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giovedì 7 settembre 2017
Andrea Ermano: A casa nostra e a casa loro
EDITORIALE
Avvenire dei lavoratori
A casa nostra e a casa loro
di Andrea Ermano
Si avventurano fino ai nostri bagnasciuga, disturbando le vacanze. Non provengono da zone in guerra o ufficialmente sottoposte a dittatura. Diffondono ogni genere di malattie costringendoci a reintrodurre i vaccini che eravamo riusciti a evitare in odio alle industrie farmaceutiche. Fanno figli. Figli che pretenderanno lo ius soli e poi chissà cosa. Vengono a rapinarci nelle nostre stesse case. Stuprano rumorosamente e sciattamente (non sistematicamente, silenziosamente, come si usa in certe brave cerchie familiari). Ammazzano passanti in atti terroristici sempre più sgangherati (non in nome dell'ordine e della disciplina come facevano i nostri vecchi servizi segreti deviati ai tempi delle stragi sui treni, nelle piazze e nelle banche).
Ecco riassunta la "narrazione" sui migranti che si trae da giornali e telegiornali. E allora sorge la domanda: se così fosse (ma non è così!), che cosa dovremmo fare?
"Aiutiamoli a casa loro".
Questa la risposta che tutti ti danno.
Vabbè, siamo in campagna elettorale. Lo sapevamo.
Ma lo xenofobo, cioè colui che rintraccia nello straniero una nicchia per la propria paura, userà la formula "aiutiamoli a casa loro" come tattica verbale. Dice "aiutiamoli", ma intende "buttiamoli a mare", come proclamava la Lega di dieci anni fa. Oggi non si dice più. Oggi non vale la pena spacciare la xenofobia per coraggio nazional-padano. Meglio lasciare che tutto, financo la sicurezza nella quale pure viviamo, si traduca in un'insicurezza diffusa. Perché nella storia umana mai c'è stato un tempo più sicuro del presente. Ma proprio perciò l'istinto profondo della paura si scopre disoccupato e teme d'implodere.
Quindi, sì, aiutiamoli a casa loro. Uno straniero al giorno scaccia di torno la malinconia. Tanto poi mica nessuno va a verificare che tipo o quantità o qualità di aiuto gli si presta, a casa loro.
Il governo italiano «cerca di spostare i confini dell’Europa al di sotto della Libia, per non farvi entrare chi scappa da dittature, guerre o disastri ambientali, gli altri governi dell’Unione europea hanno invece spostato da tempo quei confini alle Alpi», osservava il sociologo Guido Viale sul quotidiano "il manifesto" del 26 luglio scorso (vai al blog di Guido Viale).
Gli altri stati europei stanno, insomma, facendo dell'Italia quello che il nostro Governo vorrebbe fare della Libia: «un deposito di esseri umani “a perdere”». Siamo retrocessi ancora una volta alla casella dei "centri di trattenimento libici", dove massicciamente regnano condizioni subumane, oltre che la rapina, lo stupro e l'omicidio. A futuro monito delle masse sub-sahariane, a che mai più venga in mente a qualcuno l'insana fantasia di trasferirsi dall'Africa in Europa, il continente più ricco del mondo…
Ma perché facciamo tutto ciò? L’Italia, e l'Europa, avrebbero bisogno di quei migranti, ma per accoglierli bisognerebbe spezzare prima il bando sovrano liberista che vieta le politiche di piena occupazione. Ché già solo a pronunciare questa formula si rischia il ridicolo. Perché, si obietterà, i robot, i computer, i software ecc. si stanno sostituendo ai contadini, agli operai, ai soldati, ai medici, agli avvocati e persino agli ingegneri. Quindi, che senso ha parlare di piena occupazione?
La risposta qui per un verso investe il domani, per l'altro interpella però già il nostro oggi.
Domani, la fuoriuscita dell'umanità dalla produzione esigerà di essere governata. Pena il disastro. Ma – pensateci – nessuno può governare una transizione che investe l'intera umanità, se non forse l'umanità stessa. E, infatti, una governabilità globale, ormai sempre più indispensabile, nessuno l'ha ancora vista. La fuoriuscita dell'umanità dalla produzione sarà ingovernabile senza che ciascuna e ciascuno di noi, mentre vede ridursi la propria attività strettamente economica, aumenti gradualmente il proprio impegno civile. La futura governabilità, dunque, appare possibile solo in un progressivo transito delle energie umane dalla dimensione strettamente economica a quella della cittadinanza. Un altro lavoro è possibile.
Già oggi, però, è evidente che un sistema di allocazione delle energie e delle risorse produttive fondato sulla massimizzazione del profitto, pur dimostrandosi molto efficiente in certi campi, appare completamente cieco, invece, rispetto a una lunga serie di bisogni e interessi vitali. Per esempio, il capitale non "vede" come problemi "suoi", da risolvere, le grandi masse di giovani disoccupati che affollano le coste mediterranee, o le grandi masse di persone che aspirano a trasferirsi dall'Africa in Europa, o le macerie dei territori colpiti da disgrazie naturali o belliche, o il compito di una riconversione eco-compatibile (e anti-sismica!) dell'intero parco immobiliare europeo. Tutte questioni che ufficialmente "non esistono" perché non ne consegue alcuna massimizzazione del profitto.
Vale la pena qui avvertire che le due prospettive, quella del domani e quella dell'oggi, sono strettamente intrecciate, ma non identiche. L'una, quella del domani, s'innerva nella "destinazione" tecnico-scientifica della nostra intera civiltà e apre a scenari inediti, inauditi. L'altra, quella dell'oggi, riguarda "solo" il destino del capitalismo che è una forma storica di mercato giunta palesemente ai propri limiti di senso. Un altro mercato è possibile.
Ciò detto per non rimanere prigionieri del pensiero unico, torniamo ai migranti, di cui gli stati europei, le società europee, avrebbero molto bisogno. Quindi, occorrerebbe, si diceva, una strategia generale d'integrazione in Europa. E d'altronde, non ha torto Guido Viale quando scrive che «è inutile vaneggiare di piani Marshall per l’Africa senza dire a chi sono diretti». Perché quei paesi non potranno certo rinascere per opera delle multinazionali che li stanno devastando, o di governi corrotti e sanguinari «che costringono a fuggire la parte migliore dei loro concittadini». Per Viale ci vorrà «una nuova grande leva di migranti e di cooperanti europei impegnati a costruire insieme non solo una nuova Europa qui, ma anche una grande comunità euro-afro-mediterranea là; aperta alla libera circolazione, non dei capitali, ma delle persone e delle loro aspirazioni».
Per Viale, una grande strategia di "integrazione" dei migranti deve anzitutto «offrire a loro e, insieme, ai 25 milioni di disoccupati creati con la crisi, un lavoro». E anche qui, si obietterà che già appare del tutto irrealistico favoleggiare di "piena occupazione" per i nostri milioni di disoccupati…Figuriamoci, dunque, come sarebbe possibile assorbire anche milioni di migranti.
«Per mettere tutte quelle persone al lavoro», argomenta Viale «ci vuole un grande piano di investimenti diffusi. Quel piano è la conversione ecologica, come prescritto dagli impegni presi al vertice di Parigi. Ma è un piano che non può riguardare solo l’Europa: deve coinvolgere anche i paesi di origine dei nuovi arrivati». Quindi non si tratta di “aiutarli a casa loro”, conclude Viale, bensì di aiutarli qui in Europa «ad aver voce e a rendersi parte attiva della pacificazione dei loro paesi in guerra; e, quando potranno tornarvi (e molti non aspettano altro), della loro ricostruzione, del loro risanamento ambientale e sociale, della loro conversione ecologica, con progetti e interventi analoghi a quelli da sviluppare qui».
Per fare tutto questo, però, non basta semplicemente "un grande piano di investimenti diffusi". Occorre, aggiungiamo noi, immaginare una rete non meno diffusa di istituzioni in grado di organizzare il grande progetto. Questa rete di organizzazioni è stata prefigurata da Ernesto Rossi nelle sue celebri considerazioni dedicate all'"esercito del lavoro", tra cui quelle apparse su "Il Mondo" del 27 maggio 1950. Di lì bisogna attingere, per realizzare un grande Servizio civile nazionale ed europeo, aperto ai migranti, che affianchi e sorregga l'intero processo.
Utopie? Lo vedremo. Per intanto, è bello constatare che queste "utopie" ricominciano a prendere piede nella società civile, come testimonia l'interessante saggio breve di Massimiliano Panarari – "Qui ci vorrebbe un servizio civile" – apparso sull'Espresso del 30 luglio scorso. «La società atomizzata ha un antidoto», sostiene Panarari, «un periodo in cui i ragazzi si conoscono, si mescolano, imparano l'empatia sociale». (Leggi il saggio breve di Panarari sul sito de L'espresso)
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