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venerdì 22 aprile 2022
Franco Astengo: 1962
1962: SESSANT'ANNI FA UN PUNTO DI SVOLTA PER LA CLASSE OPERAIA di Franco Astengo
La dolorosa scomparsa di Piergiorgio Bellocchio ha fatto riscoprire la storia di “Quaderni Piacentini”.
Il primo numero dei “Quaderni piacentini” uscì appunto a marzo del 1962, ciclostilato in proprio; come pure il secondo, apparso il mese successivo. A fondare la rivista furono due giovani intellettuali appartenenti alla borghesia piacentina, Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi (entrata ufficialmente nella direzione con il n. 16), che tra il 1958 e il ’60, insieme ad Augusto Vegezzi e ad un gruppo di giovani studenti (composto da ex comunisti, radicali, socialisti delusi, anarchici, ecc.), nella loro sonnolenta città avevano dato vita al circolo culturale “Incontri di cultura”. Quella esperienza ebbe una particolare importanza per la loro formazione e la loro maturazione culturale e politica, in quanto ebbero l’opportunità di conoscere e di frequentare scrittori e studiosi del calibro di Vittorini, De Martino, Paci, Dolci e Fortini.
Per l’orientamento teorico e politico dei direttori dei “Quaderni piacentini” una considerevole importanza ebbe anche l’incontro con Raniero Panzieri, caldeggiato dallo stesso Fortini e avvenuto dopo i fatti di Piazza Statuto, e la conoscenza di Danilo Montaldi, che però non ha mai collaborato direttamente all’attività della rivista. Oltre alla durissima critica della società neocapitalistica, del centrosinistra, del regime sovietico e della strategia della “coesistenza pacifica”, allora in voga, ciò che accomunava personalità così diverse era l’adesione alle aspirazioni e alle istanze autonome e libertarie delle classi subalterne, alle esperienze del comunismo di sinistra e consiliare, basate sulla democrazia di base e sulla partecipazione diretta delle masse, in netta contrapposizione all’assetto burocratico dei gruppi dirigenti della sinistra ufficiale.
I fatti di Piazza Statuto a Torino costituirono un punto di svolta nella storia del movimento operaio e della lotta di classe in Italia: la piazza fu sede di uno dei primi grandi scioperi operai del dopoguerra. Durante la stagione dei contratti dell'industria metalmeccanica, decine di migliaia di dimostranti provenienti dalla Fiat e dalla Lancia, a ondate successive, si riversarono in Piazza Statuto fra il 6 e il 10 luglio 1962, per protestare contro il sindacato della UIL, che qui aveva sede e che aveva firmato un accordo separato con la Fiat. Seguirono gravi e prolungati scontri con la polizia e centinaia di fermi e arresti tra i manifestanti.
Erano gli anni del miracolo economico, dei primi governi di centro-sinistra, dell’ondata di migranti, soprattutto giovani, che abbandonavano le campagne e le periferie meridionali per cercar fortuna nel “triangolo industriale” Torino-Milano-Genova.
Erano anche gli anni di una forte invadenza politica delle destre, che, quando la Dc di Tambroni osò pensare a un governo che includesse il MSI nell'area di governo, provocarono nel luglio del ‘60 una grande sollevazione operaia e giovanile.
Ci fu chi la chiamò la rivolta delle “magliette a strisce”, per via della povera moda che univa, quasi una divisa comune e non programmata, una generazione di giovani proletari e studenti. Gli scioperi nei molti stabilimenti Fiat di Torino, i primi dopo anni e anni di silenzio, erano stati preparati da quelli di molte piccole fabbriche e in particolare da quelli della Lancia, e furono esplosivi, entusiasmanti.
In occasione degli avvenimenti di Piazza Statuto, «Quaderni piacentini» pubblica una cronaca dei fatti attraverso la stampa 3 , criticando le posizioni dei giornali, dei partiti di cui sono espressione, dei singoli esponenti degli stessi e di tutti i sindacati, salutando con favore l’ intervento di quei gruppi di operai, in maggioranza immigrati, che sono i protagonisti di questi avvenimenti e che non sono facilmente inquadrati. Sarà proprio da questo momento che la rivista dedicherà uno spazio sempre maggiore alla posizione dei giovani operai immigrati considerati come una forza innovativa capace di modificare il sistema in quanto non fortemente integrata in esso. Si affronta inoltre il tema del legame tra le lotte operaie e quelle studentesche, sostenendo che tale legame, vada sostenuto ma non affrettato, soprattutto viene segnalata la necessità di un’ attenta analisi e considerazione delle diversità dei due gruppi, per fare in modo che questa unione risulti forte e sostanzialmente duratura.
Allo stesso tempo viene rilevato il carattere di fondamentale innovazione del movimento studentesco, argomento a cui «Quaderni piacentini» dedica molto spazio intravedendone le possibilità fin dalle prime mobilitazioni. La società italiana e soprattutto, all’ interno di essa, il perpetuarsi di una struttura classista, viene vista come il frutto di tutta una serie di avvenimenti storici che partono dall'avvento del fascismo. Per trarre insegnamento da quelle esperienze era necessario comprenderle a fondo, demitizzarle, ma soprattutto riattualizzarle.
«Quaderni piacentini», che rappresenta il parere più autorevole della Nuova Sinistra italiana di quel momento, cioè di quella cultura politica che si andava formando intorno agli anni ’ 60, totalmente ostile alle scelte «revisioniste e riformiste dei partiti operai ufficiali» , è invece favorevole alla stretta collaborazione con le forze giovanili e studentesche per la protesta e la progettazione rivoluzionaria.
Il collettivo di lavoro riunito attorno a questa rivista si caratterizza anche per la sensibilità e l'analisi critica rivolte ai temi di politica internazionale, e soprattutto ai metodi di interpretazione, ritenuti incompleti e inadeguati, portati avanti dalla sinistra ufficiale intorno a questi temi. Viene messa in luce l'indifferenza delle coscienze di fronte alle violenze e ai massacri perpetrati nelle lotte di liberazione nel Terzo Mondo, indifferenza prodotta dall’ abitudine e dal senso di impotenza di fronte ad essi. Ed è proprio in questo senso di impotenza, di fronte a violenze che appaiono troppo lontane e incomprensibili, che le coscienze vengono fatte vittime, secondo la rivista, di una diversa ma non meno profonda forma di violenza.
Fu esplicitata una forte critica alla posizione del PCI, del PSI, della CGIL che videro in quei fatti e in quelle posizioni elementi di provocazione, senza riuscire a leggere il nuovo disagio sociale che derivava dalla modernizzazione capitalistica e dalla conseguente ristrutturazione nei rapporti di classe e nella metodologia della vita quotidiana ormai impostata su di un processo di gigantesca "rivoluzione passiva" fondata sul consumismo non si realizzò un incontro "politico" con le altre posizioni di critica radicale a sinistra di ciò che stava accadendo.
Emerse in quel periodo anche la critica portata avanti dall’operaismo di Panzieri ,che pure su Piazza Statuto aveva assunto posizioni lontane da quelle di "Quaderni Piacentini" . Panzieri era promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività.
Panzieri era anche fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione” ( così si identifica, rispetto alla scontro interno al PCI, la posizione di Amendola).
La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano, che del resto non fu mai contestato fino in fondo.
Nella Nuova Sinistra in formazione, infatti, si affermò che era necessario andare "oltre Togliatti" e non "contro Togliatti".
Nel PCI, dopo che nel 1962 al convegno dell'Istituto Gramsci sulle "Tendenze del capitalismo italiano" Trentin e Magri avevano aperto il fronte nei riguardi, proprio delle posizioni amendoliane in nome di una lettura avanzata del processo di ristrutturazione capitalistica in Italia, una volta morto Togliatti e poi spenti i fuochi dell’XI congresso e radiato il gruppo del “manifesto”non risultò possibile di aprire un confronto di fondo portando avanti il dibattito aperto ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri .
I due fondatori del “Manifesto”rimproveravano, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”, testo fondamentale da confrontare soprattutto nella definizione del “genoma” Gramsci e per affrontare seriamente quello che può essere ancora definito come “lascito inevaso”) .
Secondo Magri e Rossanda nel post – togliattismo il marxismo era stato annacquato nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi . Il PCI nella fase turbinosa degli anni’60 aveva così stabilito un primato del politico sull’economico smarrendo il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria ( ancora attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico e non riuscendo ad individuare così lo svilupparsi di nuovi livelli di espressione della contraddizione di classe e di profonda modificazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura.
Entrambi i due punti di osservazione critica fin qui citati , quello dei “Quaderni Rossi” e quello del “Manifesto” affrontarono anche il nodo di fondo del rapporto tra il partito e la classe, mettendo in discussione la forma sostanziale del “centralismo democratico” e inerpicandosi per diversi sentieri nella ricerca della “via consiliare”.Non si riuscì però a realizzare un sufficientemente incisivo dato di contrasto e, alla fine, si scoprì che all’interno del PCI proprio il modello del “centralismo democratico” aveva scavato un vuoto di dibattito che risultò esiziale, nella contrapposizione delle mozioni, al momento di affrontare le proposta di scioglimento.
Dai "Quaderni Piacentini" ai “Quaderni Rossi”al “Manifesto” restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo di quanto non fu possibile concretamente realizzare in quel tempo.
Quegli spunti di dibattito appena citati incontrarono, del resto, limiti forti di vero e proprio politicismo allorquando nel PCI emerse la linea del “compromesso storico”, elaborata attraverso una ipotesi di non semplice intento di determinare equilibri tattici dettati dal momento storico (golpe cileno) ma come frutto di una lettura che arrivava direttamente dall'antico fronte antifascista ma ormai insufficiente e fortemente ritardata del rapporto che si era modificato tra sistema politico e società italiana nella fase più acuta di passaggio dalla ruralità all'industrializzazione e di modernizzazione del capitalismo.
Modernizzazione del capitalismo che avrebbe dovuto prima di tutto essere considerata nella nuova logica della globalizzazione e della scarsità di risorse (ritardo di analisi che poi emerse in tutta la sua crudezza al momento della crisi energetica del '74, cui Berlinguer rispose tardi invocando una ipotesi di "austerità" interamente sovrastrutturale).
Il PCI (e non solo) ripiegò allora, dopo le elezioni del '76 sulla traduzione al ribasso della solidarietà nazionale portando avanti un politicismo esercitato al punto che sviluppato una sorta di mal interpretato “primato della politica” condusse al collasso della teoria: ciò avvenne ben in precedenza alla stagione degli anni’80 nel corso dei quasi per via obbligata si arrivò alla liquidazione del partito segnandosi un sorta di destino ineluttabile nel collegamento con il fallimento dei fraintendimenti marxiano-leninisti dell'inveramento statuale.
Intanto i gruppi post-'68 avevano intanto percorso tutt'altra strada. Una divaricazione perniciosa e per certi tratti pericolosa (nella quale era emerso anche un terrorismo frutto di una torsione idealistica e radicale della soggettività).
Una divaricazione che forse era già stata tracciata in quell'analisi divergente sui fatti del 1962, sessant'anni fa e al riguardo della quale erano risultate impotenti "minoranze illuminate", incapaci anch'esse di cogliere il senso pieno della contraddizione di massa.
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