martedì 5 settembre 2017

Paolo Bagnoli: La difesa della libertà e della democrazia

Da "Non Mollare" la biscondola la difesa della libertà e della democrazia paolo bagnoli le giornate della memoria – la nostra fragilità politica e culturale – la natura dello scontro – il pericolo del razzismo Se è vero che tutti possiamo avere la memoria corta, è certo che il “tutto”, ossia quel quanto che complessivamente rende comune il mondo, ne è afflitto in maniera quasi naturale. Lo conferma il fatto che, di quando in quando, viene istituita una giornata della memoria per tenere vivo un avvenimento di particolare rilevanza. La cosa è sicuramente positiva, ma se questo è il lato più che apprezzabile della questione, l’altra faccia della medaglia ci dice che quel particolare fatto degno di grande ricordo storico e attenzione pubblica è a rischio cancellazione dalla memoria collettiva, ossia da quel collante immateriale che costituisce la cultura della civiltà. Anche su questo converrebbe capirsi una volta per tutte. È vero che, nella lunga storia del mondo, si registrano epoche storiche segnate da processi di incivilimento, ma ciò non deve far dimenticare che il punto di approdo della cultura moderna, relativamente al concetto di “civiltà”, riguarda le conquiste – non certo pacifiche – del mondo occidentale assestatesi nella libertà e nella democrazia. Nella storia tutto non è perfetto; nemmeno il modo di concepire la libertà e di organizzare la democrazia lo sono, ma in quella piccola parte del globo terracqueo ove ciò è avvenuto, tale processo ha segnato il punto più alto della civilizzazione umana. Quanto comporta non crediamo ci sia bisogno di dettagliarlo ancora una volta, ma ricordarsene un po’ di più non sarebbe male visto che la cosiddetta “civiltà occidentale” sembra segnare pesanti fragilità; politiche, naturalmente, ma prima ancora culturali. 7 nonmollare quindicinale post azionista | 004 | 04 settembre 2017 _______________________________________________________________________________________ Di tale sbandamento, che poi altro non è che vuoto di consapevolezza, ne sta approfittando l’iniziativa bellica che, dall’11 settembre, il radicalismo mussulmano ha dichiarato all’Occidente. L’ultimo tragico capitolo di un libro che si preannuncia lungo sono i fatti di Barcellona trattati, dalla riflessione pubblica, come un qualcosa sicuramente drammatico e più che doloroso, ma da mettere nel conto di un passaggio storico raffigurato come irrazionale nel quale occorre – e lo è certamente necessario – difendersi prima ancora di capire cosa oramai da troppi anni sta avvenendo, ossia della natura dello scontro in atto. Uno scontro che è una guerra, asimmetrica e particolare, ma sempre una guerra e alla quale, per quanto concerne l’opinione pubblica, quella dei media e dei social, si risponde con il ricorso ad argomenti che non solo lasciano il tempo che trovano, ma che, al contrario, sembrano devianti rispetto al cuore del problema. Il copione, volta dopo volta, si ripete. In primo piano troviamo i sociologi che spiegano come non ci si debba chiudere in casa e che il nostro stile di vita non subirà cambiamenti; poi vengono i rappresentanti religiosi che, prima spargono manciate di pietismo e poi spiegano che l’Islam non è morte; alla fine entrano in campo i politici che rassicurano sulla misure di polizia e sul fatto che i contatti tra i centri internazionali che sovrintendano alla sicurezza stanno collaborando anche se ci sarebbe bisogno di un coordinamento unitario più continuo, coeso e integrato. Il dato prevalente, anche sottotraccia, di tutto ciò è che l’attacco terroristico abbia un prevalente motivo religioso; perverso perché gli islamici in generale non sono sanguinari. L’impostazione ci sembra sbagliata. Siamo ben convinti che gli islamici nel loro complesso non siano sanguinari e tutti convinti fino alla ferocia che chi è diverso da loro sia un infedele da abbattere, meglio se crudelmente. Sicuramente è anche così, ma tale approssimazione ha il solo risultato di generare razzismo tanto che basta una pelle più scura o una barba più lunga per registrare violenza, intolleranza, respingimento e così via. Dicevamo guerra asimmetrica poiché le parti non si fronteggiano a viso aperto e l’Europa e l’America – l’Occidente cioè - sembrano essere il poligono nel quale un’impropria entità statale, l’Isis, espressione del radicalismo sunnita, vuole dimostrare ai mussulmani che non accettano il califfato di cosa essi sono capaci. Per cui, la guerra ai cosiddetti infedeli costituisce l’area più formidabile di arruolamento per quei mussulmani sparsi nel mondo, culturalmente a chilometro zero, che si sentono tagliati fuori dai luoghi nei quali vivono, che li hanno accolti e nelle cui società non sono stati capaci di inserirsi covando un odio pari al basso livello culturale che hanno. Ne consegue che finiscono per ritrovare la loro identità vivendo qui, ma continuando a mantenere la testa nella terra di origine. Mettendosi criminalmente in movimento dimostrano di essere in guerra per dimostrare, di cui essere capaci di riscattarsi e ritrovare se stessi. La guerra in atto contro il liberalismo occidentale ha qui la sua ragione; da qui bisognerebbe partire per organizzare la risposta. Facile a dirsi, meno a farsi, ma in un confronto di tali dimensioni servono poco le preghiere e le analisi sociologiche, occorre concretezza e fermezza; possibile che non ci si renda conto della portata di ciò che è in gioco? Il terrorismo bellicista è iniziato con l’attacco alle torri gemelle; due giorni prima era stato assassinato il comandante Massud che, a capo dell’alleanza del Nord, contrastava in Afghanistan il governo talebano che, non dimentichiamo, aveva proclamato, il Grande Califfato. Poi è venuto l’Isis che, badiamo bene, non è un movimento del terrore, ma uno Stato, mobile; uno Stato che detta leggi, mette tasse, organizza l’istruzione, regola la vita dei sottoposti, promuove economia, fa affari internazionali; insomma si muove al pari di ogni Stato. Ora, dopo le sconfitte ricevute, si è trasferito in Libia; ancor più vicino all’Italia. Uno Stato è un’entità essenzialmente politica e, infatti, l’Isis pone una questione politica che consiste nel tentativo, fondato su un’interpretazione religiosa sublimata a ideologia, di far rinascere il Grande Califfato nelle terre arabe per divenire sovrano del territorio, e di quanto vi è sotto, cancellando il presente per far posto a un oscurantismo violento che nemmeno il mondo arabo nel suo complesso vuole. L’Europa è il punto facile di tale strategia e lo è tanto più se la questione non viene mesa a fuoco nella sua essenzialità. La sorte dei Paesi arabi non ci è estranea – il problema delle migrazioni lo dimostra – ma come si fa a evitare lo sconvolgimento del 8 nonmollare quindicinale post azionista | 004 | 04 settembre 2017 _______________________________________________________________________________________ complesso scacchiere medio-orientale se la consapevolezza che spetta alla nostra “civiltà”, qualsiasi prezzo essa comporti, non pone al primo punto la difesa e la valorizzazione della libertà e della democrazia? Sicuramente giochiamo tutti in difesa perché l’Europa non è quella che vorremmo; perché il pietismo – che rispettiamo, beninteso – non produce politica e ora anche perché Trump, nel suo confusionismo improvvisato e gigionesco, con lo slogan dell’ America first ha, di fatto, rotto il legame del senso occidentale della storia? Quanto, cioè, ha permesso, pur in mezzo a tantissime laceranti contraddizioni, di tenere accesa quella fiaccola di libertà che dovrebbe essere sempre incrementata e non solo difesa all’occorrenza. L’Occidente deve molto a Winston Churchill, forse sarebbe opportuno dedicare anche a lui una giornata del ricordo! Intanto ricordiamo un suo celebre detto: «I fatti vengono prima dei sogni»

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