Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 settembre 2017
venerdì 29 settembre 2017
Franco Astengo: Ancora dissertazioni sulla sinistra
ANCORA DISSERTAZIONI SULLA SINISTRA di Franco Astengo
Dopo decenni di testa nascosta sotto la sabbia e di subalternità alla logica di governo liberista la crisi della socialdemocrazia europea è ufficialmente aperta e fa scorrere fiumi d’inchiostro, pioggia di dichiarazioni sui social e scorrere infinito di immagini televisive.
Per prenderne atto compiutamente (dopo gli scricchiolii già ascoltati in altri grandi paesi europei) c’è voluto l’arretramento (nemmeno eccessivo, in verità, stante le condizioni date) dell’SPD in Germania.
A babbo morto (e sepolto) i soliti noti si sono accorti improvvisamente dei danni provocati dal “blairismo” e, Massimo D’Alema al comando, sembrano essersi dimenticati dell’Ulivo Mondiale e di tutto il ciarpame al seguito, con relativa convinta partecipazione al processo di arretramento storico nel quale ci troviamo immersi da decenni.
Si riscopre l’opposizione: scrive Adam Michnik, ex storico oppositore del “socialismo reale” in Polonia: “ Prendiamo l’esempio tedesco. Se un partito socialdemocratico in caduta di consensi va all’opposizione anziché cercare ancora intese con i conservatori, moderati, centristi, questo significa a medio e lungo termine che per gli elettori europei l’alternativa a un governo conservatore moderato non avrà soltanto il volto dei nuovi populisti”.
Rincalza Otto Schily, 85 anni, ministro degli interni per l’SPD dal 1998 al 2005, definito “memoria storica” della Bundesrepublik, a proposito dell’identità della sinistra:
“Tanto per cominciare, non deve svicolare di fronte alle paure su cui si fonda il consenso delle nuove destre. Le prime analisi dimostrano che l’AfD è stata votata soprattutto per la delusione nei confronti delle altre forze politiche. E’ che certi temi non sono stati affrontati a viso aperto. E’ naturale che nascano delle paure se alcune zone della tua città cominciano ad apparirti estranee”.
Valutazioni che sfuggono al nodo vero della questione che può essere così lapidariamente riassunto: “12,5 degli 80 milioni di tedeschi si trovano sotto la soglia di povertà relativa, guadagnano meno del 60% del reddito medio” (dall’intervento di Birgit Mahnkoff al meeting di Torino su “G7 e Industria 4.0” svoltosi a Torino.)
Questi dati si riferiscono alla “ricca” Germania, figuriamoci se tentiamo di addentrarci nei meandri della situazione concreta dei paesi del sud Europa e di quelli dell’Est nei quali si coltivano i germi che alimentano la spinta della rampante destra europea.
Appare evidente insomma che la sinistra non ha semplicemente bisogno di ricercare una nuova identità ,ma ha necessità urgente di ricostruire una nuova soggettività politica considerate le macerie lasciate sia dalla storia dell’inveramento statuale tentato dai fraintendimenti marxiani del ‘900, sia dalla logica di governo esercitata dalla socialdemocrazia europea negli anni della transizione apertasi all’inizio del secolo XXI.
In testa alle priorità sulle quali ricostruire una soggettività politica identitaria deve esserci una seria e razionale valutazione della fase nella quale ci troviamo.
Condivido la visione di Susan Watkins, direttrice della New Left Rewiew “ Una crisi di civiltà travolgerà il liberalismo cosmopolita del secolo scorso. Una protesta che va in diverse direzioni, ma con una motivazione di fondo: I poveri votano per chi promette di stare dalla loro parte”.
Questo è il punto sul quale ci dobbiamo attrezzare.
Partendo da queste considerazioni.
Negli ultimi 25 anni il governo del mondo ha compiuto un trasferimento di ricchezza senza precedenti dal lavoro al capitale.
C’è però una novità rispetto alle precedenti crisi innestate da analoghi fenomeni già verificatisi in passato: ad esempio a differenza del periodo della Grande Depressione, infatti, questa volta non ne ha sofferto il capitale.
Ne ha sofferto esclusivamente il lavoro e di conseguenza i lavoratori (su questo il riemergere, tante volte segnalato ma sempre ignorato, della centralità della “contraddizione principale”).
Inoltre siamo di fronte davvero un “governo del mondo”: cioè a una formidabile concentrazione di potere che non risponde democraticamente: BCE, Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, agenzie di rating, grandi banche globali, tutti poteri nominati e non votati.
Si pone quindi preliminarmente un problema di democrazia, economia e sovranità che potrà essere affrontato soltanto da un nuovo movimento di opposizione rivolto “contro” al meccanismo di trasferimento di ricchezza cui si accennava in precedenza.
Si tratta di porre nuovamente il dilemma tra democrazia e capitalismo; dicendo chiaro che i due elementi sono incompatibili.
Per adesso la scelta è stata più capitalismo e meno democrazia (come è avvenuto in Italia allorquando si è tentato di manomettere la Costituzione).
Nel frattempo è cambiato anche l’asse di riferimento politico, da punto di vista del governo: le coalizioni di centrosinistra si sono progressivamente trasformate nell’altra faccia di quelle di centrodestra con posizioni e programmi sempre più simili ideologicamente (ciò è avvenuto, tra l’altro, tra grandi proclamazioni di “fine delle ideologie”. Quest’ultima affermazione non è altro che una vera e propria insopportabile menzogna).
All’epoca fu lanciato il progetto della cosiddetta “Terza Via” che alla fine risultò un progetto di pura e semplice difesa e conservazione dell’élite.
In realtà oggi non esiste scontro politico (come ha dimostrato del resto l’elezione di Macron in Francia) : la contesa è tutta interna al modello che, per semplificazione pur coscienti dell’inesattezza della definizione, continuiamo a nominare come “neo – liberismo” sulla scorta dell’appellativo coniato al tempo dell’alleanza Reagan - Tachter.
Il computo finale di questa fase può essere facilmente riassunto come meno democrazia e più disuguaglianza, con i riflessi che si determinano laddove è maggiore la povertà e più forti sfruttamento e abbandono.
Tutte cose semplici, apparentemente ben visibili e analizzabili, ma difficili da trasformare in una base politica per una necessaria nuova soggettività.
Per questi motivi, restando in Italia, non possiamo attardarci sull’interrogativo: “ se si può essere anticomunisti e restare di sinistra?”.
Un quesito fuorviante, nel momento in cui appare acclarata l’esigenza ineludibile di opporci al capitalismo nelle sue forme attuale, progettandone nuove vie di fuoriuscita a livello internazionale.
Il nodo della soggettività politica, però, come indica Noam Chomsky nel suo ultimo saggio, è come sempre quello del sapere, e del ruolo degli intellettuali.
In Italia ci si sta muovendo, invece, sul terreno minato dell’elettoralismo e della (inutile e un poco ridicola) contesa sulla leadership come stucchevolmente viene riferito ogni giorno dai mezzi di comunicazione di massa che riferiscono davvero di preoccupanti improvvisazioni mandate a conoscenza pubblica, senza alcuna idea di ricostituire una “sede pensante”.
Forse sarebbe il caso di analizzare meglio la situazione, trarne le dovute considerazione comprendendo che questo è il momento di organizzarci “contro” per l’opposizione e non per il governo.
La questione elettorale deve essere affrontata assolutamente nell’ottica di designazione per un’eventuale rappresentanza istituzionale riferita all’emergente stridore delle contraddizioni sociali e delle imposizioni che queste pongono a precisi settori della società, impoveriti e sfruttati.
Ciò che è sicuro è che l’idea di ricostituire il centrosinistra è del tutto balzana essendo assente la sinistra e molto spostato (a destra) il cosiddetto “centro”.
Concludo citando ancora Susan Watkins: “ Questa crisi non si risolverà in pochi anni. Ma abbiamo due certezze: il fallimento del sistema vigente è palpabile e il Ventunesimo secolo non sarà una ripetizione del Ventesimo”.
giovedì 28 settembre 2017
mercoledì 27 settembre 2017
martedì 26 settembre 2017
Alessandro Gilioli: Il grande bivio a sinistra
Il grande bivio a sinistra
Anche in Germania, dopo che era appena avvenuto in Francia, il partito socialista ha toccato il suo minimo storico.
In Spagna era successo nel 2015, così come in Grecia.
Anche l'Spd ha pagato le sue larghe intese: è diventato quasi indistinguibile dal suo presunto avversario (la Cdu). E a me ha fatto un po' impressione che al comizio finale il suo leader-candidato Schulz abbia invitato a "votare i partiti democratici" contro il pericolo dell'Afd, il che è una sorta di implicita ammissione dell'assimilazione già avvenuta con la Cdu stessa.
Per chi sente come attuali e futuri i valori etici fondanti della sinistra - cioè diseguaglianze sociali radicalmente minori e welfare radicalmente maggiore - potrebbe anche essere una buona notizia, questa tendenza europea: nel senso che i partiti socialisti hanno tracollato proprio perché quei valori fondanti li hanno traditi o dimenticati, vedete voi quale delle due opzioni scegliere.
Ed è dunque giusto - "gli sta bene" - che gli elettori di sinistra li abbandonino al loro destino di inutilità.
L'unico partito socialista che dal 2001 al 2017 ha visto crescere i suoi consensi è stato quello laburista inglese, grazie alla svolta di Corbyn. Del Pd italiano vedremo in primavera - ma qualche segnale arriverà anche prima, dalla Sicilia, così come è arrivato dagli ultimi giri amministrativi.
Dicevo: per chi sente come fondanti i valori del welfare e della redistribuzione potrebbe essere una buona notizia, tutto questo. Se non fosse che dietro la riduzione ai minimi termini dei partiti storici di sinistra c'è, se non il nulla, un gran marasma che per ora fatica molto a tradursi in forze politiche con robuste speranze di successo. C'è Corbyn in Gran Bretagna, si diceva. C'è Podemos in Spagna, che peraltro non è in un momento facile. C'è il Portogallo, dove invece finora regge il miracolo dell'alleanza fra tre partiti di sinistra (di cui uno tipo socialista, uno tipo Podemos e uno comunista) che non solo non si sfascia ma sta ottenendo perfino insperati risultati economici; c'è la Grecia, dove Tsipras ogni giorno cammina sul filo tra i diktat europei e l'attenuazione dei sacrifici per la parte più bassa della piramide sociale.
Insomma, un po' (molto) all'opposizione e un po' al governo (Portogallo e Grecia) esiste una sinistra che non si è adeguata alla logica delle larghe intese, dell'appiattimento sui dogmi economici dell'avversario storico di destra.
È evidente che non basta, che è poca cosa e disordinata. E che la sinistra europea avrebbe bisogno di fermarsi un secondo per decidere una buona volta che cos'è: se una sottomarca residuale dei partiti di centrodestra o una proposta politica autonoma e opposta sui temi portanti: modalità di creazione e di redistribuzione di ricchezza, rapporto con la finanza, welfare, scuola, ospedali, reddito, progressività dei sistemi fiscali, imposte di successione, la casa come diritto umano fondamentale, riduzione delle distanze siderali tra centri storici e periferie, intervento con la scure dello Stato su tutte quello forme di sottolavoro che si fanno chiamare "gig economy" perché schiavitù pare brutto. Eccetera eccetera.
A me tutto questo pare più interessante - e più urgente - delle discussioni che oggi si fanno in Italia a sinistra sulle liste o sulla lista da proporre a sinistra del Pd per il 2018, anche se mi rendo conto che (al netto dei personalismi) anche questa discussione nostrana è in parte un epifenomeno del bivio e della questione più ampia - europea - di cui sopra.
In ogni caso è un'urgenza. Perché c'è un bivio, appunto. In Italia come in Europa. Chi non lo vede - dopo i flop dei socialisti francesi e tedeschi - soffre di grave cecità politica. E perché se a questo bivio non viene fatta una scelta limpida, restano solo cose tipo Afd, Le Pen, Salvini-Meloni - o ad andar bene bolle mediatiche tipo Macron.
lunedì 25 settembre 2017
Franco Astengo: Considerazioni provvisorie sui numeri delle elezioni tedesche
CONSIDERAZIONI PROVVISORIE SUI NUMERI DELLE ELEZIONI TEDESCHE di Franco Astengo
Di seguito si trasmettono alcune valutazioni sul risultato delle elezioni tedesche svoltesi il 24 Settembre, nel tentativo di verificare gli scostamenti sulla base delle cifre in numeri assoluti e non soltanto sulle percentuali.
1) Il primo dato che emerge riguarda la tenuta del sistema nel suo complesso, almeno del punto di vista della partecipazione elettorale. La Germania è attraversata da alcune contraddizioni di grandissimo rilievo, da quella riguardante il flusso dei migranti, all’emergere di un livello di disuguaglianza sociale molto forte al punto di verificare il fenomeno di un vero e proprio “abbandono” da parte dello stato sociale di interi strati di popolazione, al consolidarsi di forti differenze tra una parte e l’altra del Paese a distanza di oltre venticinque anni dalla riunificazione tra BDR e DDR. Ciò nonostante i tedeschi hanno partecipato al voto in misura massiccia, anche se il sistema elettorale tedesco non è costruito sull’idea (tanto agognata dalle nostre parti) che alla domenica sera si debba già sapere chi ha vinto, chi sarà il primo ministro che governerà per 5 anni. Si è verificato, infatti, un incremento in valori assoluti e in percentuale del totale dei voti validi (riferimento di tutti i dati la parte proporzionale delle espressioni di voto). Data la partecipazione complessiva (inclusi coloro che hanno espresso voto bianco o nullo per un totale di 851.992 suffragi mancati) al 76,16%, i voti validi si sono incrementati tra il 2013 e il 2017 di 2.016.842 unità passando da 44.309.925 a 46.326.767;
2) Il secondo dato da rilevare è quello che riguarda la maggior concentrazione del voto sui 6 partiti maggiori. Nel 2013, infatti, i voti dell’Unione tra CDU – CSU, SPD, Linke, Verdi, FDP e AFD assommarono a 41.009.065 (92,55% sul totale dei voti validi) e FDP e AFD restarono esclusi dal Bundestag. Nel 2017 la somma di voti raccolti dai sei partiti in questione è stata di 44.002.541 pari al 94,98% del totale dei voti validi. Riscontriamo quindi una maggiore concentrazione nel voto in presenza di un allargamento nella presenza in Parlamento da 4 a 6 partiti. Altro dato che non pare spaventare i tedeschi almeno dal punto di vista del numero dei partiti partecipanti all’arco parlamentare. Altro paio di maniche ovviamente la valutazione politica relativa all’ingresso dell’AFD nella sfera parlamentare che suscita sicuramente inquietudine per la dimensione inusitatamente massiccia del voto;
3) Acclarata quindi la tenuta del sistema almeno dal punto di vista della partecipazione elettorale appare evidente, come notato dai tutti i commentatori davanti alla realtà delle cifre, il secco spostamento a destra, che meglio è evidenziato dalle cifre assolute. L’Unione tra Cristiano Democratici e Cristiano Sociali scende, infatti, da 18.165.446 voti a 15.315.576 segnando un meno 2.849.870 pari al 15,39% del proprio elettorato. Tra l’altro appare netto il calo della CSU in Baviera: il partito “storico”, che fu di Strauss, nel suo Lander d’elezione nel 2013 aveva ancora sfiorato la maggioranza assoluta con il 49% e adesso, invece, si restringe al di sotto del 40% con il 38,8%. Sul piano nazionale la SPD scenda da 11.252.215 suffragi a 9.358.367 con un meno 1.893.848 pari al 16,84% del proprio elettorato. Si può affermare, in sostanza che il calo delle due forze impegnate nel governo di “grossekoalition” è stato tutto sommato omogeneo tra di esse e non si rileva un particolare “crollo” dell’SPD in questo senso: il dato del calo della socialdemocrazia appare sicuramente enfatizzato dall’aver toccato in questo frangente il proprio minimo storico, dopo essere apparsa del tutto subalterna ai democristiani nell’azione di governo e aver propiziato – a suo tempo – guidando l’esecutivo il dramma della crisi dello stato sociale. Naturalmente il modesto incremento fatto segnare dalla Linke, che conferma la propria presenza a Est, non compensa assolutamente il calo della socialdemocrazia. La Linke, infatti, sale da 3.755.699 voti a 4.269.762 registrando un più 514.063, pari all’11,3% del proprio elettorato. I Verdi, che si apprestano a quanto pare a svolgere il ruolo della ruota di scorta del governo democristiano, hanno fatto registrare un lieve incremento da 3.694.057 a 4.157.164 pari a 463.107 voti in più, 12,53% sul proprio elettorato.
4) Passiamo dunque ad analizzare lo spostamento a destra, sicuramente il dato più eclatante emerso da questa competizione elettorale. Nei commentatori sta facendo scalpore l’ascesa dell’AFD. Nel 2013 il partito rappresentativo dell’estrema destra aveva raccolto 2.056.985 voti passando nel 2017 a 5.877.094 ed entrando trionfalmente al Bundestag con 94 deputati. L’incremento dell’AFD è quindi di 3.820.109 voti, pari al 185,71% di crescita, quasi due volte il proprio elettorato precedente. Inoltre l’AFD rompe il monopolio nei Lander conquistando la maggioranza in Sassonia: ed è questo un dato politico da tenere assolutamente in conto. Netta crescita anche per i liberali passati da 2.083.533 voti a 4.997.178, con un più 2.913.645. In totale AFD e FDP acquistano 6.733.754 voti in più rispetto al 2013, un incremento superiore alla somma delle perdite di CDU-CSU e SPD calcolate assieme ( - 4.743.718). Se ne può dedurre che in particolare l’AFD sia penetrata sia nel bacino elettorale delle formazioni minori contribuendo in maniera decisiva a quella superiore concentrazione nell’espressione di suffragio sui 6 partiti principali già segnalata in apertura di questo lavoro, sia sull’astensione. La presenza della destra, sia estrema, sia di matrice liberale, si dimostra quindi pervasiva dell’intero elettorato, sia dal punto di vista sociale, sia sotto l’aspetto geografico e non solo, quindi, si presenta come la grande novità episodica nella scena politica tedesca ma anche come elemento strutturale del brusco riallineamento sistemico che le elezioni tedesche hanno presentato come risultato complessivo.
5) La crisi della democrazia liberale classica, ben evidente anche nel caso tedesco, non si dimostra però nella disaffezione alle urne (come avvenuto in Francia e continua progressivamente a palesarsi in Italia) e neppure nell’affermazione di un partito “antisistema”. Si ricolloca, invece, sull’antico asse destra / sinistra nella sua versione che proprio l’AFD, forza nazionalista conservatrice con forti venature razziste rappresenta. Dati che andranno meglio meditati avendo a disposizione un insieme di numeri maggiormente approfonditi in particolare rispetto alla dislocazione geografica del voto.
domenica 24 settembre 2017
sabato 23 settembre 2017
venerdì 22 settembre 2017
mercoledì 20 settembre 2017
Franco Astengo: Formula elettorale
FORMULA ELETTORALE: I SOLITI PASTICCI di Franco Astengo
Si torna a parlare di formula elettorale e riemergono i soliti pasticci.
Vengono avanzate proposte senza capo né coda (il “Rosatellum” 4.0 : marchio buono per una marca di vini) fornendo anche una volta la dimostrazione che, in materia, questa classe politica riesce proprio a dare il peggio di sé : impresa non facile, considerato il livello “normale” di approccio ai problemi più importanti che affliggono il Paese.
Ci si dimentica con estrema facilità la duplice bocciatura inflitta dalla Corte Costituzionale alle ultime due leggi elettorali approvate dal Parlamento : l’una usata addirittura per tre tornate elettorali legislative generali (2006, 2008, 2013) e l’altra (il famigerato “Italikum”) per fortuna mai approdata alla prova delle urne.
Nel frattempo l’elettorato partecipante si è dimezzato e sono sorte imbarazzanti formazioni pseudo – politiche capaci di raccogliere milioni di voti come se fossero noccioline: nel frattempo questi soggetti di rottura si adeguavano immediatamente alla più vieta “democristianità” nella logica del potere per il potere.
Ci ritroveremo, a questo proposito, sorprese nelle urne: anche perché le contraddizioni sociale mordono sulla vita quotidiana e avranno un loro peso nella ricerca della rappresentanza politica.
Tornando all’essenziale:s’insiste dunque nel voler acconciare la formula elettorale alle esigenze del momento.
Si discute, infatti, soltanto della formula con la quale si debbono tradurre i voti in seggi e non della legge nel suo insieme, che è materia molto complessa e sulla quale ci sarebbe comunque da verificare parecchie questioni, riducendosi esclusivamente alle esigenze tattiche del momento di alcune forze politiche.
Il tentativo di cui questo Rosatellum 4.0 è emblematico nella direzione indicata dell’episodicità.
Assomiglia al cocktail mal riuscito in un bar di periferia: una spruzzata di maggioritario, due gocce di proporzionale, mescolare forte con una buona dose di capilista bloccati.
Ecco fatto il nostro indigeribile pasticcio.
Difatti abbiamo cambiato formula elettorale tre volte in vent’anni .
in verità , in passato, abbiamo cambiato anche la legge, assumendo decisioni sciagurate come quelle in materia di numero di sezioni sul territorio attraverso la “Bassanini” con il loro dimezzamento e ci ritroviamo con sette diversi sistemi per ogni tipo di elezione, europea, politica, amministrativa.
Si dovrebbe anche aprire anche una discussione sull’elezione diretta dei Presidenti e dei Sindaci: causa principale della deleteria crescita nella logica della personalizzazione della politica ed elemento – chiave della crescita, a livello periferico, del deficit pubblico.
Oltre ai malaugurati provvedimenti di modifica del titolo V della Costituzione varati dal centrosinistra nel 2001 a stretta maggioranza e in chiusura di legislatura, con l’improvvisato cedimento a un federalismo che non esisteva allora e non esiste adesso, consegnando così temi delicatissimi come la sanità e ai trasporti agli elettoralismi dei voraci lupi mannari di un’insaziabile classe politica periferica: quella distintasi soprattutto per le “spese pazze” e trasferitasi quasi in blocco in Tribunale ad ascoltar sentenze oppure a patteggiarle.
Torniamo però al nodo centrale di questa discussione: la formula elettorale da usare in occasione delle elezioni legislative generali.
Il punto risiede nel fatto che ci si rifiuta di vedere la questione nella sua semplice interezza.
Esistono infatti, in materia di legge elettorale, due grandi famiglie : quella del proporzionale e quella del maggioritario.
Com’è ben noto al colto e all’inclita la destinazione di viaggio delle due famiglie è assolutamente diversa: quella del proporzionale si dirige verso la rappresentanza politica tenendo conto di tutte le “sensibilità” presenti in una qualche consistenza numerica; quella del maggioritario punta sulla stazione della “governabilità” tendendo – tutto sommato – a una vocazione presidenzialista, quella del governo eletto dal popolo (la famosa frase: “la sera delle elezioni si deve già sapere chi ha vinto per i futuri 5 anni”).
Premesso che la Costituzione italiana è molto chiara su questo punto indicando come l’elettorato elegga il Parlamento e non il Governo e che proprio per questa ragione nell’assemblea Costituente prevalse l’idea della formula proporzionale (corretta, rispetto al proporzionale puro) .
Questo orientamento mi pare dovrebbe essere rigidamente mantenuto proprio in ossequio alle radici più profonde ed essenziali della nostra democrazia repubblicana.
Quello che francamente non si capisce al giorno d’oggi è il perché i nostri pasticcioni (non troppo simpatici, per la verità) non si addentrino al cuore della questione scegliendo, nei due campi, i sistemi più chiari e trasparenti allo scopo di favorire la scelta dell’elettorato.
Se si pensa al maggioritario esistono due formule ben sperimentate:
1) Quella in uso nelle isole britanniche del collegio uninominale a turno unico;
2) Quella in uso in Francia del collegio uninominale a doppio turno (beninteso a doppio turno e non ballottaggio che invece si adopera nell’elezione diretta del Presidente della Repubblica).
Vale la pena ricordare che Gran Bretagna e Francia non sono due democrazie parlamentari, bensì l’una una monarchia costituzionale, l’altra una repubblica presidenziale a regime di semi – presidenzialismo (a differenza degli USA in Francia, infatti, le figure del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio appartengono a due persone diverse).
Nel caso, auspicabile, di una scelta verso il sistema proporzionale la formula meglio collaudata è sicuramente quella italiana usata tra il 1948 e il 1992: formula che ha garantito, attorno ad un partito pivotale come la DC, la governabilità (in quei oltre quarant’anni furono mutate soltanto tre formule di governo: centrismo, solidarietà nazionale per un brevissimo periodo, centro – sinistra con allargamento finale al pentapartito) contenendo sia un premio per i partiti più grandi sia un meccanismo d’esclusione per le frazioni insignificanti.
Può essere preso in considerazione anche il sistema tedesco che però contiene un mix di maggioritario e proporzionale e una clausola d’esclusione abbastanza alta per consentire una rappresentanza adeguata.
Si ricorda che in Germania il numero dei partiti presenti al Bundestag è mediamente di 4/5 (SPD, CDU – CSU, Liberali, Verdi, Linke forse si aggiungerà l’estrema destra) mentre alla Camera Italiana tra il 1948 e il 1987 erano presenti mediamente 7/8 formazioni politiche senza contare le micro – rappresentanze etniche.
Nulla di straordinario quindi sia dal punto di vista della concentrazione della rappresentanza, sia della sua frammentazione, in un caso e nell’altro.
In questo momento però non è il momento di indicare formule ma di ricordare con forza il principio fondamentale del valore sistemico e non episodico – strumentale della scelta del meccanismo di traduzione dei voti in seggi e della necessità di una scelta chiara: proporzionale o maggioritario.
Mattarellum, Porcellum, Italikum: pessime prove di soluzioni surrettizie della volontà popolare da non ripetere.
Si abbia il coraggio di scegliere con chiarezza in un frangente così difficili e complesso, in cui le basi di rappresentanza democratica del sistema appaiono tanto fragili damettere in discussione l’intera struttura repubblicana che sta scivolando pericolosamente verso soluzioni anti – costituzionali delle quali , in realtà, abbiamo già avuto le prime prove di sperimentazione nel più recente passato.
martedì 19 settembre 2017
Vittorio Melandri: Le divisioni della sinistra e lo scandalo storico dell'ingiustizia sociale
LE DIVISIONI DELLA SINISTRA E … LO SCANDALO STORICO DELL’INGIUSTIZIA SOCIALE
Le preoccupazioni che si manifestano per le divisioni della sinistra sono molteplici e cangianti ogni giorno, con il percorso del sole da est ad ovest. Tanto più sono accorate e sincere, tanto più appaiono impotenti a contrastare quanto denunciano. Fra le mille voci ascoltate e le mille parole lette, nessuna però, anche solo lontanamente, mi è parsa dotata della forza di denuncia che scaturisce dalle parole che seguono, che propongo di leggere sostituendo appunto la parola “Chiesa”, con la parola “sinistra”. Nessun presunto leader della sinistra, senza minimamente abiurare la propria "fede", ha mai detto .... «La nostra sinistra è stanca, la nostra cultura invecchiata, le nostre sale sono grandi, ma i nostri elaborati intellettuali i nostri incontri di pensiero sono deserti.»
Invece …. «La nostra Chiesa è stanca, la nostra cultura invecchiata, le nostre chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote. La Chiesa deve riconoscere i propri errori, dall’idolatria del denaro agli scandali della pedofilia, ma lo scandalo storico dell’ingiustizia sociale, è il fatto che l’umanità non sia riuscita a tenere assieme benessere lavoro libertà democrazia, e soprattutto pace. Occorre un cambiamento radicale, cominciando dal Papa e dai vescovi, la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni, come mai non si scuote, abbiamo paura, paura invece di coraggio? Un tempo avevo sogni sulla Chiesa, oggi non più, tanto si è detto, cosa è rimasto, adesso ho deciso di pregare per la Chiesa.»
Sono parole (che ho trascritto pari pari) del Cardinal Martini, proposte da Ermanno Olmi nel suo ultimo lavoro “Vedete sono uno di voi”, lavoro al quale oltre che dedicare la regia, Olmi presta anche la sua voce narrante.
Sono serenamente a-teo, lo dico per non trarre in inganno chi mi legga senza conoscermi, ma l’intelligenza umana mi affascina indipendentemente da quale fede la ispiri, ed è il deficit di intelligenza umana che oggi si riscontra a sinistra, parimenti alla straripante dotazione di arroganza, ovvero la sua vera vocazione a perdere, (altro che divisioni), che mi angoscia ogni giorno di più.
Perché lo scandalo storico dell’ingiustizia sociale, so per certo, che nessuna destra lo consideri tale.
Vittorio Melandri
Paolo Bagnoli: Da Mani pulite al populismo
da “mani pulite”
al populismo
paolo bagnoli
Da Non Mollare
il fallimento di mani pulite – borrelli e di pietro
– siamo tra i paesi più corrotti al mondo - la
condanna di persone e non di un sistema, o è il
contrario? – ordine e potere – la dissoluzione dei
partiti
L’ex- procuratore Francesco Saverio
Borrelli, oramai diverso tempo fa, riconobbe il
fallimento di Mani Pulite. In Italia, infatti, oltre
le cronache, ogni anno la Corte dei Conti ci
dice che la corruzione aumenta a ritmo
esponenziale. Nelle graduatorie internazionali
figuriamo tra i Paesi più corrotti al mondo. Ora
Antonio Di Pietro – per anni definito l’uomo
simbolo di Mani Pulite; stando a Borrelli e alla
proprietà transitiva, simbolo sì, ma di un
fallimento - in un’intervista rilasciata a “la
Repubblica” il 10 settembre u.s. ha dichiarato:
«Mani Pulite ha prodotto un vuoto: è da lì che
sono cominciati i partiti personali a cominciare
da me. Ma sono partiti che durano lo spazio di
un mattino, io ne sono la prova vivente».
Niente da eccepire, ma non c’era bisogno di Di
Pietro per saperlo, ma quello che colpisce di più
sono gli abbozzi di spiegazione che, a suo
avviso, danno ragione dell’autocritica, buttate
giù alla buona, con una banalità che sembra
approfittare di se stessa. Da esse si ricava la
sensazione che non si avesse la percezione di
come quel metodo di procedere provocasse un
qualcosa di più e di ben oltre il perseguimento
del dovere che spetta ai magistrati – un
qualcosa che nessuno mette in discussione –
ossia, perseguire i reati compresi, naturalmente,
quelli riguardanti la malversazione del pubblico
denaro.
Afferma Di Pietro: «da magistrato ho
condannato delle persone, non un sistema.
Quelle persone rappresentavano idee politiche.
E alcuni le mettevano in pratica facendo il
proprio dovere, come Aldo Moro o Giorgio La
Pira, e altri utilizzando il loro ruolo per interessi
personali». Anche qui tutto sembra tornare, ma
se invece di coloro che sono stati ritenuti
colpevoli è un intero sistema democratico che si
è sfasciato, le cose, allora, non stanno come Di
Pietro le racconta altrimenti non si sarebbe
parlato di fine della prima Repubblica; non
avremmo avuto questi oltre vent’anni di aspra
crisi della Repubblica.
Alla base di tutto c’è una verità che si ha
timore anche solo a sfiorare; vale a dire, che
l’azione giurisdizionale fu impostata su un dato
drogato da un doppio profilo: che la
magistratura, invece di essere un ordine
costituzionale, si presentava come un potere e
che, a fronte dell’immoralità del sistema, essa
era una virtù interna al sistema, in quanto
potere, capace di cancellare il malaffare della
politica grazie ad un esercizio virtuoso del
sistema politico che avrebbe, in virtù di quanto
il proprio potere le permetteva, indirizzato e sul
quale, naturalmente avrebbe vigilato.
L’impianto mediatico che accompagnò l’azione
del pool milanese agì quasi come virus
subliminale di questa cultura. L’abbiamo pagato
caro: era la cultura del controllo delle procure
sul sistema democratico; una questione rispetto
alla quale, tramite i soli avvisi di garanzia, si
poteva condizionare le scelte della politica,
aprire procedimenti, distruggere uomini e
carriere – che l’assoluzione di Mastella avvenga
dopo ben nove anni è sintomatico di un
insieme malato - pilotare surrettiziamente
scelte di pubblica utilità oppure bloccarle.
Insomma, il realizzarsi di un’anomalia fondata
sulla virtù e virtuosità della giurisdizione.
Tale pratica, con il metodo inquisitorio
virtuosistico di cui Di Pietro è stato il simbolo –
un metodo violento che non ci deve far
dimenticare le fini tragiche di Moroni, Cagliari e
Gardini ha portato pure al crollo del sistema dal
momento che non si è saputo distinguere tra
responsabilità singole e senso del sistema in un
Paese intriso da una strutturale complessità e
fragilità. Certo che l’azione del pool si è svolta in
un momento nel quale un ciclo politico della
democrazia repubblicana si stava esaurendo e la
dimensione politica stessa della Repubblica
faceva intravedere movimenti intestini, per altro
allora insondabili, dovuti alla crisi dei partiti
non rendendosi conto – e non è solo problema
di allora – che, per la storia e per le radici della
democrazia italiana, il cedimento dei partiti
politici avrebbe comportato pure quello delle
4
nonmollare quindicinale post azionista | 005 | 18 settembre 2017
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istituzioni democratiche poiché la storia, al di là
di ogni motivo formale, ha consegnato ai partiti
quel mandato politico su cui si fondano la
democrazia e la Costituzione della Repubblica.
Il ragionamento di Di Pietro regge solo
formalmente e testimonia di un’autocritica
meramente formale, di senso comune e di
insufficienza culturale. Per questa ragione, a
nostro avviso, suona soprattutto come il grido
patetico di un già personaggio che, oramai
nell’ombra della storia della seconda
Repubblica, lancia il suo grido per non essere
dimenticato.
Ribadendo che ogni malversazione debba
essere perseguita con fermezza, serietà e
consapevolezza di quanto l’azione giudiziaria
comporta, va detto che la stagione di Mani
Pulite ha consegnato il Paese al populismo e
oggi esso è in via di superamento verso la
demagogia di cui i 5Stelle sono l’espressione e la
demagogia, come abbiamo avuto modo più
volte di dire, è la soglia della decoazione democratica
lunedì 18 settembre 2017
Franco Astengo: Il declino della sinistra
IL DECLINO STRATEGICO DELLA SINISTRA: ABBAGLI E CANTONATE di Franco Astengo
“Repubblica” di domenica 17 Settembre ha ospitato un intervento di Piero Ignazi sul tema del “declino strategico della sinistra”.
L’illustre cattedratico analizza la fase post – referendum e definisce l’appeal fino a quel punto accumulato dal PD, considerato all’epoca “dominus” assoluto della politica di governo, come completamente svanito.
Inoltre definisce con precisione la somma di errori compiuta dalla segreteria renziana (indicata come una sorta di “fan club”) e degli oppositori interni sfilatisi, a suo giudizio, “ in cerca di un’araba fenice che non volerà più : il popolo della sinistra”.
Popolo della sinistra che, a suo giudizio, si trova completamente allo sbando, anche se non sta ancora trasmigrando verso altri lidi .
Il rischio allora diventa quello dell’astensionismo.
Seguono considerazioni in linea con la proposizione principale esprimendo una valutazione di possibile prevalenza della destra (il cui elettorato è facilmente sovrapponibile fra le diverse forze che la compongono e che, di conseguenza, si presenterà unita alle elezioni) e di mantenimento della forza fin qui conseguita da parte del M5S che si basa su “arrabbiati e sfiduciati”.
Interessante una precisazione contenuta nell’articolo al riguardo della composizione di quel 60% di elettorato (60% calcolato sui voti validi, dato da tenere a mente) che ha detto “NO” nel referendum: ne viene, infatti forse per la prima volta, considerata una quota come formata da “patrioti della Costituzione”.
Quel 60% (circa 20 milioni di voti) non era quindi completamente composto di livorosi nemici di Renzi e dei suoi sodali, ma da persone provviste non solo di un bagaglio culturale ma anche di un solido impianto ideale: come del resto aveva ben individuato l’ANPI battendosi per il “NO” proprio partendo dalla posizione del “patriottismo costituzionale”.
Ciò affermato il punto da sollevare rimane quello riguardante il fatto che l’assunto che regge l’impianto del ragionamento di Ignazi è, almeno a giudizio di chi scrive questa nota, completamente sbagliato.
L’errore, infatti, consiste nel considerare ancora il PD depositario del voto e dell’interesse di quello che fu “il popolo di sinistra”.
Prescindendo, in questo caso, da un’analisi dettagliata dei contenuti e dal concreto collocarsi delle forze politiche sull’asse di riferimento destra /sinistra che rimane comunque il solo strumento di valutazione del riallineamento del sistema.
Nell’articolo si citano migranti e job act oltre che naturalmente l’attacco alla Costituzione, sottovalutando il peso che ha avuto il tentativo di spostamento nella concezione dell’azione politica con la personalizzazione e il maggioritario; la scuola ( tema dall’impatto fortissimo al riguardo della situazione di cui ci stiamo occupando), l’ambiente e tanti altri punti collegati in particolare all’assenza di capacità di intreccio tra le contraddizioni in un progetto di società che un PD davvero “estremista” ha dimostrato nelle sue concezioni di finte adesioni “realistiche” all’andamento sociale.
Un PD dimostratosi al di sotto della capacità di esprimere un qualche riferimento sub culturale a livello di massa, ma soltanto una smodata e ingiustificata bramosia di potere.
In ogni caso il “popolo di sinistra” se n’era gghiuto (citando Togliatti) da molto tempo e questo dato di analisi è stato omesso dalla stragrande parte di analisti e commentatori soltanto in omaggio dell’affascinante energia emanata dalla “nouvelle vague” renziana ( “uomo della Provvidenza”? Lo stesso fascino che emanava il Duce degli inizi? Comunque tutti coperti e allineati per un bel pezzo. Poi come si sa”calci all’asino”).
Guardiamo ai fatti e soprattutto a un punto dolente.
Assunta la presidenza del consiglio da parte di Renzi attraverso un colpo di mano al limite della Costituzione grazie al ben noto interventismo dell’allora Presidente della Repubblica (già ben esercitato al momento dell’incarico a Monti e poi accantonato nell’eventualità di un incarico a Bersani) il PD si trasformò nel “dominus” della politica di governo come indicato nell’articolo attraverso due passaggi fondamentali:
1) L’appoggio di una parte della destra concretizzatosi nella scissione di Forza Italia;
2) Il voto delle elezioni europee 2014: quelle del famoso 40% . Elezioni salutate come un nuovo 18 aprile.
Eccoci, quindi, all'abbaglio e alle cantonate.
Fu in quell’occasione che il popolo di sinistra, in grande parte, si allontanò dal PD dominus dell’azione di governo. Proprio in contrasto con quell’azione di governo. Quel 40% non fu dovuto alla confluenza all’interno del popolo di sinistra di altre correnti ma da un caleidoscopio di opinioni espressesi in un voto. Del resto quel 40% non era un 40%.
Inutilmente in pochi cercammo di richiamare il fatto che il dato più rilevante uscito dalle urne delle europee 2014 era quello dell’enormità dell’astensione e di come, nella sostanza, il PD avesse ricevuto un minor numero di consensi rispetto alle politiche del 2008, allorquando era stato nettissimamente sconfitto dal PDL.
L’analisi più corretta rispetto a quell’esito doveva indicare la fragilità di un sistema politico fondato su di una base elettorale di poco superiore al 50% con un crollo improvviso di oltre 20 punti rispetto alle elezioni politiche svoltesi nell’anno precedente.
Indicata la fragilità del sistema doveva essere lanciato l’allarme di un rischio per l’intero sistema democratico.
Non era questione di voti al PD (2008 : 12.095.306, 2013 10.353. 275, 2014 11. 203. 231: scostamenti non rilevantissimi come si può ben vedere) ma del ritrarsi di una parte molto consistente dell’elettorato in virtù della crescita di una diffusa valutazione al riguardo di un vero proprio scadimento nella qualità dell’azione politica e di forte insoddisfazione sull’orientamento complessivo dei provvedimenti di governo.
Questi elementi avevano coinvolto, come si è visto bene in seguito, una parte molto consistente di coloro che pur avevano continuato a votare “a sinistra” e che logicamente non poteva riconoscere al PD la stessa collocazione politica.
Si erano, infatti, nell’occasione delle elezioni europee verificati due elementi purtroppo misconosciuti dai più: un mutamento si potrebbe dire di “pelle” nell’individuazione fisica dell’elettorato PD; l’emergere – appunto come già richiamato - di un’inquietante “debolezza sistemica” dovuta all’apparire di elementi di vera e propria crisi del “partito personale” alla cui forma il PD era pervenuto da poco tempo, in evidente ritardo.
Una parte del Paese si era ritratta dalla partecipazione politica e si era formato un residuo di base sociale naturalmente di dimensioni più modeste numericamente e percorsa da pulsioni e tensioni fortemente antistoriche, come verifichiamo oggi nell’emergere di preoccupanti espressioni di spregio e vilipendio alla memoria dell’Italia repubblicana.
Questi fenomeni sono stati sottovalutati e financo ignorati fino al referendum del 4 Dicembre 2016, allorquando la parte emarginata del cosiddetto “popolo di sinistra” è riemersa presentandosi al voto nella forma proprio del “patriottismo costituzionale” fornendo un contributo sostanziale, se non decisivo, alla sconfitta del PD e all’apertura di una vera e propria crisi di sistema (altro che anticorpi delle istituzioni. Siamo di fronte ad una crisi morale di proporzioni vastissime).
Deve essere considerato appieno il fatto che la campagna elettorale e l’esito del referendum hanno rappresentato un punto di vero e proprio spartiacque del sistema spaccando quello che poteva essere un elettorato ancora in parte comune.
Fenomeno avvenuto per responsabilità precipua del PD che ha cercato di ridicolizzare ed emarginare quanti, che pure erano rimasti nella sua area politica, si erano pronunciati per il NO.
Il PD ha lavorato tenacemente per la spaccatura ritenendo il voto referendario un punto di dimostrazione della sua “vocazione maggioritaria” (addirittura c’è stato un tentativo di lettura della sconfitta in questo senso, con l’idea di appropriarsi per intero del voto confluito sul SI) e oggi si vedono le conseguenze di quell’atteggiamento.
E adesso pover’uomo?
Certo non basterà, come invece scrive Ignazi, una lista fortemente personalizzata raccolta attorno all’esangue figura dell’ex-sindaco di Milano.
Ex- sindaco delle cui imprese politiche deve essere considerata comunque la posizione favorevole al SI nel referendum costituzionale.
Anzi una lista raccolta attorno a Pisapia provocherà senz’altro ulteriori danni, nell’ambiguità di considerare ancora il PD un’espressione di una sinistra in un qualche modo, per li rami, erede di una vicenda “ storica”.
Servirebbe un progetto diverso, di effettiva alternativa e di recupero – prima di tutto – dell’identità costituzionale (perché è su questo punto che è avvenuta la rottura più grave) collegata a una progettualità politica alternativa.
Progettualità di cui, però, non s’intravvedono all’orizzonte i possibili proponenti e le adeguate linee di interpretazione della realtà e di declinazione programmatica.
domenica 17 settembre 2017
venerdì 15 settembre 2017
Franco Astengo: Antifascismo e democrazia
ANTIFASCISMO E DEMOCRAZIA di Franco Astengo
Prescindendo dal merito della legge che intende colpire la propaganda fascista approvata ieri in prima lettura dalla Camera e che sicuramente presenta difficoltà e zone d’ombra (considerato anche la parte proponente, quella del PD, e il ruolo da essa avuto nei reiterati attacchi alla Costituzione, come si cercherà di precisare meglio in seguito) l’elemento più impressionante della giornata politica di ieri è sicuramente rappresentato da questo tweet emesso da un deputato 5 stelle:
carlo sibilia
✔ @carlosibilia
Oggi la Apple presenta l'#iPhone8 noi in parlamento siamo costretti dal #PD a discutere di #fascismo vs #comunismo ...#fatevoi #AppleEvent.
Una dichiarazione davvero impressionante per la dimostrazione che contiene di superficialità e incultura. Una dichiarazione molto pericolosa che segue alle dichiarazioni rilasciate a suo tempo (campagna elettorale 2013) dall’allora “capo della coalizione” Movimento 5 Stelle Grillo, circa “l’antifascismo che non gli compete”.
Non possiamo lasciare cose del genere sotto silenzio.
La nostra replica non può lasciare adito ad alcun dubbio: L’Antifascismo è l’elemento fondativo della democrazia italiana; la Costituzione è Antifascista.
Non sviluppiamo qui, nel ricordare questi principi fondamentali, alcun passaggio retorico ricordando la tragedia della seconda guerra mondiali della quale il fascismo fu il principale responsabile; i sacrifici, la lotta, i lutti, le devastazioni che segnarono quel tragico periodo.
Fu tutto vero e compiuto - appunto – senza retorica, come il gesto quotidiano di un dovere da compiere verso se stessi e i propri ideali.
La Resistenza e il 25 Aprile rappresentarono il capitolo più importante della storia del Paese.
I partigiani lottarono per la libertà e per l’affermazione dell’indipendenza nazionale, la loro lotta aprì la strada per un riscatto sociale che le vicende degli ultimi anni hanno sicuramente messo in discussione, attraverso un attacco pesante alle condizioni materiali e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Ci sono state anche pesanti modifiche allo stesso dettato Costituzionale, come quelle relative all’articolo 81 sul pareggio di bilancio e si è tentato anche di modificarne il senso complessivo attaccando a fondo la centralità del Parlamento (e stanno su questo punto le incancellabili responsabilità del PD che non può certo pretendere di rifarsi un volto su questo terreno presentando un antifascismo di facciata).
Il tentativo di stravolgimento della Costituzione però, come tutti ricordano, è stato respinto con il voto popolare del 4 dicembre 2016.
La riaffermazione, con grande forza, dei valori dell’antifascismo deve quindi accompagnarsi con la richiesta di piena applicazione del dettato costituzionale, come non è avvenuto nel corso del tempo e di respingimento degli ulteriori tentativi che nonostante il voto popolare sono ancora in atto di stravolgere il senso della nostra democrazia repubblicana.
mercoledì 13 settembre 2017
martedì 12 settembre 2017
lunedì 11 settembre 2017
domenica 10 settembre 2017
sabato 9 settembre 2017
venerdì 8 settembre 2017
giovedì 7 settembre 2017
Andrea Ermano: A casa nostra e a casa loro
EDITORIALE
Avvenire dei lavoratori
A casa nostra e a casa loro
di Andrea Ermano
Si avventurano fino ai nostri bagnasciuga, disturbando le vacanze. Non provengono da zone in guerra o ufficialmente sottoposte a dittatura. Diffondono ogni genere di malattie costringendoci a reintrodurre i vaccini che eravamo riusciti a evitare in odio alle industrie farmaceutiche. Fanno figli. Figli che pretenderanno lo ius soli e poi chissà cosa. Vengono a rapinarci nelle nostre stesse case. Stuprano rumorosamente e sciattamente (non sistematicamente, silenziosamente, come si usa in certe brave cerchie familiari). Ammazzano passanti in atti terroristici sempre più sgangherati (non in nome dell'ordine e della disciplina come facevano i nostri vecchi servizi segreti deviati ai tempi delle stragi sui treni, nelle piazze e nelle banche).
Ecco riassunta la "narrazione" sui migranti che si trae da giornali e telegiornali. E allora sorge la domanda: se così fosse (ma non è così!), che cosa dovremmo fare?
"Aiutiamoli a casa loro".
Questa la risposta che tutti ti danno.
Vabbè, siamo in campagna elettorale. Lo sapevamo.
Ma lo xenofobo, cioè colui che rintraccia nello straniero una nicchia per la propria paura, userà la formula "aiutiamoli a casa loro" come tattica verbale. Dice "aiutiamoli", ma intende "buttiamoli a mare", come proclamava la Lega di dieci anni fa. Oggi non si dice più. Oggi non vale la pena spacciare la xenofobia per coraggio nazional-padano. Meglio lasciare che tutto, financo la sicurezza nella quale pure viviamo, si traduca in un'insicurezza diffusa. Perché nella storia umana mai c'è stato un tempo più sicuro del presente. Ma proprio perciò l'istinto profondo della paura si scopre disoccupato e teme d'implodere.
Quindi, sì, aiutiamoli a casa loro. Uno straniero al giorno scaccia di torno la malinconia. Tanto poi mica nessuno va a verificare che tipo o quantità o qualità di aiuto gli si presta, a casa loro.
Il governo italiano «cerca di spostare i confini dell’Europa al di sotto della Libia, per non farvi entrare chi scappa da dittature, guerre o disastri ambientali, gli altri governi dell’Unione europea hanno invece spostato da tempo quei confini alle Alpi», osservava il sociologo Guido Viale sul quotidiano "il manifesto" del 26 luglio scorso (vai al blog di Guido Viale).
Gli altri stati europei stanno, insomma, facendo dell'Italia quello che il nostro Governo vorrebbe fare della Libia: «un deposito di esseri umani “a perdere”». Siamo retrocessi ancora una volta alla casella dei "centri di trattenimento libici", dove massicciamente regnano condizioni subumane, oltre che la rapina, lo stupro e l'omicidio. A futuro monito delle masse sub-sahariane, a che mai più venga in mente a qualcuno l'insana fantasia di trasferirsi dall'Africa in Europa, il continente più ricco del mondo…
Ma perché facciamo tutto ciò? L’Italia, e l'Europa, avrebbero bisogno di quei migranti, ma per accoglierli bisognerebbe spezzare prima il bando sovrano liberista che vieta le politiche di piena occupazione. Ché già solo a pronunciare questa formula si rischia il ridicolo. Perché, si obietterà, i robot, i computer, i software ecc. si stanno sostituendo ai contadini, agli operai, ai soldati, ai medici, agli avvocati e persino agli ingegneri. Quindi, che senso ha parlare di piena occupazione?
La risposta qui per un verso investe il domani, per l'altro interpella però già il nostro oggi.
Domani, la fuoriuscita dell'umanità dalla produzione esigerà di essere governata. Pena il disastro. Ma – pensateci – nessuno può governare una transizione che investe l'intera umanità, se non forse l'umanità stessa. E, infatti, una governabilità globale, ormai sempre più indispensabile, nessuno l'ha ancora vista. La fuoriuscita dell'umanità dalla produzione sarà ingovernabile senza che ciascuna e ciascuno di noi, mentre vede ridursi la propria attività strettamente economica, aumenti gradualmente il proprio impegno civile. La futura governabilità, dunque, appare possibile solo in un progressivo transito delle energie umane dalla dimensione strettamente economica a quella della cittadinanza. Un altro lavoro è possibile.
Già oggi, però, è evidente che un sistema di allocazione delle energie e delle risorse produttive fondato sulla massimizzazione del profitto, pur dimostrandosi molto efficiente in certi campi, appare completamente cieco, invece, rispetto a una lunga serie di bisogni e interessi vitali. Per esempio, il capitale non "vede" come problemi "suoi", da risolvere, le grandi masse di giovani disoccupati che affollano le coste mediterranee, o le grandi masse di persone che aspirano a trasferirsi dall'Africa in Europa, o le macerie dei territori colpiti da disgrazie naturali o belliche, o il compito di una riconversione eco-compatibile (e anti-sismica!) dell'intero parco immobiliare europeo. Tutte questioni che ufficialmente "non esistono" perché non ne consegue alcuna massimizzazione del profitto.
Vale la pena qui avvertire che le due prospettive, quella del domani e quella dell'oggi, sono strettamente intrecciate, ma non identiche. L'una, quella del domani, s'innerva nella "destinazione" tecnico-scientifica della nostra intera civiltà e apre a scenari inediti, inauditi. L'altra, quella dell'oggi, riguarda "solo" il destino del capitalismo che è una forma storica di mercato giunta palesemente ai propri limiti di senso. Un altro mercato è possibile.
Ciò detto per non rimanere prigionieri del pensiero unico, torniamo ai migranti, di cui gli stati europei, le società europee, avrebbero molto bisogno. Quindi, occorrerebbe, si diceva, una strategia generale d'integrazione in Europa. E d'altronde, non ha torto Guido Viale quando scrive che «è inutile vaneggiare di piani Marshall per l’Africa senza dire a chi sono diretti». Perché quei paesi non potranno certo rinascere per opera delle multinazionali che li stanno devastando, o di governi corrotti e sanguinari «che costringono a fuggire la parte migliore dei loro concittadini». Per Viale ci vorrà «una nuova grande leva di migranti e di cooperanti europei impegnati a costruire insieme non solo una nuova Europa qui, ma anche una grande comunità euro-afro-mediterranea là; aperta alla libera circolazione, non dei capitali, ma delle persone e delle loro aspirazioni».
Per Viale, una grande strategia di "integrazione" dei migranti deve anzitutto «offrire a loro e, insieme, ai 25 milioni di disoccupati creati con la crisi, un lavoro». E anche qui, si obietterà che già appare del tutto irrealistico favoleggiare di "piena occupazione" per i nostri milioni di disoccupati…Figuriamoci, dunque, come sarebbe possibile assorbire anche milioni di migranti.
«Per mettere tutte quelle persone al lavoro», argomenta Viale «ci vuole un grande piano di investimenti diffusi. Quel piano è la conversione ecologica, come prescritto dagli impegni presi al vertice di Parigi. Ma è un piano che non può riguardare solo l’Europa: deve coinvolgere anche i paesi di origine dei nuovi arrivati». Quindi non si tratta di “aiutarli a casa loro”, conclude Viale, bensì di aiutarli qui in Europa «ad aver voce e a rendersi parte attiva della pacificazione dei loro paesi in guerra; e, quando potranno tornarvi (e molti non aspettano altro), della loro ricostruzione, del loro risanamento ambientale e sociale, della loro conversione ecologica, con progetti e interventi analoghi a quelli da sviluppare qui».
Per fare tutto questo, però, non basta semplicemente "un grande piano di investimenti diffusi". Occorre, aggiungiamo noi, immaginare una rete non meno diffusa di istituzioni in grado di organizzare il grande progetto. Questa rete di organizzazioni è stata prefigurata da Ernesto Rossi nelle sue celebri considerazioni dedicate all'"esercito del lavoro", tra cui quelle apparse su "Il Mondo" del 27 maggio 1950. Di lì bisogna attingere, per realizzare un grande Servizio civile nazionale ed europeo, aperto ai migranti, che affianchi e sorregga l'intero processo.
Utopie? Lo vedremo. Per intanto, è bello constatare che queste "utopie" ricominciano a prendere piede nella società civile, come testimonia l'interessante saggio breve di Massimiliano Panarari – "Qui ci vorrebbe un servizio civile" – apparso sull'Espresso del 30 luglio scorso. «La società atomizzata ha un antidoto», sostiene Panarari, «un periodo in cui i ragazzi si conoscono, si mescolano, imparano l'empatia sociale». (Leggi il saggio breve di Panarari sul sito de L'espresso)
mercoledì 6 settembre 2017
Franco D'Alfonso: Città metropolitana
30 AGOSTO 2017Città Metropolitana: si può continuare a giocare con le carte truccate?
di Franco D’Alfonso
Il 4 agosto scorso ho potuto finalmente firmare il rendiconto 2016 della Città Metropolitana di Milano, confermando il “miracoloso” equilibrio raggiunto lo scorso anno riuscendo finalmente ad avviare l’iter per l’approvazione del bilancio preventivo 2017. Non ci si stupisca se una performance così scadente venga considerata un “grande successo” , l’anno scorso il preventivo venne approvato (non è uno scherzo) il 10 dicembre .
Come più volte spiegato, questa situazione assurda deriva da uno dei soliti “combinati disposti” prodotti dal Governo nazionale, in questo caso la legge Delrio e le leggi finanziarie degli ultimi tre anni, che hanno determinato la paradossale situazione di “federalismo rovesciato” che pretende che Città Metropolitana dia servizi come strade, scuole , ambiente etc, sviluppi progetti senza disporre di un solo euro di finanza propria e, non sembrando abbastanza al nostro illuminato legislatore nazionale, già che c’è deve restituire “costi della politica” (sic!) allo Stato per quasi 160 milioni di euro ogni anno sui 330 che vengono formalmente trasferiti per funzionare. Inutile ricordare quali equilibrismi di ogni tipo si devono tentare per cercare di coprire un vero e proprio buco che si determina nel bilancio il 1° gennaio di ogni anno pari al 40-60 per cento, con risultati disastrosi anche dal punto di vista formale: come risulta perfino da carte verificate dalla Presidenza del Consiglio per quest’anno, lo squilibrio di parte corrente è ancora intorno ai 32 milioni di euro.
Nel progetto di bilancio che presenterò, proporrò di coprire questo disavanzo con l’utilizzazione dell’avanzo 2016 delle sanzioni amministrative stradali non ancora utilizzate, in pratica rinviando a bilancio manutenzioni stradali che comunque non si sarebbero potute avviare perché, in assenza del bilancio preventivo, non si possono avviare le gare d’appalto, per una sorta di “comma 22” del regolamento dei marine Usa (“chi è pazzo può essere esentato dalle missioni suicide, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni suicide non è pazzo”) applicato alla PA italiana..
Perfino tale operazione è una forzatura interpretativa delle leggi vigenti che ritengo giustificata dalla situazione di pre-dissesto nella quale si trova l’Ente.
L’altra operazione contabile significativa che ritengo di inserire nel progetto di bilancio 2017 è la vendita ad INVIMIT ( finanziaria pubblica) di una caserma e del Palazzo della Prefettura per un ammontare totale di € 64 milioni. Questa somma, unita al credito ex ASAM di € 142 milioni passato in capo diretto alla Regione Lombardia a seguito delle operazioni societarie concluse con la liquidazione di ASAM stessa verrà interamente destinata a bilancio alla riduzione del debito: si tratta di un intervento estremamente significativo, che ridurrà come minimo di oltre un terzo il debito dell’Ente. L’effetto di questa operazione, oltre che il rafforzamento degli equilibri patrimoniali già non critici, sarà quello di un miglioramento nei prossimi anni delle partite correnti per almeno 15-20 milioni di euro/anno, vale a dire la copertura di più di un terzo del fabbisogno per pagare gli stipendi dell’Ente !
In questo modo CM non solo rispetterà il termine del 30 settembre svolgendo tutti i passaggi procedurali, ancora una volta, come se....fossimo “sani”, ma terrà ancora viva la possibilità almeno tecnica di sviluppare un progetto di “nuova” Città Metropolitana,.
Ma un progetto politico di questa rilevanza è pensabile dalla convergenza di volontà politiche locali e nazionali che fino ad ora purtroppo sono ben lontane dal manifestarsi e che, a occhio, non si materializzeranno tanto presto. E’ per questo che con il 29 settembre p.v. si concluderà la mia esperienza ed il mio impegno come Consigliere delegato al bilancio: da convinto sostenitore della Città Metropolitana, ho ormai la certezza che tutto quello che poteva essere fatto stando all’interno della legislazione vigente è stato fatto e continuare a giocare con le carte truccate a proprio danno non è più utile.
In questo non c’è differenza fra il “federalista” Maroni, il “sindaco d’Italia” Renzi o le “scie in rete” di Casaleggio-Grillo, tutti nella pratica tenaci sostenitori del detto “tutto il potere al centro ed il centro è dove mi trovo io”.
La battaglia per la riforma delle istituzioni locali è totalmente politica e si deve tornare a combatterla su un terreno totalmente politico: prossimo banco di prova, le elezioni regionali lombarde, per svelare il “bluff” di chi vuole l’autonomia dei territori solo a parole.
--
martedì 5 settembre 2017
Paolo Bagnoli: La difesa della libertà e della democrazia
Da "Non Mollare"
la biscondola
la difesa
della libertà
e della democrazia
paolo bagnoli
le giornate della memoria – la nostra fragilità
politica e culturale – la natura dello scontro – il
pericolo del razzismo
Se è vero che tutti possiamo avere la
memoria corta, è certo che il “tutto”, ossia quel
quanto che complessivamente rende comune il
mondo, ne è afflitto in maniera quasi naturale.
Lo conferma il fatto che, di quando in quando,
viene istituita una giornata della memoria per
tenere vivo un avvenimento di particolare
rilevanza. La cosa è sicuramente positiva, ma se
questo è il lato più che apprezzabile della
questione, l’altra faccia della medaglia ci dice
che quel particolare fatto degno di grande
ricordo storico e attenzione pubblica è a rischio
cancellazione dalla memoria collettiva, ossia da
quel collante immateriale che costituisce la
cultura della civiltà.
Anche su questo converrebbe capirsi una
volta per tutte. È vero che, nella lunga storia del
mondo, si registrano epoche storiche segnate da
processi di incivilimento, ma ciò non deve far
dimenticare che il punto di approdo della
cultura moderna, relativamente al concetto di
“civiltà”, riguarda le conquiste – non certo
pacifiche – del mondo occidentale assestatesi
nella libertà e nella democrazia. Nella storia
tutto non è perfetto; nemmeno il modo di
concepire la libertà e di organizzare la
democrazia lo sono, ma in quella piccola parte
del globo terracqueo ove ciò è avvenuto, tale
processo ha segnato il punto più alto della
civilizzazione umana. Quanto comporta non
crediamo ci sia bisogno di dettagliarlo ancora
una volta, ma ricordarsene un po’ di più non
sarebbe male visto che la cosiddetta “civiltà
occidentale” sembra segnare pesanti fragilità;
politiche, naturalmente, ma prima ancora
culturali.
7
nonmollare quindicinale post azionista | 004 | 04 settembre 2017
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Di tale sbandamento, che poi altro non è che
vuoto di consapevolezza, ne sta approfittando
l’iniziativa bellica che, dall’11 settembre, il
radicalismo mussulmano ha dichiarato
all’Occidente. L’ultimo tragico capitolo di un
libro che si preannuncia lungo sono i fatti di
Barcellona trattati, dalla riflessione pubblica,
come un qualcosa sicuramente drammatico e
più che doloroso, ma da mettere nel conto di
un passaggio storico raffigurato come
irrazionale nel quale occorre – e lo è certamente
necessario – difendersi prima ancora di capire
cosa oramai da troppi anni sta avvenendo, ossia
della natura dello scontro in atto. Uno scontro
che è una guerra, asimmetrica e particolare, ma
sempre una guerra e alla quale, per quanto
concerne l’opinione pubblica, quella dei media e
dei social, si risponde con il ricorso ad
argomenti che non solo lasciano il tempo che
trovano, ma che, al contrario, sembrano
devianti rispetto al cuore del problema.
Il copione, volta dopo volta, si ripete. In
primo piano troviamo i sociologi che spiegano
come non ci si debba chiudere in casa e che il
nostro stile di vita non subirà cambiamenti; poi
vengono i rappresentanti religiosi che, prima
spargono manciate di pietismo e poi spiegano
che l’Islam non è morte; alla fine entrano in
campo i politici che rassicurano sulla misure di
polizia e sul fatto che i contatti tra i centri
internazionali che sovrintendano alla sicurezza
stanno collaborando anche se ci sarebbe
bisogno di un coordinamento unitario più
continuo, coeso e integrato. Il dato prevalente,
anche sottotraccia, di tutto ciò è che l’attacco
terroristico abbia un prevalente motivo
religioso; perverso perché gli islamici in
generale non sono sanguinari.
L’impostazione ci sembra sbagliata. Siamo
ben convinti che gli islamici nel loro complesso
non siano sanguinari e tutti convinti fino alla
ferocia che chi è diverso da loro sia un infedele
da abbattere, meglio se crudelmente.
Sicuramente è anche così, ma tale
approssimazione ha il solo risultato di generare
razzismo tanto che basta una pelle più scura o
una barba più lunga per registrare violenza,
intolleranza, respingimento e così via.
Dicevamo guerra asimmetrica poiché le parti
non si fronteggiano a viso aperto e l’Europa e
l’America – l’Occidente cioè - sembrano essere
il poligono nel quale un’impropria entità statale,
l’Isis, espressione del radicalismo sunnita, vuole
dimostrare ai mussulmani che non accettano il
califfato di cosa essi sono capaci. Per cui, la
guerra ai cosiddetti infedeli costituisce l’area più
formidabile di arruolamento per quei
mussulmani sparsi nel mondo, culturalmente a
chilometro zero, che si sentono tagliati fuori dai
luoghi nei quali vivono, che li hanno accolti e
nelle cui società non sono stati capaci di
inserirsi covando un odio pari al basso livello
culturale che hanno. Ne consegue che finiscono
per ritrovare la loro identità vivendo qui, ma
continuando a mantenere la testa nella terra di
origine. Mettendosi criminalmente in
movimento dimostrano di essere in guerra per
dimostrare, di cui essere capaci di riscattarsi e
ritrovare se stessi.
La guerra in atto contro il liberalismo
occidentale ha qui la sua ragione; da qui
bisognerebbe partire per organizzare la risposta.
Facile a dirsi, meno a farsi, ma in un confronto
di tali dimensioni servono poco le preghiere e le
analisi sociologiche, occorre concretezza e
fermezza; possibile che non ci si renda conto
della portata di ciò che è in gioco?
Il terrorismo bellicista è iniziato con l’attacco
alle torri gemelle; due giorni prima era stato
assassinato il comandante Massud che, a capo
dell’alleanza del Nord, contrastava in
Afghanistan il governo talebano che, non
dimentichiamo, aveva proclamato, il Grande
Califfato. Poi è venuto l’Isis che, badiamo bene,
non è un movimento del terrore, ma uno Stato,
mobile; uno Stato che detta leggi, mette tasse,
organizza l’istruzione, regola la vita dei
sottoposti, promuove economia, fa affari
internazionali; insomma si muove al pari di ogni
Stato. Ora, dopo le sconfitte ricevute, si è
trasferito in Libia; ancor più vicino all’Italia.
Uno Stato è un’entità essenzialmente politica
e, infatti, l’Isis pone una questione politica che
consiste nel tentativo, fondato su
un’interpretazione religiosa sublimata a
ideologia, di far rinascere il Grande Califfato
nelle terre arabe per divenire sovrano del
territorio, e di quanto vi è sotto, cancellando il
presente per far posto a un oscurantismo
violento che nemmeno il mondo arabo nel suo
complesso vuole. L’Europa è il punto facile di
tale strategia e lo è tanto più se la questione non
viene mesa a fuoco nella sua essenzialità. La
sorte dei Paesi arabi non ci è estranea – il
problema delle migrazioni lo dimostra – ma
come si fa a evitare lo sconvolgimento del
8
nonmollare quindicinale post azionista | 004 | 04 settembre 2017
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complesso scacchiere medio-orientale se la
consapevolezza che spetta alla nostra “civiltà”,
qualsiasi prezzo essa comporti, non pone al
primo punto la difesa e la valorizzazione della
libertà e della democrazia? Sicuramente
giochiamo tutti in difesa perché l’Europa non è
quella che vorremmo; perché il pietismo – che
rispettiamo, beninteso – non produce politica e
ora anche perché Trump, nel suo
confusionismo improvvisato e gigionesco, con
lo slogan dell’ America first ha, di fatto, rotto il
legame del senso occidentale della storia?
Quanto, cioè, ha permesso, pur in mezzo a
tantissime laceranti contraddizioni, di tenere
accesa quella fiaccola di libertà che dovrebbe
essere sempre incrementata e non solo difesa
all’occorrenza.
L’Occidente deve molto a Winston
Churchill, forse sarebbe opportuno dedicare
anche a lui una giornata del ricordo! Intanto
ricordiamo un suo celebre detto: «I fatti
vengono prima dei sogni»
lunedì 4 settembre 2017
Franco Astengo: I punti sulla modernità
UN ULTERIORE TENTATIVO DI FORNIRE UN CONTRIBUTO PER UNA RIFLESSIONE DI FONDO AL TEMA DELLA COSTRUZIONE DI UNA SOGGETTIVITA’ POLITICA DELLA SINISTRA ITALIANA. Di Franco Astengo
Care compagne e cari compagni
Mi permetto disturbarvi nuovamente allo scopo di sottoporre alla vostra attenzione quella che, presuntuosamente, ritengo una riflessione organica al riguardo della prospettiva di apertura per una riflessione di fondo sul tema della costruzione/ricostruzione di soggettività politica nella sinistra italiana.
Mi permetto, infatti, di ritenere una semplice forzatura politicista porsi l’obiettivo di formare una lista più o meno unitaria in vista delle prossime elezioni politiche ( operazione non proibita, per carità) senza un collegamento diretto ad una prospettiva di nuova soggettività organizzata.
Soggettività organizzata però, stante la condizione attuale che si è venuta a creare, che abbisogna di essere costruita attraverso un lavoro di riflessione teorica di grande respiro.
Naturalmente chi scrive non possiede alcun titolo sul piano politico – culturale per ergersi in cattedra e mostrare agli altri la via da seguire.
Mi permetto soltanto di offrire alcuni spunti di riflessione, come già mi era capitato in passato: in questa occasione circoscrivo il terreno al rapporto tra crisi della democrazia e discorso politico.
Questo testo quindi è articolato in quattro parti (due delle quali dovreste aver già ricevuto, ma che unisco a questo allegato per completezza del discorso scusandomi per la ripetizione).
PRIMA PARTE. Uno schema di dibattito articolato in 10 punti da sviluppare (in questo caso sono elencati soltanto i titoli)
1) L’utopia come punto di saldatura tra la teoria e la prassi
2) L’idealità come strumento di lettura della conoscenza
3) L’universalità quale punto di contrasto alla parcellizzazione della conoscenza esprimendo una critica di fondo al “modello informatico”
4) La politica come fattore di modernità, intendendo la storia quale motore del futuro per far crescere l’uguaglianza a tutti i livelli e sconfiggere la marginalizzazione
5) L’acquisizione delle esperienze del passato quale bagaglio indispensabile nell’elaborazione del progetto. La critica del processo di inveramento statuale delle rivoluzioni avvenute nel ‘900 non può far dimenticare il ruolo di “motore della storia” svolto da quei fatti rivoluzionari (dalla Comune all’Ottobre: anche se per la Comune non si può assolutamente parlare di “inveramento”. Resta la definizione marxiana di “assalto al cielo”
6) Indispensabile il raccordo tra scienze della natura e scienze umane: soltanto così si può sconfiggere l’individualismo consumistico e competitivo
7) Su queste basi l’espressione di egemonia da parte della politica, sotto l’aspetto della rappresentanza di parte, sull’insieme dell’intreccio tra struttura e sovrastruttura inteso nella modificazione di rapporto verificatosi nel tempo
8) Serve un soggetto politico, un partito, che per l’appunto rappresenti la sede nella quale l’espressione di idealità riunifica teoria e prassi in una rappresentanza culturale e sociale provvista di una visione antagonistica e di una capacità operativa posta in diretta relazione con la contingenza storica, i rapporti di classe, la valutazione delle forze in campo, la presentazione di obiettivi praticabili nella fase di transizione, la capacità di valutazione stessa della realtà di fase (oggi di guerra di posizione)
9) Una rappresentanza che ha bisogno di espressione autonoma sia sul piano dell’espressione immediate delle contraddizioni sociali, sia sul terreno organizzativo, sia su quello istituzionale.
10) Infine: la funzione pedagogica del partito nei riguardi delle masse.
SECONDA PARTE
UTOPIE E MODERNITA' di Franco Astengo
Stimolato da alcune intelligenti osservazioni, riprendo il tema della “crisi del moderno” già affrontato in altri interventi al fine di precisare alcuni aspetti e proporre ancora lo sviluppo di una discussione.
Intendiamoci bene: lo scopo è precipuamente politico.
Scrive Maurizio Ferraris sull’inserto Robinson di Repubblica, domenica 3 settembre: “Non siamo più capaci di immaginare il futuro e allora ci rivolgiamo al passato, alimentando nostalgie e rimpianti. Sono gli anni della” retrotopia” termine coniato da Bauman nel suo ultimo lavoro. Eppure è ancora possibile e necessario investire nell’Utopia di un mondo migliore, come sostiene il giovane studioso Bregman. Ma a una condizione: quella di essere realisti”.
Dubitando sul senso dell’ “essere realisti” in connessione con l’utopia (almeno per quel che riguarda l’agire politico) tentiamo allora di declinare il tema, almeno dal punto di vista di una sinistra possibile e del suo retroterra ideale, qui ed ora in Italia, considerati tutti gli elementi della globalizzazione, delle necessità sovranazionali e di visione di fase.
E’ necessario rilanciare nella sinistra l’idea della ripresa di una discussione di fondo sul tema della crisi della democrazia e della fine della politica da svilupparsi attorno ai nodi del significato della modernità e del presentarsi di una vera e propria egemonia della tecnica sull’insieme delle espressioni dell’idealità come – del resto – scrive Severino in molti dei suoi più recenti interventi.
Su questo punto appare evidenziarsi ormai una vera e propria biforcazione.
La biforcazione in questione è quella che separa le scienze naturali dalle scienze umane: una scissione che, a fine Ottocento, aveva trovato la sua forma canonica e che, da allora in poi, si è imposta fin nell'organizzazione interna delle discipline e dei saperi.
Non si tratta di un dibattito ozioso, avviluppato attorno ad inestricabili nodi teorici, ma di una forma “alta” di porsi l'interrogativo di fondo della nostra epoca: serve ancora un’utopia sulla base dei cui riferimenti di fondo, esplicitare un nesso tra teoria e prassi – da realizzarsi attraverso la politica – per costruire un “progetto” di mondo adeguato alla complessità di una società globale?
Davvero, non abbiamo fatto un passo avanti dai tempi di Machiavelli e Galileo?
Che cosa ostacola un dialogo costruttivo?
Il problema va ben oltre, sia chiaro, la concorrenza tra i diversi saperi.
In questione è se la cultura illuministica, nell'insieme delle sue espressioni sviluppatesi nel corso di questi due secoli (espressioni, beninteso, andate tutte in crisi) possa ancora essere utile allo scopo, indicato dalla domanda di fondo, alla quale abbiamo ispirato questa riflessione e che qui ripetiamo: può essere costruito un “progetto” di mondo adeguato alla complessità di una società globale, o se ci si debba limitare a riportare i fatti sul registro della teoria, lasciando a soggetti più spregiudicati (gli adepti della teoria dell'autonomia del politico) l'esercizio effettivo della prassi.
La prima risposta che viene in mente è sì, la partita è perduta: la spregiudicatezza nell'esercizio della prassi ha vinto: la parcellizzazione della conoscenza, realizzatisi attraverso lo sviluppo dell'informatica e l'estensione, universale e pressoché esaustiva, di quel modello di pensiero (e di rapporto tra il pensiero e l'azione) appare, ormai, assolutamente e incontrovertibilmente vincente , soprattutto sul terreno dell'indicazione del modello di sviluppo (l'esempio cinese,ad esempio, appare in questo senso del tutto illuminante).
Insomma: avrebbe vinto Galileo, con l'idea di una civiltà, e non semplicemente di una scienza, matematizzata.
A questo elemento si sono riferiti coloro che, al momento del crollo dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del '900, parlarono di “fine della storia”: ma la storia non si può fermare, nel suo divenire.
Non è possibile ridurre il tutto così “ad unum”, alla prassi per la prassi, intendendo la prassi come modernità e il resto come “ritorno all’indietro”.
Esiste un’esigenza di governo e di modello per il futuro che rimane inalienabile.
Allora il raccordo tra scienze della natura e scienze umane risulta indispensabile e non riducibile a un dibattito, da tardo Rinascimento italiano.
Inoltre non possiamo regalare questo discorso a una “nicchia culturale” riservata alla ricerca di universalismo, da parte delle grandi religioni.
Due fenomeni debbono essere posti sotto osservazione, e finora lo sono stati in una dimensione del tutto inadeguata:
a) il tema delle ricerche scientifiche e del progresso tecnologico, ormai del tutto “parcellizzate” (appunto: il “modello informatico”) e destinate all'incremento dell'individualismo consumistico. In tutti i campi, nella medicina, come nelle applicazioni riguardanti la vita quotidiana e non semplicemente rispetto ai prodotti destinati alla pubblicità televisiva. L'ultimo grande sforzo “universale”, nel campo delle scoperte scientifiche è stato quello riguardante i viaggi spaziali. Adesso non vorremmo che si tornasse a quella dimensione soltanto per una nuova rincorsa agli armamenti nucleari;
b) il tema dell'immigrazione, che appare essere il vero punto di confronto sul campo del rapporto tra il nord e il sud del mondo. Un rapporto il cui destino non sarà segnato soltanto dall'interscambio di tecnologia, ma soprattutto dal passaggio delle persone, attraverso le quali non viaggia soltanto la conoscenza scientifica e tecnica, oppure manodopera a buon mercato, ma anche la storia del mondo. Il fenomeno dell'immigrazione è ormai arrivato al quarto stadio: dopo l'immigrazione post – coloniale e quella dei “disperati della terra”, siamo a un’immigrazione che porta con sé una spaventosa pressione commerciale e a quella portatrice di cultura e di conoscenza scientifica, oltre al ritorno alla migrazione sotto la pressione incalzante della guerra.
Tutto questo appare ancora ben al di fuori dalla riflessione teorica più avanzata : eppure una proposta di “governo” del flusso migratorio (sotto l'aspetto della proposta teorica: beninteso) potrebbe rappresentare il punto più importante su cui risviluppare la relazione tra scienze naturali e scienze umane.
Può concorrere la teoria politica a questo discorso? Possiamo concorrere noi, portatori di una storia – travagliata e complessa – di speranze rivoluzionarie , a delineare un nuovo rapporto tra utopia e progetto?
Abbiamo già fornito un giudizio sulla negatività di fondo dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del '900 (fatto salvo, ovviamente, il pensiero sull’”assalto al cielo” rappresentato dalla Rivoluzione d'Ottobre, come fatto in sé, capace davvero di trascinare la storia): così come sono sicuramente falliti altri modelli rivoluzionari, nonostante l'evidente persistere delle contraddizioni cui si richiamavano e che hanno tentato di affrontare.
Pur tuttavia riteniamo che un filone del pensiero marxista del '900, quello forse meno ortodosso, potrebbe rappresentare la base per riprendere, sul piano teorico e della prospettiva politica, concretamente il dibattito di cui abbiamo cercato di riferire in questa sede, attualizzandolo e portandolo all'altezza delle contraddizioni del moderno: dobbiamo opporci,prima di tutto, a considerare il marxismo quale base teorica per ipotesi politiche minoritarie legate all'esaustività dell’antica “contraddizione principale” dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
La teoria marxista può raccordarsi, in senso antideterministico, alle scienze sociali “borghesi”, recuperando l'eredità del pensiero dialettico hegeliano, respingendo un’interpretazione meccanicistica del rapporto struttura /sovrastruttura e attribuendo centralità alle figure dell'alienazione e della reificazione, recuperando anche il tema dello Stato e dei suoi diversi livelli di crisi.
Comprendiamo benissimo come, in queste schematicissime osservazioni, ci sia molto del recupero del concetto di utopia: senza uno sforzo di quel tipo il rischio, però, appare essere quello del rinchiudersi nel recinto del “realismo” conservatore; di conseguenza del già richiamato “ritorno all’indietro”
TERZA PARTE
CRISI DEL MODERNO E ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO POLITICO di Franco Astengo
La ricostituzione di un soggetto della sinistra politica richiede, in questa fase di tumultuosa modificazione nei parametri di riferimento, un ritorno in profondità nella ricerca teorica.
E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica.
In Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche.
Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della democrazia”.
La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia pratica.
La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l'intero arco cronologico della civiltà occidentale.
Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente politica.
Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta.
Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono.
Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”).
E’ possibile tentare l’esplorazione del “politico” nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale.
Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l'urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo.
Oppure si può esplorare l'intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”, formando l'opinione pubblica.
Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri.
Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto.
Disgiungere questi elementi e cercare la via di un pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita.
In questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa:
a) definire i termini reali in cui si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900.
Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di Hegel.
Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta (lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi utopie: tragiche utopie?).
Questa fase si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”.
Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica (i progetti neokantiani e neo liberali);
b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico”, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del moderno.
Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite.
Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale.
Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando la guerra come elemento di “esportazione della democrazia”.
La considerazione (sbagliata) era quello di un potere delle istituzioni considerato ormai come esaustivo della legittimità del “comando politico”.
Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di formalizzazione data per universalmente acquisita.
Nello stesso tempo deve essere messa in discussione quell’idea dei diversi rapporti che si sono stabiliti tra l’esercizio della politica come strumento “separato” e il parallelo costituirsi della moderna soggettività individuale.
Nella sostanza la crisi da analizzare è quella tra la formalità della concezione dello Stato (sbrigativamente intesa come esigenza di “cessione di sovranità” da parte dello Stato – Nazione”) e lo stabilirsi dell’egemonia culturale dell’individualismo.
Occorre recuperare la capacità dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo all'idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas), chiamando a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, delle dialettica della storia.
Una dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione politica ridotta all’ “individualismo competitivo”.
Al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia” e il predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’agire politico, è chiamata la sinistra e soprattutto quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.
DEMOCRAZIA E FINE DELLA POLITICA di Franco Astengo
Il punto che questo intervento intende evidenziare è quello di una vera e propria carenza di cultura politica, a tutti i livelli derivante dall’assenza di “agenzie cognitive” che se ne occupino: l’Università, in generale, propone schemi prefissati e ha grandi responsabilità nell’idea di una politica fatta esclusivamente sui sondaggi e non sulle idee; i partiti hanno completamente rinunciato ad una funzione pedagogico e hanno abbandonato l’idea della funzione guida della storia trascurando completamente la memoria; le istituzioni non rappresentano più la sede della saldatura tra società e politica da realizzarsi attraverso il suffragio e, di conseguenza, il consenso e svolgendo così il ruolo indispensabile di mediazione sociale e culturale.
La crisi della democrazia rappresentativa di marca occidentale sta interessando la riflessione di vasti settori intellettuali che si cimentano in diversi spunti di analisi.
I due maggiori quotidiani italiani hanno recentemente dedicato spazio a questo tema, sia pure affrontando l’argomento in forme diverse, nei loro inserti culturali “La Lettura” del Corriere della Sera e” Robinson” per Repubblica.
La Lettura, nel numero di domenica20 agosto ha pubblico il testo di un colloquio tra Han Ulrich Obrist e il controverso artista cinese Ai Weiwei che sta per presentare in concorso al Festival di Venezia il suo film “Human Flow”.
Un kolossal sulle migrazioni girato il 22 paesi attraverso quaranta campi profughi realizzando seicento interviste e mille ore di girato.
Nel suo film Ai Weiwei affronta i nodi delle contraddizioni epocali cui oggi la democrazia sembra non essere più in grado di dare risposta: guerre, carestie, malattie, choc climatici e la crisi dell’umanità in fuga.
Nel testo dell’intervista s’individuano quelle che vi sono definite come “emergenze planetarie”: la libertà di parola e la democrazia.
Si pone così la grande questione della politica di oggi, se intendiamo ancora considerarla tale nella sua etimologia classica: le cose che ineriscono la Polis.
Il tema è quello della sorveglianza cui siamo sottoposti e a cui dobbiamo sottoporre i governanti : il reciproco interscambio tra governanti e governati.
Appare evidente come, nell’analisi che emerge dal colloquio tra Obrist e Ai Weiwei si smentisca l’assioma democrazia uguale politica che per due secoli aveva retto una presunta superiorità del sistema occidentale “classico”.
Lavoro da svolgere per chi intende misurarsi nel definire una nuova complessità dei cleavages sociali.
In precedenza “Robinson” inserto culturale di Repubblica si era occupato, nel numero uscito domenica 30 Luglio, del ruolo dei social network nella diffusione di notizie e nella relativa formazione di opinione politica.
In quel testo si sono ricostruiti schematicamente tutti i passaggi dal 1980 quando nacque l’Electronic Frontier Foundation per tutelare e promuovere i diritti digitali, considerata la “madre” di tutti gli attivismi online fino al 2016 con la campagna elettorale di Trump nel corso della quale si evidenzia un uso spregiudicato, diretto e aggressivo di Twitter (“Fake news” comprese).
Appaiono evidenti due cose che probabilmente tutti noi consideriamo scontate ma che non sono state ancora sufficientemente analizzate:
1) Il peso, inedito nella storia della democrazia e nell’insieme delle relazione politiche, di questi strumenti di comunicazione, di formazione e aggregazione del consenso quali sostituivi dei classici meccanismi usati a questo proposito a partire dalla prima rivoluzione industriale e dalla nascita degli ormai tramontati partiti di massa;
2) La creazione di una realtà virtuale illusoriamente percepita come effettiva e concreta da parte degli utenti e sede effettiva della discussione politica (ma non solo). Si annullano così gli elementi che hanno condotto a stabilire le consolidate gerarchie nella presenza politica nell’appartenenza e nella conoscenza. Quella scala gerarchica che ha portato , nella realtà dei soggetti culturali e politici, al formarsi dei cosiddetti “gruppi dirigenti” o élite. Chissà, al proposito cosa avrebbero scritto oggi Michels, Pareto, Weber?
Si è così costruita quella che, nel suo articolo presente nel citato inserto di “Robinson”, Tom Nichols definisce come “Illusione egualitaria” creata, appunto, dall’immediatezza dei social network che per l’appunto cancella l’autorevolezza dei gruppi dirigenti consolidati e crea l’illusione del “tutti alla pari”.
E’ evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente illusori meccanismi di “democrazia diretta”.
Fenomeni che stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S e del PD(R).
Disintermediazione che , alla fine, favorirebbe davvero l’egemonia di quella “società dello spionaggio” di cui parla Ai Weiwei .
C’è da domandarsi: l’azione politica agita attraverso gli strumenti della comunicazione “social” crea nuova acculturazione e di conseguenza diversa aggregazione oppure soltanto l’illusione di un’inedita forma di democrazia diretta, diversa da quella che abbiamo fin qui considerata sul modello plebiscitario del consenso diretto nella relazione tra il Capo e le masse?
Al di sopra di questa comunicazione “social” non agisce forse un qualche potere occulto, non paragonabile neppure al “Grande Fratello” orwelliano ma dotato di poteri di controllo assolutamente superiori perché insiti direttamente nella vita quotidiana delle persone modellandone i comportamenti effettivi?
Questo è, mi pare, l’interrogativo di fondo, quello più pregnante e insidioso.
Pare proprio che, alla fine, il confronto si sia spostato tra una teoria dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che era l’antica visione pluralista.
Attenzione: verticalizzazione del potere, ripetiamo “ad abundantiam” che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo non semplicemente “sociali” (com’era un tempo) ma “personali”.
Sorge forse da qui la crisi della democrazia liberale: una crisi della quale la democrazia dei social porta responsabilità evidenti.
Sono anche palesi gli interrogativi che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione.
intendendo beninteso la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il concorso collettivo alla cosa pubblica ( e non di più, senza affidare al voto alcunché di salvifico di per sé).
Forse sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede.
Ma quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra epoca.
Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più , come si pensava un tempo, un’ipotesi – limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa.
Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post – modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica /vita e di conseguenza tecnica / politica.
Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica.
Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale.
Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento ( del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.
Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza rispetto al declino in atto: declino che si compone degli elementi sopra enunciati , guerre, carestie, malattie, choc climatici , la crisi dell’umanità in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico nell’uso della tecnologia.
Le “sette piaghe” della modernità racchiuse tutto all’interno della categoria dello sfruttamento? Probabilmente sì.
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