Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 dicembre 2017
giovedì 28 dicembre 2017
mercoledì 27 dicembre 2017
domenica 24 dicembre 2017
venerdì 22 dicembre 2017
Franco Astengo: Numeri dalla Catalogna
NUMERI DALLA CATALOGNA di Franco Astengo
I numeri che nella notte arrivano dalla Catalogna dimostrano una debole “volatilità elettorale” rispetto ai dati del 2015 ma assumono un forte significato politico se li andiamo ad analizzare andando al cuore della questione che era in gioco in questa tornata: quella dell’indipendenza.
Dalle elezioni del 2015 al referendum di ottobre non riconosciuto dal Governo Centrale alla repressione imposta dal governo Rajoy, le cariche della polizia durante lo svolgimento delle operazioni referendarie, l’incarcerazione del gruppo dirigente indipendentista, l’esilio in Belgio del Presidente della Generalitat Puigdemont, tutto sembrava far pensare a un arretramento del blocco sociale e politico che reclamava l’indipendenza del Paese che aveva raccolto 2.044. 038 sì appunto al referendum di fine ottobre.
Ne risulta, in sostanza, un Paese seccamente diviso dove il peso della frattura indipendentista rimane intatto nonostante il difficile e complicato percorso fin qui intrapreso (del quale non debbono essere nascoste le contraddizioni).
Non è certo questa la sede per delineare scenari futuri: nella notte dei risultati elettorali occorre, prima di tutto, far parlare i dati.
Dati dai quali è possibile far emergere due considerazioni preliminari:
1) La crescita della partecipazione al voto,svoltosi del resto in un clima di assoluta tranquillità. Si è verificato infatti un aumento di circa 200.000 presenze al seggio : da 4.130.196 del 2015 a 4.345.363 del 2017. Un dato in controtendenza rispetto a ciò che sta accadendo nel resto d’Europa che permette di notare come la “single issue” sulla quale si è giocata la partita elettorale ha stimolato l’afflusso alle urne;
2) Il secondo dato di grande importanza risiede nel fatto che la somma dei voti dei tre partiti indipendentisti (Junts xCat; Erc – Cat Sì, CUP) supera la somma dei voti favorevoli espressi nel referendum di ottobre. Infatti JuntsxCat ottiene 938.249 voti, Erc – Cat sì 926.602, CUP 192.795 per un totale di 2.057.646 con un incremento rispetto al “SI” di ottobre di 13.606 voti, francamente non pronosticabile in partenza.
Dal punto di vista dei soggetti politici in campo è indubbio che l’affermazione più rilevante è quella di Ciudadanos C’s : in due anni il partito civico centrista assolutamente contrario all’indipendenza sale da 736. 364 voti a 1.097. 517, una crescita di 361. 163 suffragi passando da 25 deputati a 37.
Ciudadanos approfitta prima di tutto del calo secco del Partito Popolare che scende da 349.193 voti a 183.333 una flessione di 165.86° voti con una perdita di 8 seggi.
Lieve incremento anche per il Partito Socialista di Catalogna che sale da 523.283 voti a 600.392 con un incremento di 77.105 suffragi con un seggio in più.
Flessione invece per l’area di Podemos catalana: nel 2015 la lista Catalunya Si ques Pot ottenne 523.283 voti mentre nel 2017 la lista CatComù Podemos ne ha avuti 322.220 220 con un calo di 201.063 suffragi e la perdita di 3 seggi: è probabile che la lista parzialmente intitolata all’Alcadesa di Barcellona abbia pagato un prezzo a una ricerca di posizione mediana proprio sul tema dell’indipendenza.
Sul fronte indipendentista è necessario far notare che nel 2015 si presentò una sola lista Junts pel Sì che ottenne 1.628.714 voti e 62 deputati: nel 2017 le liste presenti erano due. JuntsxCAT del presidente uscente Puigdemont con 938.249 voti ed ERC – Catsì con 926.602 per un totale di 1.846.851 voti, quindi con una somma in crescita di 236.137 suffragi e un incremento di 2 seggi, in quanto JuntsxCat ne ha avuti 34 ed ERC-Catsì 32.
La presenza di Esquerra Repubblicana (ERC-Catsì) ha probabilmente inciso – all’interno dell’area indipendentista – sulla flessione della CUP che è scesa da 337.794 voti a 192.795 con una flessione di 144.995 voti e la perdita di 6 deputati: ragione per la quale la parte indipendentista dell’Assemblea si trova con una maggioranza di 70 voti in luogo dei 72 avuti in precedenza.
In conclusione però non si può che ribadire il punto di vero esito politico di questa consultazione: il blocco favorevole all’indipendenza della Catalogna ha tenuto nonostante la repressione violenta del governo di Madrid e la crescita di partecipazione elettorale.
Il grande tema della Catalogna repubblicana rimane per intero sul tappeto degli equilibri politici non solo in Spagna ma in Europa.
Se qualcuno trovasse una differenza di qualche decimale nei dati qui forniti faccio infine presente di aver lavorato sul 99,5% dei voti scrutinati. La sostanza, ed anche di più dal punto di vista aritmetico, è assolutamente valida.
giovedì 21 dicembre 2017
mercoledì 20 dicembre 2017
Franco Astengo: Sfruttamento, salari, innovazione tecnologica
SFRUTTAMENTO, SALARI, INNOVAZIONE TECNOLOGICA (a cura di Franco Astengo)
Per il tramite della cortesia sempre dimostrata dal compagno socialista Claudio Bellavita di Torino ho ricevuto un articolo sul tema del rapporto tra salari e innovazione tecnologica e di conseguenza – aggiungo – oggettivamente dello sfruttamento pubblicato da Keynesblog.
Di seguito se ne troveranno stralci con un commento conclusivo che riporto in precedenza agli stralci del testo in questione e che mi sono permesso di elaborare.
1) E’ evidente che il tema non è quello dei salari ma quello dello sfruttamento. La forza – lavoro è, infatti, adoperata secondo l’antica logica dell’“esercito di riserva”, oggi agita soprattutto attraverso la leva della precarietà che si accompagna oggettivamente ai bassi salari;
2) In questo senso si comprende benissimo il deficit d’innovazione, assolutamente voluto per tenere al minimo il profilo produttivo accentrato in settori marginali sia rispetto alla necessità di produzione interna sia al riguardo delle esportazioni;
3) Questo quadro è riconducibile alla quasi completa sparizione, in Italia, della produzione nei settori industriali strategici derivante dal fallimento dei processi di privatizzazione seguiti alla liquidazione dell’IRI. Processi di privatizzazione che hanno generato due fattori fondamentali della crisi: l’emergere di un vero e proprio “ritardo tecnologico” e una gigantesca “questione morale”;
4) Si è anche verificato, com’è possibile notare dal testo seguente, un’assoluta carenza d’investimenti. Contemporaneamente alla crisi dell’industria registriamo un’obsolescenza delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti) e l’esplosione della vicenda bancaria che in questo momento tiene banco sul terreno dello scacchiere politico, ma al riguardo della quale quasi nessuno fa notare come stia all’origine del complesso delle difficoltà economiche del Paese;
5) Si è rivelata sbagliata anche la logica dei “distretti” e della “fabbrichetta del Nord – Est” (fenomeno, come stiamo notando, strettamente collegato con la situazione delle banche). Risultato: estrema debolezza della struttura ormai sede di assalto da parte di compagnie di ventura oltre alla mai abbastanza ricordata intensificazione dello sfruttamento;
6) Completamente dismessa la possibilità d’investimenti pubblici in un quadro di programmazione economica (impedita tra l’altro, è bene ricordare, dai Trattati Europei, con la tagliola degli “aiuti di stato”) e di gestione pubblica diretta di alcuni comparti assolutamente strategici (ferrovie,aerei,utilities energetiche, ecc) oltre alla confusione legislativa al livello degli Enti Locali la situazione italiana presenta sostanzialmente tre punti da evidenziare che qui elenchiamo raccogliendo le fila del ragionamento: 1) deficit strutturale nei settori strategici della produzione industriale e delle infrastrutture; 2) intensificazione dello sfruttamento nel segmento occupato del mercato del lavoro: sfruttamento realizzato attraverso essenzialmente la leva del precariato; 3) assenza d’investimenti pubblici rivolti soprattutto all’innovazione tecnologica, mentre la gestione delle principali aziende italiane appare in forte ritardo (permangono anche, com’è ben noto, forti frizioni nel rapporto tra industria e ambiente, anch’esse derivanti dal deficit d’investimento.).
Questo lo stralcio del testo già citato (dal Keynesblog)
Secondo la teoria mainstream i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. I lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero invece maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. E' questa la spiegazione dei bassi salari italiani? No, secondo gli autori di questo articolo, Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito) .
All’interno del dibattito sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante, ripresa su Econopoly in un recente articolo firmato da Luca Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. Si consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla tecnologia. Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori.
Mantenendo per un attimo da parte quest’ultimo aspetto che tuttavia è dirimente nello spiegare perché la tesi di una polarizzazione (e quindi diseguaglianza) indotta dalla tecnologia non sia in grado di spiegare la situazione italiana, è opportuno guardare ai fatti che caratterizzano il mondo del lavoro italiano. Rimanendo quindi ancorati alla teoria mainstream, ci si chiede se in Italia l’impoverimento dei salari sia dovuto alla polarizzazione e/o un’insufficienza di capitale umano capace di soddisfare le richieste tecnologiche del mercato.
Partendo dal rapporto Eurofound (2016) sulla struttura lavorativa dei Paesi europei, si nota che l’Italia, insieme all’Ungheria è il paese in cui la polarizzazione tra lavori qualificati e non qualificati non ha luogo. Tra il 2011 e il 2015 è un vero e proprio declassamento generalizzato: ad aumentare sono soltanto il numero di posizioni lavorative peggio retribuite (quelle appartenenti al primo quintile delle retribuzioni).
Inoltre, si legge nello stesso rapporto, la struttura occupazionale italiana si caratterizza per maggiori livelli di lavoro fisico e per un uso inferiore delle ICT, soprattutto rispetto a paesi come la Francia e la Germania, ma non solo. Quindi, non è l’offerta di lavoro a non essere adeguata, ma la struttura produttiva in costante impoverimento. In altre parole, più che un problema di offerta di lavoro l’Italia attraversa un problema di quantità e qualità di domanda di lavoro. Quanto alla quantità, è sufficiente ricordare che il monte ore lavorato è ancora inferiore ai valori precrisi e che la domanda di lavoro in Italia è tra le più basse in Europa, come riporta l’Eurostat.
La scarsa qualità della domanda di lavoro, è dimostrata dall’esodo di lavoratori teoricamente più qualificati (cioè in possesso di una laurea) verso altri paesi, come rileva di recente l’Istat: nel 2016, si legge nel rapporto Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, i laureati italiani che lasciano il Paese, sono quasi 25 mila nel 2016 (+9% sul 2015) anche se tra chi emigra restano più numerosi quelli con un titolo di studio medio - basso (56mila, +11%), a riprova del fatto che scarsa qualità e quantità di domanda di lavoro vanno di pari passo nel nostro Paese.
Inoltre, per confermare i dati Eurofound sulla scarsa qualità delle offerte di lavoro in Italia, basta guardare alla distribuzione delle nuove assunzioni nel nostro paese, riportati mensilmente dall’Osservatorio sul precariato Inps, secondo cui circa il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2017 si concentrano nei settori dei servizi a scarsa produttività: commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione.
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Non stupisce, allora, ritrovare una distanza profonda tra le retribuzioni dei salariati e quelle, in aumento, di dirigenti e lavoratori ai piani alti della piramide, la quale però non rappresenta un cambiamento neutrale nelle forme retributive. Infatti, l’aumento delle seconde è determinato da forme di retribuzione non legate al salario ma appunto ai profitti; non a caso esse avvengono tramite bonus e stock options.
Alcuni economisti (vedasi Lazonick e O’Sullivan, 2000; Mason, 2015) inseriscono questo fenomeno all’interno della denominata shareholders revolution, che negli ultimi decenni ha contribuito a spostare le imprese verso un modello in cui vengono privilegiati investimenti speculativi, principalmente orientati al breve periodo, con l’obiettivo di massimizzare i ritorni di un numero ridotto di azionisti. Come contropartita diminuiscono gli investimenti produttivi di lungo periodo, già colpiti dal basso livello di domanda aggregata.
Il risultato è una diminuzione della quota di profitti reinvestiti nell’economia “reale”, mentre aumenta quella destinata alla distribuzione di dividendi. Sono allora premiati coloro che lavorano per aumentare i rendimenti finanziari e/o i risparmi negli investimenti reali da drenare nelle attività speculative.
Fin qui quindi nulla conferma la teoria della polarizzazione indotta dalla tecnologia.
La ricerca della competitività da parte del settore privato sembra passare unicamente dalla riduzione dei salari e del costo del lavoro in generale, più che da investimenti produttivi e innovazione. In Italia, infatti, si investe meno che nel resto d’Europa: gli investimenti in rapporto al PIL sono costantemente al di sotto della media europea, sin dagli inizi degli anni Ottanta. Lo stesso vale per la spesa in ricerca e sviluppo: secondo dati Eurostat, in Italia il settore privato destina 207 euro pro capite mentre la media europea è di 427 euro per abitante. Per non parlare degli investimenti in istruzione che languono in basso alla classifica dei paesi europei. A questo si deve aggiungere una retorica che spesso ha enfatizzato le piccole e medie imprese, dimenticandosi che queste imprese sono meno innovative e meno produttive rispetto alle grandi aziende.
Occorre poi riflettere su come l’aumento della disuguaglianza del reddito ha effetti a livello macroeconomico. Una società più diseguale implica che una quota sempre minore del reddito è assicurata ai piani alti della piramide. Questa distribuzione del valore aggiunto prodotto, però, ha effetti negativi su crescita economica e occupazione. La maggior propensione al consumo delle classi popolari rispetto a quelle più abbienti fa sì che una distribuzione più egualitaria porterebbe a una più rapida crescita economica, per via dell’effetto moltiplicatore.
In questo contesto, le politiche di restrizione della domanda aggregata (meglio conosciute come austerity) non fanno che peggiorare la situazione, determinando crollo degli investimenti pubblici, blocco degli stipendi del settore pubblico e riduzione della spesa sociale (reddito indiretto per le famiglie), minori consumi. Considerati questi aspetti sembra quantomeno improbabile raggiungere aumenti di produttività che invertano il declino italiano. La produttività è, infatti, un fenomeno prociclico nel lungo periodo, legato alla crescita (che non può avvenire in assenza o in stagnazione di domanda aggregata e forti diseguaglianze).
martedì 19 dicembre 2017
Paolo Bagnoli: Le regole non scritte
le regole
non scritte
paolo bagnoli
da Non mollare
Il motore della campagna elettorale ha già
cominciato a surriscaldarsi, ma il vento gelido che
avvolge la Repubblica non ha terminato di
vorticare. È chiaro che la fase delle possibili
alleanze renda il clima nervoso e in esso si riversi il
peso di quell’eccesso di personalismo e di
protagonismo di cui soffriamo da tanto, troppo,
tempo. Ed è altresì naturale che, mentre alcune
forze cercano convergenze che sanno tanto di
ancore di salvataggio per tornare sui banchi del
Parlamento, i soggetti maggiori vogliono
evidenziare i prodotti da offrire all’elettorato per
attirare quanti più consensi possibili. Tutto è nella
fisiologia del passaggio politico il quale denota,
però, anche una preoccupante patologia. Infatti,
quello che dovrebbe essere il focus del confronto
elettorale, vale a dire la visione d’insieme che si
offre al Paese, in altri termini la proposta politica,
stenta a venire fuori. Il tutti contro tutti non
equivale al confronto, anche aspro se tale deve
essere, ma l’insieme è segmentato in dichiarazioni,
apparizioni, richieste, ostracismi, accuse velenose,
comportamenti non ortodossi e tanto, tanto altro
di strampalato come l’annuncio del candidato
premier 5Stelle il quale non perde occasione per
testimoniare della propria improvvisazione quando
afferma che, se la parte che rappresenta risulterà la
più votata loro chiederanno al Presidente della
Repubblica l’incarico per formare il governo. Forse
non guasterebbe all’on. Di Maio sapere che
l’incarico lo conferisce il Presidente, certo non
prescindendo da una valutazione sui risultati, ma
facendo prevalere su tutto la possibilità reale che si
possa creare un governo capace di riscuotere la
fiducia. E non è assolutamente detto che all’aver
ricevuto più voti corrisponda una capacità effettiva
di potercela fare nel far nascere il governo.
Oltretutto la campagna elettorale dei 5Stelle
stereotipata nell’immagine del rinnovamento totale
di tutto si svolge modulata nel nulla e
nell’improvvisazione cotta e mangiata: l’ultima
perla, l’uscita sulle pensioni. Con loro al potere ci
sono buone ragioni per temere che l’Italia
diventerebbe un grande comune di Roma a guida
Virginia Raggi!
La democrazia e le istituzioni che la incarnano,
è cosa risaputa, vivono per leggi scritte –
l’osservanza della norma – ma sono autorevoli
soprattutto per quelle non scritte, ossia quelle che
non troviamo da nessuna parte se non nel galateo
civico che anima moralmente una comunità.
Quanto emerge dalla Commissione sulle banche lo
conferma. Il presidente del Senato Pietro Grasso
ha assunto la guida del partito nato dalla scissione
bersaniana dal Pd e, mentre ribadiamo che Grasso
è sicuramente un uomo delle istituzioni, dalla
salutare figura sobria e che ha fatto bene alla testa
del Senato, ci è parso stridente con l’autorevolezza
e la correttezza che anche gli avversari gli
riconoscono, vederlo in una trasmissione televisiva
fare una televendita del simbolo del proprio
partito: un’inimmaginabile caduta di stile. Va bene
che siamo oramai alla fine della legislatura e ciò
può essere motivo scusante per comportamenti
che rispondano alle leggi non scritte di cui sopra,
ma vogliamo ricordare che quando Giuseppe
Saragat – allora presidente dell’Assemblea
Costituente – divenne il leader del partito nato
dalla scissione socialista, egli lasciò l’incarico e gli
subentrò Umberto Terracini che, di tale
Assemblea, era vicepresidente. E pure Giovanni
Spadolini, quando assunse l’incarico di Presidente
del Senato, lasciò il giorno stesso gli incarichi di
partito. Altro clima e pure altra Italia, pur tuttavia,
se anche un uomo come Grasso, che per di più è
stato un alto e importante magistrato, dimentica le
leggi non scritte, vuol dire che questo brutto clima
di dissolvenza dell’etica repubblicana sta sempre
più prendendo campo. Ci rendiamo benissimo
conto di due fattori: che cosa sarebbe potuto
succedere nel procedere alla scelta di un nuovo
Presidente e che il mantenimento della carica dà
alla nuova formazione una spinta in più per
penetrare nell’elettorato del Pd per far perdere a
Matteo Renzi la partita elettorale che è, poi, il fine
vero della loro campagna elettorale. Vediamo cosa
farà Grasso: se sarà veramente un leader politico
oppure solo un uomo della situazione.
È la crisi di un sistema, è la nebbia di una classe
politica che non si pone il problema della ragione
politica e delle ragioni della politica. Tanti uomini
politici non fanno una classe politica; dovrebbero
essersene resi conto in tanti. Infine due parole su
Angelino Alfano il quale, nell’impossibilità di
tenere in piedi un partito vissuto solo per il
4
nonmollare quindicinale post azionista | 011 | 18 dicembre 2017
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governo e senza presa reale alcuna come hanno
dimostrato le elezioni siciliane, ha gettato la spugna
tirandosi fuori. Lo ha fatto con dignità: una
dimostrazione di stile democristiano. Sicuramente
si è trattato di una scelta tanto coraggiosa quanto
dolorosa; in ogni modo, una scelta da uomo
politico vero. Pur in una specificità di segno
diverso rispetto a quella nella quale galleggia il
segretario del Pd, quella di Alfano, ci è parsa
proprio una lezione per Renzi che, se fosse un
politico vero, dopo il risultato referendario
avrebbe potuto scegliere tra due strade: lasciare il
campo e magari prepararsi a tornare con ben altra
statura oppure cercare di andare alle elezioni
anticipate e forse, allora, la possibilità di raccogliere
una buona porzione dei sì ricevuti al referendum
poteva anche realizzarsi. Invece ha inseguito,
basandosi sulle primarie del proprio partito, la
rivincita non all’insegna della politica bensì della
riconquista del governo. Che gli bastino a corte i
pasdaran prodiani, i sedicenti socialisti privi anche
del figlio di Craxi, talune residualità di quello che
fu il partito di Alfano, professionisti del gruppo
misto, i centristi di Casini, la Lorenzin e pure
Cicchitto per farcela, sembra assai improbabile.
Parleranno le urne. Cosa succederà del gruppo di
Emma Bonino ancora non è del tutto chiaro.
Non più brillante quanto succede nell’altro
campo caratterizzato dalla quotidiane baruffe tra
Salvini e Berlusconi; baruffe che termineranno
appena trovato l’accordo sui collegi. Berlusconi è
sicuramente in grande spolvero e recita il copione
del 1994 convinto che funzioni e chissà che non
abbia ragione. Ma povera Italia quella che
vedrebbe nel ritorno al passato la soluzione per il
futuro. Insomma un grande annodamento che, da
qualunque parte lo si consideri, assomiglia tanto a
una paralizzante corsa sul posto. Che dopo un
quarto di secolo di transizione annunciata si possa
cadere nella paralisi politico-istituzionale della
Repubblica provoca più di qualche brivido.
Ci auguriamo che il Presidente Mattarella sappia
tenere ben saldo il timone della navigazione Italia e
che, nei modi e nelle forme proprie della
responsabilità che ricopre, imponga un cammino
di ricostruzione della politica democratica e
dell’etica repubblicana.
lunedì 18 dicembre 2017
domenica 17 dicembre 2017
sabato 16 dicembre 2017
venerdì 15 dicembre 2017
giovedì 14 dicembre 2017
mercoledì 13 dicembre 2017
martedì 12 dicembre 2017
lunedì 11 dicembre 2017
domenica 10 dicembre 2017
sabato 9 dicembre 2017
giovedì 7 dicembre 2017
Andrea Ermano: Giuliano se n'è ghiuto
Dall'Avvenire dei lavorati
Giuliano se n'è ghiuto…
di Andrea Ermano
«Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato», così Togliatti titolava un articolo apparso su Rinascita, mensile del PCI, nell'agosto 1951 commentando, in modo estremamente polemico, la rottura del grande scrittore con il suo partito. «A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti, egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora», aggiunge Togliatti irridente.
Chi mai direbbe oggi lo stesso in occasione dell'uscita di scena annunciata da Giuliano Pisapia?
Lui lo annunciava da mesi, che non aveva nessuna intenzione di candidarsi. Glielo si leggeva in faccia, che stava impersonando controvoglia una leadership poco confacente al suo carattere. Aveva governato Milano nella migliore tradizione amministrativa della metropoli lombarda. E da circa un anno, dopo la fine del suo mandato, teneva insieme la sinistra a sinistra del PD. Ora, con la nomination di Grasso, papa straniero alla guida di "Liberi e Uguali", si registra un cambio di fase. E Pisapia esce di scena.
Con il che il panorama intorno al PD renziano si fa sempre più solitario. E ripropone la questione delle alleanze, questione antica e dimenticata, che la natura stessa di quel partito, fin dal suo atto di fondazione, rimuoveva come "obsoleta". Questione "obsoleta" in forza della vocazione maggioritaria agitata da ex-democristiani ed ex-comunisti nell'amalgama di codesta loro invincible armada. Ma "obsoleta" anche a causa della cornice giuridica statuita da leggi elettorali fatte per manipolare geneticamente talune minoranze elettorali in talaltre maggioranze parlamentari, affinché i cittadini potessero sapere chi governava la loro Repubblica (parlamentare) ancor prima di aver riunito le assemblee di Camera e Senato.
La "vocazione maggioritaria", oggi, sta poco bene, dopo la bocciatura della Legge Calderoli operata dalla Consulta su istanza del pool guidato da Felice Besostri, che per altro ha portato a una (fatale) verifica di costituzionalità anche il cosiddetto Italicum.
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Giuliano Pisapia con la presidente della
Camera dei Deputati, Laura Boldrini
Al momento il livello di consenso "democrat" è quello noto, intorno al 25%. "Liberi e Uguali" si attesta al 6%, ma può rafforzarsi di qualche punto grazie all'effetto Grasso. Il Centrodestra assomma un 36%, a fronte del 26% attribuito al M5S. Allo stato attuale, dunque, e non diversamente da precedenti legislature, la guida del Paese dovrà essere affidata a un governo di coalizione. Tutti in qualche modo ne parlano già, persino i grillini. La retorica giornalistica sugli "inciuci" appartiene perciò al bipolarismo che fu. Non ha mai risolto nessun problema in passato e men che meno ne risolverà domani.
Renzi sembra, dunque, condannato a quella solitudine nella quale il suo partito si è manovrato con troppa sicumera per troppi anni. E meriterebbe una seconda lezione. Ma il nostro spartiacque politico reale è l'Europa. Perché senza un'Unione forte, le nostre piccole nazioni, come diceva il vecchio Helmut Schmidt, verranno misurate "in Promille", espressione tedesca che significa "in millesimi", ma esprime anche il tasso alcolimetrico alla guida di un veicolo.
La coalizione di centrodestra non fornisce alcuna seria garanzia in questo senso, anche se il partito di Berlusconi, riconciliatosi con la Merkel, cresce di qualche punto, attestandosi intorno al 15% dei consensi. Ma Lega e postfascisti (che insieme fanno il 20% circa dei consensi sondati) mantengono posizioni decisamente anti-europee. E lo stesso vale per parte consistente degli elettori grillini. Sicché, in tema d'Europa il paese è spaccato a metà. E ciò avviene in un passaggio cruciale per l'Europa stessa, che ha bisogno assoluto di un effettivo sostegno da parte italiana.
Nessuna coesione europea appare possibile senza superare in senso "sociale" l'ideologia ordo-liberista, rivelatasi una mera variante del pensiero unico globale. Ma nessuna stabilità di consenso democratico, indispensabile a compiere questo superamento "sociale", sarà possibile nel nostro paese senza mettere in moto una vera politica d'integrazione capace di governare l'emergenza migratoria in una prospettiva di accoglienza, impegno civile e cooperazione internazionale.
C'è poco da scherzare, e chi riveste alte responsabilità istituzionali non può non saperlo. È decisivo che prevalgano in Italia politiche europeiste, attive sul fronte sociale e impegnate nell'accoglienza. E perciò – repetita iuvant – occorre che le forze di centro-sinistra si coalizzino, pur mantenendo le ragioni delle loro differenti realtà, per non disperdere seggi e consensi preziosi in un passaggio d'epoca dai contorni abbastanza "weimariani".
mercoledì 6 dicembre 2017
Giampaolo Mercanzin: 4 dicembre
Non so perché, non so per cosa, probabilmente i vari maggiorenti sono impegnati esclusivamente su grandi discussioni sulle liste elettorali. Certo è che la data del 4 dicembre mi sembra già dimenticata.
Personalmente speravo che si ricordasse invece un fatto così importante successo un anno fa.
So benissimo che il risultato del referendum costituzionale non è solo merito nostro, ma di tutto un arco di forze sociali che hanno rutenuto di cassarlo in quanto pericoloso per le libertà collettive ed individuali. Ma non posso trascurare quella grande dimostrazione di volontà popolare che si è espressa ai più alti livelli di partecipazione da quando si è sperimentato il voto in una sola giornata elettorale. Per cui è il POPOLO che ha vinto, non le varie fazioni politiche. E chi dovrebbe farsi carico di ricordarlo, se non noi che l'abbiamo vissuto alla stregua dei nostri "padri costituenti"
Di questo, forze di sinistra dovrebbero tener conto, primo perché sono per l'integrità della Costituzione, che nel suo impianto fondamentale è garante delle libertà e dei diritti dei cittadini; secondo perche le garanzie costituzionali servono soprattutto a chi si sente a sinistra in questo Paese, dove l'applicazione della stessa latita da parecchi anni.
So che vi sono vari problemi che vanno risolti: Certo il "rosatellum" - che nome schifoso dopo che la legge elettorale del decennio scorso è stata definita dal suo mentore "porcellum" - è un grosso bastone tra le ruote di una democrazia che vuole rimanere tale e migliorarsi
So che illustri giuristi, primo dei quali il nostro Felice Carlo Besostri, meritano tutti i nostri elogi ed il nostro sostegno (anche economico perché sacco vuoto non sta in piedi).
Ma so anche che una vittoria va gestita e implementata.
"A nemico in fuga nti d'oro" ricorda un adagio molto sensato, mi pare però che pochi lo seguano e si industrino per incalzare questo "avversario" fino a ridurlo a più miti consigli.
Per citarvi un esempio: come socialisti padovani, associati nel "centro studi Francesco Feltrin" abbiamo prodotto una storia della Resistenza padovana (e limitrofa): La lotta partigiana a Padova e nel suo territortio" edita da CLEUP, iniziata dal defunto Feltrin stesso, segretario per anni del rispettivo Istituto Storico associato alla nostra univesità. L'abbiamo fatto pervicacemente in sua memoria, pur con nulle risorse economiche e tanta volonta di far conoscere quelle duemilatrecentodiciotto (2318) pagine cariche di fatti, di episodi e di nomi. non per noi, ma per i posteri. Stessa cosa speravamo e speriamo per quel referendum popolare di cui , a mio avviso, si dovrebbero riportare i maggiori argomenti ed i maggiori interventi.
Spetta a noi, al "popolo di sinistra" sostenere questa propaganda, ma vedo che la grande carica idealistica e se posso anche agonistica, si è di molto assopita.
Non sono un ideologo, né uno specialista, né un filosofo, né uno studioso; né un luminare. Sono solo un cittadino che da il proprio impegno a iniziative che ritiene giuste.
Non vorrei che, come tante altre battaglie vinte, anche questa finisse nel dimenticatoio, o al massimo nelle ricorrenze.
Grazie dell'attenzione.
Giampaolo Mercanzin, pres. del Circolo E. Meneghetti di Padova.
martedì 5 dicembre 2017
Paolo Bagnoli: Alla ricerca della sinistra
Da Non Mollare
alla ricerca
della sinistra
paolo bagnoli
L’argomento non è certo di quelli nuovi, ma un
recente articolo di Massimo Recalcati – “la
Repubblica”, 28 novembre 2017 – l’ha riproposto
in una fase convulsa e confusionaria della vita
politica italiana quale la presente. Di cosa si tratta:
della «malattia cronica della sinistra» a dividersi. Lo
schema del ragionamento, sia in quanto viene
esplicitato e in quanto va letto tra le righe, non è
nemmeno esso nuovo. Si parte, infatti, da Filippo
Turati e dal suo discorso al Congresso di Livorno
del \1921 e si finisce a Matteo Renzi il quale
«dichiara che il punto di riferimento ideale della
sinistra oggi non è più Gramsci, Togliatti o
Berlinguer, ma Obama», invitandoci, così, non «a
cancellare il passato ma a incorporarlo per
guardare avanti». In tutto il filo di questo
ragionamento di Turati e del socialismo si perdono
le tracce per ricadere nell’identificazione tra la
sinistra e il partitico comunista italiano che,
scioltosi e trasformatosi prima in Pds poi in Ds è
finito, almeno quel che restava, nel Pd, ossia in un
contenitore di centro che ama guardare a destra e
non certo a sinistra. Tuttavia, grazie alla
rappresentazione di un’Italia bipolare che avrebbe
contraddistinto la transizione verso non si sa che
cosa, ma che comunque avrebbe segnato il
passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, per
sinistra si è inteso il polo che si contrapponeva a
quello di destra incardinato su Silvio Berlusconi.
L’antiberlusconismo è stato il collante di una
situazione politica, storicamente contingente, ma
non ha certo rappresentato lo sviluppo della
sinistra come deve essere storicamente concepita
dopo il suicidio del Psi e quanto è successo ai
comunistipostcomunisti. Tramontata la stella
Berlusconi e sorto il Pd ereditando tutto il senso
di una stagione basata su un antiberlusconismo
senza Berlusconi e fecondata dalle esperienze
dell’Ulivo, prima, e dell’Unione poi. Ecco come si
è arrivati a definire di sinistra un soggetto che
voleva essere di centrosinistra e che, strada
facendo, ha perso le presenze di sinistra faticando,
nel contempo, a rimanere un soggetto di centro.
Ma il Pd con la storia della sinistra che –
concordiamo con Recalcati – non può essere
ritenuta solo quella del Novecento, non c’entra
assolutamente niente. Per cui, chi si pone alla
sinistra del Pd, o per scissione o per cammino
autonomo, non testimonia di una tragicità
ideologica o di una incomprensione politica del
momento storico, quanto di uno sbandamento
dovuto a ragioni molteplici che possono essere
riassunte in due punti: la liquidazione della
categoria stessa della sinistra e al fatto che, il
mancato approdo del postcomunismo su lidi
socialisti, non poteva non implicare modi di
salvaguardia dell’identità fondante la quale, per un
verso, era stata frustrata dalla vicenda Pd oppure
aveva ritenuto di resistere arroccandosi in gruppi
più o meno grandi motivati da irrinunciabili motivi
ideali. Aggiungiamo che su tutto ha gravato, e
continua a gravare, il richiamo tanto costante
quanto usurato al “centro-sinistra”; sinceramente,
non riusciamo a capire di cosa si tratti, come se
una formula fosse sufficiente a spiegare il mondo
per cui ci si batte in un progetto rivolto al futuro
che vorremmo. Insomma, un pasticcio pieno di
furberie e confusionismi animato da soggetti che
perseguono ognuno la propria affermazione in
ragione del proprio essere fuori di ogni dimensione
storica e conseguente necessità ideologica.
Ognuno, così, fa il proprio gioco in un contesto
che potrebbe essere geograficamente definito di
centro-sinistra il quale, per esistere, abbisogna che
la forza maggiore, il Pd, voglia non essere il solo a
guidare la danza. Ma, siccome Renzi ha scelto il
solipsismo politico come propria categoria
espressiva, non si riesce a capire di cosa parliamo.
Il quadro futuro non dipende né dai bonus
caritatevoli della legge di stabilità, né dalla
Leopolda che si sforza di essere sempre la solita
start-up riuscendoci sempre meno, né dal giusto
richiamo al tema del lavoro e alla reintroduzione
dell’articolo 18 e di tanto altro che potremmo
aggiungere. Esso dipende solo da come si
esprimeranno gli italiani tra qualche mese.
Tralasciando andare i sondaggi, tutto è possibile
anche che sia veramente difficile arrivare a un
qualche equilibrio di governo. L’asse rintracciabile
della democrazia lo vediamo nella comune volontà
di Pd e Fi di sbarrare la strada ai 5Stelle e forse
questa è l’unica cosa saggia che emerge
dall’arruffato presente. Eugenio Scalfari, novello
Montanelli, ha invitato a turarsi il naso e a
scegliere, tra i due mali – Berlusconi e 5Stelle –
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nonmollare quindicinale post azionista | 010 | 04 dicembre 2017
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quello minore, vale a dire il primo. Carlo De
Benedetti lo ha severamente bacchettato.
Ma perché, per tornare a Recalcati, non vi è
unità? Semplicemente si può rispondere perché
non c’è una sinistra se pur al plurale, come peraltro
è sempre stato in Italia, ma non solo da noi. La
verità è che in Italia sono stati recisi tutti, o quasi, i
legami con la storicità della medesima e se non si
ricrea culturalmente la categoria della stessa non
sarà possibile nemmeno sperare in una ripresa
politica. La questione non è organizzativa, come se
una soluzione tecnica potesse risolvere un
problema politico. Anche l’idea dei una
modernizzazione astratta basata sulla messa in
soffitta del Novecento non regge. Sicuramente
non si possono trovare nel secolo passato le ricette
per il presente e per il futuro, ma senza la
cognizione vivente del passato il presente non ha
senso e il futuro è solo una fumosa speranza da
evocare nei discorsi, ma fuori dal concreto della
storia. I secoli passati continuano a insegnarci che
la sinistra e i suoi soggetti si formano e maturano
nel conflitto sociale per una società più giusta,
libera e democratica; ma oggi di tutto ciò non c’è
traccia. Vediamo solo solchi di rabbia e di
malessere. I secoli passati ci dicono, ancora, che
solo guidandolo si può credere nella possibilità di
un vero cambiamento, non subendolo rifugiandosi
dietro a quella che potremmo definire l’ideologia
del cambiamento tanto cara alla retorica Pd.
È sicuramente vero che, se l’opposizione alla
destra è divisa, questa è più forte. In Italia, tuttavia,
la destra, o per meglio dire le destre, sono forti
non tanto per le divisioni della sinistra, ma perché
questa non c’è, anche se la si invoca di continuo
insieme a un ritornante centro-sinistra. In Europa
la sinistra è a larghissima maggioranza
rappresentata dai socialisti ed è sotto gli occhi di
tutti quale e di quanta portata sia la crisi del
socialismo continentale, ma questa sinistra,
storicamente più debole rispetto alla destra, è
riuscita talora a vincere segnando lunghi cicli
politici. Sarebbe ciò avvenuto se il socialismo non
avesse avuto il senso di se stesso? Crediamo
proprio di no.
Massimo Recalcati ha ragione quando scrive: «il
frazionamento politico a sinistra del Pd rileva il
carattere elitario del narcisismo delle piccole
differenze; ciascuno rivendica la propria maggiore
coerenza ideale senza tener conto che nel
frattempo il mondo è cambiato». Con tutto il
rispetto per l’autore l’osservazione è banale. Ci
domandiamo: se tale frazionamento non ci fosse,
potremmo parlare di “sinistra” così come essa
deve essere intesa? E se tale sinistra ci fosse, in che
relazione sarebbe con il mondo che è cambiato e
quale analisi dovrebbe fare per centrare il
cambiamento, dotarsi di una ideologia identitaria e
promuovere una ficcante azione politica? Inoltre,
problema sul problema: che profilo dovrebbe
avere: quello derivante dal postcomunismo, da un
aggregato di centro-sinistra oppure quello di un
socialismo nuovo che, a nostro avviso, è la via che
dovrebbe essere perseguita non solo per una
battaglia politica contingente, ma per una
riguardante la Storia e, con essa, per la libertà, la
democrazia e la giustizia sociale; per cambiare gli
assetti di potere nella società italiana. Oltre le
parole riportate di Turati a Livorno quando l’unità
dei socialisti era fondamentale per difendere la
democrazia, sarebbe opportuno anche aggiungere
che, per Turati, il socialismo è “rivoluzione
sociale”. Questa rimane la ragione e la sfida del
socialismo, di quello di ieri, di oggi e di domani;
questa rimane la strada maestra della sinistra senza
bisogno di ricordare quale sia stato il fallimento del
comunismo.
Certo che le considerazioni di Recalcati sono da
riflettere, ma se si rimane ad esse non si va da
nessuna parte. Il titolo dell’articolo è Cara sinistra,
per guarire rileggi Turati: una lettura o rilettura, quella
di Turati, che, per chi è di sinistra, male non fa;
ma certo non basta. Rimaniamo nel secolo scorso
e rimandiamo a quanto Carlo Rosselli scrive su
Turati nel 1932 quando il padre storico del
socialismo italiano muore nell’esilio di Parigi. La
lettura di Turati, tuttavia, continua ad avere un
senso se la logica dell’intenzione politica è
socialista e, con ciò, consustanzialmente di sinistra.
Se non lo è, tanto vale leggere un buon romanzo.
In Italia, al momento, non c’è né sinistra né
intenzione di socialismo; i buoni romanzi, invece,
abbondano
Franco Astengo: Vicenda bancaria e corrompimento sistemico
VICENDA BANCARIA E CORROMPIMENTO “SISTEMICO” di Franco Astengo
I giornali titolano: “La campagna elettorale sulle Banche”.
Forse sarebbe meglio scrivere: “La campagna elettorale e il corrompimento sistemico”.
Un corrompimento sistemico che davvero ci permette di osservare un quadro politico, economico, di difesa dei privilegi di un establishment sempre più vorace e in grado di trasformarsi nei ruoli, nelle funzioni, nella logica di scambio del potere.
Banca d’Italia, lobbies, partiti più o meno fantasma, finanzieri vari o inventati sui quali emerge l’intoccabilità della BCE e dei suoi massimi dirigenti, banche e banchette curatrici di interessi personali, di gruppo e /o elettorali, questi gli attori della vicenda bancaria della quale stiamo seguendo le vicende di confusa lotta.
Si potrebbe però scrivere lo stesso della privatizzazione delle grandi imprese italiane oppure del trasferimento totale alla logica del profitto della sanità, del residuo stato sociale, della scuola, della pseudo – accoglienza ai migranti trasformata in affare per i predoni libici.
Una storia, per tornare alla vicenda delle banche, che richiama immediatamente alla necessità di analizzarla usando la categoria della “questione morale” intesa non tanto e solo in senso propriamente morale.
Uno spregevole trasformismo utilizzato – sia ben chiaro – ben oltre il classico terreno parlamentare (quello del “discorso di Stradella” tanto per intenderci) ma che percorre l’insieme delle funzioni che collegano privato e pubblico, prima fra tutte quelle che comportano la distribuzione del denaro come fattore di soddisfacimento delle esigenze dell’individualismo competitivo.
“Corrompimento sistemico” e “individualismo competitivo”: queste le categorie dominanti della classe che si vorrebbe dirigente in questo Paese.
Una classe autoproclamatasi dirigente (vieppiù peraltro priva di consenso) la cui caratteristica dominante è quella di non vedere altra contraddizione oltre a, del proprio interesse personale, al massimo di gruppo o di cordata.
Se intendiamo svolgere la similitudine più coerente al riguardo della situazione che stiamo vivendo forse.
è stata quella con la società del secondo impero francese e del ruolo che la finanza aveva in quel contesto.
Una società dominata da una casta di privilegiati nella quale si sovrappongono e intrecciano affari e politica, anzi dove politica e finanza si sostengono nel malaffare.
Lo stesso periodo nel corso del quale, anzi pochi anni dopo, in Italia esplose lo scandalo della Banca Romana. Anche in quel tempo dominava il trasformismo eletto, anzi, a modello istituzionale.
Quando si legge che Banca Etruria emetteva bond senza esserne autorizzata, vengono in mente Edmondo Dantes che elabora il trucco del telegrafo ottico per fare insider trading con i titoli d Spagna oppure - appunto - la Banca Romana che fa stampare le banconote false in Inghilterra.
Tutto si teneva allora, tutto si tiene adesso: controllori e controllati.
Assente da sempre il tanto proclamato “senso dello Stato” prevale il senso dell'egoismo, dell'accumulazione indiscriminata, della conservazione del potere. Una questione, prima di tutto, di cultura politica del cui senso si è ormai smarrito il significato profondo nel grande mare della tranquillità del privilegio e del soffocamento degli altri: senza nessuna pietà, senza nessuna visione di una moralità alternativa.
Non ci si azzardi, infine, a sostenere che argomentazioni del tipo di quelle contenute in questo intervento alimentano il qualunquismo perché non aiuterebbero a distinguere: la distinzione c’è ed è ben precisa, quella eterna tra sfruttati e sfruttatori, con buona pace di Menenio Agrippa.
lunedì 4 dicembre 2017
Luciano Belli Paci: La bufala del jobs act
Come ho già avuto occasione di dire altre volte, Pietro Ichino è persona di grande valore.
È un sostenitore serio, coerente e preparatissimo di tutte le posizioni liberiste e blairiane che io personalmente avverso.
Ma la cosa straordinaria, che lo distingue dai campioni del renzismo, dagli intellettuali cortigiani e dall’informazione di regime, è che porta avanti le sue idee dicendo la verità.
Lo ha fatto ancora una volta intervenendo all’Assemblea nazionale di LibertàEguale, tenutasi a Orvieto il 2 e 3 dicembre 2017.
Nella sua relazione su “Le ragioni forti del Jobs Act e l’uso corretto delle statistiche” (cfr. www.pietroichino.it/?p=47551 ) ha detto tra l’altro:
“ … noi che due anni fa abbiamo progettato, approvato e sostenuto con la maggiore convinzione la riforma del lavoro dobbiamo resistere alla tentazione di usare i dati forniti dall’Istat sull’aumento dell’occupazione registratosi da allora, pur molto rilevante, come dimostrazione della bontà di quella legge. Può servire per uscire bene da un talk show, ma è un argomento privo di consistenza: nessuno può dire seriamente se e quale aumento dell’occupazione si sarebbe verificato in Italia, come effetto della incipiente crescita economica, se la riforma non fosse stata fatta. Viceversa, sul fronte delle politiche attive del lavoro – quelle che dovrebbero sostenere sul piano economico e dell’assistenza il passaggio dal vecchio lavoro al nuovo, la riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali concretamente possibili – dobbiamo riconoscere onestamente che il livello dell’implementazione della riforma è ancora molto modesto, per un difetto di riorganizzazione effettiva dell’apparato ministeriale”.
Insomma, anche Ichino riconosce lealmente che nessuno può dire sul serio che il Jobs Act abbia prodotto anche un solo posto di lavoro in più.
Mi pare peraltro ovvio: gli imprenditori assumono se hanno bisogno di nuovi dipendenti, non perché si cambia a loro favore la regolamentazione del rapporto di lavoro.
Orbene, poiché basta accendere la televisione per constatare che a reti unificate vengono messe a tacere tutte le critiche alla bontà delle “riforme” di Renzi perché “insomma, abbiamo prodotto un milione di posti di lavoro”, sarebbe ora di dirlo che questa è al momento la più diffusa tra le fake news. Sarebbe ora di seppellirli sotto le risate, perché sostenere che i posti di lavoro li produce il Jobs Act è esattamente come sostenere che i bambini li porta la cicogna.
domenica 3 dicembre 2017
sabato 2 dicembre 2017
venerdì 1 dicembre 2017
Franco Astengo: I dati del Censis
DATI DEL CENSIS : ALCUNE OSSERVAZIONI (a cura di Franco Astengo)
Per chi avrà la pazienza di leggere tutto.
Di seguito i punti pù significativi contenuti nel rapporto del CENSIS 2017. Di seguito dd ogni punto mi sono permesso alcune osservazioni di merito, senza sviluppare però un discorso complessivo di carattere generale che potrà essere eseguito soltanto con un maggior tempo di approfondimento a disposizione
L'Italia si risolleva: corre la produzione industriale, con performance che superano anche quella tedesca. E così nel Rapporto Censis 2017 tornano finalmente i consumi, cresciuti del 4% negli ultimi tre anni, e soprattutto il piacere di consumare: si spende di nuovo in cultura, parrucchieri, prodotti cosmetici e trattamenti di bellezza, pacchetti vacanze (il 10,2% in più nel biennio 2014-2016. "Torna il primato del benessere soggettivo": una svolta positiva, ma non del tutto. Si accentua sempre di più tra chi ha compiuto finalmente il balzo in avanti, liberandosi dalle strettoie della crisi, e una maggioranza rabbiosa che è rimasta indietro. "L'Italia dei rancori", la chiama il Censis: "Non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore".
Osservazione: il termine “Italia dei rancori” appare assolutamente sbagliato. Si dovrebbe scrivere di “Italia dello sfruttamento” (se la produzione industriale cresce e l’occupazione ristagna in quale altra maniera si può definire il fenomeno?) e “l’Italia del consumismo individualistico” (consumo naturalmente, come negli anni’50 riservato soltanto a determinate categorie sociali), il veleno che fu inoculato al tempo del regno del Bengodi (anni ’80) e della svolta reaganian – tachteriana. Nel frattempo è crollato lo stato sociale e settori come la sanità, la scuola, i trasporti (delegati ai livelli regionali) hanno subito inopinati assalti dalla privatizzazione selvaggia
Ascensore sociale sempre più fermo. Un dato preoccupante perché riguarda una parte enorme della popolazione italiana, che guarda con invidia un ascensore sociale irrimediabilmente rotto: l'87,3% degli appartenenti al cento popolare pensa che sia difficile risalire nella scala sociale, una posizione condivisa dall'87,3% del ceto medio e persino dal 71,4% del ceto benestante. Tutti invece pensano che sia estremamente facile scivolare in basso nella scala sociale, compreso il 62,1% dei più abbienti.
Osservazione: il dato più negativo che emerge da questo punto riguarda la crescita culturale di massa che aveva propiziato, a suo tempo, una maggiore mobilità sociale (oltre all’urbanizzazione dal Sud al Nord, al tempo delle grandi fabbriche). E’ scaduto il “valore dello studio” come fattore di crescita sociale ed anche individuale.
Record di immigrati con basso titolo di studio. E in quest'Italia sempre meno coesa, che si guarda in cagnesco, bloccata dalla paura di perdere quel poco o quel molto che ha, cresce un'immigrazione che si candida ogni giorno di più alla marginalizzazione. Nel nostro Paese arrivano gli immigrati più poveri e meno qualificati: a fronte di un dato medio degli extracomunitari con istruzione terziaria in Europa pari al 28,5% (ma con punte del 50,6% nel Regno Unito e del 58,5% in Irlanda), da noi ci si ferma al 14,7%. Nel 2016 su 52.056 nuovi permessi rilasciati dalla Ue a lavoratori qualificati, titolari di Carta blu e ricercatori, appena 1.288 erano per l'Italia, a fronte di 11.675 per i Paesi bassi.
Osservazione: questo dato è probabilmente il più negativo tra tutti quelli compresi nell’analisi del CENSIS, perché dimostra la scarsa capacità di attrazione da parte del nostro Paese rispetto alle professioni più qualificate. Del resto è logico essendo assenti possibilità di inserimento. La marginalità dell’Italia richiama specificatamente la marginalità della sua immigrazione. Inoltre da rimarcare la grandissima confusione nell’accoglienza, l’incapacità di riconoscere i vari tipi di migranti, l’accoglienza stessa lasciata a soggetti esclusivamente dediti a trarne profitto immediato, la “lagerizzazione” (da lager) dei migranti nei vari centri: migranti poi dati in pasto ai più diversi meccanismi di sfruttamento immediato.
Lavoro, scompaiono le figure intermedie. E siccome il lavoro in Italia si va sempre più "polarizzando", rileva il Censis, tra professioni intellettuali e impieghi non qualificati, è sempre più difficile attrarre immigrati perché si assottigliano posizioni mediane come quelle di operai, artigiani e impiegati. In cinque anni operai e artigiani diminuiscono anzi dell'11%, a fronte di una crescita dell'11,4% delle professioni intellettuali ma anche dell'11,9% delle professioni non qualificate. Vince la gig economy: nell'ultimo anno l'incremento di occupazione più rilevante riguarda gli addetti allo spostamento e alla consegna delle merci, più 11,4%. Mentre si assottigliano in maniera preoccupante i professionisti: 10 punti persi in meno di dieci anni per gli under 40.
Osservazione: questo dato riguarda direttamente la crisi dell’industria e l’assoluta sottovalutazione del fenomeno da parte delle istituzioni impegnate completamente su altri fronti dopo la sbornia di privatizzazioni dei decenni precedenti (privatizzazioni sul cui esito sarebbe bene riflettere, anche dal punto di vista della “questione morale”). Professionisti e artigiani rappresentano figure storicamente legate in prevalenza all’indotto industriale. Certo gli artigiani non possono crescere soltanto nella direzione di fabbricare souvenir per i turisti e nemmeno possono essere considerati artigiani i centurioni fuori dal Colosseo. Questo punto ne richiama un altro assolutamente drammatico: il deficit di innovazione tecnologica nei settori strategici nei quali è stato accumulato un gravissimo ritardo (eufemismo). Deficit di innovazione tecnologica che ha sottratto una presenza significativa nei settori strategici.
Crollo di iscritti ai sindacati confederali. La crisi del lavoro si traduce anche in una crisi dei sindacati tradizionali: tra il 2015 e il 2016 Cgil Cisl e Uil hanno subito una contrazione di 180 mila tessere. Su 11,8 milioni di iscritti alle tre sigle, 6,2 milioni sono costituiti da lavoratori attivi (+0,2%) e 5,2 milioni da pensionati (-3,9%). Secondo il Censis, si manifesta quindi "l'esigenza di una maggiore inclusione da parte dei soggetti di rappresentanza verso categorie e segmenti non tradizionalmente coperti dall'azione sindacale".
Osservazione: Acclarato che la diminuzione del lavoro fisso e la crescita del precariato hanno portato ad una diminuzione fisiologica negli iscritti al sindacato esiste una ragione ancor più significativa: lo spazio concesso alla contrattazione individuale, la disparità nel trattamento fra i diversi livelli, l’assoluta deficienza nel difendere le condizioni materiali di lavoro, il mancato riconoscimento di determinate nuove categorie di sfruttamento appaiono concause determinanti del fenomeno che non può essere racchiuso soltanto nella diminuzione del numero degli iscritti ma in una ben più rilevante perdita di peso sociali e politico complessivo in un quadro generale di caduta di ruoli dei corpi intermedi.
Pochi laureati, sempre più in fuga verso l'estero. Siamo penultimi in Europa per numero di laureati, con il 26,2% della popolazione di 30-34 anni, una situazione aggravata dalla forte spinta verso l'estero, che assorbe una buona quota di giovani qualificati. Infatti nel 2016 i trasferimenti dei cittadini italiani sono stati 114.512, triplicati rispetto al 2010. Quasi il 50% dei laureati italiani si dice pronto a trasferirsi all'estero anche perché, calcola il Censis, la retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea si aggira intorno a 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali ma arriva a 2.200 euro all'estero.
Osservazione: la condizione dell’università italiana è ormai ai minimi termini, la ricerca affidata quasi per intero ai giovani dottorandi non pagati. Sta tutta qui la chiave di questo stato di cose. Baronato, assenza di programmazione e di promozione dei quadri.
E sempre meno giovani. Gli over 64 intanto hanno superato i 13,5 milioni, il 22,3% della popolazione, mentre le previsioni annunciano oltre 3 milioni di anziani in più già nel 2032, quando saranno il 28,2% della popolazione complessiva. Si è ridotto anche l'apporto delle donne straniere, prezioso negli ultimi anni: nel 2010 il numero di nascite per le extracomunitarie era in media di 2,43, ma nel 2016 è sceso a 1,97, mentre per le italiane è di 1,26 figli per donna.
Buona parte delle donne extracomunitarie in Italia per ragioni di lavoro svolge l’attività di badante, categoria per la quale adesso sono entrate in competizione anche disoccupate italiane costringendo le straniere a rientrare. Dal punto di vista della fecondità è evidente che l’acquisizione di usi e costumi del paese ospitante, nel quale emerge sempre più un fenomeno definibile di “secolarizzazione”, riveste una notevole importanza.
Il Sud abbandonato. La polarizzazione non è solo tra chi gode dei benefici della ripresa, e chi è rimasto indietro, ma anche tra un Nord Italia e una capitale sempre più attrattivi e un Sud che offre sempre meno e che si sta letteralmente desertificando. Tra il 2012 e il 2017 nell'area romana gli abitanti del capoluogo sono aumentati del 9,9% e quelli dell'hinterland del 7,2%. A Milano l'incremento demografico è stato rispettivamente del 9% e del 4%, a Firenze del 7% e del 2,8%. Si spopolano invece le grandi città del Sud, a cominciare da Napoli, Palermo e Catania, dove affonda anche il Pil. Ma va male anche alle città intermedie come Torino, Genova e Bari.
Fenomeno atavico, mai risolto, affrontato – appunto – con l’emigrazione fin dagli anni’40 e con le “cattedrali nel deserto” e l’assistenzialismo. Mai con un piano generale di industrializzazione del Paese da realizzarsi attraverso un serio e concreto intervento pubblico.
Nel vuoto di aspirazioni resiste il mito del "posto fisso". Attento da sempre all'"immaginario collettivo", inteso come "l'insieme di valori e simboli in grado di plasmare le aspirazioni individuale e i percorsi esistenziali di ciascuno", punto di partenza indispensabile per "definire un'agenda sociale condivisa", il Censis trova che ormai i vecchi miti appaiano stinti, ma i nuovi siano privi di forza aggregatrice. Infatti per gli under 30 al primo posto ci sono i social network. Per la media degli italiani resiste invece un mito vecchissimo, davvero duro a morire nonostante i colpi bassi delle leggi Fornero e del Jobs Act: il posto fisso, al primo posto per il 38,5%. E a sopresa, il posto fisso si piazza al secondo posto anche per la fascia più giovani, anche se è quasi a pari merito con lo smartphone.
Ci mancherebbe altro che in resistesse quel mito! Rispetto alle ubbie avventuriste seminate nel tempo da una propaganda stupida, della quale il “renzismo” (sogno, speranza) ha rappresentato il conclusivo epigono.
In sostanza nel complesso occorre tornare dal privato al pubblico, dall’individuale al collettivo, ritrovando il senso dell’uguaglianza e della solidarietà sociale oltre al concetto di programmazione e di intervento pubblico in economia, nei settori strategici dell’industria e delle infrastrutture, oltre ad un grande sforzo di carattere culturale.
Andrea Ermano: Il bollino rosso
Dall'Avvenire dei lavoratori
Il bollino rosso
Nei prossimi mesi il bollino rosso che esorta gli esponenti della sinistra italiana ad allearsi ("Basta scemenze!") accompagnerà
gli articoli dedicati alla situazione politica nel nostro paese.
di Andrea Ermano
Ognun sia libero di tifare per chi gli pare, per Corbyn o Macron, per Bersani o Renzi, per Camusso o Barbagallo, e noi propendiamo per i primi che ho detto, ma il rosso Corbyn è rimasto nel Labour anche quando alla guida c'era un leader rosatello. Non ci si poteva attendere da Bersani la stessa britannica virtù? Può darsi di no, ma adesso perché regalare seggi a chi tifa per Trump, Putin o Le Pen?
A destra si fregano le mani dalla contentezza nel constatare che la sinistra a sinistra del PD è disposta a tutto o quasi pur di rottamare il Rottamatore, che certo ha le sue gravi responsabilità (e noi, da queste colonne, certo non gliele abbiamo mandate a dire).
Però, l'Italia non può entrare in un marasma di comiche populiste, di buone intenzioni, di approssimazioni e d'improvvisazioni. È troppo pericoloso. E il popolo italiano lo sa. Il M5S è stato saggiato in numerose elezioni comunali. Verrà sconfitto. E poi aperto come una scatola di tonno.
Il problema, dunque, non sono nemmeno i grillini, ma la spaccatura a sinistra tra filo-grillini e anti-grillini. Se andiamo avanti così, a colpi di sociologismi bersanian-dalemiani, la gente riaccrediterà Forza Italia. Che nei sondaggi già supera la Lega. Dopodiché Berlusconi non potrà tornare alla guida di Palazzo Chigi. Glielo impedisce l'età, oltre che la situazione giudiziaria. Ma ancor di più glielo impediscono i mercati, perché nessun grande fondo d'investimento potrebbe accollarsi a cuor leggero le miliardate di bond italiani, necessarie a reggere il nostro debito pubblico, se alla guida del Paese tornasse il campione olimpionico di barzellette bunga bunga.
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La spaccatura a sinistra tra filo-grillini e anti-grillini offre uno spettacolo di rara subalternità. E spalanca un'autostrada al Cav. Non può riconquistare la premiership, dicevamo, ma può riprendersi la maggioranza in Parlamento e stabilire il punto di equilibrio del prossimo governo. Le cancellerie europee non osteggeranno una coalizione di centro-destra in Italia se l'unica alternativa fosse il sansepolcrismo a cinque stelle.
Noi preferiamo decisamente un punto di equilibrio tra Renzi e Bersani e Pisapia e Bonino e Grasso e Boldrini. O no?
E sbaglia della grossa chi pensa che il popolo della sinistra non tornerà alle urne finché tutti i ponti non saranno distrutti. Magari fossero queste le ragioni del rigetto antipolitico. Basterebbe epurare il re buffo di turno, come in un rito carnascialesco. Ma non funziona così.
I leader delle varie formazioni di centro-sinistra devono in fondo solo accordarsi sulle candidature uninominali, che comunque senza un'alleanza resterebbero per lo più fuori dalla loro portata. Per il resto formino pure ciascuno la propria lista con il proprio programma, se ne hanno uno. Il popolo di sinistra apprezzerà lo sforzo.
giovedì 30 novembre 2017
Franco Astengo: Gramsci e Matteotti
UNA PROPOSTA DA FELICE BESOSTRI:
GRAMSCI, MATTEOTTI, L’ATTUALITA’ DELLA LOTTA AL FASCISMO, LA MIGLIORE TRADIZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA di Franco Astengo
Scrive Felice Besostri:
“Ho in mente un convegno da organizzare a Livorno alla fine gennaio 2018:
Livorno 1921 aveva ragione Turati o Bordiga? Hanno avuto ragione, a prezzo della loro vita, Matteotti e Gramsci. Raccogliere la loro eredità spirituale e valoriale portandola a sintesi è l'unico modo per far rinascere una sinistra in Italia. Quando si comincerà a capire che il pluralismo è una ricchezza per avere una nuova società di liberi ed eguali?”
Riprendo immediatamente rilanciandola la proposta del compagno Besostri.
Non basterà un convegno, sarà necessario mettere in moto un processo di effettivo confronto e aggregazione con l’obiettivo di ricostruire una presenza politica nel segno della migliore tradizione della sinistra italiana, superando di slancio la frenesia dell’opportunismo elettorali sta che i generali di tutte le sconfitte stanno mettendo in mostra proprio in questi giorni.
Il punto centrale di questa iniziativa dovrà essere rappresentato dalla rinnovata attualità della lotta contro il fascismo: un fascismo proteiforme quello che si sta presentando pericolosamente sulla scena ma che sempre più sta assumendo le vecchie vestigia dello squadrismo sopraffattore, ma non soltanto beninteso nella dimensione dei nazi – skin o di Casa Pound o di Forza Nuova, che pure non vanno sottovalutati perché rappresentano un pericolo reale.
Il neo – fascismo da combattere è quello che paga i libici per fermare con le armi i migranti; è quello che attenta alla Costituzione Repubblicana nonostante il voto del 4 dicembre; che intensifica lo sfruttamento del lavoro; che annulla lo stato sociale rilanciando proprio miti perduti dell’antico ventennio.
E’ il fascismo di un regime che si sta consolidando e che attraverso una legge elettorale votata ancora una volta al di fuori dai termini costituzionali si appresta a far svolgere una pericolosa funzione di “coalizione dominante” ai soggetti politici strettamente legati tra loro da interessi economici e di pura sopravvivenza di un ceto.
Gramsci e Matteotti scrive, dunque, Felice Besostri.
Cerco di indicare a questo punto perché, a mio giudizio, Gramsci e Matteotti:
“Gramsci in un’analisi molto approfondita perché delineata in una prospettiva storica molto ampia (cfr. “Le origini del fascismo” V edizione Editori Riuniti 1971) rintracciava le radici della reazione in questo modo : “il terrorismo vuol passare dal campo privato a quello pubblico, non si accontenta dell’immunità concessagli dallo Stato. Vuole diventare lo Stato. La reazione è diventata forte al punto che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale ma intende servirsi di tutti i mezzi dello Stato”.
Così stando le cose si comprende come si dovesse proprio a Giolitti la decisione di quelle elezioni anticipate del 1921 nell’occasione delle quali si realizzò quell’alleanza tra liberali e fascisti che doveva aprire a Mussolini e ai suoi (35 eletti) non solo e non tanto le porte del Parlamento, quanto soprattutto la collaborazione attiva e passiva sempre più accentuata da parte dei più importanti esponenti di tutti i gangli dell’alta burocrazia statale (esercito, polizia, magistratura, prefetti) e della vecchia classe dirigente che le elezioni del 1919, svoltesi con la formula proporzionale, avevano spodestato dalla tradizionale posizione egemonica.
Se già nel gennaio del 1921 (tre anni prima del suo ultimo fatale discorso) Matteotti poteva denunciare, in un suo intervento alla Camera, una così impressionante serie di sopraffazioni e di violenze fasciste perpetrate con la connivenza degli organi che avrebbero dovuto essere preposti all’ordine pubblico, tanto più ciò doveva avvenire dopo che lo stesso presidente del consiglio Giolitti e con lui l’intero governo, avevano dato il segno dell’orientamento politico filofascista attraverso quell’alleanza elettorale.
Da allora lo squadrismo fascista non trovò più ostacolo consistente da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”; da allora i capi del liberalismo e della democrazia “statutaria” non ebbero più né la forza né l’intenzione di opporre al fascismo una resistenza valida ed efficace.
Di fatto, attraverso tali complicità e appoggi la via del potere fu aperta al fascismo, mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava, esaurita la spinta rivoluzionaria, una difesa disperata.
Le ragioni di tali complicità e appoggi risiedevano proprio nei motivi di classe che erano alla base della lotta tra fascisti e socialisti e che non sfuggivano fin dal 1920 – 21 né a Gramsci né a Matteotti.
E’ questo un punto fermo nella storia del fascismo e dell’antifascismo che non bisogna perdere di vista, perché costituisce ancor oggi una bussola di orientamento non soltanto sul piano storico.
Queste le parole di Matteotti ben prima della Marcia su Roma “ La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esca dalla legalità e si arma contro il proletariato”.
Gramsci,a quel punto, poteva a buon diritto sostenere che “solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione in seguito alle gravi sanguinanti ferite prodotte dalla guerra nel suo patrimonio umano e nel suo potenziale economico” e Togliatti poteva sottolineare gli “sviluppi inesorabili del fascismo mettendo in rilievo che solo il proletariato avrebbe avuto la volontà di condurre la lotta. In quella fase, precedente alla Marcia su Roma, emergono così le contraddizioni e le debolezze della parte liberale e democratica “statutaria” che risaltano anche nelle prese di posizioni di suoi esponenti antifascisti come Missiroli.” (da un mio testo “Antifascismo e marcia su Roma del 28 ottobre 2017)
In comune, essenzialmente, Gramsci e Matteotti in quel decisivo frangente storico ebbero la grande, inascoltata, intuizione della capacità della reazione di farsi egemone.
La stessa intuizione e capacità politica di cui abbiamo bisogno oggi a livello di base teorica per sviluppare una proposta complessiva di progetto, programma, organizzazione: di vera e propria ricostruzione politica della sinistra italiana, pur nelle sue differenti e articolate espressioni.
Senza mediazioni preventive, ma ricercando – come si sta cercando di fare –i tratti concreti dell’intreccio comune. Come risposta possibile , che ancora non si è avuta, a quei larghi settori sociali che il 4 dicembre 2016 respinsero la proposta di deformazione costituzionale in nome dell’affermazione, invece, della democrazia costituzionale.
In questo senso, a mio avviso, va ripresa, discussa, portata avanti la proposta avanzata dal compagno Felice Besostri.
mercoledì 29 novembre 2017
martedì 28 novembre 2017
lunedì 27 novembre 2017
Franco Astengo: Astensionismo
ASTENSIONISMO: UNA SCELTA POLITICA di Franco Astengo
Dopo decenni nel corso dei quali opinionisti e politologi avevano snobbato il fenomeno, definendolo al massimo come “fattore fisiologico di allineamento al funzionamento delle democrazie occidentali” adesso tutti, all’improvviso, scoprono l’astensionismo come fattore determinante negli equilibri politici.
In questo senso si nota un’operazione ardita di analisi politica compiuta da Ernesto Galli della Loggia sulle colonne del Corriere della Sera nell’editoriale apparso il 26 Novembre.
In quel testo, infatti, si cerca di assommare la percentuale di voti prevista dai sondaggi per il M5S (circa il 30%) a una quota di “non voto” (astenuti, bianche, nulle) calcolata al 28%, affermando che questo 58% dell’elettorato sarebbe, in sostanza, accomunato dall’idea di quella che è stata definita “antipolitica” (in realtà nel corso dell’articolo Galli della Loggia si sofferma parecchio sulla presunta “eversività” del voto rivolto al M5S.)
Insomma, ci si comincia ad occupare dell’astensionismo ma la sommatoria con il voto del M5S appare del tutto arbitraria così come sembra del tutto forzata l’assegnazione del fenomeno della diserzione dal voto alla categoria dell’antipolitica.
Prima di tutto emerge una questione di quantificazione e le previsioni ampliano l’area dell’astensionismo rispetto a quanto indicato da Galli della Loggia.
Un’astensione, in varie forme (non partecipazione al voto, scheda bianca, annullamento della scheda) che assommerebbe, infatti, quasi al 40% dell’elettorato: più o meno 18 milioni di elettrici ed elettori.
Una disaffezione in crescita verticale, se si pensa che l’Italia è sempre stata all’avanguardia nella partecipazione al voto: tra il 1948 e il 1987 le elezioni politiche fecero registrare percentuali superiori al 90%, con un calo (molto contenuto, in verità rispetto alle percentuali odierne) nelle occasioni riguardanti il Parlamento Europeo.
Dopo aver resistito su quote raccolte attorno ancora al 75% con punte dell’80% nel corso del primo decennio del nuovo secolo, a partire dalle europee 2014 si è registrata una brusca discesa nella partecipazione al voto e nelle ultime occasioni riguardanti elezioni amministrati e regionali si è fatto grande fatica a superiore il 50% (con il record negativo delle elezioni regionali dell’Emilia Romagna al 37%).
Unica eccezione in controtendenza quella del referendum del 4 dicembre 2016 sulle deformazioni costituzionali proposte dal governo Renzi: si tornò nell’occasione a quote attorno al 70% e il 60% dei voti validi espressero un secco NO.
Un risultato che non ha scosso però la tendenza complessiva all’autoconservazione autoritaria del regime di governo, tanto è vero che ci troviamo di fronte (per la terza volta in dodici anni) a una legge elettorale che presenta evidenti profili di incostituzionalità (liste bloccate, violazione del concetto di voto personale) quale testimonianza di un disprezzo complessivo della volontà di elettrici ed elettori che si erano pronunciati con chiarezza per un ripristino della centralità del Parlamento: concetto ancora una volta ignorato.
Un serio ragionamento sul tema dell’astensionismo ci dice, prima di tutto, che va rifiutata la tesi semplicistica, sostenuta anche da autorevoli politologi dell’allineamento al “trend” delle grandi democrazie occidentali: quando si arriva al punto che il partito del “non voto” appare essere in grado di costituire la maggioranza relativa significa che la democrazia attraverso un periodo di difficoltà vera.
In queste condizioni appare singolare che le principali analisi sulle prospettive di voto apparse sui principali quotidiani non prendano in considerazione il fenomeno dell’astensionismo, limitandosi a registrare le percentuali delle liste in competizione, tralasciando le valutazioni, che pure sarebbero necessarie, sulla realtà sociale, economica, culturale di questo dilagante fenomeno.
Soprattutto, ed è questa la tesi che s’intende sostenere in quest’occasione, l’astensionismo deve essere considerato come una vera e propria “scelta politica” per milioni di elettrici ed elettori, e tale deve essere considerata senza che alcuno possa essere autorizzato ad annetterselo: come aveva tentato, invece, i radicali negli anni’80 e ’90 quando presentavano la lista e, contemporaneamente (e paradossalmente) invitavano alla crescita del “non voto” per cercare, nel dopo elezioni, di considerarne la crescita come un loro esclusivo successo.
In realtà l’analisi del “ non voto” ha cambiato di segno nel corso degli ultimi anni.
Nel “caso italiano” quest’analisi è da sviluppare collegandosi a quella della trasformazione del sistema dei partiti, con il passaggio dal partito di massa a quello “pigliatutti”, poi a quello “elettorale personale” se non, addirittura, al partito –azienda, fino ai casi più direttamente riconducibili a un’esasperata personalizzazione della politica. Personalizzazione arrivata al punto di inserire il nome del leader nello stesso simbolo elettorale.
In questo modo è avvenuta una sorta di “scongelamento” nel rapporto diretto tra i partiti e le fratture sociali individuate, a suo tempo, da Lipset e Rokkan, con un indebolimento della fedeltà ai partiti e una crescita della cosiddetta “volatilità elettorale” al punto che, in questa modificazione di rapporto con la partecipazione elettorale, settori importanti di “elettorato razionale” hanno accusato un vuoto di rappresentanza che ha condotto, alla fine, alla diserzione del voto.
Un “elettorato razionale” che era stato, in passato, portato a scegliere soltanto in relazione alla possibilità di massimizzazione dei propri desideri (non solo materiali, ma anche ideali e culturali) quindi esprimendo un voto che teneva assieme il senso d’appartenenza e l’opinione specifica.
I fattori in campo, dunque, nella costruzione di questo processo di crescita dell’astensionismo appaiono essere almeno tre:
1) Quello derivante dall’analisi della vecchia scuola statunitense dell’astensione come sorta di volontà d’espressione di un mantenimento dello “status quo” (le cose vanno bene così, perché dovrei disturbarmi per andare a votare?);
2) L’altro, di origine più recente e più propriamente europea, dell’espressione inversa a quella precedente di una protesta indiscriminata rivolta al “sistema”. Una protesta che oltrepassa, nell’insoddisfazione, il pur rutilante populismo imperante in tutta Europa e che trova sue significative espressioni in Italia, sia al governo, sia all’opposizione;
3) L’ultimo fattore, derivante dallo specifico della situazione italiana, dell’assenza di rappresentatività politica sul piano complessivo da parte di soggetti tendenti a un’interpretazione complessiva dei fenomeni politici e sociali anche in forma ideale e di proposta di mediazione politica. Fattore determinante per quell’“elettorato razionale” che non trova più soggetti organizzati capaci di esprimere interesse generale e, di conseguenza, abbandona l’idea di sentirsi rappresentato da un sistema composto di elementi troppo distanti dalla propria visione della politica. E’ la sinistra, proprio per fornire una valutazione più ravvicinata del fenomeno e a soffrirne maggiormente in ragione di una assenza di “identità” che – appunto – per i soggetti della “gauche” aveva rappresentato un elemento decisivo per l’appartenenza politica e per la conseguente espressione di voto.
Mancano all’appello insomma una buona quota di quello che in passato era stato indicato come “ voto di appartenenza” e anche una fetta importante del voto d’opinione.
Così come non è possibile sommare l’astensione con il voto del M5S per stabilire l’ampiezza dell’area dell’antipolitica, neppure si può pensare di raccogliere nuovamente consensi nella disaffezione soltanto pretendendo di interpretare semplicisticamente attraverso slogan le espressioni più facili dell’insoddisfazione dei bisogni di massa.
Sottolineando ancora come nessuno possa pretendere (al di là dei facili propagandismi) di proporsi come “argine” alla crescita della disaffezione politica ed elettorale, essendo ormai questa un fenomeno assolutamente strutturato al sistema.
Neppure colmerà il vuoto l’ossessivo uso dei social network e, più in generale, del web come si prevede per la prossima campagna elettorale: si tratta, infatti, di strumenti dedicati agli ultrà, ai già super convinti, ai tifosi che li useranno per insultarsi e screditare i diversi candidati avversari, non di più.
La complessità sociale richiede l’elaborazione di una articolazione di ideazione politica riservata insieme al progetto come al programma.
Un discorso quello sull’astensionismo e la cosiddetta antipolitica da riprendere in profondità anche da parte di quanti pensano di cimentarsi in chiave coerentemente alternativa con l’arena elettorale: fondamentale sarebbe recuperare in pieno l’identità costituzionale come base di principio per una presenza istituzionale efficacemente collegata con il quadro attivo di lotte sociali.
domenica 26 novembre 2017
sabato 25 novembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
mercoledì 22 novembre 2017
Franco Astengo: Finanza globale, stato nazionale, dimensione di classe
FINANZA GLOBALE, STATO NAZIONE, DIMENSIONE DI CLASSE di Franco Astengo
“Le sinistre non hanno ancora capito che il capitalismo industriale che permetteva reti sociali, assistenziali e che dava , attraverso il confronto sindacale e politico, delle sicurezze anche alle classi sociali più deboli è finito.
Il capitalismo finanziario globalizzato, che ha inglobato sovrastandolo quello industriale, ha rotto questo equilibrio e la sinistra non ha ancora capito quali strumenti di analisi utilizzare, che dovranno considerare un campo più ampio di quello nazionale, per trovare risposte politiche ispirate ad un riformismo radicale ma praticabile nella continuità del confronto democratico.
Se non si capisce per esempio che migrazione, disoccupazione giovanile e disparità di condizioni di impiego nel mondo produttivo delle donne, sono le due facce della stessa medaglia sarà impossibile dare risposte credibili e tangibili nel tempo breve a tutte quelle fasce di popolazione oggi escluse, espulse o sottoutilizzate.
Anche la sinistra, come la finanza, deve globalizzarsi e ritenere i confini nazionali e le politiche da fare in ciascun paese un tassello di un unico mosaico. Sarà dura ma ce la possiamo fare”
Traggo queste argomentazioni da un post di Paolo De Zen inviato alla mailing list del Circolo Rosselli di Milano.
Un testo che prendo per esempio di sintetizzazione da parte di quanti ritengono la sinistra ormai in ritardo nella “modernità” e propongono un nuovo riformismo “globalizzato”.
Personalmente ritengo analisi di questo tipo assolutamente arretrate rispetto allo stato di cose presenti proprio perché siamo di fronte a fenomeni di arretramento nel processo di globalizzazione (anche dal punto di vista finanziario) che possono sfociare in due diversi modi: quello dell’emergere delle “piccole patrie” o quello del rilancio dello “Stato –Nazione”.
In ogni caso, come dimostrano sia l’evidenziarsi di nuovi equilibri economici e militari tra le grandi Potenze, sia il fallimento di progetti sovranazionali (come l’Unione Europea o i grandi trattati commerciali), è necessario pensare ad una vera e propria riattrezzatura teorica e politica della sinistra in modo da recuperare prima di tutto la dimensione del terreno concreto nel quale svolgere la propria funzione primaria di riferimento politico rivolto alla lotta sociale.
Riprendo il tema partendo dalle valutazioni che, a metà degli anni ’90 , Arjun Appadurai esprimeva nel suo “Modernità e Polvere” predicendo la fine dello Stato Nazionale.
In quel testo era ipotizzato appunto il tramonto dello Stato Nazionale, considerato ormai come un’istituzione al limite repressiva nei riguardi dello sviluppo dei fenomeni d’innovazione nell’utilizzo dei mass media e dei flussi migratori.
Oggi ci troviamo a una revisione radicale di quel concetto, nell’espressione di un convincimento opposto : “Lo stato nazionale rimarrà in piedi, ma sarà circondato da altre forme di sovranità alcune transnazionali altre locali (in questo senso l’autore fa gli esempi dei curdi, palestinesi, Tibet, Kashmir, Catalogna, Hong Kong e di molte zone dell’Africa”.). Dal punto di vista dell’Europa oggi si potrebbe aggiungere il caso della Catalogna.
Il fenomeno della globalizzazione assumerà forme diverse rispetto al passato , anche se non si potrà parlare direttamente di de-globalizzazione (almeno nei termini che il fenomeno ha assunto dal almeno due decenni a questa parte) : “Le forme del fenomeno saranno sempre più locali, peculiari ed eterogenee, perché nessun Paese o gruppi di nazione sarà capace di imporre i suoi valori agli altri”.
Il rapporto che viene analizzato è quello tra lo Stato, sempre più in difficoltà a controllare la propria economia che cerca rilegittimazione attraverso la lingua, l’identità, il dominio della diversità culturale.
Paura, frustrazione, disperazione sono alla base di questa mobilitazione dello Stato, di fronte a quella che ormai si può definire come “banalità del terrore”.
L’Europa impostata su di una logica strettamente monetarista è ancora in una situazione di deficit (che appare a prima vista incolmabile) sui rispettivi piani nazionali e subisce, forse più di altre parti del mondo, l’impatto di questo stato di cose e si trova di fronte alla contesa tra identità e globalismo.
Intanto, mentre si verificano questi imponenti spostamenti di capitale, la condizione materiale dei lavoratori peggiora e la situazione economica complessiva dell’Unione Europea appare in una situazione di arretramento complessivo sicuramente non certificata dalle percentuali di crescita o di decrescita del PIL dei rispettivi Paesi
L’Italia si trova in una situazione d’incapacità di difesa del proprio residuo patrimonio economico soprattutto perché si trova di fronte ad uno specifico intreccio perverso tra politica ed economia che finisce con il paralizzare scelte di fondo che sarebbero necessarie, soprattutto dal punto di vista dell’intervento del pubblico sia sul piano degli investimenti che della gestione in un quadro complessivo d’insufficienza grave anche dal punto di vista della realtà finanziaria(pensiamo alle difficoltà del sistema bancario, stretto anche dalla “questione morale”) e delle infrastrutture.
Un tempo si discuteva sulla natura del capitalismo italiano dividendoci, a sinistra, tra chi lo considerava un “capitalismo straccione” e chi invece lo riteneva capace di una “forte innovazione” al riguardo della quale andava presentato un progetto di alternativa radicale e complessiva.
Erano tempi però nei quali le prospettive di sviluppo erano ben diverse da quelle di adesso e soprattutto era molto diverso il sistema politico.
Lo squassamento del sistema politico che stiamo verificando ai nostri oggi, la sua assoluta subalternità alle istanze più bieche della finanziarizzazione a livello europeo e mondiale, la stessa natura “speculativa” dell’agire politico e dell’autoreferenzialità dei suoi esponenti reclamerebbero un’immediata inversione di tendenza di cui non s’intravvedono le linee di prospettiva e i soggetti portanti.
L’Italia vive un deficit forte di qualità democratica che si riflette pesantemente anche sul piano dei rapporti internazionali a tutti i livelli, tralasciando anche per ragioni di economia del discorso l’analisi sui dati di instabilità del quadro internazionali dovuti al riemergere di tensioni belliche di carattere bipolare e della vera e propria esplosione in corso nell’area che va dall’Afghanistan al Nord Africa e nel cuore dell’Africa stessa: laddove la ripresa della politica coloniale e la lotta per l’egemonia in campo energetico stanno producendo danni gravissimi all’economia mondiale facendo crescere anche mostri nati e alimentati dallo stesso Occidente, in particolare nel periodo in cui gli USA hanno esercitato le funzioni di “potenza globale”.
L’establishment USA pare aver compreso appieno queste importanti novità nelle dinamiche del ciclo e stanno approntando una campagna elettorale comunque ripiegata su logiche nazionali e sub-continentali, mentre crescono ambizioni imperiali da parte della Russia ed emerge una crisi profonda di quelle che erano considerate potenze emergenti oggi ripiegate in una dimensione di tipo meramente economicista.
Svaniscono così le ambizioni globaliste e, di conseguenza, la stessa dimensione d’opposizione al fenomeno che per i primi 10 anni del secolo era apparso inarrestabile: commentatori autorevoli fanno presente che, all’interno dei democratici USA, sarà difficile per Sanders tenere tutto assieme con la “vecchia colla no – global” dopo aver offerto l’illusione di una svolta e aver ripiegato alla fine sul consueto opportunismo governista.
L’Europa appare così abbandonata alla deriva, ed è questo il limite vero dell’operazione UE prima ancora dell’asservimento monetarista.
Un quadro di declino complessivo del pensiero e dell’agire politico al riguardo del quale la sinistra non appare in grado di proporre un’alternativa, neppure nella più debole accezione riformista.
Il messaggio conclusivo è di pessimismo, essendo anche assente la capacità di esprimere una rappresentanza adeguata dei ceti sociali più deboli, dell’impostare una battaglia di fondo contro la crescita delle diseguaglianze, di collegamento a livello internazionale proprio sui temi della politica industriale, del ruolo del movimento dei lavoratori, dell’essenza stessa di ripensare il rapporto tra politica ed economia.
La sinistra è chiamata a ripensare definitivamente se stessa partendo da alcune considerazioni di fondo: esiste un punto di evidente crisi del sistema deve essere rimarcato con forza.
Fin qui il liberismo, accettato da tutti, aveva garantito una capacità unificante attraverso lo sviluppo, comunque, delle forze produttive. Il fenomeno di quella che abbiamo definito, fin dalle soglie del millennio, come “globalizzazione” e la richiesta di cessione di sovranità dello “stato nazionale” con la crescita trasversale del potere delle multinazionali, non realizza più questo elemento, neanche attraverso, come abbiamo potuto osservare nei tempi più recenti, rilanciando pesantemente l'industria bellica.
L'incertezza nel controllo dell'uso delle risorse naturali e la difficoltà nel controllo totale dello sviluppo tecnico – scientifico oltre ad una lunga fase di dominio delle “lobby” tecno-teocratiche al vertice della superpotenza, stanno portando il sistema a un rischio concreto, di implosione.
La sinistra in Italia e altrove può così disporre di nuove ragioni fondative per ricostruire, in questo difficile frangente, una propria capacità prefiguratrice fornendo, attraverso l'identità e l'autonomia della propria struttura politica, forma, coscienza, realtà sociale, analisi delle contraddizioni.
Questo è vero perché il carattere di classe, il meccanismo dello sfruttamento, non solo perdura ma giunge, alfine, nella loro pienezza esprimendosi in forme nuove, come stiamo costatando proprio attraverso l’analisi degli episodi fin qui descritti.
Un insieme di questioni quelle appena elencate che necessitano di un’analisi adeguata perché da essa dipenda il livello di costruzione di quegli assetti politico – istituzionali, soprattutto sul piano della dimensione geo – politica, decisivi al fine di affrontare il quadro complesso di contraddizioni materialiste e post – materialiste in atto a partire dal tema della guerra, dei rapporti interstatali e sovranazionali dai quali discendono problematiche come quelle delle migrazioni e del terrorismo ma anche dell’antropizzazione del territorio, del consumo del suolo, dell’utilizzo delle risorse fondamentali da quelle energetiche all’acqua, al conflitto di genere, ai temi della convivenza civile e della “diversità”.
L’assenza di una di futuro fa scivolare l’essenza del tempo dentro la logica dello “scontro di civiltà” che a parole tutti rifiutano ma che appare la sola salvaguardia per i dominatori di mantenere la loro posizione di predominio sotto qualsiasi latitudine, ponendosi al riparo sotto la protezione di bandiere inventate, fasulle, simboli mistificanti della realtà.
Il recupero di una visione critica dei processi in atto, prima di tutto sul piano culturale, opportunamente spostata nella rielaborazione progettuale in una dimensione seriamente sovranazionale, potrebbe rappresentare un primo passo per una ripresa di funzione e di ruolo per una nuova sinistra posta all’altezza delle contraddizioni dell’oggi comprendendo come risulti decisiva l’elaborazione di un compiuto progetto sub- culturale che fornisce un’identità alla proposta di utilizzo coerente delle novità scientifiche e tecnologiche, in una dimensione d’interscambio egualitario non asservito a un indistinto dominio del globalismo conservatore.
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