Da Golem l'indispensabile
Guido Martinotti
Parolacce
Stronzi all’1% (e anche più, a volte)
Pierino, tavola dal "Corriere dei piccoli", 1919
Olaf (upon what were once knees)
does almost ceaselessly repeat
«there is some shit I will not eat»1
Lipperlì l’uscita di Gianfranco Fini mi ha preso di sorpresa, perché in contrasto con la compassatezza scelta come cifra dal personaggio; poi ho capito che era un buon tentativo di reach out verso i ragazzi. Ma come! Vuoi dire che per parlare con i giovani devi essere volgare? Beh, in un certo senso sì, le parolacce sono un indicatore di incertezza di status, ed è per questo che sono molto utilizzate dagli adolescenti (i bambini sono semplicemente scatologici, sanno che “cacca” non si deve dire e si divertono a dirlo per vedere l’effetto che fa) e dai politici, in funzione rassicurante: “io sono disinvolto, cazzo!”. Poi ripensandoci più a fondo mi è venuto in mente uno di quei benchmarks mnemonici che permettono di collocare i ricordi. Da piccolo ero ossessionato dall’idea di avere una missione nella vita, quella di scrivere un libro per spiegare agli adulti che i bambini sono infelici. Naturalmente non ho mai scritto quel libro e ora non potrei più farlo perché ho completamente dimenticato perché ero infelice, quindi ho mancato la mia missione, ma il benchmark rimane, sono sicuro che i bambini sono infelici, o almeno che io lo ero ed ero costantemente inferocito contro quegli adulti che ti titillavano dicendo “biribiribin che bel bambino, eh divertiti fin che sei giovane” Shee..it! Merda, pensavo tra me e me, anche se allora l’inglese non lo sapevo, anzi forse non sapevamo neppure che esistesse. Dopo lunghe discussioni su come pronunciare il nome dell’amico fedele di Sandokan dallo sprofondo della nostra scuoletta supersgarruppata nella Pastura di Biganzolo, frazione di Arizzano Inferiore di Intra di Verbania, eravamo arrivati alla conclusione che quel segno lì si doveva pronunciare come una V, quindi il povero Yanez era diventato Vanez de Gomera.
Un capitolo importante del libro, nella mia missione fanciullesca, doveva essere dedicato al linguaggio e in particolare alle parolacce perché nella mia puerile ingenuità non capivo perché ci dovessero essere due modi di parlare: quello che sentivo a scuola (maestre escluse, ma non senza qualche eccezione) in paese e un po’ dappertutto, e quello che sentivo parlare a casa. Percepivo l’ipocrisia e, se volete, la forzatura di questa situazione e mi ero ripromesso che, nel libro, l’avrei ripudiata parlando in decisamente in demotiki (allora non lo sapevo, ma la lingua cui aspiravo era un demotiki liberatorio contro la kathareusa borghese della mia famiglia). Mi ricordo perfettamente dove ho formulato questo pensiero in modo chiaro e perciò so anche quando: stavo andando a scuola in Pastura e rimuginavo questa idea e questo impegno mentre svoltavo a destra sul viale di terra (là dove c’era sempre un piccolo nid de poules di ghiaia e sabbia nel solco che in bici bisognava affrontare a manetta per non impantanarsi e schiantarsi al suolo) tra il Prato Comune a destra e il campo dei Gelsi a sinistra, un grande scampolo in discesa fatto di due leggeri panettoni d’erba che convergevano verso un rigagnolo lungo il quale crescevano i gelsi e che si ingrassava d’acqua fino al tumbun che passava sotto la strada. Ricordo benissimo i gelsi spogli nello sfondo del mio ragionamento e doveva quindi essere o l’inverno del ’44 o quello del ’45, perché l’anno successivo mi spedirono dalle Suore di Cresseglio.
Ovviamente questa faccenda si sovrapponeva a quella del dialetto. Nell’ottobre del 1942 da bambinello borghese milanese ero stato proiettato dai liberators alleati nella scuoletta elementare della località Pastura. La mia famiglia era una delle poche, oltre a quella del parroco, del medico, di qualche comunista, e del segretario della cooperativa del popolo e ovviamente delle suore e maestre, nonché degli sparsi sfollati, in cui si parlava italiano (i nonni ogni tanto intercalavano in ottimo meneghino) e in cui tutti sapevano leggere e scrivere correntemente. Il resto del paese si esprimeva in un dialetto abbastanza ostico anche per un milanese, ma della stessa koiné linguistica; fortunatamente, però, non era piemontese. Chiaro che per sopravvivere ho dovuto imparare il dialetto: da chi? Ma dai miei compagni, va da sé, con la capacità imitativa che hanno i bambini. Ho avuto una esperienza analoga, ma più faticosa con il francese, che ho assorbito anni dopo allo stesso modo naturalistico, a partire da quello un po’ rudimentale che si parlava o meglio gridava sui Vauriens delle Glénans. Per molto tempo non sapevo che l’incoraggiamento a fare in fretta in francese si dice Dépêchez-vous!: io sapevo solo “demerdez vous”. Ora il francese lo capisco bene, lo parlo discretamente (adesso con un po’ meno agilità e sempre con molti errori) ma non so scriverlo senza il correttore di MSWord: il mio data base linguistico è l’intera produzione di George Brassens (fino agli anni sessanta) mandata a memoria e quindi la mia conoscenza del francese è orale e non poco argoterica. Ma come si sa l’argot è maledettamente datato e quindi oggi toubib, blè, ta boite, lo capiscono ancora tutti, bidule forse, ma falzar mi sa che è passato fuori moda come poser un lapin o jeter un derriere la cravate.
PAGINA 1 2
Nessun commento:
Posta un commento