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venerdì 10 dicembre 2021
Paolo Bagnoli: Sulla sinistra italiana
Sulla sinistra italiana
Una riflessione
critico-politica
Ragionando su PSI e PCI. Riportiamo qui di seguito ampi stralci dell’articolo del prof. Bagnoli “Sulla sinistra italiana: una riflessione critico-politica. Ragionando su PSI e PCI”, apparso sull’ultimo numero della rivista Infiniti Mondi, alla cui lettura qui rinviamo.
di Paolo Bagnoli
A oltre sei lustri dalla scomparsa dei partiti storici e della sinistra dalla scena politica italiana, nonostante la non poca letteratura prodotta sulla materia, occorre osservare come la questione della sinistra vada reimpostata. Non si tratta di un’esigenza esclusivamente storica, ma precipuamente politica se si ritiene, come noi riteniamo, che la storia della sinistra italiana non appartenga al passato, ma alla politica nel senso che la sua vicenda costituisce, o dovrebbe costituire, l’elemento di avvio di una riflessione propedeutica al reinsediamento della medesima nell’Italia del presente; in qualche modo ripartendo da zero rispetto ai travagli del passato i quali, tuttavia, non possono essere messi da parte se l’intenzione dell’operazione ha un segno positivo considerato che la storia ha emesso il proprio giudizio e dove sono gli errori, le occasioni mancate, le cose giuste è risaputo. Tutto ciò, evidentemente, non può essere dimenticato e non si può far finta che non ci sia, ma se oggi l’Italia è l’unico Paese europeo in cui non vi è traccia di una sinistra degna di questo nome, una ragione ci sarà. Se si ritiene il fatto non solo un’anomalia temporanea per quanto lungo il periodo possa essere, ma un qualcosa che oramai, non da oggi, rasenta il rischio della rimozione concettuale e storica, allora il taglio delle riflessioni deve cambiare poiché, se la politica politicata può scontare senza scandalo alcuni equivoci e pure contraddizioni, non può essere così per la cultura politica e la dimensione storico-ideologica cui essa si lega. È questo il nodo che va prima riproposto e poi sciolto. Non si tratta di una questione semplice in quanto il suo scioglimento non può puntare a riproporre la situazione di un tempo. Essa, al totale della storia, si è dimostrata fallimentare poiché oggi la sinistra in Italia non c’è – va osservato, peraltro, che anche nel resto d’Europa la crisi della sinistra è assai forte scontando la subordinazione alle politiche liberiste che, basandosi sul “singolo” e sul “mercato”, si collocano contro natura rispetto al socialismo – al di là dei meriti dei suoi protagonisti e delle sue lotte, che pure ci sono nonostante i macroscopici errori che sappiamo, anche perché reimpostare la sinistra nella fattualità del Paese significa concepirla in maniera unitaria che è poi, quando rinascerà, l’unico modo per cui possa essere. Qui si pone la prima questione.
Da tempo si spaccia per sinistra ciò che sinistra non è in virtù di una dinamica elementare per cui chi si contrappone alla destra non può che essere sinistra; ma così non è. Inoltre, come se ciò non bastasse si omologa sinistra e centrosinistra, che sono due concetti diversi; il primo storico-ideologico, il secondo squisitamente politico, ossia una formula, ma la confusione e la pertinacia nel continuare nell’equivoco è talmente forte che chi non può dirsi di sinistra – e non c’è niente di male – ma si colloca nel centrosinistra diviene, per una proprietà transitiva astrusa, ipso facto di sinistra. La conseguenza, paradossale, è che allora in Italia una sinistra c’è e, se c’è, non c’è bisogno di porsi la questione, ma di sostenere quanto esiste. Insomma, una confusione che, impossessandoci a uso strumentale di una definizione di Antonio Labriola, richiede una “delucidazione preliminare”. Cosa si deve intendere, infatti, per sinistra? Dal momento che di esse, quali tendenze all’interno delle più varie formazioni politiche, ne esistono molte, qualcuno potrebbe dire che ne abbiamo talmente tante che bastano e avanzano. La sinistra, quella vera, quale categoria politico-culturale-sociale della storia del mondo è quella che connota la storia del movimento operaio e delle forze che l’hanno organizzato e rappresentato; del mondo di valori cui hanno improntato le loro lotte per l’emancipazione sociale, la giustizia, il riscatto dell’uomo alla propria dignità e a una vita che meriti di essere vissuta. E se la classe operaia non è più la classe generale non con questo sono venuti meno il lavoro subordinato, i salariati, lo sfruttamento, l’esigenza di una società più giusta nella quale non siano negati i diritti fondamentali al lavoro, alla salute, all’istruzione, a una società non fatta solo per le categorie più forti; insomma, la sinistra è rappresentata e simbolizzata da quelle forze che non hanno abbandonato la lotta di classe per una società più umana e più equa. Ancora oggi e lo sarà sempre, la sinistra è quanto eredita, rappresenta e continua la cultura del movimento operaio; una cultura categoriale considerati i cambiamenti avvenuti e il continuo mutare del mondo del lavoro che, se non governato, crea sostanziali arretramenti civili, ampliando i solchi sociali della moderna società con la conseguenza che i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; i primi sempre meno e controllanti ingenti ricchezze e i secondi sempre di più con sempre meno diritti e opportunità. Il mondo del lavoro non è scomparso, esiste e chiede di essere organizzato e indirizzato. Ciò non può farlo che un grande soggetto “socialista” se non vogliamo che la Lega prenda i voti degli operai e il sottoproletariato voti a destra e magari, chi si qualifica di sinistra, riceva quelli dei benestanti. Ci rendiamo conto che può apparire un discorso del tempo andato, sorpassato; ma così non è. Ciò per mettere a fuoco cosa si debba intendere per sinistra; nella storia italiana la sinistra era articolata in due forze: il PSI e il PCI. Le loro storie sono ben note e, quest’anno, ricorrendo il centenario del congresso di Livorno che vede la scissione da cui nasce quello che sarà il PCI essa è stata ricordata, ricostruita e commentata in lungo e largo. Livorno segna la fine del PSI come la forza rappresentante il movimento operaio italiano; l’unico soggetto socialista e le ragioni della rottura nel corso di tutti gli anni che seguiranno, anche in quelli che, sia durante la lotta antifascista che dopo la nascita della Repubblica, vedranno i due partiti attestati su un fronte unitario, nonostante tutti i cambiamenti intervenuti sia nel troncone comunista che in quello socialista, verranno mai risolte e la sinistra cristallizzata in socialisti e comunisti non riuscirà mai ad avere una intenzione di unità politica che, pur ferme la diversità culturale e la motivazione storica, li vedano promotori di un ‘iniziativa unitaria per il governo del Paese. Non solo, ma se le questioni politiche risultano irrisolvibili quando esse divengono questioni culturali anche quando queste ultime, pur con forzature oggi incomprensibili se si pensa alla natura del PSI, non avevano un peso rilevante e il Partito socialista è nettamente quanto poco comprensibilmente allineato alla politica sovietica, sul piano più squisitamente politico un’univoca strategia politica unitaria non ci sembra riscontrabile se si eccettua il Fronte Democratico Popolare del 1948 che, più dei comunisti, Pietro Nenni volle portando il Partito a pagare un prezzo dal quale, a ben vedere, non si è più ripreso. Con ciò le forze di classe continuarono in un rapporto unitario nella CGIL, nella Lega delle Cooperative, nel movimento di massa che animava le Case del Popolo nonché in numerose amministrazioni locali, ma ciò non aveva il carattere di un insieme che costruisse un ‘alternativa al potere moderato e alle sue espressioni. Era un dato di fatto, sicuramente significativo, ma non per questo sufficiente a rappresentare un’aspirazione più ampia. Potremmo dire che era una testimonianza più che il pezzo di un più ampio mosaico politico. Ora, le ragioni del perché è così, hanno radici profonde e motivate. La scissione di Livorno aveva provocato un qualcosa di più di una differenziazione organizzativa; aveva calibrato la qualità e la funzione della sinistra sul parametro della rivoluzione d’ottobre; rivoluzione che poi d’ottobre non era poiché il regime autocratico zarista era caduto nel febbraio 1917, con il governo Kerenskij, mentre nell’ottobre c’era stato il colpo di stato che aveva insediato Lenin e i bolscevichi al potere. Un grande evento– non è qui ora il caso di ricostruire seppur brevemente un dibattito e quanto caratterizzò il PSI guidato dalla corrente dei “comunisti unitari” il cui leader era Giacinto Menotti Serrati; due anni dopo confluiranno tutti nel Pcd’I e la differente posizione dei “concentrazionisti unitari” guidati da Filippo Turati che nel 1922, su diktat di Lenin saranno espulsi dando vita al PSU con segretario Giacomo Matteotti – il quale, al di là ed oltre le diverse e spesso contraddittorie posizioni politiche assunte dai comunisti fin dal periodo della lotta al fascismo, nel variare delle posizioni via via assunte, faceva sì che il comunismo italiano, come anche per gli altri partiti comunisti, non solo non poteva concepirsi non legato a Mosca ma quanto, benché la politica sovietica variasse secondo le decisioni di Stalin – compreso il patto Molotov-Von Ribentropp – il fine del comunismo italiano rimanesse il fare come in Russia; che la rivoluzione, se così si può chiamare un colpo di stato che generò lo stalinismo, era e rimaneva lo scopo che motivava l’azione dei vari partiti comunisti. Il non aver mai sciolto tale nodo in maniera chiara, al di là dei passi in avanti e delle progressive prese di posizione condite in salsa occidentale, prese via via dal PCI, ha costituito uno dei motivi che ha reso difficile l’unità politica che sarebbe stata necessaria… [vai al sommario del numero 19/2021 di Infiniti Mondi alla cui lettura qui rinviamo]
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