venerdì 4 dicembre 2009

Gian Enrico Rusconi: La finzione della società civile

Da La Stampa
4/12/2009

La finzione della società civile





GIAN ENRICO RUSCONI

In Italia esiste ancora una classe dirigente? E’ l’interrogativo che viene spontaneo osservando la paralizzante litigiosità della politica, il lamento continuo da parte di tutti i gruppi più o meno organizzati, in una società che tira avanti con alti e bassi, aspettandosi dalla politica soltanto aiuti particolari, facilitazioni, deroghe anziché un disegno complessivo di carattere generale.

Naturalmente questa constatazione provoca l’irritata accusa di disfattismo da parte dei politici della maggioranza che sono convinti di dirigere il Paese. Anzi, additano gli avversari e gli osservatori critici come i veri colpevoli della mancata trasmissione della loro sicura guida generale. Denunciano il sistematico ostruzionismo al loro ruolo dirigente del Paese.

Ma proprio questo è il punto di partenza della nostra riflessione. Come può esistere e funzionare una classe dirigente in un clima di reciproca delegittimazione e disconoscimento di autorevolezza?

Si crea un circolo vizioso che impedisce il consolidarsi di una classe la cui capacità di orientamento generale interessa e deve interessare la società nel suo complesso, prima ancora che la politica in senso tecnico.

Alla classe dirigente infatti appartengono i responsabili dell’economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del complesso mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali); nel nostro Paese dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata l’etica pubblica e in questi ultimi tempi (di crocifissi e minareti) il ruolo surrogatorio di religione civile nazionale.

Che fine ha fatto, in questo contesto, il ceto politico in senso stretto cui compete il ruolo di «classe dirigente» in modo specifico in quanto dispone della competenza legislativa e di governo che dovrebbe guidare l’intera comunità nazionale?

Il ceto politico italiano offre una impressione singolare: da un lato fa quadrato attorno a quello che rimane il suo leader insostituibile (nonostante le sempre più insidiose messe in discussione); sembra impegnato a tempo pieno a risolvere i problemi del Cavaliere che sono dichiarati prioritari per l’intera comunità nazionale. Dall’altro lato è esposto a tutte le strattonate che provengono dalla società più o meno organizzata. A questo riguardo il ceto politico dà l’impressione di essere soltanto reattivo alle pressioni esterne.

Ma in questa situazione che cosa fanno gli altri soggetti che sopra abbiamo ricordato come componenti legittime della classe dirigente nazionale (agenzie della comunicazione e della cultura, sindacati, confindustria, sistema educativo inteso non già come una dépendance del ministero ma come luogo autonomo di formazione delle generazioni future)? Non parlo della loro azione di promozione degli interessi da loro legittimamente rappresentati, che sono parte integrante dell’interesse generale. Non parlo dei generosi e frustranti sforzi di tenere testa ad una situazione sempre più precaria - come è il caso della scuola. Mi riferisco ad una grande idea orientativa di carattere generale che dovrebbe caratterizzare «una classe dirigente» degna di questo nome. Nessuno degli attori sopra ricordati ha idee di grande respiro, tanto meno ha la determinazione di attuarle. Ognuno sembra perseguire obiettivi limitati, adattati e adattabili allo stato presente. E’ questa una classe dirigente?

Il discorso torna alla politica. Non si tratta certo di aspettarsi dalla politica un esercizio autoritativo del suo ruolo che sarebbe incompatibile con una democrazia. Ma un governo e le forze politiche da esso espresse possono esercitare un ruolo dirigente anche in presenza di un’opposizione politica forte e capace. Anzi un Paese ha una classe dirigente autentica quando chi è al governo realizza i suoi programmi in dialettica con l’opposizione. Anche nel nostro Paese, senza bisogno di idealizzare il passato, ci furono momenti in cui l’antagonismo tra le forze politiche (Democrazia cristiana in tutte le sue combinazioni e sinistra comunista) ha creato dinamismo politico-sociale e culturale anziché paralisi. Ha espresso una classe dirigente nel suo insieme.

Perché oggi - ovviamente in una situazione inconfrontabile con il passato - questa prospettiva appare impraticabile? E’ davvero Berlusconi il grande ostacolo insuperabile? Perché questo fenomeno ha un effetto tanto paralizzante anche al di fuori della ristretta logica politico-partitica?

Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana. Ha creato un nuovo ceto politico che tuttavia non pare in grado di far funzionare in modo democraticamente virtuoso i contrasti di visione e di comportamento che pure sono caratteristici della democrazia. Abbiamo insomma un ceto politico che non sa essere «dirigente» nel senso atteso.

Ma rimane da chiederci perché mai gli altri soggetti sociali che di fatto hanno ruoli di responsabilità nella comunità nazionale stentano ad assumersi essi stessi questo ruolo con iniziative pubbliche e mobilitazioni culturali - senza naturalmente supplire con questo il mestiere della politica.

O è il segno che la tanto idealizzata vitalità e autonomia della società civile è diventata una finzione?

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