialismo libertario di contro alla tradizione leninista.
Sulla scorta di quella polemica culturale, io feci delle letture che hanno di fatto segnato tutta la mia vita. A Craxi, e alla sua iniziativa di allora, posso dunque riconoscere di dovere in qualche modo la scoperta, già intorno ai sedici-diciassette anni, della migliore letteratura del Socialismo europeo.
In un'epoca in cui i miei coetanei si lasciavano prendere dal cosiddetto "riflusso" e dalle lusinghe del disimpegno, e mentre altri ancora si attardavano a inseguire stanchi miti rivoluzionari e di violenza, a me, adolescente, capitò di imbattermi felicemente nel Socialismo liberale, e in autori come Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Eduard Bernstein: fu un incontro felice, che mi portò ad approfondire quello che ancora oggi io considero un imprescindibile referente culturale e ideale (anche se devo riconoscere, a tale riguardo, di dovere moltissimo anche a mio padre, che di quei libri e di quegli autori aveva da tempo riempito la biblioteca di casa).
Tornando al 1984, ricordo anche che nell'inverno di quell'anno mi capitò di trovarmi a Verona per assistere a quel celebre congresso socialista in cui Berlinguer (che sarebbe poi morto pochi mesi più tardi) venne sonoramente fischiato. Io c'ero, e fui tra coloro che fischiarono.
A più di vent'anni di distanza, devo dire che non sono pentito di quei fischi.
Certo: oggi, a differenza di allora, sono disposto a riconoscere che nell'insistenza di Berlinguer sulla sua "diversità" antropologica rispetto al craxismo, nel suo bisogno di rimarcare le distanze rispetto alla volgarità, all'ostentazione, e all'arroganza del PSI craxiano c'erano moltissime ragioni valide.
Rispetto a quel modello politico, di spregiudicatezza, di rampantismo, di arroganza, di cinismo, Berlinguer aveva intuito la necessità di ribadire un'assoluta estraneità, di ordine nemmeno politico, ma appunto morale, cioè prepolitico.
Però, lo ripeto, c'era per me qualcosa di ipocrita in quell'atteggiamento, perchè si respingeva il rampantismo craxiano senza fare fino in fondo i conti con la pesante eredità comunista. In questo, non tanto la persona di Berlinguer, ma tutta la storia del PCI - questa storia fatta continuamente di svolte, ma mai di una vera e piena assunzione di responsabilità - meritava a mio avviso di essere fischiata.
In Craxi questa componente di ipocrisia invece non c'era. Craxi, bisognerà pur dirlo, non fu mai un ipocrita.
Il suo celebre discorso alla Camera del 1993, quando disse chiaramente che il sistema di finanziamento dei partiti era quello che era, e che non c'era nessuno in quell'aula che potesse dire di non esserne a conoscenza, fu oggettivamente un discorso onesto: per lo meno sul piano dell'onestà intellettuale.
Il punto però è che quel discorso, oltre ad essere un discorso per molti versi banditesco, che tradiva quasi del sarcasmo per l'idea stessa di legalità, era in fondo anche l'autodenuncia di un autentico fallimento storico.
Perchè, certo, era effettivamente ipocrita e codino chi cercava di nascondere che quello fosse il sistema. Ma lui, Craxi, non si era forse adagiato completamente in quello stato di cose? Non ci aveva sguazzato?
Si era forse mai posto il problema di dover fare qualcosa per modificare la situazione? Macchè! Anzi, aveva sempre irriso con fastidio chiunque lo avesse criticato su questo punto. A sollevare la questione morale nel PSI si veniva presi semplicemente per dei mentecatti e degli sprovveduti.
Ma Craxi era il leader di un partito che si definiva socialista, e che come tale avrebbe dovuto porsi più di ogni altro il problema di farsi portatore di una differente eticità politica, di un senso alto dello Stato e della cosa pubblica, di una difesa chiara della legalità. Che ne è infatti del Socialismo se ci si riduce a diventare esattamente eguali agli altri (e anzi peggio degli altri, proprio per quella smaccata e arrogante ostentazione di amoralità)?
Il discorso di Craxi del 1993 fu certamente un discorso senza ipocrisia, ma fu anche un discorso che mise drammaticamente in luce come Craxi avesse portato il suo partito a perdere drammaticamente la propria ragione d'essere.
Il PSI di Craxi aveva del resto da tempo perduto la propria identità socialista anche perchè Craxi aveva di fatto ucciso la democrazia interna.
Il vecchio PSI pre-craxiano, con le sue correnti, le sue lacerazioni, le sue divisioni era un partito ancora relativamente democratico al proprio interno. Una Babele, certo, ma una Babele in cui il dibattito politico ed il confronto culturale costituivano una ricchezza importante. Il PCI, dove vigeva un'agghiaggiante (e, di nuovo, ipocrita) abitudine ad esibire sempre uno stolido unanimismo di facciata, se la sognava una vitalità politica di quel genere!
Nel suo disordine, nel suo caos spesso inconcludente, il PSI pre-craxiano era dunque un partito vivo. Un caso interessante da studiare, per chi, come me, si interessa delle forme della politica! Sta di fatto però che questa vivacità, questa ricchezza di dibattito politico, con Craxi finì in breve per inaridirsi completamente.
Craxi non sopportava il dissenso. Non amava le critiche. E nel giro di qualche anno riuscì a imporre ordine nel vecchio PSI, ad un prezzo che fu però molto alto.
Una volta - sarà stato (credo) il 1986 - il figlio di Craxi, Bobo, col quale all'epoca mi capitava di incontrarmi abbastanza spesso, mi sorprese con una frase che mi raggelò, e che non ho mai dimenticato.
Mi disse: "vedi, io sono come mio padre: preferisco un leccaculo, che so che mi seguirà per tornaconto personale, piuttosto che qualcuno che si picchi di pensare con la sua testa, e che si permetta di criticare". Per me quella frase fu fulminante, come una frustata.
Che nel PSI ci fosse un certo andazzo a propendere verso l’adulazione l'avevo in realtà ormai compreso (con non poco fastidio). Ma che il principio di un partito fondato sull’adulazione venisse così palesemente conclamato (ed elevato quasi a massima politica) mi colpì molto, e fu anche per quello, tra l’altro, che, più o meno in quel periodo, io smisi di considerarmi craxiano (restando però socialista).
Quella frase d'altronde esprimeva bene quello che era diventato il PSI sotto Craxi. Craxi aveva in effetti fatto proprio questo: aveva trasformato un partito indisciplinato, ma pieno di spiriti liberi, in un partito di leccaculo, appagati di perseguire il loro tornaconto personale all'ombra del leader indiscusso. In questa sua opera, diciamo così, di “disciplinamento” (o di “normalizzazione”), Craxi mostrò di avere una concezione che non direi nemmeno feudale, ma piuttosto barbarica, della politica. La fedeltà alla leadership contava più di ogni altra cosa.C’era un capo cui si doveva assoluta dedizione, e in cambio si veniva ammessi alla spartizione del bottino (in nome di quella logica predatoria di cui parlavo sopra). Davvero è un’immagine che richiama per molti versi quella di quei capi barbarici, circondati dai loro “antrustiones”, di cui parlava Tacito nella “Germania”.
Nel PSI di Craxi non a caso, coloro che portavano idee furono ben presto emarginati, mentre emergevano coloro che si piegavano al capo (o che entravano in qualche modo in affari con lui).
Riccardo Lombardi aveva intuito precocemente questo processo, e sin dal 1979 aveva denunciato il farsi largo di un pericoloso Führerprinzip nel PSI, ed aveva parlato di una preoccupante "mutazione genetica" nel corpo del partito. E in effetti la selezione della classe dirigente nel PSI craxiano fu oggettivamente qualcosa di spaventoso. Ci fu una sorta di liquidazione sistematica dei migliori, a vantaggio di quella banda di personaggi variegati, che Rino Formica una volta definì causticamente con la nota espressione di "nani e ballerine".
In questo contesto, un personaggio come il famigerato Mario Chiesa, che pensava di poter diventare sindaco di Milano estorcendo più denaro degli altri, e conquistandosi per questa via l'attenzione e la benevolenza del "capo", non fu la figura estemporanea di un mitomane o di un pazzo: era la corretta espressione antropologica di quello che il PSI era diventato. Il PSI di Craxi nel corso degli anni Ottanta finì per diventare un partito di ladri e di yes men. E questo deve pure essere ricordato.
Lo ripeto. Per me è difficile fare un discorso sereno su Craxi, perchè è un argomento che mi coinvolge non poco. In Craxi, come ho detto, ci sono dopo tutto anche delle luci, e queste dovrebbero indurci a mio avviso a non liquidarlo in modo troppo sbrigativo, come pura negatività.
Ci sono parimenti molte ombre, e queste dovrebbero sconsigliare di fare di Craxi quell'immaginetta o quel santino che qualcuno oggi vorrebbe proporre.
Craxi resta Craxi: una figura controversa da studiare e da ripensare in modo critico e meditato, con rispetto anche, ma cercando soprattutto di soppesare con attenzione i pro e i contro.
La cosa peggiore, forse, è respingerlo o riabilitarlo così, a cuor leggero, senza lo sforzo di affontare fino in fondo le questioni scomode che la sua vicenda solleva (in positivo come in negativo), e senza trarre un vero ammaestramento da quel che è stato.
Un saluto.
Francesco Somaini.
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