Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
mercoledì 30 novembre 2016
Franco Astengo: Claudio Pavone
IN RICORDO DI CLAUDIO PAVONE di Franco Astengo
La scomparsa dolorosa di Claudio Pavone, partigiano e storico, merita un attimo di riflessione attorno alla sua opera fondamentale di ricostruzione del senso storico e politico della Resistenza e del processo di costruzione della Repubblica.
Claudio Pavone ha saputo interpretare nelle sue opere la parte più drammatica e significativa del ‘900 italiano con eleganza letteraria e profondità di analisi.
Per quanti intendono perpetuare la memoria dei fatti accaduti in quel frangente storico considerando quella memoria il fattore decisivo di un’identità da mantenere e proseguire non solo sul piano storico, le opere di Pavone sono risultate del tutto decisive.
In particolare risulta fondamentale il suo “Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della Resistenza” edito da Bollati Boringhieri nel 1991.
Un testo nel quale analizzò i tre livelli del conflitto che scosse il nostro Paese negli anni di ferro e di fuoco tra il 1943 e il 1945: quello civile, quello patriottico e quello di classe.
Si trattò di una grande novità sul piano della teorizzazione, mai tentata in precedenza, cercando di significare l’intreccio tra le tre grandi questioni avvenuto nell’operatività della lotta e, insieme, nella difficile possibilità di riflessione nella coscienza dei protagonisti.
Pavone era capace di non banalizzare i fatti attraverso una visione univoca e totalizzante, ma di cogliere la complessità di una tragedia che fu, insieme, del mostrarsi collettiva e soggettivamente umana.
Di grande importanza (e meno ricordato) nell’opera di Pavone il saggio “Alle origini della Repubblica” (anch’esso edito da Bollati Boringhieri) il cui contenuto assume, proprio in questo momento nel quale siamo chiamati a difendere la Costituzione quale baluardo della democrazia repubblicana,l’idea decisiva che attraverso i programmi della resistenza e l'azione dei Comitati di liberazione nazionale si giunse al nuovo assetto costituzionale.
Un’interpretazione efficace e realistica del motto tante volte citato sulla “Costituzione nata dalla Resistenza”.
Altrettanto importante la concezione della politica che Pavone esprime nel suo saggio sulla guerra civile.
Per concludere allora si riporta di seguito l’incipit del capitolo 8 “La politica e l’attesa del futuro” contenuto proprio nel testo “Una guerra civile 1943 – 45, saggio sulla moralità della Resistenza”.
“La politica e la morale”
Il legame con i partiti e con la loro coalizione nei CLN non esaurisce il rapporto dei resistenti con la politica.
La Resistenza è stata infatti uno di quei momenti in cui la politica si presenta come impegno tendenzialmente totalizzante, non nel senso che tutto sia visto, nella sostanza come politico, ma in quello che molte esigenze importanti aspirano, nell’ansia di realizzarsi, ad assumere una forma politica e insieme con andare oltre in nome del significato profondo che viene attribuito ad un futuro intensamente desiderato.
Quest’atteggiamento, cui non mancarono resistenze, trascinava con sé molte ambiguità; ma era l’opposto, per usare termini del dibattito attuale, sia dalla “autonomia del politico” sia dallo “scambio politico”.
L’agire politico non veniva infatti collocato in una sfera separata, né veniva messo soltanto sul conto dei costi e dei sacrifici, ma già su quello attivo dei benefici.
Nella Resistenza il rapporto fra la politica, intesa come scelta di fini e di valori e dei mezzi per praticarli, e la morale fu dunque centrale, perché l’ampliamento del campo da investire con il giudizio morale non poteva non coinvolgere in primo luogo la politica.
Un partigiano reduce dai Lager ricorda con gratitudine un compagno perché “era un uomo che senza parlare ti insegnava l’abc della vita. Quello si chiamava “fare politica”
martedì 29 novembre 2016
sabato 26 novembre 2016
venerdì 25 novembre 2016
giovedì 24 novembre 2016
Appello degli avvocati milanesi. Un no argomentato
APPELLO DEGLI AVVOCATI MILANESI
UN "NO" ARGOMENTATO
Ricordiamo che le Costituzioni sono quelle regole che i popoli
si danno quando sono sobri per quando saranno ubriachi.
Il prossimo referendum sulla revisione costituzionale riguarda una materia tecnicamente assai complessa, sia per l’eterogeneità e l’ampiezza delle modifiche intervenute, sia per la difficoltà di cogliere tutte le implicazioni che ne potranno derivare.
Come avvocati sentiamo il dovere di esprimerci, mettendo le nostre competenze giuridiche e la nostra esperienza professionale a disposizione dei cittadini per aiutarli a compiere una scelta consapevole.
L'avv. Luciano Belli Paci, co-iniziatore dell'Appello
Anzitutto occorre osservare che la scelta di adottare una così vasta revisione costituzionale e una nuova legge elettorale con la sola forza contingente della maggioranza di governo (peraltro artificiosa) costituisce un grave limite genetico perché lascia presagire che, nel prossimo futuro, a ogni cambio di equilibrio politico potrà corrispondere una nuova modifica della Carta fondamentale e una nuova legge elettorale su misura dei vincitori. Una simile spirale di riforme e controriforme farebbe venire meno la concezione della materia istituzionale come terreno di valori condivisi, minando le basi della nostra convivenza democratica.
In secondo luogo, balza agli occhi dell’interprete la pessima qualità redazionale dell’intervento di revisione, che introduce nella nostra Carta fondamentale norme farraginose, illeggibili per il cittadino medio, spesso contraddittorie o ambivalenti; insomma, la forma – che in questa materia è anche sostanza – appare lontanissima da quella tipica delle norme costituzionali, che dovrebbero essere il più possibile cristalline, sobrie e accessibili a chiunque. Lo stile involuto e l’obiettiva oscurità di non poche disposizioni raggiunge livelli tali da legittimare il dubbio che non si tratti (solo) di limiti qualitativi, bensì di un’ambiguità intenzionale per lasciare aperte diverse opzioni applicative e interpretative a seconda degli equilibri politici che si potranno determinare in futuro.
Il principale elemento che rischia di privare l’opinione pubblica di una piena consapevolezza degli effettivi esiti che la revisione oggetto di referendum produrrà nella vita delle istituzioni è dato dalla interazione tra la modifica costituzionale vera e propria e la legge elettorale per la Camera, detta “Italicum”. Questa, avendo reintrodotto surrettiziamente i medesimi vizi stigmatizzati nella sentenza di incostituzionalità della legge precedente (Porcellum), non solo è a sua volta illegittima, ma costituisce anche un oltraggio alla Corte Costituzionale inconcepibile in uno stato di diritto.
La revisione costituzionale, eliminando l’elettività del Senato e lasciando alla sola Camera dei Deputati il rapporto di fiducia col governo, consentirebbe all’Italicum di dispiegare per intero il proprio effetto sulle istituzioni, effetto che sarà quello di produrre una sostanziale modificazione della forma di governo del nostro paese. Infatti, con il ballottaggio tra liste e l’assegnazione di un abnorme premio di maggioranza al vincitore (un unicum a livello mondiale), a prescindere dall’effettiva rappresentatività del corpo elettorale, la legge determinerà di fatto l’elezione diretta del presidente del consiglio, l’illimitata compressione della rappresentanza democratica e la concentrazione nel governo di tutti i poteri: dal controllo sull’assemblea legislativa alla possibilità di eleggere gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm), dal dominio sulla Rai alla nomina delle varie Authority.
Questo determinerebbe la fuoriuscita dal modello di democrazia parlamentare, senza peraltro le garanzie del modello alternativo, quello della repubblica presidenziale, che è caratterizzato da rigorosa separazione dei poteri e forte presenza di pesi e contrappesi.
Un così radicale e avventuroso cambiamento del nostro assetto istituzionale è stato introdotto in modo larvato e con legge ordinaria, rimanendo perciò formalmente estraneo alla revisione costituzionale oggetto del quesito referendario.
I cittadini, che in questo modo sono privati della possibilità di esprimere il proprio giudizio sulla parte più incisiva del complessivo mutamento costituzionale che si vuole realizzare, devono essere resi consapevoli della reale posta in gioco perché possano riappropriarsi del diritto di deliberare anche su ciò che formalmente non viene loro richiesto.
Peraltro, quale che sia il giudizio sulla legge elettorale, venendo al merito della revisione costituzionale - e prescindendo in questa sede da aspetti secondari (dai presunti risparmi all’abolizione del Cnel), di carattere essenzialmente propagandistico - basterà concentrare l’attenzione sul tema cruciale del procedimento legislativo.
Non è affatto certo che la semplificazione e velocizzazione dell’attività legislativa potrà realizzarsi come i sostenitori della revisione promettono. Infatti, il carattere assai confuso delle competenze e delle modalità di partecipazione del futuro Senato al processo legislativo induce a prevedere piuttosto una complicazione delle procedure ed una moltiplicazione dei conflitti, con conseguenti ricorsi alla Corte Costituzionale. Se poi la maggioranza politica del Senato espresso dai consiglieri regionali dovesse essere diversa da quella della Camera, è logico aspettarsi un sistematico richiamo di tutte le leggi approvate dalla Camera, con conseguente generalizzazione della “navetta” tra i due rami del parlamento, che oggi è un fenomeno limitato a circa il 3 % delle leggi che vengono varate.
Ma poniamo, per ipotesi, che la semplificazione promessa venga realizzata. In tal caso sarebbe necessario chiedersi se, al di là delle facili suggestioni propagandistiche diffuse dalle forze di governo e da alcune rappresentanze dell’establishment economico, questo corrisponda veramente all’interesse dei cittadini o non costituisca piuttosto il classico bisogno indotto.
Nella realtà, nonostante il bicameralismo perfetto, l’Italia ha già oggi tempi di approvazione delle leggi che sono inferiori alla media degli altri stati democratici ed ha prodotto nei decenni una quantità di nuove leggi tale da rasentare un record mondiale. Il numero delle leggi in vigore nel nostro paese è da tempo sfuggito al controllo (40000, 100000, 150000?) e questo ha creato incertezza del diritto, milioni di processi pendenti e condizioni favorevoli alla proliferazione della corruzione.
Il che è quanto dire che non abbiamo un problema di lentezza nell’attività legislativa, ma al contrario abbiamo una iper-produzione legislativa che, oltretutto, si accompagna al progressivo ed allarmante scadimento della qualità delle nuove norme che vengono approvate, e che sempre più spesso sono di iniziativa governativa e non parlamentare.
In questa situazione la prospettiva di un parlamento subalterno all’esecutivo - che oltre a detenere la maggioranza garantita dal premio ne potrà determinare anche l’agenda - costituito in prevalenza di nominati, e ridotto a sfornare a getto continuo nuove leggi a data certa, senza i tempi necessari per i dovuti approfondimenti e per la discussione, dovrebbe suscitare viva inquietudine in qualunque persona minimamente informata.
Peraltro, la (ancora) minore ponderazione delle leggi e lo slittamento verso una forma di “democrazia immediata” comportano rischi non solo sul piano qualitativo, ma anche di sistema.
Infatti, determinando una più diretta esposizione sia alle ondate emotive dell’opinione pubblica, sia alla pressione dei media spesso pilotata dai poteri forti (“lo vogliono i mercati”; “lo vuole l’Europa”…), possono dare luogo facilmente a misure penali squilibrate – ora di disumana severità, ora di esagerato lassismo – e ad improvvisate leggi civili del caso singolo. Insomma, l’esatto contrario di quella normazione fatta di poche leggi, tecnicamente accurate, organiche e stabili nel tempo di cui avrebbe davvero bisogno l’Italia per essere più moderna e competitiva.
Anche la radicale modificazione del sistema delle autonomie e del rapporto Stato - Regioni non è condivisibile perché, allontanandosi bruscamente dal disegno dei Costituenti che era quello di assegnare alle Regioni un potere di riforma delle stesse leggi dello Stato nelle materie ad esse attribuite dall’art. 117 Cost., determina uno svuotamento di questa autonomia e un ritorno di quasi tutte le competenze al potere centrale.
La revisione costituzionale porta così a compimento la sconfitta dell’autonomia regionale, trasformando progressivamente le Regioni in enti non più prevalentemente legislativi e di tutela delle autonomie locali, ma in enti di spesa; tutto ovviamente con la complicità di un ceto politico locale più attento alla clientela che alla difesa della funzione costituzionale attribuita alla Regione.
Questo ritorno al potere invasivo dello Stato centrale, sia politico che burocratico, avviene senza alcun risparmio di spesa, anzi al contrario, e con il mantenimento di un ceto politico regionale (Consigli e Giunte Regionali) titolare soltanto di potere clientelare, in senso lato, ossia di gestione di grandi flussi di denaro in funzione di vantaggio politico.
Per tutte queste ragioni, noi riteniamo che siano di gran lunga prevalenti nella revisione costituzionale gli aspetti negativi. Inoltre riteniamo che nel bilanciamento che siamo chiamati a fare, dovendo approvare o bocciare in blocco una modifica costituzionale variegata, occorra sempre far prevalere un principio di precauzione, ricordando che le Costituzioni sono quelle regole che i popoli si danno quando sono sobri per quando saranno ubriachi.
Perciò, il nostro consiglio è di votare NO.
Inviate la vostra adesione a : avv.bellipaci@studiobellipaci.it
Primi firmatari: Avv. Luciano Belli Paci, Avv. Felice Besostri, Prof., Avv. Maria Agostina Cabiddu, Avv. Marco Dal Toso, Avv. Claudio Tani. – Hanno aderito (aggiornamento 8.11.2016): Avv. Velia Addonizio, Avv. Paolo Agnoletto, Avv. Alberto Amariti, Avv. Bruno Amato, Avv. Maria Anghelone, Prof., Avv. Vittorio Angiolini, Avv. Dario Ardizzone, Associazione Giuristi Democratici di Milano, Avv. Elisabetta Balduini, Avv. Enrico Barbagiovanni, Avv. Vincenzo Barone, Avv. Alessandro Bastianello, Avv. Aldo Bissi, Avv. Francesco Bochicchio, Avv. Marco Bove, Avv. Aldo Bozzi, Avv. Alessandro Brambilla Pisoni, Avv. Franz Brunacci, Avv. Riccardo Camano, Avv. Maura Carta, Avv. Alfonso Celeste, Avv. Mario Cerutti, Avv. Angela Chimienti, Avv. Dario Ciarletta, Avv. Riccardo Conte, Avv. Gianluca Corrado, Avv. Candida De Bernardinis Prof., Avv. Francesco Denozza, Avv. Gianalberico De Vecchi, Avv. Gino Di Maro, Avv. Mario Di Martino, Avv. Carmen Di Salvo, Avv. Enrica Domeneghetti, Avv. Rolando Dubini, Avv. Maria Cristina Faranda, Avv. Tecla Faranda, Avv. Paolo Gallo, Avv. Federico Garufi, Prof., Avv. Gustavo Ghidini, , Avv. Mario Giambelli, Avv. Sabrina Giancola, Avv. Angelo Iannaccone, Avv. Massimiliano Lieto, Avv. Giovanni Marcucci, Avv. Floriana Maris, Avv. Gianluca Maris, Avv. Guido Mastelotto, Avv. Mirko Mazzali, Avv. Alberto Medina, Avv. Simona Merisi, Avv. Bruno Miranda, Avv. Cristina Mordiglia, Avv. Paolo Oddi, Avv. Fernando Palmisano, Avv. Stefano Paltrinieri, Avv. Alessandro Papa, Avv. Simonetta Patanè, Avv. Antonella Pettinato, Avv. Walter Pirracchio, Avv. Filippo Pistone, Avv. Giampaolo Pucci, Avv. Piera Pujatti, Avv. Francesco Rampone, Avv. Vitantonio Ripoli, Avv. Domenico Roccisano, Avv. Ilaria Rozzi, Avv. Elisabetta Rubini, Avv. Giovanni Saccaro, Avv. Danilo Scarlino, Avv. Andrea Siface, Avv. Salvatore Smaldone, Avv. Ernesto Tangari, Avv. Giulio Taticchi Mataloni, Avv. Armando Tempesta, Avv. Cristiana Totis, Avv. Fabio Vaccarezza, Avv. Giuseppe Vella, Avv. Eric Zanotelli, Avv. Paola Zanotti, Avv. Massimo Zarbin.
Franco Astengo: Sistema elettorale e voto all'estero
SISTEMA ELETTORALE E VOTO ALL’ESTERO (a cura di Franco Astengo)
In queste ore, per via di una forte polemica innestata su possibili manipolazioni nel voto, la questione della procedura elettorale riguardante i cosiddetti “Italiani all’estero” è salita fortemente di tono e autorevoli commentatori apparentemente “super partes” (uno per tutti : Sergio Romano dalle colonne del “Corriere della Sera”) scoprono repentinamente tutti i limiti di un ordinamento al riguardo del quale si era riservata semplicemente una forte sottovalutazione, al riguardo dei possibili effetti: salvo ironizzare su determinate caratteristiche dei deputati e senatori eletti nelle incredibili circoscrizioni nelle quali quel tipo di elettorato è stato suddiviso.
E’ il caso, invece, di richiamare l’attenzione di tutti su di un punto: il sistema elettorale italiano è stato modificato in peggio nel corso di questi anni attraverso riforme apparentemente modernizzanti, in realtà adottate per piegare la normativa all’utilità momentanea di qualche parte e soprattutto – per quel che riguarda la parte più importante di queste modificazioni – non avendo a cuore la partecipazione elettorale, anzi considerando il 90% su cui la stessa partecipazione elettorale si è sempre attesta, nell’occasione delle elezioni politiche, tra il 1948 e il 1997 un’anticaglia residuo dell’odiato “sistema dei partiti” da distruggere per far posto alla tanto “chic” personalizzazione della politica.
Demagogia e pressa pochissimo hanno fatto la parte del leone in questa corsa al cambiamento : la stessa demagogia e pressapochismo che ritroviamo nel testo delle deformazioni costituzionali delle quali voteremo la conferma o meno il 4 Dicembre (questo vale per quanti affermano che comunque si fa “un passo avanti” soltanto per ricordare che, in quest’occasione”, il “passo avanti” in realtà non è altro che un significativo “passo indietro” sul terreno delicato della democrazia e della possibilità di partecipazione popolare).
Andando nel merito possiamo notare come, nel caso del voto dei cosiddetti “italiani all’estero” si sia trattato di un caso di pura demagogia : la legge Tremaglia, attualmente in vigore, ha allargato a dismisura la platea arrivando a comprendere cittadine e cittadini con un legame d’origine molto labile (terzo grado e soltanto da un lato di parentela); una platea già allargata, in verità, in modo incongruo dalla legge Moschini – Armella risalente agli anni’80.
In partenza invece la presenza elettorale degli italiani all’estero (questa volta senza il “cosiddetti”) era regolata in modo da poter avere certezza di legame: esisteva, infatti, (in tempi nei quali i consolati italiani all’estero erano molto più numerosi e facilmente raggiungibili soprattutto dai nostri emigrati necessitati da questioni di lavoro: pensiamo ai minatori in Belgio e agli operai in Germania) la cosiddetta “scadenza sessennio”.
Ogni sei anni, infatti, il cittadino italiano emigrato all’estero aveva l’obbligo di confermare al proprio consolato di competenza la propria presenza e la propria volontà di rimanere iscritto nelle liste elettorali: il consolato comunicava in tal senso al comune di iscrizione nelle liste, altrimenti si provvedeva alla rimozione del nominativo.
Non esisteva il pericolosissimo voto per posta (pericolosissimo soprattutto perché non riguarda poche migliaia di persone, ma nella fattispecie ben 4 milioni). L’elettrice o l’elettore residente all’estero riceveva una cartolina che lo invitava a recarsi alle urne nella città dove risultava iscritto. Elettrici ed elettori rientravano così in Patria (ricordiamo treni festosi di emigranti) per usufruire del proprio diritto elettorale assolvendo così anche a un dovere (in quel tempo infatti il voto era considerato un diritto / dovere, dopo che all’Assemblea costituente si era discusso anche sulla possibilità di considerarlo, come ancora accade in Belgio) soltanto un “dovere”).
Ho ricordato questa cosa soltanto per descrivere la situazione com’era al tempo ormai dai più famigerato dei Partiti e del sistema elettorale proporzionale (quel tempo che impropriamente viene definito della “Prima Repubblica”).
Ci si può immaginare che in tempi di innovazione tecnologica questo richiamo possa apparire davvero rivolto a un’era preistorica, ma valeva la pena ricordarlo anche perché il sistema elettorale di allora (“sistema elettorale” nel suo complesso l’insieme di norme che regolano l’esercizio di voto e non semplicisticamente come intende qualcuno la “formula elettorale” che, invece, è quella che traduce i voti in seggi) resse magnificamente la prova di un’altissima, in ogni occasione, presenza al voto di elettrici ed elettorali.
Si è accennato prima a modifiche al sistema elettorale causate da demagogia, com’è stato nel caso dell’allargamento ai cosiddetti “italiani all’estero”, nel disegno delle circoscrizioni che li riguardano, nel voto per posta.
Sono state eseguite anche modifiche per causa di improvvisazione e dilettantismo ( o scientemente rivolte a obiettivi politici).
Per fare degli esempi in questo senso:
1) Assolutamente deleterio il dimezzamento nel numero delle sezioni elettorali portate a contenere oltre 1.000 elettrici ed elettori (Leggi Bassanini, famigerate anche per tanti altri motivi). E’ in questo caso che si è pensato che una diminuzione nel numero dei votanti fosse fisiologica e addirittura auspicabile nel solco “ dell’allineamento con le democrazie occidentali”. Il voto al 90%, ai nostri sapientoni modernisti, sapeva troppo di “democrazia popolari”. Adesso ci arrabattiamo tra il 50 e il 60% e scopriamo , proprio in questo referendum, che nessuno dispone di una base sociale vera per un consenso effettivo. Tutto fittizio – televisivo.
2) Altrettanto negativa la riduzione nel numero degli scrutatori;
3) Con chiari obiettivi politici il passaggio della nomina degli scrutatori da parte delle Commissioni Elettorali attraverso gli elenchi forniti dai partiti al sorteggio fra elettrici ed elettori che hanno fatto richiesta di essere considerati in una lista “ad hoc”. Si è trattato ,a suo tempo,di un colpo dei radicali sulla linea anti – partitica che ha causato un evidente calo di qualità nelle competenze all’interno delle sezioni elettorali.
Non entro nel merito, in quest’occasione, del delicato discorso della formazione dei collegi elettorali, secondo le varie occasioni fornite dal frequente mutamento della formula elettorale ( con l’Italicum siamo alla terza formula in vent’anni: ma se ne prevede già una quarta).
Sotto quest’aspetto ricorderò soltanto che nei giorni scorsi il Tribunale di Genova ha rimandato l’Italicum alla Corte Costituzionale : una delle ragioni di questa scelta è stata sicuramente dovuta a un deficit nella conformazione dei collegi, in quanto due comuni della Valpolcevera (Ceranesi e Campomorone) erano finiti – addirittura – nel collegio della Spezia.
Si sta procedendo con demagogia, pressapochismo, dilettantismo esattamente come nel caso delle deformazioni costituzionali.
Aldo Penna: Hillary, Donald e le guerre elettroniche che cambiano il mondo
Il milione e mezzo di voti popolari che la Clinton ha avuto in più rispetto a Trump echeggiano i 500 mila di Al Gore nel 2000. Entrambi i candidati democratici avrebbero vinto le elezioni in una competizione diretta senza il meccanismo del collegio dei grandi elettori. Ma le scelte in democrazia si muovono in conseguenza delle regole. E anche se l’elettorato non ha plebiscitato Trump gli ha tuttavia assicurato un ampio vantaggio tra i delegati che lo eleggeranno il lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre.
Ma quello che adesso conta per l’Italia periferia del neoimpero americano è la ricaduta europea del nuovo vecchio corso presidenziale. A un’Europa da sempre definita nano politico e gigante economico il probabile progressivo disimpegno economico americano nel finanziare l’alleanza militare dovrebbe finalmente far compiere il passo da sempre rinviato verso la predisposizione di un’unica forza di dissuasione che assicuri attendibilità alle numerose ma spesso impotenti prese di posizione dell’Europa rispetto alle agitazioni belliche ai suoi confini dell’est e del sud
Quello che dunque si prospetta appare con forzata ma non troppo similitudine, un periodo di anarchia politico militare con la cessazione del ruolo guida esercitato dagli Stati Uniti e la diffusione nelle aggregazioni politiche del suo protettorato globale di robuste ma dissolutrici tentazioni di autonomia che lasceranno splendere nel loro isolazionismo gli USA segnando l’inizio, come fu per i Romani, del loro declino su scala mondiale.
Ma insieme a questi scenari che si prospettano apocalittici se si prende come riferimento l’impero romano e il suo crepuscolo, è interessante notare quale possibilità danno i nuovi mezzi tecnologici di combattere invisibili guerre che influenzano e modificano il corso della storia.
Se nel passato si procedeva all’assassinio dei capi politici per sostituirli con altri graditi magari finanziando o proteggendo leader avversi, oggi la demolizione può avvenire lasciandoli travolgere da scandali sollevati attraverso incursioni e disvelamento dei loro segreti. Oppure nella opportuna manipolazione dei dati elettorali che impediscano a un leader ritenuto ostile di ascendere al potere. L’impero tedesco mise fine all’interventismo degli zar russi portando la miccia infuocata della rivoluzione (Lenin) dentro i suoi confini.
Nella recente competizione elettorale in America queste armi sono state usate contro la candidata alla Presidenza accedendo segretamente ai suoi server e consegnando corrispondenza riservata al sistema mediatico con lo scopo ben riuscito di cortocircuitare e danneggiare la raccolta del consenso. E se il presidente americano uscente ha sentito il bisogno di avvertire le oscure divisioni di hacker, che hanno con successo messo in ginocchio per un giorno intero il sistema economico e finanziario americano, l'utilizzo delle stesse pratiche per infliggere una articolata e dirompete controffensiva, cosa avrebbe potuto impedire ad altri abili squadre di commando elettronici di influire sul risultato finale delle elezioni presidenziali intervenendo nello spoglio delle schede di alcuni dei cosiddetti swing state?
La grande massa di voto popolare che si profila a conteggi ancora aperti a favore del candidato sconfitto, maggiore di ogni altra consultazione precedente negli Stati Uniti ne è un indice inquietante. Se fosse solo plausibile un tale scenario, e il voto elettronico così diffuso negli USA lo rende potenzialmente praticabile, ci troveremmo nell’ipotesi finora paventata da film di bassa fortuna di una potenza planetaria influenzata nel processo più delicato, la selezione della sua leadership, da forze esterne, probabilmente straniere che manipolato il dato elettorale hanno fatto saltare ogni pronostico e rilievo della vigilia in misura così rilevante e uniforme da suscitare più di un interrogativo.
Naturalmente questa supposizione forse non si è poi verificata e gli Stati Uniti hanno evitato che si continuasse nella contaminazione dinastica della democrazia più antica del mondo e il neoisolazionismo di Trump tra qualche mese farà sorridere.
Gli Usa non sono un’autocrazia, il Presidente ha grandi poteri ma anche grandi limitazioni. L’interesse nazionale è frutto di una mediazione tra molte forze e un Presidente che faccia deflagrare tutte le contraddizioni o spinga sull’acceleratore ideologico trascurando che è minoranza popolare nel paese appare davvero difficile. La stessa personalità di Trump dovrebbe volgere alla mediazione tra i falchi oltranzisti di tutte le specie che lo hanno appoggiato e le categorie di lavoratori che vogliono soltanto vivere meglio e non perseguire cambiamenti radicali nel sistema di principi che regolamenta la democrazia americana.
Ma se solo per un piccolo tratto la possibilità di manipolazione si è trasformata in realtà, se davvero la volontà popolare con sapienti intrusioni elettroniche è stata beffata avremo davanti davvero scenari impensabili fino a pochi mesi fa. E lo stesso attacco degli hacker al sistema economico americano e la contromossa minacciosa della presidenza americana è forse servita solo a sguarnire la vigilanza su attacchi manipolativi provenienti dall’interno.
Una volta si finanziavano i partiti che nel campo avverso sostenevano le proprie tesi. L’hanno fatto gli Stati Uniti e i loro competitor sovietici. Nel mondo che cambia il potere cerca nuovi mezzi per aprire le antiche strade del controllo, della subalternità, del favore.
Negli stati a vocazione autoritaria le elezioni sono una rappresentazione addomesticata tesa a confermare il consenso esibito. Nelle democrazie liberali così permeabili agli interessi di gruppi economici o di spregiudicati uomini d’affari può accadere che i risultati siano “orientati”. Vedremo nei prossimi mesi quanta verità contiene questo allarme.
Aldo Penna
mercoledì 23 novembre 2016
Franco Astengo: Illegittimi
UNA FRATTURA ATTRAVERSA IL PAESE: LA RESPONSABILITA’ E’ DI GOVERNO E PARLAMENTO NATI ILLEGITTIMI di Franco Astengo
“ E' il costituzionalista Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No, ad annunciare l'ipotesi in conferenza all'associazione stampa estera: "Se il voto dei cittadini italiani all'estero dovesse rivelarsi determinante per la vittoria del Sì - afferma - allora impugneremo questa consultazione davanti all'ufficio centrale del referendum, che è un organo giurisdizionale, e si andrebbe davanti alla Corte Costituzionale”
Questa dichiarazione del Presidente del Comitato per la Democrazia Costituzionale, formato da illustri ex- Presidenti dell’Alta Corte e dai più importanti cattedratici in materia di diritto costituzionale, certifica la vera e propria “frattura” che attraversa il Paese in questo disgraziato frangente del referendum costituzionale.
I toni sono molti alti e ormai sulla soglia dell’insopportabilità da parte del Presidente del Consiglio che usa argomenti impropri e del tutto inusitati appoggiandosi platealmente anche alla finanza internazionale e l’opposizione di destra (Movimento 5 Stelle e Lega Nord) che replica colpo su colpo senza peritarsi di controllare le affermazioni usate.
Sono così quasi scomparse dal confronto le ragioni di merito riguardanti le deformazioni costituzionali e l’intreccio fra queste e la legge elettorale ed è scomparsa anche la rappresentanza delle fratture sociali più importanti: meno che mai in quest’occasione la politica è riuscita a rappresentarsi adeguatamente al livello richiesto dagli argomenti in discussione.
Non trova spazio neppure il “NO”sociale espresso da settori della sinistra e del sindacalismo di base che pure aveva dimostrato, attraverso tutta una serie di iniziative, di possedere nel mondo del lavoro una consistente massa critica.
Da ricordare, ancora, i pesanti tentativi di delegittimazione dell’ANPI con accuse davvero di basso livello rivolte a chi rappresenta la parte di memoria storica più importante nella recente storia d’Italia: quella legata alla Resistenza e di conseguenza direttamente alla Costituzione.
Nuoce, su tutto, il silenzio del presidente della Repubblica che pur chiamato in causa perché prendesse in esame gli abusi perpetrati dal Governo in questa campagna elettorale (in particolare al riguardo della propaganda rivolta alle elettrici e agli elettori all’estero) pare proprio preferire un silenzio che non è possibile definire come “super partes”.
Esiste una ragione di fondo per la quale si è determinata questa vera e propria rottura del sistema politico e data la stura al vaso di Pandora di queste improprie iniquità: una rottura del sistema politico che sarà assai complicato per non dire quasi impossibile recuperare in futuro, al di là del risultato referendario per il quale, scanso equivoci, si deve augurare un chiaro successo del “NO”.
La ragione di fondo che s’intende, ancora una volta, reclamare in questa sede è quella della sostanziale illegittimità del Parlamento (e di conseguenza del Governo e della stessa elezione - reiterata in due occasioni – del Presidente della Repubblica).
Deve essere ricordato a Giorgio Napolitano, già capo della corrente migliorista (socialdemocratica in politica economica e filosovietica in politica estera) “amendoliana” del PCI, come le istituzioni non possano pretendere rispetto in sé (forse è possibile nei regimi totalitari) se non sono legittimate da una quota rilevante di consenso popolare e sostenute da soggetti organizzati e radicati sul territorio invece che dalla presunta popolarità pseudo – televisiva sulla quale basare un’esasperata personalizzazione della politica, come nel caso di Silvio Berlusconi, caso “perfezionato” da Matteo Renzi, abilissimo nel cercare di distruggere tutti i corpi intermedi, politici e associativi, di rappresentanza sociale.
Verrebbe da dire “chi semina vento raccoglie tempesta”.
Dunque è bene ricordare la sentenza n.1/ 2014 della Corte Costituzionale che dichiarava illegittime le parti fondative della legge elettorale con la quale si erano eletti i Parlamenti della XVI e della XVII legislatura: parti fondative riguardanti il premio di maggioranza alla Camera dei Deputati e l’impossibilità per elettrici ed elettori di scegliere i propri rappresentanti.
Nella stessa sentenza l’Alta Corte giudicava la possibilità di continuare l’attività Parlamentare “ai soli fini della continuità dello Stato”.
Nel corso di queste due legislature sempre il Presidente Napolitano ha dato il via a due governi, quello Monti e quello Renzi, il cui titolare della Presidenza del Consiglio era ed è figura extraparlamentare (o meglio: Monti fu nominato senatore a vita il giorno precedente al conferimento dell’incarico, o quasi) : procedura costituzionalmente legittima ma usata soltanto in circostanze del tutto eccezionali (Amato nel 2000 al momento delle dimissioni di D’Alema e in precedenza Ciampi e Dini: in ogni caso, paradossalmente, nella fase di vita repubblicana contraddistinta dal sistema elettorale maggioritario, non certo del tanto vituperato proporzionale accusato di essere foriero dell’instabilità).
Procedura al limite del dettato costituzionale ma comunque oggettivamente incline a essere considerata illegittima da una buona parte delle cittadine e dei cittadini elettrici ed elettori: come è stato ben dimostrato dal calo verticale nella partecipazione al voto nelle occasioni riguardanti le elezioni europee, quelle regionali e amministrative 2016.
Ulteriore divisione nel Paese è stata sicuramente derivata dall’arrogante pretesa da parte del PD di considerare le proprie primarie fonte di legittimazione per l’incarico a Renzi.
Le primarie, indipendentemente dai livelli di partecipazione (nel caso specifico molto bassi rispetto all’intero corpo elettorale) sono un fatto privato e non dovrebbero essere mai considerate come fonte di legittimazione istituzionale: essersi mossi in questo senso, da parte dei dirigenti del PD ponendo questo tipo di questione al Presidente della Repubblica allora in carica e l’accoglimento da parte di questi della loro argomentazione in favore dell’incarico a Renzi ha costituito un punto molto grave di frattura non solo all’interno del sistema politico, ma nell’insieme del tessuto sociale.
Sarebbe stato opportuno che il Parlamento si sciogliesse al momento della sentenza della Corte Costituzionale fornendo a elettrici ed elettori la possibilità di votare con il sistema proporzionale così come predisposto oggettivamente dalla già citata sentenza 1/2014.
In questo modo le forze politiche si sarebbero misurate con la realtà del proprio consenso effettivo, senza che il risultato fosse drogato dal premio di maggioranza e che la rappresentanza parlamentare fosse completamente “nominata”.
Forse da lì si sarebbe potuto ripartire per riaggregare : invece con tracotanza degna davvero di altra causa si è messo addirittura mano alla Costituzione in sue parti delicatissime al punto che, ricordo in chiusura, surrettiziamente si è toccata la prima parte del dettato costituzionale violando palesemente il principio fondamentale della supremazia del Parlamento rispetto al Governo: un principio che avrebbe dovuto essere inviolabile.
martedì 22 novembre 2016
Paolo Bagnoli: La sconfitta dell'Occidente
la sconfitta dell’occidente
paolo bagnoli
Da Critica liberale
L’era Trump è iniziata e il mondo sembra essere afflitto dallo sgomento poiché la
vittoria della Clinton era stata data praticamente per scontata. Nessuno, però, dell’esito
della sfida come avviene in tutte le elezioni. Quello che, tuttavia, ha colpito di più, sia nelle
dichiarazioni prima che in quelle dopo le urne e di questi giorni nei quali Trump sta
formando il proprio governo, è il fatto che non si riscontra la percezione nemmeno minima
di una verità che dovrebbe essere oramai assodata: vale a dire, che la “mentalità”
americana è veramente altro rispetto a quella europea. Non si tratta di una faccenda dei
tempi moderni; essa è connaturata agli Stati Uniti fin dalla loro nascita, dalla loro volontà
di essere un “nuovo mondo” rispetto a quello preesistente la nascita della federazione. Per
sapere di cosa si tratta basterebbe ricordarsi delle pagine che Tocqueville ha dedicato alla
democrazia americana; vecchie di quasi due secoli, ma attuali come lo sono tutte le verità
della storia.
Al pari di ogni evento della politica saranno i fatti a dirci cosa farà Trump. La
medesima cosa sarebbe stato se avesse vinto la Clinton cui certo non ha giovato essere la
moglie di un già presidente. Sicuramente Trump interpreta una destra populista così come
la Clinton un centrismo compassionevole. Si può dire: meglio quest’ultimo che il
muscolarismo istintuale del primo, ma se Trump ha prevalso vuol dire che il suo messaggio
ha parlato ai popoli americani più convincentemente di quello della Clinton; tanto
convincentemente che, nonostante corresse praticamente contro il partito che
rappresentava e avesse schierati versus i principali organi di informazione statunitensi,
egli è riuscito ad aggregare su una ripresa forte di stampo nazionalistico basato sulla
supremazia bianca un blocco sociale che spera in un’America più forte e più isolazionista
per risolvere i problemi che la affliggono. In altri termini, per quanto possa apparire
paradossale, Trump ha venduto un sogno confuso e volgare che ha fatto presa a fronte
della debolezza della presidenza Obama e del fatto che la sua avversaria non ha saputo
interpretare che il canone dell’America politica e dei tradizionali motivi di interesse che la
caratterizzano. Ma anche dietro Trump, prende corpo il riferimento di un universo
bancario e finanziario ben agguerrito e talora squalificato.
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Colpisce inoltre il fatto che, da più parti, in America e fuori d’America, si affermi che
se invece della Clinton il candidato democratico fosse stato Sanders questi ce l’avrebbe
potuta fare. Se davvero fosse stato così l’evento sarebbe stato più dirompente della vittoria
di Obama di otto anni orsono quando, con lui, entrò alla Casa Bianca la comunità nera
segnando un dato storico di grandissimo significato. Non fosse altro che per questo,
Obama ha cambiato la storia del proprio Paese. Figuriamoci cosa avrebbe significato la
vittoria di un candidato che si definisce “socialista” – e certo l’America in questo momento
ne avrebbe particolarmente bisogno – ma dubitiamo che Sanders ce l’avrebbe potuta fare
considerato che l’idea di socialismo è fuori dai canoni storici degli Stati Uniti d’America. In
essi vi sono dei socialisti e pure attivi nelle istituzioni, ma non crediamo che il Paese abbia
superato l’ostacolo concettuale per cui si possano attuare politiche che si definiscono
“socialiste”. Comunque, a Sanders va riconosciuto il merito di una battaglia coraggiosa che
è riuscita a far penetrare il “verbo” socialista in larghi strati della popolazione americana.
In fondo le opinioni di Sanders sono di buon senso con il pregio della verità. Ci auguriamo
che il partito democratico ci rifletta. Messa sotto accusa è la leadership del partito; una
vecchia guardia di professionisti della politica, assai autoreferenziale e dedita quasi
esclusivamente a ricercare finanziamenti per il partito invece che a cercar di capire il Paese
e interpretarlo; dare senso politico ai movimenti che vi si agitano e al disagio dei lavoratori.
Insomma, a cercare di promuovere una politica che nasca dal basso. Il j’accuse del senatore
del Vermont è preciso: ”Non si può dire a chi lavora o a chi il lavoro lo ha perso, noi siamo
dalla vostra parte, mentre si cercano finanziamenti a Wall Street e fra i miliardari.
Dobbiamo andare più nei quartieri operai e meno ai cocktail party (…) c’è un partito a cui
chiedere, venti o trenta dollari, a milioni di persone che sono pronte a contribuire.”
Vediamo ora se questi germi di sinistra attecchiranno in una società che, inevitabilmente,
subirà una svolta dal sapore fortemente conservatore anche se Trump non ha lanciato
nemmeno uno straccio di programma per cui è difficile capire cosa potrebbe succedere.
Certo la presenza nel governo di notori “falchi”, per lo più anche razzisti, è più di un
segnale. In un contesto civile così connotato a destra, la strada dei diritti sociali diventerà
assai ardua; al limite dell’impraticabile.
Quello che ci pare assodato è il ritorno dell’isolazionismo anche se un ripristino in
senso classico nemmeno gli USA se lo possono permettere. L’avversità di Trump verso gli
accordi Nafta con Messico e Canada e Tpp in Asia è notoria e per quanto concerne l’Europa
il rapporto sarà principalmente con il Regno Unito. L’Europa, come al solito, tace assorbita
com’è dalla questione dei deficit di bilancio! La Russia di Putin ha già cominciato a battere
le mani fragorosamente; Trump, infatti, non sembra volerle remare contro sul piano
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internazionale e, soprattutto, sembra volersi tenere lontano dalla Cina, intessendo una
stretta relazione tra Taiwan, Giappone e la Corea del Sud..
Ci sembra però di scorgere in Trump qualcosa di più profondo e preoccupante; vale
a dire, l’affermarsi dello sgretolamento del senso stesso dell’Occidente, ossia del valore
storico-politico che unisce l’America e l’Europa. Nella sua visione delle questioni
americane e di quelle transatlantiche non sembra albergare l’idea di comunità che è il
focus dell’idea stessa di democrazia. In politica interna contano solo i singoli. Il suo
populismo altro non è che la somma degli addendi formati da tanti, milioni di singoli cui
ha promesso di occuparsi personalmente. Il neo-presidente non seguirà l’idea della
democrazia come forma politica di una comunità pluralistica di interessi generali, bensì di
un insieme atomizzato senza un valore comune di convivenza condiviso. Populismo, di
sicuro, ma ben diverso da quello dei Farage, Le Pen, Salvini e compagnia cantando che oggi
si spellano le mani nell’applauso servile al vincitore. È in questa radice che cambia anche la
mai sopita tendenza all’isolazionismo degli Stati Uniti di cui la freddezza verso l’Europa è
una significante testimonianza. Ecco come si origina la faglia del concetto geo-politico di
Occidente.
A fronte di tante incognite, una certezza c’è: il mondo ha svoltato e non nella
direzione giusta. Il futuro, poi, è in grembo di Giove.
sabato 19 novembre 2016
Wolfgang Streeck: How will the capitalism end?
Wolfgang Streeck: how will capitalism end?
By Alessio Perrone | 0
Wolfgang Streeck talks at the London School of Economics on 7 November 2016. ©
Capitalism’s end might be in sight, but it might not be good news, German sociologist Wolfgang Streeck warned in a conference. Alessio Perrone reports.
We are living in a period of deep change, in which unusually grotesque things are more possible – like President Trump.
If there was any take-away from Professor Wolfgang Streeck’s talk at the London School of Economics, it was this: disorder and uncertainty will belong to the world for quite some time.
Presenting his new book How will capitalism end? on Monday 7 November, Streeck said that the world’s phasing-out from capitalism might have already begun, bringing about chaos and fundamental transformations.
‘An old order is dying but a new one can’t be born yet. And it is a time in which the most bizarre things can happen,’ he said. ‘If you look at the US elections campaign, I think that is pretty close to bizarre.
‘Their world is collapsing. Ours is being built,’ says a tweet by Florian Philippot, Vice-President of French populist right-wing party Front National after Donald Trump won the US Presidential Elections.
‘But if it [capitalism] had a beginning, then it must have an end, unlike the economists want us to believe,’ Streeck said.
A Professor of Sociology at the University of Cologne, Emeritus Director of the Max Planck Institute for Social Research in Cologne, and author of Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism, Streeck has been studying medium-term trends in society for 40 years, focusing on austerity, public debt and capitalism – which he thinks is in a critical condition.
In his speech, Streeck went over why he thinks capitalism will die: its constant conflict with democracy might have gone a bit too far.
His argument goes as follows: capitalism needs to expand constantly – initially it was land-grabs and colonialism, then it started expanding into homes, increasing the amount of internal activities families sell ‘on the market’: cleaning, ironing, taking care of babies and elderly.
But to expand, capitalism needs a stable centre and a degree legitimacy: it needs people with money to buy things, and talented people working to make somebody else rich. To do that, it needs a degree of democratic control and redistribution, so that the inequalities it produces are kept to a level many would tolerate.
But neo-liberalism is undermining democracy and eroding states’ power, threatening the balance on which capitalism lived. Its own excesses, not kept at bay in the last few decades, would undermine the system as a whole.
‘We need to make sure that the discontent of the people, of the counter capitalist movement is equally heard and visible’ - Wolfgang Streeck
‘The market works like the biblical quote goes, "For everyone who has will be given more, … But the one who does not have, even what he has will be taken away from him" [Matthew 25:29].
‘Redistribution isn’t working anymore, also in terms of the legitimacy of the system,’ he said.
To answer the question of his book, How will capitalism end?, Streeck said that we should think of it as an end without a new beginning, but that the end should not necessarily be good news.
‘It will be a slow, long-term decay,’ he said. ‘The society of the Roman empire slowly faded away in regression. It took 400 years for someone to turn around and say "We have a feudal society".’
He said our society might end in a slow regression too, maybe ending up with structures similar to feudalism, with corporations becoming independent structures in the style of feudal lords.
Technology and machines have accelerated the process: ‘The Silicon Valley has already begun to ask: "Who will buy if no one has money?"
‘They are demanding a universal basic income and redistribution because they see they will have a problem if states do not redistribute wealth,’ he said. ‘They need people to participate in the Facebook game of buying – or no one will pay Facebook for advertising.’
Ironically, the same people move fortunes in order not to pay for the universal income.
Streeck reiterated that he studied medium-term trends and would not predict the future – what a new economic structure will look like is difficult to say now. Meanwhile, people should make their voices heard.
‘The way our politics work is that politicians hear the discontent of capital very much, and they act to fix it,’ Streeck said after the talk was over. ‘We need to make sure that the discontent of the people, of the counter capitalist movement is equally heard and visible.
‘And by visible I mean where people can be seen. In the streets.’
venerdì 18 novembre 2016
Franco Astengo: Tra referendum e presunta volatilità del mercato
TRA REFERENDUM E PRESUNTA VOLATILITA’ DEL MERCATO : INAUDITO IL RAPPORTO BANKITALIA ( a cura di Franco Astengo)
“Un forte picco della volatilità del mercato azionario italiano è atteso all'inizio di dicembre in corrispondenza con il referendum costituzionale. Lo scrive la Banca d'Italia nel rapporto sulla stabilità finanziaria. La volatilità è misurata sui prezzi delle opzioni sull'indice azionario; da un grafico pubblicato nel rapporto si vede un picco della volatilità implicita che a dicembre balza oltre il 4 per cento”
“I manager italiani ritengono che le riforme renderebbero più facile il processo decisionale del governo, ridurrebbero l'instabilità e i costi della politica. Alcuni apprezzano anche il fatto che un risultato positivo eviterebbe le dimissioni di Renzi e la successiva apertura di una crisi.”
Affermazioni inaudite, prive di senso, destinate a coprire il fallimento del sistema finanziario e bancario, e le gravissime colpe di questo Governo e di lorsignori nell’impoverimento generale che adesso si pensa di esorcizzare a colpi di “stabilità” di un governo illegittimo votato da un Parlamento eletto attraverso una legge giudicata incostituzionale dall’Alta Corte.
Non è soltanto una questione di “classe” che pure salta direttamente all’occhio: è questione di intorbidamento della libera espressione democratica di un popolo che si misura sul nodo fondamentale della propria identità comune, quella del Dettato Costituzionale, sulla quale si sta tentando una bieca operazione di divisività e di mera gestione del potere.
“Sta di fatto che per le banche italiane i crediti deteriorati si sono accumulati nel corso degli anni, portando le “sole sofferenze (che sono i crediti più difficili da riscuotere in assoluto, nella più ampia categoria dei crediti deteriorati) a balzare “dai 42,8 miliardi del 2008 – primo anno di crisi – ai 195,3 miliardi di metà 2015, per arrivare a superare oggi quota 200 miliardi“. (tutti i crediti deteriorati sono pari a circa 350 miliardi)”
Sono questi i dati dell’allegra finanza italiana, di questi super - manager capaci soltanto di accumulare crediti deteriorati perché forniti esclusivamente agli speculatori “amici di riguardo”.
Un “NO” nel referendum necessario per affermare la Costituzione democratica, ma anche per avviare la possibilità di tracciare un segno nella storia di questo Paese in modo da contrastare questo inaccettabile stato di cose.
Franco Astengo: Tra il sì e il no
TRA IL SI E IL NO : CONSIDERAZIONI TRA I NUMERI
Questa breve nota dedicata ad alcune considerazioni relative ai numeri riguardanti il referendum costituzionale del prossimo 4 Dicembre è dedicata a coloro che sono impegnati nella campagna elettorale a favore del “NO”.
E’ necessario, a mio modesto giudizio, prestare il massimo di attenzione a questo rush finale anche perché il risultato è sicuramente in bilico : non si tratta di un’affermazione di comodo per mettersi al riparo.
Di seguito troverete alcuni numeri che non sono stati tratti da sondaggi, ma dall’analisi di numeri veri elaborati attraverso alcuni elementi precisi: i dati delle elezioni politiche 2013, europee 2014, regionali 2015 e amministrative 2016.
Sono stati presi in considerazione i dati riguardanti l’affluenza, il totale dei voti validi, i voti di lista ed elezione per elezione l’indice di volatilità elettorale, gli scostamenti interni alle diverse liste elezione per elezione, l’andamento della fidelizzazione per ogni singola forza politica, le differenziazioni geografiche a livello di numeri assoluti.
E’ stato tenuto conto, ovviamente, di un indice di trasversalità nel voto e quindi della differenziazione tra elettrici ed elettori della stessa forza politica.
Il risultato che viene indicato, si badi bene, non è quello dell’attuale stato di confronto tra il SI e il No (come indicato dai sondaggi) bensì quello della posizione di partenza tra il “SI” e il “NO” appunto alla vigilia della conclusione della campagna elettorale.
E’ necessario diffidare dei sondaggi non tanto e non solo perché hanno fallito, sul piano internazionale, nelle due ultime più importanti occasioni: Brexit ed elezione del Presidente USA, ma per due motivi molto semplice: è sempre più difficile utilizzare il metodo CAT (quello delle interviste telefoniche ripetute) perché è forte la flessione delle utenze telefoniche fisse; in secondo luogo è aumentata la tendenza degli intervistati a rovesciare la risposta rispetto alle reali intenzioni.
In sostanza, a questo punto, le posizioni di partenza (ripeto le posizioni di partenza e non i dati da sondaggio) indicano per quel che riguarda il voto italiano un totale di voti validi all’incirca del 49,86% (già calcolate bianche e nulle quindi prevista una partecipazione al voto tra il 53 e il 54%) quindi all’incirca 23.400.000 schede su 47.000.000 di iscritti.
In queste condizioni il SI parte in vantaggio con il 51,14% (poco meno di 12.000.000 di voti) con il NO al 48,86% ( meno di 11.500.000 voti): uno scarto di circa 500.000 voti con il non voto ad oltre 22.000.000 di unità: un mondo da scoprire.
Dal punto di vista politico, per definire la situazione con il massimo della chiarezza possibile risultano decisivi tre settori: quello interno al PD con il peso che potrà avere la presa di posizione per il NO di frazioni importanti di quel partito; l’altra fondamentale dinamica interna all’elettorato di Forza Italia; il ritorno al voto di quei settori della sinistra che nelle precedenti occasioni hanno disertato l’appuntamento.
Sarebbe importante non disperdere energie in inutili confronti tra il SI e il NO (quasi sempre raduni di tifoserie) concentrandosi su iniziative che producano anche organizzazione successiva in questo impegnativo finale di partita.
Per quel che riguarda l’estero i dati ci danno un totale di voti validi all’incirca del 16%, con il SI in leggerissimo vantaggio al 50, 90% contro il 49,10%. In sostanza, dal punto di vista delle posizioni di partenza, il SI si vedrebbe incrementato dal punto di vista del voto all’estero più o meno di 10.000 voti.
Esiste quindi, concretamente, la possibilità di affermazione del NO senza tener conto dei sondaggi e della loro oggettiva fallacia.
Augurandomi di essere stato capace di chiarire appieno la dinamica di questo lavoro e la portata dei dati ottenuti non resta che incitare al massimo chi sta lavorando per far vincere il NO: sicuramente lo spazio concretamente esiste.
Franco Astengo
giovedì 17 novembre 2016
Andrea Ermano: Se voto no, casca il mondo?
Dall'Avvenire dei lavoratori
EDITORIALE
Se voto "No"
casca il mondo?
Se, come mi suggerisce la coscienza, voto "No" al Referendum
sulla Revisione costituzionale, mi rendo corresponsabile della catastrofe cosmica che, secondo i fautori del Sì, seguirebbe alla eventuale sconfitta del premier Renzi?
di Andrea Ermano
La sorte di Cameron dopo la Brexit e soprattutto l'elezione di Trump negli USA sollevano un nugolo di domande tra gli esperti, i quali ci preavvisano che le politiche del neo-presidente americano influiranno non poco sulla nostra vita, enfatizzando le ricadute negative già innescatesi con l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea.
L'effetto Trump peggiorerà, nei paesi europei, il rapporto di sfiducia delle masse verso le élites. Il consenso dei più, su cui poggia la legittimazione materiale di un sistema, sta sempre in una certa tensione con la legittimazione valoriale, che poggia sul rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. È compito delle élites armonizzare questa tensione grazie a politiche sociali di pace, perequazione e piena occupazione. Chi l'ha viste?
Negli ultimi trent'anni su ogni politica sociale è gravato l'interdetto neoliberista che ci ha condotti alla guerra, alla sperequazione e alla disoccupazione di massa, favorendo per altro un trasferimento di ricchezza dal basso all'alto che non conosce precedenti storici. Avanza a gran passo la crisi populista, cioè appunto la contrapposizione, per non dire l'aperta ostilità, del consenso di massa verso i fondamenti valoriali di uno Stato di diritto.
Collocandosi ambiguamente all'interno di questa tendenza imboccata dall'Occidente dopo la caduta del Muro di Berlino, il nuovo presidente USA ha annunciato di voler avviare un vastissimo programma di opere pubbliche volto a ridurre la disoccupazione e ad aumentare i redditi medi nel suo paese. Parallelamente a ciò, il nuovo inquilino della Casa Bianca intenderebbe ridurre la pressione fiscale, anche sui redditi superiori e sui grandi patrimoni.
Conseguenza prevedibile: un aumento del già elevato debito pubblico americano; ciò che potrebbe indurre una crisi di disincanto tra gli investitori con l'effetto che, nei prossimi anni, farsi prestare soldi comporterà tassi più elevati. Quanto all'Italia, per ora c'è la Bce di Draghi, che agevola l'acquisto massiccio di buoni del tesoro, ma già si stagliano all'orizzonte le prime avvisaglie di tempesta sul fronte dello spread.
In secondo luogo, la nuova Amministrazione americana tenderà a risparmiare un po' di soldi propri sul bilancio delle spese militari, ma ben guardandosi dal danneggiare la propria industria di settore: chiederà agli alleati di mettere mano al portafoglio contribuendo maggiormente alla salvaguardia dell'Occidente. E questo significa: più truppe e più acquisti di armamenti dall'Europa.
Insomma, l'Europa dovrà "assumere le proprie responsabilità in tema di difesa comune", come si suol dire. Qualunque cosa ciò significhi nei vari "teatri strategici", alcuni noti altri meno noti, qui si parla in sostanza di mandare altri nostri ragazzi a rischiare la vita da qualche parte nel mondo con il nobile scopo di ammazzare i nemici dell'Occidente.
Non sarebbe meglio mandare le ragazze e i ragazzi in giro per il vecchio Continente a imparare cose utili e a fare cose utili, nel quadro di un grande progetto pacifico di Servizio Civile Europeo?
Per l'Italia repubblicana il criterio d'intervento militare è dato dalla Costituzione, abbastanza chiara in materia: "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo". Così l’articolo 11, approvato dalla Assemblea Costituente con consenso praticamente unanime. Lo scopo della Repubblica è, dunque, contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni, rifiutando in linea di principio l'uso delle armi.
Ed eccoci di nuovo al tema della Costituzione.
La proposta di Revisione Renzi-Boschi, che modificherebbe la Carta in numerosi punti, ha spaccato il Paese in due, e il No sembra prevalere sul Sì. Gli evidenti anelli deboli della Revisione corrispondono soprattutto alla mancanza di contrappesi democratici rispetto allo strapotere di una "maggioranza" parlamentare che è tale in forza di una legge elettorale iniqua, il cosiddetto Italicum, tuttora vigente e troppo somigliante al cosiddetto Porcellum, giudicato incostituzionale dalla Consulta nel gennaio del 2014.
Le 21 "Madri Costituenti" in un servizio giornalistico dell'epoca: Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela M. Guidi Cingolani, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Angelina Livia Merlin, Angiola Minelle, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi, Maria Nicotra Fiorini, Vittoria Titomanlio.
Ormai, i principali argomenti a favore del Sì riguardano il fatto che – se prevalesse il No – si creerebbe una fase d'instabilità politica in seguito all'eventuale sconfitta del Premier Renzi.
Quello per il Sì è, insomma, anzitutto un argumentum ad personam, dal quale si fanno discendere conseguenze di vasta portata storica e geopolitica.
Che ne sarà di Renzi se vincerà il No? Non ci sarà la scissione del PD? Non indeboliremo il braccio di ferro con la Commissione di Bruxelles sulla "crescita"? Lo spread non schizzerà alle stelle? La Repubblica Italiana non si avvierà verso la bancarotta del debito? Il populismo non prevarrà ovunque, e anche da noi, conducendoci tutti a una nuova catastrofe storica?
Queste domande, poco serene, diffuse a piene mani dalla propaganda filo-renziana, implicano a ben vedere che gli equilibri cosmici risulterebbero già a tal punto compromessi da potersi irrimediabilmente deteriorare in caso di semplice mantenimento della Costituzione come l'abbiamo avuta finora negli ultimi settant'anni.
Tesi del tutto improbabile.
Ma se gli equilibri del globo terraqueo fossero davvero così precari?! In tal caso, credetemi, mi sentirei meglio tutelato dalla Carta come è stata scritta dall'Assemblea Costituente, cioè da gente che aveva esperienza di che cos'è una grande tempesta in mare aperto, gente che a proprie spese aveva dovuto imparare a riflettere sull'importanza dei freni per la prevenzione di una crisi di civiltà.
Questa Revisione metterebbe invece nella Carta cose che addirittura accelerano (!) la velocità legislativa, che ledono seriamente l'indipendenza del Parlamento rispetto all'Esecutivo (soprattutto a legge elettorale vigente) e che sminuiscono le alte funzioni di garanzia attribuite alla Consulta e al Capo dello Stato.
mercoledì 16 novembre 2016
martedì 15 novembre 2016
Livio Ghersi: Cosa obiettiamo agli argomenti del sì
Da Critica Liberale
Livio Ghersi
Referendum: cosa obiettiamo agli argomenti del Sì.
1. Confronto, non propaganda.
Conosciamo finalmente la data del Referendum: domenica 4 dicembre 2016.
L'intensificarsi del confronto fra gli argomenti del Sì e quelli del No, con l'approssimarsi della scadenza, darà sempre più spazio a propagandisti e militanti. I quali ripeteranno formule messe a punto dalle rispettive propagande. Lo faranno ostentando sicurezza, come se si trattasse di dispensare frammenti di verità rivelata, di citare fonti che hanno la stessa autorevolezza dei passi dei Vangeli.
Non ci troviamo a nostro agio quando non c'è autentico confronto dialettico e tutto si riduce a contrapporre uno slogan ad un altro.
Consentiteci, quindi, di circoscrivere la nostra attenzione agli argomenti del campo avverso laddove espressi nella loro formulazione migliore. Faremo riferimento, in particolare, al Manifesto, titolato "Le ragioni del Sì", diffuso alla fine del mese di maggio 2016 e sottoscritto ad oggi da 251 tra docenti universitari, non soltanto in materie giuridiche, operatori della cultura, esponenti della società civile in genere. Molte firme sono di tutto rispetto. Il testo è ben scritto. Si può leggere collegandosi al sito denominato "BastaunSì", che rispecchia la linea ufficiale del Partito democratico e supporta la sua campagna referendaria.
2. La Camera dei deputati esclusiva titolare del rapporto di fiducia con il Governo.
Nel predetto manifesto, la riforma viene sintetizzata in sette punti. Il primo ci introduce subito alla reale esigenza politica che, negli ultimi decenni, è stata il vero motore della volontà di modificare la Costituzione. Si voleva evitare che le due Camere fossero entrambe titolari del rapporto fiduciario col Governo. Infatti, anche in presenza di leggi elettorali concepite con i medesimi criteri tanto per la Camera quanto per il Senato, i risultati del voto sono stati spesso divergenti. Ciò si spiega perché mentre per l'elezione della Camera hanno diritto di voto tutti i cittadini maggiorenni (e la maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno), nel caso dell'elezione del Senato possono votare soltanto i cittadini che abbiano superato il venticinquesimo anno di età (si veda l'articolo 58, primo comma, Cost.). C'è dunque una rilevante differenza nella composizione del Corpo elettorale. Inoltre, il Senato è eletto su base regionale e ciò confligge con la possibilità di attribuire un premio in seggi alla lista, o coalizione di liste, più votata in ambito nazionale, come invece prevede l'attuale normativa elettorale vigente per la Camera dei deputati.
Nel disegno originario dei Costituenti, tuttavia, si voleva che il Senato fosse una camera di ponderazione rispetto alle deliberazioni adottate dalla Camera dei deputati. E viceversa. La doppia lettura doveva tendere all'approvazione di leggi non frutto di impulsi momentanei, ma ben esaminate nel merito. Con la possibilità di correggere errori e di colmare lacune, nel corso dello stesso procedimento legislativo. I Costituenti non soltanto non si preoccupavano che il Senato fosse espressione di un Corpo elettorale numericamente più ristretto (in quanto formato da persone più mature), ma anzi avevano previsto uno sfasamento temporale per l'elezione delle due Camere; proprio per sottolineare che ciascuna di loro avesse una propria autonoma ragione di esistere, come contrappeso dell'altra. L'originario articolo 60 della Costituzione così recitava: «La Camera dei deputati è eletta per cinque anni. Il Senato della Repubblica per sei». Disposizione poi modificata dalla legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, che ha unificato i termini di durata della legislatura a cinque anni.
Quello che oggi nel manifesto per il Sì viene definito «l'anacronistico bicameralismo paritario indifferenziato», non fu una bizzarria dei Costituenti, né fu un espediente «impostosi per ragioni prudenziali dopo lo scoppio della guerra fredda». Certo, chi non sa concepire altro che la velocità nella decisione, non riesce a comprendere una ben più antica e saggia logica che si preoccupava che le leggi fossero scritte nel modo migliore possibile e fossero ben ponderate.
3. Il nuovo Senato.
Nel primo punto del manifesto per il Sì si stabilisce uno stretto collegamento tra la «previsione di un rapporto fiduciario esclusivo fra Camera dei deputati e Governo» ed il nuovo Senato. Che necessariamente deve avere compiti differenziati; quindi, deve avere un ruolo diverso (minore) anche nell'iter di approvazione delle leggi.
Del procedimento legislativo si occupa il punto secondo del manifesto, laddove si legge: «I procedimenti legislativi vengono articolati in due modelli principali». Camera e Senato continuano ad approvare i testi su basi paritarie quando «si tratti di revisione costituzionale o di leggi di attuazione dei congegni di raccordo fra Stato e autonomie». Per il resto, si prevede «in generale una prevalenza della Camera politica, permettendo al Senato la possibilità di richiamare tutte le leggi, impedendo eventuali colpi di mano alla maggioranza, ma lasciando comunque alla Camera l'ultima parola».
Nella parte introduttiva del manifesto si afferma che l'attuale riforma promossa dal Governo Renzi riflette «una continuità con le più accorte proposte di riforma in discussione da decenni».
4. C'è davvero una continuità con le proposte di riforma elaborate in precedenza?
A noi sembra che l'affermata continuità sia molto più apparente che reale. Al riguardo, richiamiamo una fonte istituzionale: un dossier del Servizio Studi del Senato, numero 14 del maggio 2013, titolato: "In tema di riforma costituzionale: quattro testi a confronto (1997-2012)". Come si vede, anche il periodo temporale di pubblicazione del predetto dossier riguarda tempi non sospetti, collocandosi nella fase di avvio della XVII Legislatura, quando ancora il Governo Renzi era in mente Dei. I quattro documenti messi a confronto sono:
a) i testi elaborati dalla Commissione bicamerale D'Alema nella XIII Legislatura;
b) il progetto di legge costituzionale approvato da una maggioranza parlamentare di centrodestra e sottoposto a Referendum popolare, con esito negativo, il 25-26 giugno 2006, nella XIV Legislatura;
c) la cosiddetta "bozza Violante", nel testo approvato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati il 17 ottobre 2007, nella XV Legislatura;
d) il disegno di legge costituzionale approvato, in prima lettura, dall'Assemblea del Senato il 25 luglio 2012 e trasmesso alla Camera (denominato n. 5386 / Atti Camera), nella XVI Legislatura.
Quest'ultimo merita qualche riga di commento. Com'è noto, la sedicesima Legislatura iniziò con il Popolo della Libertà che disponeva di ampie maggioranze in entrambi i Rami del Parlamento, avendo vinto in modo netto le elezioni. S'insediò il quarto Governo presieduto da Silvio Berlusconi. La solida maggioranza numerica non fu requisito sufficiente per una tranquilla azione di governo. Si determinò una frattura all'interno del PdL, che ebbe clamorosa evidenza pubblica il 22 aprile 2010, in occasione di una direzione del partito che sancì l'estromissione di Gianfranco Fini, al tempo Presidente della Camera dei deputati. Nella parte conclusiva del suo Governo, il 4 ottobre 2011, il Presidente Berlusconi, insieme al Ministro per le Riforme per il federalismo, Umberto Bossi, presentò il disegno di legge costituzionale d'iniziativa governativa n. 2941 (Atti Senato), recante: "Disposizioni concernenti la riduzione del numero dei parlamentari, l'istituzione del Senato federale della Repubblica e la Forma di governo". Tale disegno di legge fu abbinato a numerose altre proposte di legge costituzionale d'iniziativa parlamentare pendenti presso la competente Commissione Affari costituzionali del Senato, che aveva iniziato ad occuparsi della materia fin dal giugno del 2008.
Di lì a poco, nel novembre del 2011, s'insediò il Governo presieduto da Mario Monti che, in relazione all'emergenza economica, era supportato da un'amplissima maggioranza parlamentare. Fu in queste mutate condizioni politiche che la competente Commissione del Senato licenziò un testo unificato per l'Aula. L'Assemblea del Senato vi dedicò più sedute, fino all'approvazione il 25 luglio 2012. Il successivo iter si bloccò alla Camera, perché, nel frattempo, anche per il Governo Monti le possibilità di operare si facevano sempre più difficili.
5. La composizione del Senato.
Consideriamo la composizione del Senato. Il disegno di legge costituzionale n. 5386 della XVI Legislatura, esaminato ed approvato, come si è detto, nel 2012 da un solo Ramo del Parlamento, prevedeva che il Senato Federale della Repubblica fosse «composto da 250 senatori eletti a suffragio universale e diretto su base regionale». Era altresì previsto che partecipassero al Senato federale un rappresentante per ogni Regione, «eletto fra i propri componenti, all'inizio di ogni legislatura regionale, da ciascun consiglio o assemblea regionale». Nel caso della Regione Trentino - Alto Adige, era previsto che i consigli delle due Province autonome di Trento e Bolzano eleggessero ciascuno un proprio rappresentante. I predetti rappresentanti delle Regioni e delle Province autonome — era precisato — «non sono membri del Parlamento, non ricevono la relativa indennità e ad essi si applica la prerogativa di cui all'articolo 68, primo comma Cost.». L'ultimo riferimento è alla regola costituzionale secondo cui «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni».
L'elezione dei senatori a suffragio universale e diretto era prevista sia dal testo della Bicamerale D'Alema, che prevedeva 200 senatori elettivi, sia dal testo sottoposto a Referendum nel 2006; in quest'ultimo si prevedeva un totale di 252 senatori, «eletti in ciascuna Regione contestualmente all'elezione del rispettivo Consiglio o Assemblea regionale». Pure il disegno di legge costituzionale sottoposto a Referendum prevedeva la partecipazione all'attività del Senato federale di rappresentanti delle Regioni e delle autonomie locali, ma senza diritto di voto.
Il progetto di riforma che, per comodità, chiamiamo Renzi - Boschi, trova qualche assonanza solo nella Bozza Violante della XV Legislatura. Soltanto quest'ultimo testo prevedeva che i senatori non fossero eletti direttamente dal popolo: «In ciascuna Regione i senatori sono eletti dal Consiglio regionale al proprio interno, e dal Consiglio delle autonomie locali tra i componenti dei consigli dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane». La bozza Violante, tuttavia, era molto più equilibrata nel determinare la composizione del Senato, sempre qualificato "federale". Il numero dei senatori eletti dai consigli regionali andava da un minimo di cinque, nelle Regioni con popolazione sino a un milione di abitanti, ad un massimo di dodici nelle Regioni con più di sette milioni di abitanti. Con una tale quantificazione ha senso prevedere l'elezione con voto limitato, perché gli eletti sono in numero adeguato affinché possano essere rappresentati sia l'indirizzo politico maggioritario, sia le più consistenti minoranze consiliari. Disposizioni particolari erano previste per le Regioni Valle d'Aosta e Molise (ad ognuna un senatore) e per le Province autonome di Trento e Bolzano (due senatori per ciascuna).
Inoltre, in ciascuna Regione, il Consiglio delle autonomie locali eleggeva un senatore nelle Regioni sino ad un milione di abitanti e due senatori nelle Regioni con popolazione superiore ad un milione di abitanti.
I criteri previsti dalla Bozza Violante per la composizione del Senato darebbero, in relazione ai dati ISTAT della popolazione italiana all'1 gennaio 2016, un totale di 181 senatori.
Da questo confronto risulta in modo chiaro che il progetto Renzi - Boschi brilla per originalità avendo previsto:
a) senatori non eletti a suffragio universale e diretto;
b) una composizione del Senato numericamente inadeguata rispetto ai compiti di istituto, con soltanto 95 senatori in rappresentanza delle Istituzioni territoriali più cinque nominati dal Presidente della Repubblica;
c) senatori che, oltre tutto, lavorerebbero part time, dovendo contemporaneamente assolvere altri rilevanti impegni istituzionali nei consigli regionali o nelle amministrazioni comunali di cui sono membri.
6. Le attribuzioni del nuovo Senato.
Nella riformulazione dell'articolo 55 della Costituzione, riguardante le funzioni delle Camere, il progetto Renzi - Boschi contiene uno sforzo di definizione che non trova precedenti nei testi di riforma in precedenza richiamati, elaborati nelle legislature che vanno dalla tredicesima alla sedicesima. Si legga il quinto comma dell'articolo 55 Cost.: «Il Senato della Repubblica rappresenta le Istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabilite dalla Costituzione, nonché all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l'Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell'Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l'attuazione delle leggi dello Stato».
"Vasto programma!", verrebbe da dire, parafrasando Charles De Gaulle. Che appare velleitario rispetto all'inadeguatezza strutturale della composizione del Senato. Questi 95 senatori, eletti tra consiglieri regionali e sindaci, dovrebbero avere dei super poteri per poter realizzare quanto, in teoria, si richiede loro.
7. Il nodo delle politiche bilancio.
Il disegno di legge costituzionale n. 5386 della XVI Legislatura, nel riformulare l'articolo 72 Cost., prevedeva che: «La funzione legislativa è esercitata in forma collettiva dalle due Camere quando la Costituzione prescrive una maggioranza speciale di approvazione, per le leggi in materia costituzionale ed elettorale, per quelle concernenti le prerogative e le funzioni degli organi costituzionali e dei rispettivi componenti, per quelle di delegazione legislativa, di conversione in legge dei decreti con forza di li legge, di approvazione di bilanci e consuntivi» (secondo comma).
Nel successivo comma si indicavano i disegni di legge per i quali l'attività legislativa doveva avere inizio al Senato e, tra questi, erano inclusi «quelli che riguardano prevalentemente le materie di cui all'articolo 117, terzo comma, e all'articolo 119» della Costituzione.
Per chi non lo sapesse, l'articolo 119 Cost. è quello che riguarda la finanza regionale e locale. Infatti, alcuni anni or sono, ha avuto molto spazio negli organi d'informazione e nel dibattito pubblico la legge 5 maggio 2009, n. 42, di delegazione legislativa al Governo in materia di federalismo fiscale, legge che, con i decreti legislativi da essa derivanti, avrebbe dovuto dare compiuta attuazione al predetto articolo 119 della Costituzione.
Ora — lasciando perdere la politica ed il diritto e ragionando in termini di stretta logica — ci si vuole cortesemente spiegare a cosa diavolo serva un'Istituzione rappresentativa delle Regioni e degli altri Enti territoriali, quale dovrebbe essere il Senato riformato, se ha un ruolo marginale quando si discuta del bilancio dello Stato ed un ruolo secondario anche quando si discuta degli assetti della finanza regionale e locale?
Per quanto riguarda la partecipazione all'iter di approvazione della legge di bilancio dello Stato, nel testo di riforma Renzi - Boschi, così è scritto: «I disegni di legge di cui all'articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione» (si veda l'articolo 70, comma quinto, Cost., come riformulato). Ciò significa che l'esame del Senato, in questi casi (bilancio e rendiconto consuntivo), è necessario e non meramente eventuale. Tuttavia, i tempi per deliberare eventuali proposte di modifica sono ristretti e poi, comunque, l'ultima parola spetta alla Camera dei deputati. Da ciò risalta plasticamente che il Senato non sarà l'autentico centro di raccordo nei rapporti fra Stato, Regioni ed autonomie locali. Non sarà una camera di compensazione, di equilibrio. Di fatto, conterà meno della Conferenza unificata (Stato - Regioni - Città ed autonomie locali).
8. Le nuove modifiche al Titolo quinto.
Il terzo punto del manifesto per il Sì afferma che la nuova «riforma del Titolo V ridefinisce i rapporti fra lo Stato e le Regioni nel solco della giurisprudenza costituzionale successiva alla riforma del 2001, con conseguente incremento delle materie di competenza statale».
Invero, mentre la riforma del 2001, nel bene e nel male (più nel male che nel bene), ebbe l'ambizione di meglio definire i rapporti fra Stato, Regioni ed altri Enti territoriali dotati di autonomia, ossia pose in essere un intervento complesso ed articolato, le modifiche introdotte in questa materia dal testo Renzi - Boschi sono minimali, anche se non senza conseguenze.
In altre parole, bisogna avere chiaro che la propaganda secondo cui la riforma Renzi - Boschi correggerebbe gli errori compiuti dal Legislatore costituzionale nel 2001 è del tutto destituita di fondamento. Basta leggere quanti e quali articoli della Costituzione furono modificati, o interamente riscritti, nel 2001, per rendersi conto che tanti, troppi, problemi, non sono stati affrontati e restano sul tappeto.
Gli estensori del manifesto sono onesti: «Per la prima volta, non si assiste ad un aumento dei poteri del sistema regionale e locale, bensì ad una loro razionalizzazione e riconduzione a dinamiche di governo complessive del Paese».
Cambia pure il testo della rubrica del Titolo quinto, che ora è così ridenominata: «Le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni» (si veda l'articolo 38 del testo, recante disposizioni di coordinamento, e, precisamente, l'ottavo comma).
Vengono abolite le Province. Innovazione di per sé positiva, ma in parte contraddetta dal fatto che resta il riferimento agli "enti di area vasta", i quali, dal punto di vista della competenza territoriale, potrebbero essere la stessa cosa delle precedenti Province. Nell'articolo 40 del testo, recante disposizioni finali, si legge al quarto comma: «Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale».
In altro documento che si può leggere collegandosi al sito "BastaunSì", e che è titolato "Botta e risposta alle critiche", è scritto che, togliendo dalla Costituzione ogni riferimento alle Province, «si permette, volendo, di abolirle del tutto o di trasformarle a piacimento (del legislatore statale e regionale)». Quest'impostazione lascia troppo spazio all'eventuale volontà conservatrice che potrebbe prevalere nelle singole Regioni: le attuali Province disponevano ciascuna di apparati amministrativi, ossia di personale burocratico, e sarebbe la cosa più semplice lasciarlo dove sta, limitandosi a dire che non lavora più per la provincia, ma per l'ente di area vasta!
Manca nel progetto Renzi - Boschi la volontà di misurarsi seriamente con l'esigenza di ridurre al minimo indispensabile i livelli di governo territoriale, mantenendo soltanto quelli che effettivamente servono, e, nel contempo, di individuare possibili nuovi modelli organizzativi per governare in modo efficiente le comunità territoriali, laddove, ad esempio, i Comuni con ridotte dimensioni demografiche non sono nelle condizioni di assolvere credibilmente i compiti di istituto.
Le innovazioni più importanti del testo Renzi - Boschi riguardano la riscrittura dell'articolo 117 della Costituzione. Il povero articolo è arrivato alla terza stesura: quella del 1948, quella del 2001, adesso quella del 2016. Al secondo comma viene ora incrementato l'elenco delle materie per le quali lo Stato ha legislazione esclusiva. Ad esempio, spetterebbe ora alla legislazione dello Stato approvare «disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare» (si veda la lettera "m"). Il che può essere una misura di razionalizzazione, quindi una buona cosa. Al momento, la tutela della salute e l'alimentazione sono materie di legislazione concorrente. Cosa s'intende con quest'espressione? E' scritto nella stessa Costituzione (articolo 117 Cost, terzo comma, ultimo periodo, nel testo vigente): «Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
Sforziamoci di farci comprendere dai profani. Tutta la mirabile riforma che dovrebbe conseguire dalla soppressione della legislazione concorrente si tradurrà in questo: che, per restare all'esempio della tutela della salute, le leggi dello Stato non si limiteranno più a fissare «i princìpi fondamentali», ma dovranno invece determinare «le disposizioni generali e comuni». Non si sa ancora come quest'espressione sarà interpretata, ma si dà per scontato che «le disposizioni generali e comuni» debbano essere qualcosa di più dettagliato ed incisivo, rispetto alla mera enunciazione dei princìpi fondamentali. Basterà questo mutamento lessicale ad eliminare ogni possibile contrasto fra competenze statali e competenze regionali? Ci permettiamo di dubitarne, anche perché, sempre per restare allo stesso esempio, spetterà comunque alle Regioni «la programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali».
Per quanto riguarda la cosiddetta "clausola di supremazia", consiste nel fatto che, su proposta del Governo, la legge dello Stato possa intervenire in materie di competenza legislativa regionale, quando lo richieda «la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale» (si veda l'articolo 117, comma quarto, Cost., come riformulato). Questa formulazione è molto vaga e si presta potenzialmente ad abusi. Si prevede, dunque, che in questi casi i disegni di legge approvati dalla Camera siano necessariamente sottoposti al Senato, che li esamina nei 10 giorni successivi. La Camera può non conformarsi alle modificazioni eventualmente proposte dal Senato, ma se questo ha deliberato a maggioranza assoluta dei suoi componenti, anche la decisione difforme, definitiva, della Camera dei Deputati dovrà essere adottata a maggioranza assoluta dei propri componenti (si veda l'articolo 70, comma quarto, Cost., come riformulato).
A leggere distrattamente il testo Renzi - Boschi, sembrerebbe che anche l'articolo 119 Cost. sia stato interamente riscritto. Non è così: è stato diligentemente ricopiato il testo del 2001, inserendovi le modifiche introdotte dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, per intenderci, quella che ha introdotto il principio del pareggio del bilancio in Costituzione. La sostanza è già stata decisa dalla predetta legge costituzionale n. 1/2012: tutti gli Enti territoriali (Regioni, Comuni, eccetera) ai quali è riconosciuta autonomia finanziaria di entrata e di spesa, devono esercitarla «nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci»; tutti questi Enti devono concorrere «ad assicurare l'osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea» (si veda l'articolo 119, commi primo e sesto, quest'ultimo per i limiti all'indebitamento).
9. Del tenere i conti in ordine.
Vorremmo qui fare una digressione. La legge costituzionale numero 1 del 2012 è stata approvata senza il minimo coinvolgimento dell'opinione pubblica. Tra i giuristi ed i cultori del diritto c'è stata la consegna del silenzio; quasi che esprimere critiche equivalesse ad una manifestazione antipatriottica. Gli organi d'informazione hanno dato conto, com'era ovvio, delle varie tappe dell'iter parlamentare, ma senza dare spazio ad analisi approfondite nel merito, anzi presentando quella riforma come una necessità cui non era possibile sottrarsi.
L'accordo fra i Gruppi parlamentari che allora sostenevano il governo presieduto da Mario Monti aveva tra i suoi punti fondamentali che si dovesse necessariamente raggiungere la maggioranza dei due terzi, per impedire l'effettuazione del referendum confermativo. Gli esiti del quale, una volta che i contenuti della riforma fossero conosciuti dal vasto pubblico, non sarebbero stati affatto scontati. I deputati ed i senatori votarono disciplinatamente, consapevoli che in quel caso non ci fosse la possibilità di modificare alcunché del testo concordato.
Noi non pensiamo che quella legge costituzionale ricalchi un modello ideologico neo-liberista; il principio dell'equilibrio di bilancio, che ricomprende in sé le correzioni inerenti all'andamento del ciclo economico, può sposarsi con politiche economiche molto diverse fra loro.
In particolare, a noi non dispiacciono affatto le disposizioni contenute nella legge costituzionale che tendono a responsabilizzare le Regioni e gli Enti locali affinché facciano la loro parte nel rendere sostenibile il debito pubblico. E' nel nostro interesse nazionale che lo Stato, le Regioni, gli Enti locali, abbiano i conti in ordine. Che non ci s'indebiti per continuare a finanziare privilegi ingiustificati e spesa clientelare. Qui non c'è da lamentarsi di vere, o presunte, imposizioni da parte dell'Unione Europea. E' demerito nostro se c'è voluta una pressione esterna per indurci (ed ancora molti non sono convinti) a fare quanto avremmo dovuto fare, di nostra iniziativa, da tempo.
L'obiettivo politico di risanare i conti pubblici, tuttavia, deve essere adeguato alle caratteristiche del momento storico in cui viene ad inserirsi. Tutti gli economisti, di qualsiasi indirizzo, non avranno difficoltà a riconoscere che è molto più facile risanare i conti pubblici quando l'economia sia in fase di crescita. Quando il Prodotto interno lordo nazionale aumenti, migliora automaticamente il rapporto fra debito pubblico e PIL, per cui anche se l'ammontare del debito pubblico restasse costante, la sua incidenza percentuale sul PIL sarebbe inferiore.
La politica dell'Unione Europea, finora improntata ad un estremo rigore finanziario, non brilla per intelligenza, né per efficacia. E' logicamente e politicamente sbagliato, ad esempio, il "Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell'Unione economica e monetaria" (cosiddetto "Fiscal compact"); perché tende ad obiettivi non realistici, impossibili da realizzare. Non a caso finora è rimasto lettera morta. Eppure, quel Trattato è stato ratificato dal Parlamento (nel mese di luglio del 2012), da parlamentari nell'occasione usi ad obbedir tacendo, come i carabinieri.
Ciò che ci dà più fastidio nella nostra attuale classe dirigente, politica e di governo, è il non voler parlare con onestà all'opinione pubblica italiana di questi problemi. Si preferisce sempre l'ipocrisia, il non detto; si dimostra l'incapacità di tenere fede a qualsiasi impegno, perché sempre era stato assunto con riserva mentale.
Parlare con onestà significherebbe ammettere che, con un debito pubblico che oggi è stimato percentualmente superiore al 130 % del Prodotto interno lordo nazionale, il nostro Paese è esposto a rischi seri. Possiamo andare avanti con relativa tranquillità soltanto perché la Banca Centrale Europea ci garantisce, essendo pronta ad acquistare tutti i titoli del nostro debito pubblico ad un tasso di interesse contenuto. Esattamente come la BCE sta facendo nei confronti di tutti gli altri Stati membri che hanno problemi analoghi. Cosa succederebbe se tale garanzia venisse meno, anche per la semplice circostanza che in un prossimo futuro la BCE avesse un Presidente diverso da Mario Draghi, con una differente concezione della politica monetaria e soggettivamente meno amante dell'Italia? Accadrebbe che i titoli del debito pubblico dovrebbero essere acquistati spontaneamente dai mercati finanziari. Tuttavia, in questo caso, al minimo stormir di fronde, potremmo essere travolti dalla speculazione. Visto che il debitore è in difficoltà, quindi ricattabile, i creditori comincerebbero a pretendere tassi di interesse sempre più elevati per acquistare i titoli del nostro debito pubblico. Di conseguenza, bisognerebbe stanziare nel bilancio dello Stato risorse via via crescenti per il servizio del debito, ossia per garantire il pagamento degli intessi e la restituzione delle quote di capitale nelle scadenze previste. Per questa via sarebbero sottratte ingenti risorse ad altri possibili impieghi anche di primaria utilità e la situazione si farebbe presto insostenibile dal punto di vista sociale, prima che economico.
Bisogna uscire da una condizione in cui il debito pubblico supera il 130 % del PIL, condizione che ci rende deboli e fragili al cospetto delle manovre speculative. In un mondo ideale, nelle condizioni descritte, l'Italia, nella sua qualità di Stato membro dell'Unione Europea, dovrebbe assumere seriamente i suoi impegni di risanamento finanziario (oltre ad individuare politiche per la crescita economica). Poi ci dovrebbe essere un confronto leale tra lo Stato, le Regioni e tutti gli altri Enti territoriali, affinché gli impegni assunti a livello europeo dal Paese nel suo insieme, venissero distribuiti, in relazione alla capacità contributiva di ciascuna area territoriale, in modo che tutti se ne facessero responsabilmente carico pro-quota. Servirebbe un impegno in una prospettiva di medio termine. Servirebbe, cioè, un piano di ammortamento del debito almeno ventennale, come previsto dal "Fiscal compact"; tuttavia, con modalità più soft e con obiettivi più realistici. Se dopo vent'anni si riconducesse il debito pubblico non al limite del 60 % del PIL, come velleitariamente pretenderebbe il "Fiscal compact", ma, ad esempio, ad un livello equivalente all'85 o 90 % del PIL, già si sarebbe raggiunto un risultato straordinario e di molto migliorerebbe la credibilità del Paese nei rapporti con il mondo finanziario globale.
Occorrerebbe che Stato, Regioni ed Enti locali facessero un gioco di squadra, lavorando tutti insieme per i medesimi obiettivi. Senza furbizie, senza cercare di fregare, di volta in volta, i territori che hanno espresso i rappresentanti che, nel dato momento, risultino politicamente più deboli.
Un compito di questo tipo esalterebbe una camera rappresentativa delle Regioni e del sistema delle autonomie locali. Ma chi ha concepito il nuovo Senato, purtroppo, non è all'altezza di queste sfide. Forse non sa nemmeno concepirle.
10. Il riequilibrio dei poteri normativi del Governo.
Nel punto quarto del manifesto per il Sì si sostiene che «i poteri normativi del Governo vengono riequilibrati, con una serie di più stringenti limiti alla decretazione d'urgenza introdotti direttamente nell'articolo 77 della Costituzione».
In effetti, è positivo che in quello che sarebbe il quarto comma (aggiunto) dell'articolo 77 Cost., ad esempio, si faccia divieto al Governo di «reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge». E' invece strano che, nel medesimo comma, si avverta l'esigenza di esplicitare che il Governo non può «ripristinare l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento». Questo divieto dovrebbe essere scontato. Sarebbe impensabile che il Governo riproponesse, tale e quale, una norma subito dopo che la Corte Costituzionale l'abbia dichiarata costituzionalmente illegittima.
Positiva anche la disposizione di quello che diverrebbe il settimo comma (aggiunto) dell'articolo 77 Cost.: «Nel corso dell'esame dei disegni di legge di conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee all'oggetto o alle finalità del decreto».
Sempre nel medesimo luogo del manifesto si chiarisce che, nel contempo, il Governo ha chiesto la garanzia «di avere una risposta parlamentare in tempi certi alle principali iniziative governative». Viene in considerazione la nuova formulazione dell'articolo 72 della Costituzione e, precisamente, del settimo comma. Quando un disegno di legge sia indicato come «essenziale per l'attuazione del programma di governo», la Camera dei deputati è tenuta a deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta del Governo, l'iscrizione con priorità del provvedimento all'ordine del giorno. L'iter deve concludersi, con la pronuncia in via definitiva della Camera, entro settanta giorni dalla deliberazione. In questa ipotesi i tempi per l'eventuale pronuncia da parte del Senato sono ridotti della metà. Sono esclusi dall'applicazione di questa procedura tutti i casi in cui la funzione legislativa deve essere esercitata collettivamente da entrambe le Camere, quindi anche dal Senato, indicati al primo comma dell'articolo 70 Cost, come riformulato.
11. Gli istituti di democrazia diretta.
Al punto quinto del manifesto per il Sì si sostiene che il testo Renzi - Boschi rilancerebbe gli istituti di democrazia diretta. In questa materia, però, l'effetto annuncio precede di gran lunga la realtà.
Si prevedono, infatti, «referendum popolari propositivi e d'indirizzo», istituti al momento non previsti dal nostro ordinamento statuale. Tuttavia, le condizioni di attivazione e gli effetti di tali istituti sono demandati ad una legge costituzionale, la quale, come è noto, non ha una procedura veloce, richiedendosi una doppia lettura da parte di ciascuna Camera. Ciò non basta, perché poi occorrerà un'ulteriore legge ordinaria, approvata da entrambe le Camere, per disciplinare le modalità di attuazione (si veda l'articolo 71 Cost., ultimo comma, nel testo riformulato).
Quanto alle leggi d'iniziativa popolare, le proposte, per essere validamente presentate, dovranno essere sottoscritte da almeno centocinquantamila elettori. In altre parole, viene triplicato il numero di firme attualmente richiesto. La garanzia che tali proposte siano effettivamente discusse, entro tempi certi, viene rimessa ai regolamenti parlamentari. Il che non garantisce alcunché.
Più pregnante la proposta di modifica dell'articolo 75 Cost., che disciplina il Referendum popolare abrogativo. Mentre, normalmente, il Referendum è validamente proposto quando lo richiedano cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali, s'introduce una nuova ipotesi: che il Referendum sia richiesto da almeno ottocentomila elettori. In questo caso il quorum da raggiungere, affinché la consultazione popolare produca gli effetti giuridici voluti dai promotori, non è più la maggioranza degli aventi diritto al voto (ossia del Corpo elettorale), ma la maggioranza «dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei Deputati» (si veda l'articolo 15 del testo). Ad esempio, nelle elezioni per il rinnovo della Camera del 24 febbraio 2013, i votanti furono poco più di 35 milioni, pari al 75,20 % degli aventi diritto. Per la validità di un Referendum abrogativo bisognerebbe, quindi, superare la metà più uno di tale cifra, sempre che i sottoscrittori siano stati almeno ottocentomila. Si tratta apparentemente di una disposizione di favore per questo istituto di democrazia diretta; a decidere la fortuna di un Referendum, tuttavia, è lo spazio informativo che gli organi d'informazione di massa riservano alle ragioni del Sì ed a quelle del No. Senza parità di trattamento, le possibilità di successo di un Referendum abrogativo sono fortemente compromesse. Tanto più se verte su questioni scomode per il Governo in carica. Il recente referendum sulle trivelle insegni.
12. La soppressione del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro.
Questo argomento è trattato al punto sesto del manifesto per il Sì. Qui siamo d'accordo. Se fosse stato previsto un disegno di legge costituzionale ad hoc, probabilmente sarebbe stato approvato senza troppi problemi. La soppressione del CNEL si realizza attraverso l'abrogazione dell'articolo 99 Cost.; le risorse umane e strumentali sarebbero destinate alla Corte dei Conti. Si veda l'articolo 40 del testo, recante disposizioni finali, e in particolare il primo comma.
13. Riduzione dei costi della politica.
Al punto settimo del manifesto per il Sì si pone grande enfasi sul fatto che la legge dello Stato, la quale già fissa la durata degli organi elettivi delle Regioni, dovrà stabilire pure gli emolumenti dei consiglieri regionali, «nel limite dell'importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di regione». Si veda la proposta di modifica dell'articolo 122 Cost.
L'innovazione per cui più si mena vanto, presentandola come straordinaria conquista, è: «220 parlamentari in meno».
Per la verità i duecentoventi sacrificati sarebbero tutti senatori, laddove nel titolo del progetto di legge costituzionale che troveremo nella scheda di votazione per il Referendum, è scritto: «riduzione del numero dei parlamentari».
Per quale motivo il numero dei senatori è stato chiaramente sottodimensionato (ne occorrerebbero almeno 180, senza tenere conto dei senatori a vita e di nomina presidenziale), mentre si è lasciato immutato il numero dei deputati della Camera, i quali sono ben 630?
E' opportuno ricordare che tutte le precedenti proposte di riforma costituzionale messe a confronto nel dossier del Servizio Studi del Senato, numero 14 del maggio 2013, in precedenza richiamato, riducevano in modo rilevante il numero dei deputati.
Vediamo le quantificazioni:
a) testo della Commissione bicamerale D'Alema nella XIII Legislatura: il numero dei deputati non può essere superiore a cinquecento;
b) progetto di legge costituzionale sottoposto a Referendum popolare, con esito negativo, il 25-26 giugno 2006, nella XIV Legislatura: la Camera è composta da 518 deputati elettivi, diciotto dei quali eletti nella circoscrizione Estero;
c) cosiddetta "bozza Violante" nella XV Legislatura: il numero dei deputati è di cinquecento, oltre a dodici eletti nella circoscrizione Estero;
d) disegno di legge costituzionale n. 5386 (Atti Camera) approvato, in prima lettura, dall'Assemblea del Senato il 25 luglio 2012 nella XVI Legislatura: il numero dei deputati è di 508, otto dei quali eletti nella circoscrizione Estero.
Il progetto Renzi -Boschi avrebbe potuto prevedere risparmi ben più significativi nei costi della politica se avesse seguìto le indicazioni di tutti (tutti, concordemente) i precedenti progetti di riforma costituzionale, i quali riducevano sensibilmente il numero dei componenti la Camera dei deputati.
Perché non si è voluta seguire la via maestra e si è fatto un vero pasticcio nel disciplinare la composizione del Senato?
Il reale motivo è noto a tutti. Perché la riforma della Costituzione è stata avviata contemporaneamente a quella della legge elettorale ed il Governo Renzi non voleva modifiche all'articolo 56 della Costituzione, relativo alla composizione della Camera dei deputati, perché qualunque ipotesi di modifica avrebbe rimesso in discussione l'impianto della legge elettorale, che lui aveva già concordato in sede di trattativa politica.
Un motivo politico contingente, dunque; che nulla ha a che vedere con la razionalità, o con la ricerca delle migliori soluzioni possibili per aggiornare la Costituzione.
14. Forma di governo.
Nella parte conclusiva del manifesto per il Sì si afferma che nel progetto «non ci sono scelte sbagliate o oggettivamente divisive (per esempio in materia di Forma di governo: l'Italia rimane una Repubblica parlamentare!».
La Forma di governo resta apparentemente immodificata nella Costituzione, ma che dire del modo in cui è stata scritta la legge elettorale? Facciamo riferimento proprio alla legge 6 maggio 2015, n. 52 (cosiddetto Italicum), per l'approvazione della quale il Governo ha posto ripetutamente la questione di fiducia.
Nell'articolo 14-bis del DPR n. 361 del 1957, come modificato dall'ottavo comma dell'articolo 2 della legge n. 52 del 2015, si legge: «I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come Capo della forza politica».
Potrebbe il Presidente della Repubblica conferire l'incarico di formare il Governo a persona diversa da quella indicata come Capo della forza politica che ha espresso la lista più votata? Tanto più, nel caso di ballottaggio, potrebbe il Presidente della Repubblica conferire l'incarico di formare il Governo a persona diversa da quella indicata come Capo dalla lista che prevale al ballottaggio?
Qui si è in presenza di una legge elettorale che, di fatto, modifica la Costituzione, senza dirlo. Quindi, in assenza dei contrappesi istituzionali che si dovrebbero necessariamente introdurre se intervenisse una modifica espressa della Forma di governo in Costituzione, ad esempio passando ad una Forma di governo presidenziale, come negli Stati Uniti, o semipresidenziale, come in Francia.
Non è la prima volta che succede; né è successo solo con le leggi elettorali. Pensiamo, ad esempio, alla legge cosiddetta Bassanini uno, la legge 15 marzo 1997, n. 59, che avrebbe dovuto realizzare mirabilie nelle pubbliche amministrazioni. Quella legge (di delegazione legislativa al Governo) anticipò i contenuti della legge costituzionale n. 3 del 2001 di revisione del Titolo quinto della parte seconda della Costituzione. Tanto che poi si disse che la riforma costituzionale serviva per dare «copertura costituzionale» ex post a molti provvedimenti adottati ai sensi della legge Bassanini, i quali, altrimenti, correvano tutti il concreto rischio di essere dichiarati costituzionalmente illegittimi.
15. Si raccoglie ciò che si semina.
Il Ministro Maria Elena Boschi ha dichiarato che, se la proposta di riforma che porta anche il suo nome non venisse approvata nella consultazione referendaria, sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti del Parlamento. Il quale ha tanto lavorato, impegnandosi in ben sei letture del testo.
La verità è che mai si era caduti tanto in basso, in tema di revisione della Costituzione. Il giovane e nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri aveva il problema di non avere pieno controllo parlamentare del suo stesso partito, il PD, dal momento che i parlamentari erano stati selezionati in una diversa fase politica dal precedente Segretario nazionale, Bersani. Poiché si sa che le riforme costituzionali dovrebbero essere approvate con la maggioranza parlamentare più vasta possibile, il giovane Presidente Renzi avviò una trattativa con le opposizioni. Non, però, con tutte le opposizioni; ma soltanto con Forza Italia. Per essere più esatti, direttamente con il leader di quest'ultima. Così un numero ristrettissimo di persone si incontrarono più volte, fino a mettere a punto sia il testo della riforma elettorale, sia quello di riforma della Costituzione. La seconda, in realtà, ritenuta molto meno importante della prima. Il tutto non avvenne nella massima trasparenza; ma, al contrario, nella massima opacità. Così il giovane Presidente poté dire che c'era un accordo complessivo, ma che non si poteva metterne in discussione nemmeno una virgola, perché altrimenti l'altro interlocutore, Berlusconi, avrebbe ritirato il suo consenso. Cosi quanto deciso, non si sa esattamente da chi, divenne ciò che il Parlamento aveva il dovere di votare disciplinatamente. Non servivano le competenti Commissioni legislative, non erano richiesti approfondimenti. Eventuali modifiche, che pure via via si resero necessarie, non potevano essere liberamente proposte, ma dovevano essere preventivamente approvate dal ristretto gruppo di comando. I dissidenti più irriducibili furono messi nelle condizioni di dover lasciare il Partito democratico; per di più con l'accusa di essere dei conservatori, che non sapevano stare al passo con l'innovazione istituzionale.
L'accordo blindato — per un vero paradosso — fu considerato ancora valido e vincolante anche dopo che alla fine del mese di gennaio del 2015 saltò la convergenza con Berlusconi, ossia il cosiddetto patto del Nazareno.
E' stato triste, il 13 febbraio 2015, assistere alla Conferenza-stampa delle opposizioni parlamentari, tenuta congiuntamente dai deputati Renato Brunetta per il Gruppo di Forza Italia, Arturo Scotto per il Gruppo di Sinistra, Ecologia e Libertà, Massimiliano Fedriga per il Gruppo della Lega Nord, Fabio Rampelli per il Gruppo di Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale, Barbara Saltamartini del Gruppo Misto. Immediatamente dopo, il Gruppo del Movimento Cinque Stelle avrebbe tenuto la propria Conferenza-stampa. Separata, ma volta a comunicare sostanzialmente la medesima cosa: tutte le opposizioni parlamentari avevano deciso di abbandonare l'Aula della Camera dei deputati, in segno di protesta rispetto al modo in cui si stavano svolgendo i lavori parlamentari nella discussione del disegno di legge costituzionale.
E' stato triste che nell'ultima lettura alla Camera dei deputati, il 12 aprile 2016, siano rimasti in Aula soltanto i deputati favorevoli alla riforma, mentre tutti i banchi delle opposizioni erano vuoti.
Questa riforma potrebbe rivelarsi l'ennesima occasione sprecata, qualora non prevalesse nel Referendum. Vero. Ma chi l'ha sprecata? Chi ha giocato in modo tanto discutibile le proprie carte?
16. Che valore attribuiamo alla Costituzione.
Noi non abbiamo alcun partito preso da difendere: amiamo l'Italia, la nostra Patria, e vorremmo il meglio per lei; quindi, per tutti gli Italiani, presenti e futuri. Crediamo nella concezione dello Stato di Diritto che è l'unico modello di organizzazione statuale, storicamente sperimentato, che pone al suo centro l'esigenza di rispettare la dignità e le libertà fondamentali di ogni singola persona. Nei Paesi anglo-sassoni si designa lo stesso concetto con l'espressione "Rule of Law". Tutti gli altri modelli statuali sperimentati nella Storia, come lo Stato assoluto, quello teocratico, quello totalitario, comprimono e mortificano la dimensione individuale, non riconoscendo al singolo altro ruolo che quello di strumento per la realizzazione dei fini collettivi dello Stato.
Le disposizioni della Costituzione sono a fondamento dello Stato di Diritto. E' sulla base delle disposizioni costituzionali che è possibile giudicare la legittimità (ragionevolezza, eccetera) delle norme contenute nelle leggi approvate nel procedere del tempo dalle sempre mutevoli maggioranze parlamentari. Questo giudizio, nel nostro ordinamento, spetta ad un apposito organo, la Corte Costituzionale, che è appunto il giudice delle leggi. La Corte Costituzionale deve essere un organo autorevole per la qualità dei suoi membri, e per la sua capacità di trovare soluzioni sostanzialmente giuste e formalmente equilibrate, in uno spirito di reale indipendenza rispetto a tutti gli altri poteri dello Stato (Governo, Parlamento, Ordine giudiziario).
La Costituzione, quindi, è molto importante. Va rispettata. Può, certamente essere aggiornata, per rispondere ad esigenze nuove, prima non avvertite. La responsabilità di modificarla, tuttavia, non è cosa da poco. Non soltanto per le particolari procedure che la Costituzione medesima richiede per il procedimento di revisione costituzionale. Procedure che, nel nostro caso, si concluderanno con il Referendum popolare confermativo, in cui l'ultima parola sarà quella del Corpo elettorale. Ma torniamo alla responsabilità dei revisori costituzionali. Fermo restando che non tutti gli effetti delle nostre azioni sono prevedibili, occorrerebbe in chi avanza la proposta di riforma la chiara coscienza di avere individuato soluzioni tecnicamente valide e realisticamente applicabili, tali da migliorare effettivamente il funzionamento delle Istituzioni. E' proprio questo requisito che non vediamo nella proposta di cui ora si discute. Per questo motivo, in coscienza, ci siamo decisamente orientati per il No al Referendum.
Cambiare, tanto per il piacere di cambiare, in una materia delicata qual è quella costituzionale sarebbe semplicemente demenziale. Quando i riformatori appaiono poco convincenti, approssimativi e pasticcioni, c'è il rischio che dalle loro decisioni derivino serissimi danni alle Istituzioni, di cui poi tutti i cittadini subiranno le conseguenze negative.
La nostra posizione non è quella di chi vuole difendere l'esistente. Anche noi vorremmo sostanziali cambiamenti in più punti. Ma non ci convincono le soluzioni individuate dai decisori politici in questa proposta di riforma. Ci opponiamo perché non vogliamo Istituzioni ancora più scassate e scombinate di quelle che operano attualmente; così ridotte non per i difetti intrinseci della Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948, ma per l'insipienza ed il malgoverno dimostrati da classi dirigenti (non ci riferiamo esclusivamente ai politici) progressivamente sempre più scadenti. Gli avversari ci chiamano conservatori, ma la nostra posizione è quella di un genuino patriottismo costituzionale.
Palermo, 26 settembre 2016
Livio Ghersi
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