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lunedì 4 settembre 2017
Franco Astengo: I punti sulla modernità
UN ULTERIORE TENTATIVO DI FORNIRE UN CONTRIBUTO PER UNA RIFLESSIONE DI FONDO AL TEMA DELLA COSTRUZIONE DI UNA SOGGETTIVITA’ POLITICA DELLA SINISTRA ITALIANA. Di Franco Astengo
Care compagne e cari compagni
Mi permetto disturbarvi nuovamente allo scopo di sottoporre alla vostra attenzione quella che, presuntuosamente, ritengo una riflessione organica al riguardo della prospettiva di apertura per una riflessione di fondo sul tema della costruzione/ricostruzione di soggettività politica nella sinistra italiana.
Mi permetto, infatti, di ritenere una semplice forzatura politicista porsi l’obiettivo di formare una lista più o meno unitaria in vista delle prossime elezioni politiche ( operazione non proibita, per carità) senza un collegamento diretto ad una prospettiva di nuova soggettività organizzata.
Soggettività organizzata però, stante la condizione attuale che si è venuta a creare, che abbisogna di essere costruita attraverso un lavoro di riflessione teorica di grande respiro.
Naturalmente chi scrive non possiede alcun titolo sul piano politico – culturale per ergersi in cattedra e mostrare agli altri la via da seguire.
Mi permetto soltanto di offrire alcuni spunti di riflessione, come già mi era capitato in passato: in questa occasione circoscrivo il terreno al rapporto tra crisi della democrazia e discorso politico.
Questo testo quindi è articolato in quattro parti (due delle quali dovreste aver già ricevuto, ma che unisco a questo allegato per completezza del discorso scusandomi per la ripetizione).
PRIMA PARTE. Uno schema di dibattito articolato in 10 punti da sviluppare (in questo caso sono elencati soltanto i titoli)
1) L’utopia come punto di saldatura tra la teoria e la prassi
2) L’idealità come strumento di lettura della conoscenza
3) L’universalità quale punto di contrasto alla parcellizzazione della conoscenza esprimendo una critica di fondo al “modello informatico”
4) La politica come fattore di modernità, intendendo la storia quale motore del futuro per far crescere l’uguaglianza a tutti i livelli e sconfiggere la marginalizzazione
5) L’acquisizione delle esperienze del passato quale bagaglio indispensabile nell’elaborazione del progetto. La critica del processo di inveramento statuale delle rivoluzioni avvenute nel ‘900 non può far dimenticare il ruolo di “motore della storia” svolto da quei fatti rivoluzionari (dalla Comune all’Ottobre: anche se per la Comune non si può assolutamente parlare di “inveramento”. Resta la definizione marxiana di “assalto al cielo”
6) Indispensabile il raccordo tra scienze della natura e scienze umane: soltanto così si può sconfiggere l’individualismo consumistico e competitivo
7) Su queste basi l’espressione di egemonia da parte della politica, sotto l’aspetto della rappresentanza di parte, sull’insieme dell’intreccio tra struttura e sovrastruttura inteso nella modificazione di rapporto verificatosi nel tempo
8) Serve un soggetto politico, un partito, che per l’appunto rappresenti la sede nella quale l’espressione di idealità riunifica teoria e prassi in una rappresentanza culturale e sociale provvista di una visione antagonistica e di una capacità operativa posta in diretta relazione con la contingenza storica, i rapporti di classe, la valutazione delle forze in campo, la presentazione di obiettivi praticabili nella fase di transizione, la capacità di valutazione stessa della realtà di fase (oggi di guerra di posizione)
9) Una rappresentanza che ha bisogno di espressione autonoma sia sul piano dell’espressione immediate delle contraddizioni sociali, sia sul terreno organizzativo, sia su quello istituzionale.
10) Infine: la funzione pedagogica del partito nei riguardi delle masse.
SECONDA PARTE
UTOPIE E MODERNITA' di Franco Astengo
Stimolato da alcune intelligenti osservazioni, riprendo il tema della “crisi del moderno” già affrontato in altri interventi al fine di precisare alcuni aspetti e proporre ancora lo sviluppo di una discussione.
Intendiamoci bene: lo scopo è precipuamente politico.
Scrive Maurizio Ferraris sull’inserto Robinson di Repubblica, domenica 3 settembre: “Non siamo più capaci di immaginare il futuro e allora ci rivolgiamo al passato, alimentando nostalgie e rimpianti. Sono gli anni della” retrotopia” termine coniato da Bauman nel suo ultimo lavoro. Eppure è ancora possibile e necessario investire nell’Utopia di un mondo migliore, come sostiene il giovane studioso Bregman. Ma a una condizione: quella di essere realisti”.
Dubitando sul senso dell’ “essere realisti” in connessione con l’utopia (almeno per quel che riguarda l’agire politico) tentiamo allora di declinare il tema, almeno dal punto di vista di una sinistra possibile e del suo retroterra ideale, qui ed ora in Italia, considerati tutti gli elementi della globalizzazione, delle necessità sovranazionali e di visione di fase.
E’ necessario rilanciare nella sinistra l’idea della ripresa di una discussione di fondo sul tema della crisi della democrazia e della fine della politica da svilupparsi attorno ai nodi del significato della modernità e del presentarsi di una vera e propria egemonia della tecnica sull’insieme delle espressioni dell’idealità come – del resto – scrive Severino in molti dei suoi più recenti interventi.
Su questo punto appare evidenziarsi ormai una vera e propria biforcazione.
La biforcazione in questione è quella che separa le scienze naturali dalle scienze umane: una scissione che, a fine Ottocento, aveva trovato la sua forma canonica e che, da allora in poi, si è imposta fin nell'organizzazione interna delle discipline e dei saperi.
Non si tratta di un dibattito ozioso, avviluppato attorno ad inestricabili nodi teorici, ma di una forma “alta” di porsi l'interrogativo di fondo della nostra epoca: serve ancora un’utopia sulla base dei cui riferimenti di fondo, esplicitare un nesso tra teoria e prassi – da realizzarsi attraverso la politica – per costruire un “progetto” di mondo adeguato alla complessità di una società globale?
Davvero, non abbiamo fatto un passo avanti dai tempi di Machiavelli e Galileo?
Che cosa ostacola un dialogo costruttivo?
Il problema va ben oltre, sia chiaro, la concorrenza tra i diversi saperi.
In questione è se la cultura illuministica, nell'insieme delle sue espressioni sviluppatesi nel corso di questi due secoli (espressioni, beninteso, andate tutte in crisi) possa ancora essere utile allo scopo, indicato dalla domanda di fondo, alla quale abbiamo ispirato questa riflessione e che qui ripetiamo: può essere costruito un “progetto” di mondo adeguato alla complessità di una società globale, o se ci si debba limitare a riportare i fatti sul registro della teoria, lasciando a soggetti più spregiudicati (gli adepti della teoria dell'autonomia del politico) l'esercizio effettivo della prassi.
La prima risposta che viene in mente è sì, la partita è perduta: la spregiudicatezza nell'esercizio della prassi ha vinto: la parcellizzazione della conoscenza, realizzatisi attraverso lo sviluppo dell'informatica e l'estensione, universale e pressoché esaustiva, di quel modello di pensiero (e di rapporto tra il pensiero e l'azione) appare, ormai, assolutamente e incontrovertibilmente vincente , soprattutto sul terreno dell'indicazione del modello di sviluppo (l'esempio cinese,ad esempio, appare in questo senso del tutto illuminante).
Insomma: avrebbe vinto Galileo, con l'idea di una civiltà, e non semplicemente di una scienza, matematizzata.
A questo elemento si sono riferiti coloro che, al momento del crollo dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del '900, parlarono di “fine della storia”: ma la storia non si può fermare, nel suo divenire.
Non è possibile ridurre il tutto così “ad unum”, alla prassi per la prassi, intendendo la prassi come modernità e il resto come “ritorno all’indietro”.
Esiste un’esigenza di governo e di modello per il futuro che rimane inalienabile.
Allora il raccordo tra scienze della natura e scienze umane risulta indispensabile e non riducibile a un dibattito, da tardo Rinascimento italiano.
Inoltre non possiamo regalare questo discorso a una “nicchia culturale” riservata alla ricerca di universalismo, da parte delle grandi religioni.
Due fenomeni debbono essere posti sotto osservazione, e finora lo sono stati in una dimensione del tutto inadeguata:
a) il tema delle ricerche scientifiche e del progresso tecnologico, ormai del tutto “parcellizzate” (appunto: il “modello informatico”) e destinate all'incremento dell'individualismo consumistico. In tutti i campi, nella medicina, come nelle applicazioni riguardanti la vita quotidiana e non semplicemente rispetto ai prodotti destinati alla pubblicità televisiva. L'ultimo grande sforzo “universale”, nel campo delle scoperte scientifiche è stato quello riguardante i viaggi spaziali. Adesso non vorremmo che si tornasse a quella dimensione soltanto per una nuova rincorsa agli armamenti nucleari;
b) il tema dell'immigrazione, che appare essere il vero punto di confronto sul campo del rapporto tra il nord e il sud del mondo. Un rapporto il cui destino non sarà segnato soltanto dall'interscambio di tecnologia, ma soprattutto dal passaggio delle persone, attraverso le quali non viaggia soltanto la conoscenza scientifica e tecnica, oppure manodopera a buon mercato, ma anche la storia del mondo. Il fenomeno dell'immigrazione è ormai arrivato al quarto stadio: dopo l'immigrazione post – coloniale e quella dei “disperati della terra”, siamo a un’immigrazione che porta con sé una spaventosa pressione commerciale e a quella portatrice di cultura e di conoscenza scientifica, oltre al ritorno alla migrazione sotto la pressione incalzante della guerra.
Tutto questo appare ancora ben al di fuori dalla riflessione teorica più avanzata : eppure una proposta di “governo” del flusso migratorio (sotto l'aspetto della proposta teorica: beninteso) potrebbe rappresentare il punto più importante su cui risviluppare la relazione tra scienze naturali e scienze umane.
Può concorrere la teoria politica a questo discorso? Possiamo concorrere noi, portatori di una storia – travagliata e complessa – di speranze rivoluzionarie , a delineare un nuovo rapporto tra utopia e progetto?
Abbiamo già fornito un giudizio sulla negatività di fondo dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del '900 (fatto salvo, ovviamente, il pensiero sull’”assalto al cielo” rappresentato dalla Rivoluzione d'Ottobre, come fatto in sé, capace davvero di trascinare la storia): così come sono sicuramente falliti altri modelli rivoluzionari, nonostante l'evidente persistere delle contraddizioni cui si richiamavano e che hanno tentato di affrontare.
Pur tuttavia riteniamo che un filone del pensiero marxista del '900, quello forse meno ortodosso, potrebbe rappresentare la base per riprendere, sul piano teorico e della prospettiva politica, concretamente il dibattito di cui abbiamo cercato di riferire in questa sede, attualizzandolo e portandolo all'altezza delle contraddizioni del moderno: dobbiamo opporci,prima di tutto, a considerare il marxismo quale base teorica per ipotesi politiche minoritarie legate all'esaustività dell’antica “contraddizione principale” dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
La teoria marxista può raccordarsi, in senso antideterministico, alle scienze sociali “borghesi”, recuperando l'eredità del pensiero dialettico hegeliano, respingendo un’interpretazione meccanicistica del rapporto struttura /sovrastruttura e attribuendo centralità alle figure dell'alienazione e della reificazione, recuperando anche il tema dello Stato e dei suoi diversi livelli di crisi.
Comprendiamo benissimo come, in queste schematicissime osservazioni, ci sia molto del recupero del concetto di utopia: senza uno sforzo di quel tipo il rischio, però, appare essere quello del rinchiudersi nel recinto del “realismo” conservatore; di conseguenza del già richiamato “ritorno all’indietro”
TERZA PARTE
CRISI DEL MODERNO E ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO POLITICO di Franco Astengo
La ricostituzione di un soggetto della sinistra politica richiede, in questa fase di tumultuosa modificazione nei parametri di riferimento, un ritorno in profondità nella ricerca teorica.
E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica.
In Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche.
Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della democrazia”.
La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia pratica.
La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l'intero arco cronologico della civiltà occidentale.
Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente politica.
Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta.
Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono.
Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”).
E’ possibile tentare l’esplorazione del “politico” nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale.
Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l'urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo.
Oppure si può esplorare l'intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”, formando l'opinione pubblica.
Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri.
Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto.
Disgiungere questi elementi e cercare la via di un pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita.
In questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa:
a) definire i termini reali in cui si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900.
Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di Hegel.
Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta (lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi utopie: tragiche utopie?).
Questa fase si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”.
Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica (i progetti neokantiani e neo liberali);
b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico”, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del moderno.
Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite.
Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale.
Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando la guerra come elemento di “esportazione della democrazia”.
La considerazione (sbagliata) era quello di un potere delle istituzioni considerato ormai come esaustivo della legittimità del “comando politico”.
Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di formalizzazione data per universalmente acquisita.
Nello stesso tempo deve essere messa in discussione quell’idea dei diversi rapporti che si sono stabiliti tra l’esercizio della politica come strumento “separato” e il parallelo costituirsi della moderna soggettività individuale.
Nella sostanza la crisi da analizzare è quella tra la formalità della concezione dello Stato (sbrigativamente intesa come esigenza di “cessione di sovranità” da parte dello Stato – Nazione”) e lo stabilirsi dell’egemonia culturale dell’individualismo.
Occorre recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo all'idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas), chiamando a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, delle dialettica della storia.
Una dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione politica ridotta all’ “individualismo competitivo”.
Al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia” e il predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’agire politico, è chiamata la sinistra e soprattutto quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.
DEMOCRAZIA E FINE DELLA POLITICA di Franco Astengo
Il punto che questo intervento intende evidenziare è quello di una vera e propria carenza di cultura politica, a tutti i livelli derivante dall’assenza di “agenzie cognitive” che se ne occupino: l’Università, in generale, propone schemi prefissati e ha grandi responsabilità nell’idea di una politica fatta esclusivamente sui sondaggi e non sulle idee; i partiti hanno completamente rinunciato ad una funzione pedagogico e hanno abbandonato l’idea della funzione guida della storia trascurando completamente la memoria; le istituzioni non rappresentano più la sede della saldatura tra società e politica da realizzarsi attraverso il suffragio e, di conseguenza, il consenso e svolgendo così il ruolo indispensabile di mediazione sociale e culturale.
La crisi della democrazia rappresentativa di marca occidentale sta interessando la riflessione di vasti settori intellettuali che si cimentano in diversi spunti di analisi.
I due maggiori quotidiani italiani hanno recentemente dedicato spazio a questo tema, sia pure affrontando l’argomento in forme diverse, nei loro inserti culturali “La Lettura” del Corriere della Sera e” Robinson” per Repubblica.
La Lettura, nel numero di domenica20 agosto ha pubblico il testo di un colloquio tra Han Ulrich Obrist e il controverso artista cinese Ai Weiwei che sta per presentare in concorso al Festival di Venezia il suo film “Human Flow”.
Un kolossal sulle migrazioni girato il 22 paesi attraverso quaranta campi profughi realizzando seicento interviste e mille ore di girato.
Nel suo film Ai Weiwei affronta i nodi delle contraddizioni epocali cui oggi la democrazia sembra non essere più in grado di dare risposta: guerre, carestie, malattie, choc climatici e la crisi dell’umanità in fuga.
Nel testo dell’intervista s’individuano quelle che vi sono definite come “emergenze planetarie”: la libertà di parola e la democrazia.
Si pone così la grande questione della politica di oggi, se intendiamo ancora considerarla tale nella sua etimologia classica: le cose che ineriscono la Polis.
Il tema è quello della sorveglianza cui siamo sottoposti e a cui dobbiamo sottoporre i governanti : il reciproco interscambio tra governanti e governati.
Appare evidente come, nell’analisi che emerge dal colloquio tra Obrist e Ai Weiwei si smentisca l’assioma democrazia uguale politica che per due secoli aveva retto una presunta superiorità del sistema occidentale “classico”.
Lavoro da svolgere per chi intende misurarsi nel definire una nuova complessità dei cleavages sociali.
In precedenza “Robinson” inserto culturale di Repubblica si era occupato, nel numero uscito domenica 30 Luglio, del ruolo dei social network nella diffusione di notizie e nella relativa formazione di opinione politica.
In quel testo si sono ricostruiti schematicamente tutti i passaggi dal 1980 quando nacque l’Electronic Frontier Foundation per tutelare e promuovere i diritti digitali, considerata la “madre” di tutti gli attivismi online fino al 2016 con la campagna elettorale di Trump nel corso della quale si evidenzia un uso spregiudicato, diretto e aggressivo di Twitter (“Fake news” comprese).
Appaiono evidenti due cose che probabilmente tutti noi consideriamo scontate ma che non sono state ancora sufficientemente analizzate:
1) Il peso, inedito nella storia della democrazia e nell’insieme delle relazione politiche, di questi strumenti di comunicazione, di formazione e aggregazione del consenso quali sostituivi dei classici meccanismi usati a questo proposito a partire dalla prima rivoluzione industriale e dalla nascita degli ormai tramontati partiti di massa;
2) La creazione di una realtà virtuale illusoriamente percepita come effettiva e concreta da parte degli utenti e sede effettiva della discussione politica (ma non solo). Si annullano così gli elementi che hanno condotto a stabilire le consolidate gerarchie nella presenza politica nell’appartenenza e nella conoscenza. Quella scala gerarchica che ha portato , nella realtà dei soggetti culturali e politici, al formarsi dei cosiddetti “gruppi dirigenti” o élite. Chissà, al proposito cosa avrebbero scritto oggi Michels, Pareto, Weber?
Si è così costruita quella che, nel suo articolo presente nel citato inserto di “Robinson”, Tom Nichols definisce come “Illusione egualitaria” creata, appunto, dall’immediatezza dei social network che per l’appunto cancella l’autorevolezza dei gruppi dirigenti consolidati e crea l’illusione del “tutti alla pari”.
E’ evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente illusori meccanismi di “democrazia diretta”.
Fenomeni che stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S e del PD(R).
Disintermediazione che , alla fine, favorirebbe davvero l’egemonia di quella “società dello spionaggio” di cui parla Ai Weiwei .
C’è da domandarsi: l’azione politica agita attraverso gli strumenti della comunicazione “social” crea nuova acculturazione e di conseguenza diversa aggregazione oppure soltanto l’illusione di un’inedita forma di democrazia diretta, diversa da quella che abbiamo fin qui considerata sul modello plebiscitario del consenso diretto nella relazione tra il Capo e le masse?
Al di sopra di questa comunicazione “social” non agisce forse un qualche potere occulto, non paragonabile neppure al “Grande Fratello” orwelliano ma dotato di poteri di controllo assolutamente superiori perché insiti direttamente nella vita quotidiana delle persone modellandone i comportamenti effettivi?
Questo è, mi pare, l’interrogativo di fondo, quello più pregnante e insidioso.
Pare proprio che, alla fine, il confronto si sia spostato tra una teoria dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che era l’antica visione pluralista.
Attenzione: verticalizzazione del potere, ripetiamo “ad abundantiam” che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo non semplicemente “sociali” (com’era un tempo) ma “personali”.
Sorge forse da qui la crisi della democrazia liberale: una crisi della quale la democrazia dei social porta responsabilità evidenti.
Sono anche palesi gli interrogativi che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione.
intendendo beninteso la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il concorso collettivo alla cosa pubblica ( e non di più, senza affidare al voto alcunché di salvifico di per sé).
Forse sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede.
Ma quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra epoca.
Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più , come si pensava un tempo, un’ipotesi – limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa.
Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post – modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica /vita e di conseguenza tecnica / politica.
Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica.
Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale.
Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento ( del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.
Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza rispetto al declino in atto: declino che si compone degli elementi sopra enunciati , guerre, carestie, malattie, choc climatici , la crisi dell’umanità in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico nell’uso della tecnologia.
Le “sette piaghe” della modernità racchiuse tutto all’interno della categoria dello sfruttamento? Probabilmente sì.
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