Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 30 giugno 2015
Franco Astengo: Fallimenti
FALLIMENTI di Franco Astengo
Potrebbe essere questo il momento per rialzare la testa e guardare le cose del mondo da un punto di vista complessivo rivolto a valutare ciò che è stato e a elaborare un progetto per il futuro.
Ciò che sembra mancare, in questa fase complicata e così difficile nell’insieme delle relazioni economiche, politiche, militari, a livello globale è proprio la capacità di pensare “lungo” e in “grande” da parte dell’insieme dell’establishment a livello internazionale, al di là del colore politico e delle ideologie di provenienza.
Addirittura, invece, il pensiero dei governanti si “restringe” e a proposito del terrorismo islamico il socialista primo ministro francese, Valls, arriva addirittura a sposare la tesi dello “scontro di civiltà” caro alla destra americana più conservatrice, da Samuel Huntington in avanti.
Potrà apparire anche banale e scontato ma la prima affermazione da svolgere, sotto quest’aspetto, non può che essere categorica: l’intera politica internazionale del post-muro di Berlino è completamente fallita.
E’ completamente fallita l’idea di affidare il tutto alla tecnocrazia regolatrice di un processo economico dallo sviluppo “naturale”.
Una tecnocrazia basata su “modelli” precostituiti diventata assolutamente prevalente e dominante sulle scelte politiche che dovrebbero semplicemente limitarsi ad assecondare un processo di sviluppo predeterminato e condotto da una sorta di “pilota automatico”.
Su questa base, del primato della tecnocrazia, è stato impostato il processo della cosiddetta “globalizzazione” esasperata nella sua velocità da un utilizzo dell’innovazione tecnologica rivolto ad allargare, anziché cercare di comprimere, le diseguaglianze a livello planetario contribuendo anche ad una vera e propria confusione di rapporto tra struttura e sovrastruttura.
E’ stata questa, principalmente, la filosofia che ha ispirato via via la formazione della cosiddetta Unione Europea affiancata all’altra idea che l’aprirsi dei mercati all’Est avrebbe rappresentato la nuova frontiera di mercati forieri di un illimitato sviluppo.
Su questa ipotesi si sono alimentate fantasie pericolose che si sono scontrate alla fine con la dura realtà di processi molto più contraddittori, in particolare sul piano della cessione di sovranità dello “Stato – Nazione” avventatamente proclamata e accelerata in modo del tutto improprio.
Si è cercato un equilibrio che alla fine, complice ovviamente la sudditanza alla gestione del ciclo capitalistico, si è tradotto nel “monstrum” che ci troviamo davanti tra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte nella gestione di politiche recessive, di impoverimento globale, di isterilimento economico e sociale.
Ancor più grave, del resto, appare il fallimento complessivo della politica estera degli USA, assurti nel frattempo al ruolo di unica superpotenza.
La teoria dell’esportazione della democrazia “sulla punta delle baionette” si è rivelata disastrosa proprio sul piano della destabilizzazione della vastissima area che va dall’Asia Centrale all’Africa sub-sahariana ponendosi quale fattore decisivo per la crescita incontrollata dei fondamentalismi e della presenza dei “signori della guerra” con tutto ciò che ne è conseguito e che verifichiamo ogni giorno, tragicamente, sotto i nostri occhi.
Anche questa è un’affermazione banale ma necessaria, tenendo conto che servirebbe anche un’analisi sul ruolo dei giganti asiatici, le contraddizioni di Cina e India, la crisi verticale del Giappone il cui modello segue l’andamento negativo dell’Occidente.
Nella sostanza si tratta di richiamare alcuni principi di fondo e aprire una riflessione a sinistra.
La prima questione è davvero quello riguardante l’assenza di un brain-trust posto in grado di riflettere e proporre sul piano globale: sembrano ripetersi gli errori di egoismo e miopia che seguirono la prima guerra mondiale.
La seconda questione riguarda l’aver accettato l’idea di uno sviluppo incontrollato sul piano tecnologico, nella convinzione ne scaturisse un processo di sviluppo pressoché infinito: non è più il tempo delle “magnifiche sorti e progressive” e la critica a questo fenomeno deve essere politica, non certo affidata al ritorno allo spiritualismo papale che segna davvero l’evidenza di un vero e proprio “arretramento storico”.
Il terzo tema riguarda la facilità con la quale si è ritenuto superato il concetto di “Stato – Nazione”: gli esempi dell’Europa, dell’Asia centrale, del Medio Oriente, dell’Africa del nord e sub-sahariana, le tragedie in atto nel Sud – Est asiatico ci indicano come l’idea di superamento di questo concetto e di questa base di strutturazione nei rapporti internazionali sia risultata avventata e quasi fuori luogo, esigendo invece una processualità e una gradualità ben diverse, pur con tutte le contraddizioni esistenti fra i diversi sistemi di gestione del potere.
Infine ruolo e compiti della sinistra, a livello internazionale: una sinistra che ha abdicato alla propria funzione complessiva (pensiamo alle banalità della follia rappresentato dall’Ulivo Mondiale) soprattutto per via dell’omologazione totale al modello capitalistico imperniato sulla finanziarizzazione e la speculazione sui mercati e l’abbandono della capacità di rappresentanza dei “propri” settori sociali.
I settori sociali storicamente subalterni sono stati sottoposti nel frattempo a una intensificazione massiccia dell’attacco alle condizioni di classe, accompagnato dalla speculazione e dalla sopraffazione imperante anche al riguardo degli effetti sociali delle contraddizioni definite post – materialiste (ambiente, genere, diritti sociali).
L’esame di questo vero e proprio fallimento epocale dovrebbe essere compiuto il più rapidamente possibile all’interno di una sinistra che ritrovi per intero alcuni elementi della propria vocazione storica, in primis al riguardo dei temi della pace e poi dell’internazionalismo delle lotte sociali e dell’azione politica e di una proposta concreta di radicale alternativa di società.
Si tratta di recuperare assieme al kantiano “dover essere” la volontà di tentare ancora di “afferrare Proteo”, nella coscienza che il ciclo di sfruttamento capitalistico non si interromperà nonostante i fallimenti ma che non è neppure possibile abbandonarci ad una sorta di “fatalismo dell’ineluttabile”.
lunedì 29 giugno 2015
domenica 28 giugno 2015
Franco D'Alfonso: Il partito della città
---La sintesi per una volta "tacitiana" di Stefano Rolando sulla riuscita ed affollata presentazione del mio libro " Il Partito della città . Dai riformisti di Caldara agli arancioni di Pisapia. Ed oltre"
Introduzione di Claudio De Albertis, conduzione di Ferruccio De Bortoli e commenti di Piero Bassetti, Giorgio Gori e Giuliano Pisapia. Questa la cornice della presentazione questa sera all'aperto in Triennale del libro "Il partito della città" (Ornitorinco, 210 pagine, 8 fitte di note, 20€) di Franco D'Alfonso per tracciare una storia "di parte" di Milano politica nel '900 (e oltre) dai riformisti di Caldara agli arancioni di Pisapia.
Ma anche per segnalare che le ragioni di un patto tra "partiti della nazione" (oggi soprattutto il PD) e "partito della città" (in senso lato la composita galassia civica) sono ancora valide e saranno quelle che guideranno le scelte prossime venture.
A Bassetti piace il titolo (misurato non tanto con la nazione italiana ma con il ruolo globale della città) ma non il vuoto di memoria sul ruolo dei democristiani e del PCI a Milano; a Gori piace la franchezza ma non il conflitto con il PD; a Pisapia piace la tenace difesa dell'operato della giunta ma non si sbilancia sul tema della "continuità".
Il dibattito pre-elettorale a Milano comincia a nutrirsi di contenuti e prospettiva storica. Più di uno (non l'autore) non da per scontato che la destra sia fuori partita.
SR
Il libro fino ad ora è stato letto solo dai relatori , molto attenti e gentili , oltre che da qualche cavia editoriale precettata in precedenza. Non mancano su web o nei bar i commentatori che hanno letto il titolo e nemmeno il sottotitolo, ma non mancano di indignarsi , denunciare e sproloquiare : non un fenomeno nuovo, che devo dire infastidisce sempre , ma pare sia ineliminabile . Nell'era dei tweet, dei post e dei must , per molti non importa quel che si dice, l'importante è dire qualcosa..
Da inguaribile ottimista, sono invece in trepida e reale attesa dei commenti di quelli che avranno la bontà di leggere almeno parti scritte e non riferite del libro.
Avendo, almeno per il momento , rifiutato i grandi editori che mi assediano per avere i diritti del libro , la scelta di un editore di nicchia molto bravo ma soprannominato nell'ambiente " Shylock " per la grande attenzione , diciamo così, ai rapporti contrattuali, non dispongo di copie omaggio e se vorrete gratificarmi di un vostro commento alla mia fatica ( in questo caso non sto scherzando, ne sarei veramente lusingato) , dovrete andare in libreria ad acquistarlo. Il libro sarà in distribuzione più o meno estesa fra una settimana circa, ma già oggi potete trovarlo in alcuni luoghi privilegiati che vi segnalo :
Libreria Utopia via Marsala 2
Libreria Hoepli via Hoepli 5
Libreria Centofiori piazzale Dateo
Libreria Skira palazzo della Triennale via Alemagna
Bistrot del tempo ritrovato via Foppa
Otticone Moretti viale Coni Zugna
Edicola via Modestino
Dovrebbe già essere disponibile presso le edicole librerie degli aereoporti e della stazioni ferroviarie ( in difficoltà gli amici di Matera, lo so : non sono riuscito a far arrivare il treno in quella splendida città, unico capoluogo italiano cui manca !! ) nonchè nel circuito di edicole "infoMilano" .
All. Foto
QUINDICI ANNI FA L’IRI VENIVA POSTO IN LIQUIDAZIONE (un abbozzo di ricostruzione storica.) di Franco Astengo
QUINDICI ANNI FA L’IRI VENIVA POSTO IN LIQUIDAZIONE (un abbozzo di ricostruzione storica.) di Franco Astengo
Il 27 giugno 2000 entrava in liquidazione l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) La ristrutturazione/demolizione dell’Istituto era stata avviata fin dal 1981 sotto la presidenza di Romano Prodi, e, da allora la svendita (privatizzazione) del sistema aziendale pubblico italiano divenne applaudita realtà. L’accordo Andreatta – Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) del luglio 1993 sanciva l’impegno di stabilizzare i debiti dell’IRI (così come dell’ENI e dell’ENEL), con l’inevitabile conseguente necessità di privatizzare urgentemente le aziende partecipate.
Nel giugno 2000, come ricordavamo all’inizio, la messa in liquidazione.
Con essa il tramonto definitivo (?) della funzione di responsabilità – di governo dell’economia – svolta dallo Stato, il cui ruolo è ormai diventato soltanto di surrogazione (di ruota di scorta) del settore privato: intervenire con il denaro pubblico per riparare gli errori, le contingenze negative e le mascalzonate compiute da alcuni imprenditori e tanti speculatori privati.
Vale la pena, forse, di ricordare questa data fondamentale, di vera e propria svolta, nell’insieme delle relazioni industriali del Paese ricostruendo alcuni passaggi storici riferiti essenzialmente alla fase dell’intervento pubblico in economia all’epoca del “miracolo economico”.
Lo Stato svolse un ruolo di protagonista importante nello sviluppo di un moderno sistema di grandi imprese industriali in particolare nel corso degli anni’50 – ’60.
I compiti svolti dall’industria pubblica si resero comprensibile direttamente attraverso l’azione di un vasto apparato produttivo sotto controllo pubblico, sia indirettamente come effetto degli indirizzi di politica economica portati avanti in quegli anni dal Governo.
Le due funzioni operarono inizialmente in maniera separata, seguendo strategie autonomamente definite in ambiti operativi diversi, ma muovendosi congiuntamente verso una progressiva integrazione.
Con i provvedimenti attuati tra il 1948 e il 1953 venne dato l’avvio a un processo di riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato ma non furono superati limiti di casualità e di frammentarietà.
Nel 1933, infatti, lo Stato attuando un intervento a favore delle grandi banche “miste” (a capitale pubblico e privato) attraverso la creazione dell’IRI agì da puntello della struttura produttiva che si era creata soprattutto al Centro – Nord, in particolare a sostegno dell’industria pesante e di base.
Tale ruolo fu, poi sostanzialmente confermato nell’immediato secondo dopoguerra.
Una situazione mutata nel volgere di pochi anni: nella seconda metà degli anni’50 una serie di successivi interventi legislativi portò a una progressiva ridefinizione di ruoli, caratteristiche e funzioni delle imprese a controllo pubblico, identificando un profilo operativo e funzionale di queste aziende.
Il passaggio fondamentale di questo processo fu costituito dalla legge del 22 dicembre 1956 attraverso la quale s’istituì il ministero delle Partecipazioni Statali.
La nuova struttura organizzativa che fu modellata in quel modo non risolse in quel momento stabilmente l’ambiguità nei criteri di gestione delle imprese tra prevalenza del “momento pubblico” e del “momento privato” nella formazione delle decisioni aziendali: ma attribuendo funzioni di coordinamento e di controllo a un organismo politico, allargò sensibilmente il campo di intervento degli organi dello Stato nell’azione degli Enti Pubblici e delle aziende partecipate disegnando una cornice legislativa e amministrativa favorevole alla creazione di nuovi enti e allo sviluppo dell’azione diretta dello Stato nei diversi settori dell’economia nazionale.
Gli effetti di queste scelte non tardarono a manifestarsi.
Nel 1958 furono creati l’Ente autonomo di gestione per le aziende termali (Eagat), l’Ente autonomo di gestione per il cinema (Eagc) e l’Ente autonomo di gestione per le aziende minerarie (Egam) che divenne operante soltanto nel 1971 con l’affidamento in gestione prima e con il trasferimento delle azioni poi delle miniere di Cogne e dell’Azienda minerali metallici italiani.
I contenuti operativi dell’azione che lo Stato intendeva svolgere sul terreno economico e industriale attraverso le imprese a partecipazione statale furono ulteriormente qualificati e definiti nel corso del 1957 con le nuove norme a favore dell’industrializzazione del Mezzogiorno (legge 634 del 29 luglio 1957) prevedendo l’istituzione di aree e nuclei di sviluppo industriale, l’ampliamento degli incentivi creditizi per gli investimenti nelle regioni meridionali, assegnando alla Cassa per il Mezzogiorno la facoltà di concedere contributi agli istituti di credito a medio termine per operazioni di finanziamento industriale nelle sue aree di attività.
All’interno di questo nuovo quadro normativo la politica industriale dell’impresa pubblica iniziò ad assumere una forte connotazione espansiva e una progressiva divaricazione tra esigenze di gestione e nuovi compiti assunti.
La difesa dei livelli occupazionali, l’impegno a favore dell’economia meridionale e il sostegno a un comparto in rapido declino portarono al rientro dell’IRI nel settore tessile: un impegno pubblico in questo settore che si allargò rapidamente quando nel 1962 l’ENI assunse il controllo della Lanerossi, perseguendo l’obiettivo di un’integrazione verticale delle proprie produzioni.
Attraverso queste operazioni lo Stato tese ad assicurare assistenza a un comparto in declino, intervenendo a risolvere singole situazioni di disagio e difficoltà ma senza assumere l’impegno di un intervento coordinato.
In questa situazione, e con particolare riferimento all’intervento straordinario nel Mezzogiorno, le imprese pubbliche diventarono, quindi, lo strumento privilegiato della politica industriale.
In tal modo la stessa definizione degli indirizzi di intervento e degli obiettivi finì con l’essere scomposta in una pluralità di soggetti autonomi e attuata attraverso una pratica di contrattazione o di concerto fra i diversi contraenti portatori di specifici interessi, costruendo così un quadro di reciproca deresponsabilizzazione.
In questo quadro l’ampliamento delle funzioni attribuite alle imprese a partecipazione statale e l’accrescimento del ruolo che lo Stato era chiamato a svolgere in una moderna economia industriale determinarono un processo di rapida e continua espansione della presenza pubblica nel settore produttivo, indirizzata però da decisioni e orientamenti definiti in ambito governativo e parlamentare, come ad esempio nel caso delle costruzioni ed esercizio della rete autostradale affidata all’IRI attraverso la Società concessioni e costruzioni autostradali che si alimentava della riserva stabilita a favore delle imprese a controllo pubblico dalla legge 21 maggio 1955 che avviava il programma industriale italiano: una scelta decisiva rispetto allo stesso insieme del modello di sviluppo che l’Italia andava ad assumere proprio in quel periodo, con evidenti ricadute sull’industria automobilistica rappresentata, in quel momento, dal più grande gruppo industriale privato, la FIAT.
Nel settore telefonico fu la finanziaria pubblica Stet a guidare il processo di riorganizzazione e unificazione del servizio realizzato in occasione del rinnovo delle concessioni telefoniche in scadenza alla fine del 1955.
Nel corso del 1956 il governo diede via libera all’acquisizione da parte della Stet e, quindi, al passaggio sotto controllo pubblico delle due società telefoniche private: la Teti operante nell’Italia centrale e in Sardegna e la Set concessionaria nel Mezzogiorno e in Sicilia controllate rispettivamente dalla società finanziaria “La Centrale” e dalla svedese Ericsson.
Analoghi processi di riorganizzazione ed espansione della componente pubblica nell’industria italiana interessarono, in quegli anni, il settore siderurgico e quello del trasporto aereo (costruzione dello stabilimento di Taranto, costituzione dell’Alitalia).
A un modello e una pratica di crescita “interna” del sistema delle partecipazioni statali affermatisi negli anni del miracolo economico si sovrappose, nel 1962, con la decisione di nazionalizzare l’industria elettrica, un diverso modello di intervento: punto qualificante del primo governo appoggiato dal PSI e presieduto da Amintore Fanfani la scelta di nazionalizzare l’energia elettrica rappresentò un forte punto di discontinuità, per quanto episodico, nella politica industriale fino a quel punto perseguita.
La creazione dell’Enel ampliò il campo d’azione e gli strumenti di intervento dello Stato nel sistema industriale italiano e segnò profondamente la struttura economica nazionale.
La nazionalizzazione prefigurava una più incisiva capacità di realizzare un disegno di programmazione economica: progetto sul quale si basava l’appoggio al Governo da parte del Partito Socialista.
Rappresentava però già una risposta tardiva alle esigenze di controllo, regolazione e sviluppo in un settore come quello elettrico, che presentava una struttura industriale fortemente consolidata, coesa, stabilmente concentrata intorno a pochi grandi gruppi regionali, di cui alcuni si trovavano già sotto controllo pubblico.
Gli indennizzi elettrici destinati al settore privato (Edison e Sade, innanzi tutto), che favorirono la crescita della chimica e della petrolchimica italiana finanziando la concentrazione del settore culminata nella fusione di Edison e Montecatini nella Montedison, realizzarono una consistente iniezione di liquidità nel sistema economico che, in concomitanza con la stretta creditizia del 1963 – 64 (stagione della cosiddetta “congiuntura”) finì per favorire in maniera selettiva ed esclusiva solo alcuni dei gruppi maggiori e più influenti della finanza e dell’industria.
I capitali innestati, invece, nel settore pubblico dagli indennizzi elettrici concorsero principalmente a sostenere il programma siderurgico e lo sviluppo del settore telefonico: nel 1964 fu costituita la Sip (Società Italiana per l’esercizio telefonico) la cui maggioranza azionaria passò alla Stet, finanziaria del settore.
La vicenda della nazionalizzazione dell’industria elettrica fornì una spinta significativa all’espansione delle partecipazioni statali in campi diversi dai tradizionali settori di intervento.
Nella relazione programmatica presentata al Parlamento nel 1966 dal Ministro delle Partecipazioni Statali del III governo Moro, il democristiano Giorgio BO, si afferma chiaramente che “non esistono specifici campi operativi che debbono a priori essere sottratti a ogni possibilità di intervento imprenditoriale diretto dello Stato attraverso aziende controllate”.
Nello stesso periodo si affermò un modello di crescita del sistema delle partecipazioni statali attraverso interventi di “salvataggio” di imprese private in crisi: l’importanza di questo indirizzo crebbe con l’accentuarsi delle difficoltà per le imprese italiane alla fine degli anni sessanta e trovò una specifica sanzione legislativa con la creazione, nel 1971, di un nuovo ente, la Gestione partecipazioni industriali (GEPI) allo scopo di “concorrere al mantenimento e all’accrescimento dei livelli di occupazione compromessi da difficoltà transitorie di imprese industriali”.
In una direzione di supplenza dell’iniziativa privata si mossero anche gli interventi compiuti dallo Stato nel settore chimico a favore della neonata Montedison, attraverso i quali si determinò una significativa ridefinizione dei confini tra pubblico e privato nell’industria italiana.
L’attività di sostegno e di salvataggio di imprese private si affiancò e si sovrappose ad altre direttrici di sviluppo delle imprese pubbliche e concorse a determinare l’accelerata crescita del settore dalla seconda metà degli anni’60 ai primi anni’70.
La ripresa degli investimenti delle imprese a prevalente partecipazione statale non svolse, però, una funzione di traino degli investimenti complessivi nella fase di ripresa del ciclo economico dopo la crisi del 1963-64, ma piuttosto si orientò a seguire con uno scarto di uno-due anni le tendenze che stavano manifestandosi nel settore privato.
Fu soltanto dopo il ciclo di lotte operaie del 1968-69 che gli investimenti delle imprese pubbliche assunsero un significativo ruolo di sostegno delle dinamiche industriali del Paese con tassi di aumento superiori al 50% a fronte di una rapida contrazione degli investimenti privati.
Il meccanismo di accumulazione e di crescita sviluppatosi in Italia negli anni’50 – ’60 entrò in crisi nella prima metà degli anni’70 per il brusco mutamento delle condizioni interne e internazionali.
L’Italia andò, a mano a mano aumentando la dipendenza dai costi delle materie prime e, in particolare, del petrolio.
Il disordine monetario causato dalla fine del sistema dei cambi fissi che era stato determinato a Bretton Wood nel 1944 e la drammatica accelerazione dell’inflazione interna rappresentarono fenomeni che incisero profondamente sui margini operativi dell’industria italiana, sia dal lato dei costi di produzione che da quello dei mercati di sbocco.
Tra il 1974 e il 1975 si verificò una repentina caduta anche degli investimenti pubblici: nel 1975 oltre agli investimenti anche il saggio annuale di sviluppo del prodotto interno lordo presentò, per la prima volta dal dopoguerra, un segno negativo, a sancire la fine della lunga fase di sviluppo postbellico.
Si aprì a quel punto una nuova stagione, sostenuta dal mantenimento di dati di crescita nel settore delle piccole e medie imprese, cresciute e aggregatesi nel corso dei due decenni precedenti.
Mutava il modello di sviluppo favorito dalla disponibilità e diffusione di nuove tecnologie ad alto contenuto elettronico e informatico che scalfirono la rigidità nell’impiego del fattore capitale e introdussero novità rilevanti nell’organizzazione del lavoro.
La crescita della domanda di beni s’indirizzò verso una diversa progressiva specializzazione e diversificazione dei prodotti.
I fattori di crisi si saldarono, quindi, con processi di trasformazione strutturale nel determinare la chiusura di una unga fase di sviluppo centrata sulla grande impresa.
Mancò la capacità e la visione progettuale di affrontare un profondo processo di ammodernamento e ristrutturazione, e l’affermazione di un diverso sistema “tecnologico” preferendo la via della ritirata, culminata appunto esattamente 15 anni fa con la messa in liquidazione dell’IRI.
Il risultato complessivo di questo cedimento appare evidente sotto gli occhi di tutti: le basi strutturali dell’industria italiana risultano estremamente limitate per la frammentazione e lo sviluppo solo parziale del mercato interno, che da molto tempo non è più in grado di assicurare linee di rifornimento e di sbocco privilegiato a imprese impegnate nella competizione internazionale nei settori strategici.
Da ciò deriva, in una fase ormai dominata da tempo dai fenomeni della finanziarizzazione dell’economia, della presenza di nuovi protagonisti dalle enormi dimensioni e disponibilità, della globalizzazione una condizione di fragilità permanente che costituisce un fattore ormai stabile nel frenare qualsiasi ipotesi di nuovo sviluppo industriale.
Abbiam così assistito al successo di una strategia di ”dominio” esterno accentuato dall’entrata in scena dei meccanismi monetaristi dell’Unione Europea e dagli errori strategici commessi a quel livello fin dal trattato di Maastricht e nella costruzione della moneta unica.
Un “dominio esterno” non contrastato da un potere politico corrotto e incapace di rilanciare una vocazione di intervento positivo nel campo della programmazione dell’economia, che ha causato la situazione di permanente debolezza nella produzione, nei livelli di occupazione, di ritardo nella crescita della ricchezza nazionale.
Paghiamo così con durezza le responsabilità storiche di un’inesistente “classe dirigente”.
Per redigere questo testo sono stati consultati: “Storia dell’Italia Repubblicana” III volume – G. Bruno “Le imprese industriali nel processo di sviluppo” (1953- 1975); IV volume – F. De Felice “Nazione e sviluppo, un nodo non sciolto”. – Einaudi Torino 1995
Francesco Maria Mariotti: Tsipras, scelte da leader o paura di guidare?
Temo che questo articolo dica la verità; o almeno una parte importante che rischia di non essere vista.
Francesco Maria Mariotti
"(...) Tsipras quelle elezioni le ha vinte promettendo al suo popolo la botte piena e la moglie ubriaca, la permanenza nell’euro e la fine dell’austerity. Era una promessa impossibile da mantenere, una grassa e grossa presa in giro, alla quale un popolo comprensibilmente spaventato per il suo futuro ha voluto credere, complice il fatto che le alternative elettorali, questo non va mai dimenticato, erano proprio quei partiti che avevano condotto la Grecia alla bancarotta.Oggi, grazie al referendum, Alexis Tsipras e i suoi compagni potranno evitare di assumersi la responsabilità di quella menzogna, e magari salveranno la faccia lasciando il cerino acceso nelle mani dei loro connazionali. Ma a quale prezzo? Più che al risultato del referendum, per capire la dimensione del disastro dovremo guardare alla settimana che lo precederà: (...)"
Strade - La botte piena e la moglie ubriaca
http://stradeonline.it/istituzioni-ed-economia/1234-la-botte-piena-e-la-moglie-ubriaca (Condiviso da CM Browser)
venerdì 26 giugno 2015
giovedì 25 giugno 2015
Dichiarazione D'Intenti dell'Assemblea del 27 Giugno del Movimento per il Risorgimento Socialista presentata dai compagni Benzoni , Bartolomei Rebechi e Besostri . ( Testo Finale )
Dichiarazione D'Intenti dell'Assemblea del 27 Giugno del Movimento per il Risorgimento Socialista presentata dai compagni Benzoni , Bartolomei Rebechi e Besostri . ( Testo Finale )
" RICOMINCIAMO DAL SOCIALISMO "
"Il 29 marzo scorso, un gruppo di compagni, riuniti in assemblea, si sono impegnati nella costruzione di un nuovo movimento , fondato sulla cultura politica , i valori ideali , e la esperienza storica del Socialismo Italiano.
L'incontro del 27 GIUGNO rafforza e da' una forma piu' definita a questo impegno, chiarendo le ragioni della nostra scelta e gli obbiettivi che vogliamo raggiungere nel nostro percorso.
Noi siamo Socialisti convinti che la crisi delle economie dei paesi sviluppati abbia ormai assunto i caratteri di una vera e propria crisi di sistema, in grado di minare la fiducia collettiva in un futuro caratterizzato dai livelli di garanzie sociali finora conosciuti, e di minacciare nelle società occidentali le stesse istituzioni democratiche rappresentative esistenti e lo sviluppo di ogni istituto di democrazia diretta e partecipativa .
Riteniamo che tutta la sinistra democratica di fronte all'esaurimento definitivo delle idee-forza liberiste attorno a cui l’occidente sviluppato ha consolidato gli equilibri di potere che hanno guidato i processi economici, finanziari e sociali, responsabili della crisi, deve necessariamente rivedere la propria impostazione culturale e programmatica, non più adeguata alla profondità della crisi che sta coinvolgendo il capitalismo finanziario a livello globale.
Per questo assumiamo quale nostra scelta di indirizzo una concezione del riformismo Socialista nuovamente proiettata a perseguire una trasformazione strutturale degli assetti economici e sociali che possa consentire di individuare un modello di sviluppo nel quale il parametro di riferimento della qualità della vita e quello dell'equilibrio sociale prevalgano su indicatori quantitaivi come il PIL, attraverso la promozione del controllo sociale come regolatore delle variabili economiche.,
Il nostro voler "Ricominciare dal Socialismo" è, innanzitutto, l'affermazione di un atto di volonta' ideale e politica , diretto a contrastare il disegno di stabilizzazione conservatrice del Paese di cui questo governo Renzi , rappresenta un vero e proprio soggetto costituente.
Noi non vogliamo consegnare il Paese, al Partito della Nazione, ed ai poteri ed agli interessi che, in piena continuità con l'esperienza del precedente governo Monti, puntano a garantire nel governo del paese una assoluta conformità con quel sistema di relazioni economiche e finanziarie, che hanno portato alla crisi di tutte le economie sviluppate.
In ragione della nostra scelta per il Socialismo avversiamo senza mezzi termini questo complessivo disegno politico e sociale che assegna a Renzi il ruolo di portare oggi a compimento definitivo il processo di liquidazione dell'equilibrio sociale in corso da tempo , che ha travolto garanzie diritti, regole, ruolo dello stato e delle istituzioni, e conquiste collettive del mondo del lavoro.
Il nostro e' un impegno di lotta contro la distruzione formale e sostanziale della nostra Democrazia ,come sistema di governo complessivo della societa' fondato sulla piena e libera rappresentanza della domanda politica e sulla mediazione democratica delle conflittualita' sociali, all'interno di una rete di valori generali definiti dai principi inviolabili della nostra Carta Costituzionale -
ll nostro e' un atto di volonta' consapevole e diretto contro la liquidazione esplicita della identita' Socialista e Democratica , come modello e punto di riferimento della nostra sinistra di governo, compiuta dal nuovo Partito Democratico .
Noi , al contrario , vogliamo, qui e oggi, essere un movimento che riafferma la sua identita' Socialista , come espressione di una teoria e come soggetto attivo di una prassi politica , che vive per cambiare i rapporti sociali e le strutture economiche della societa' , ponendo al centro della propria visione il lavoro come il valore fondante dell'esperienza sociale dell'uomo .
"Ricominciare dal Socialismo"rappresenta quindi per i Socialisti , come noi , l'unico punto di riferimento possibile per proggettare la rinascita sociale e culturale del paese , nella convinzione che il Socialismo , come progetto storico della suprema valorizzazione sociale del lavoro nella vita' dell'uomo , continua sempre di piu' a rappresentare la vera grande pacifica soluzione della crisi sociale , morale , ed economica che minaccia lo sviluppo di tutta l'umanita, e la strada maesta per il Risorgimento democratico del Paese.
Il compito e' grande e non ammette piccolezze, per ripartire dobbiamo guardare fuori dal recinto meschino e soffocante delle nostre appartenenze e delle nostre esperienze passate, per poterci rivolgere a tutto il popolo della Sinistra , e non solo ai socialisti che voglione esserlo per davvero .
Noi vogliamo parlare ai tanti apolidi della sinistra desiderosi di ricostruire un'identità comune sulla riscoperta, nell'Italia di oggi, dell'attualità dei temi dell'uguaglianza, della giustizia , del recupero del ruolo dello stato e delle istituzioni, dell'internazionalismo e della pace, di una democrazia civica perchè ricostruita dal basso, sicura nei diritti , e certa nei doveri
-Per questo vogliamo essere, senza tentennamenti , un movimento per la ricostruzione del Socialismo Italiano, interessato a partecipare, a pieno titolo, alla nascita di una nuova Sinistra degna di questo nome, anche , se necessario , attraverso un grande processo costituente unitario , a cui riteniamo a ragione di essere indispensabili , che riunisca in un soggetto nuovo della Sinistra italiana identita' di diversa provenienza, unite dalla consapevolezza della profondita' della crisi di sistema che l'occidente sviluppato sta attraversando , per costruire assieme un progetto democratico di trasformazione complessiva del modello di sviluppo e di crescita esistente , liberista e finanziario ,su cui le nostre societa' hanno costruito negli ultimi trent'anni un equilibrio apparente , ingiusto , fragile e distruttivo .
Un processo, da tanti auspicato , ma sino ad oggi ancora del tutto inadeguato, che non può essere costruito su intese di vertice tra sigle diverse,tutte figlie delle rispettive sconfitte , e che soprattutto non puo' avere una reale coscenza di se' senza una riflessione impietosa sulla natura reale di quello che ha significato la II Repubblica nel processo di stravolgimento materiale della nostra costituzione materiale , e nella affermazione del modello liberista nel nostro tessuto produttivo e sociale , e sulle responsabilita' che portano su di se' , ciascuna per la sua parte , le forze che hanno rappresentato la sinistra al governo nell'ultimo ventennio della nostra storia .
E' su questa base che parte oggi la costruzione di un movimento , per il Risorgimento Socialista; privo di nomenklature racchiuse in gruppi dirigenti rigidi e stratificati , in cui la compattezza politica ed operativa e' affidata esclusivamente alla qualita' ed alla larga condivisione delle sue proposte , con un comitato promotore aperto e plurale, a direzione collegiale, espressione della nostra assemblea costituente aperta e permanente, e, soprattutto, con strutture territoriali di movimento a livello locale cui tutti possono partecipare, quali siano le scelte individuali di appartenenza partitica passata o presente, per realizzare una rete diffusa di nostre iniziative , per costruire un tessuto di rapporti attraverso cui far valere il nostro contributo come un fattore essenziale di un piu' complessivo processo di rinascita della sinistra italiana .
Non ci chiuderemo in noi stessi, ma parteciperemo attivamente a tutte le iniziative in atto ad ogni livello e di qualsiasi natura funzionali alla difesa prioritaria della nostra democrazia costituzionale ed alla costruzione di una nuova sinistra nel nostro paese, non rinunciando a voler verificare davanti agli elettori , se necessario anche autonomamente , la qualità del nostro messaggio e delle nostre proposte qualora il processo costituente a sinistra a cui guardiamo non riesca a sorgere , o non possa essere definito in tempi brevi .
Quello che potrà accadere dipendera' soprattutto dalla nostra capacità di costruire, in centro e in periferia , le condizioni per far avanzare la nostra visione ampia di un Socialismo capace di allargare i suoi confini di rappresentanza proprio nel momento in cui va' a riaffermare la sua natura di soggetto che cambia in profondita' gli equilibri di potere della societa' e dello stato .
mercoledì 24 giugno 2015
Franco Astengo: Europa
EUROPA di Franco Astengo
La dimostrazione della forzatura di tipo ideologico sul tema dell’Europa e della distanza dalla realtà da parte dei livelli di governo della Comunità appare evidente alla lettura del documento “Completing Europe’s Economic and Monetary Union”, 25 pagine attraverso le quali i vertici di BCE, Consiglio, Commissione ed Eurogruppo hanno disegnato la prospettiva della moneta unica.
Su questo è già possibile rappresentare un primo, fermo, punto di dissenso: tutto l’impianto programmatico presente nel documento è finalizzato alla difesa della moneta unica, in una prospettiva di continuità nella logica monetarista.
Il documento è stato scritto, con un tono di leggiadra indifferenza, nel pieno del confronto sulla complessa vicenda greca e nel contesto di un quadro di formidabile difficoltà dell’Unione sia sul piano politico, sia su quello economico: un quadro di difficoltà che pare proprio non aver suggerito nulla a questi signori.
In più si prevede una “manutenzione” senza toccare i Trattati, figurando la possibilità di un’Europa a due velocità all’interno di un quadro generale che è quello della filosofia di fondo espressa proprio in questa fase dalla Germania.
In aggiunta, soltanto a questo livello, è previsto un passaggio di ulteriore cessione di sovranità. Si legge: “I governi dovranno accettare una crescente condivisione delle decisioni sui loro bilanci e sulle loro politiche economiche. Un successo nella convergenza economica e nell’integrazione finanziaria apre la strada ad alcuni gradi di condivisione dei rischi”.
Sarà creato un “Euro Area System of Competitiveness Authorities”.
Con quale obiettivo.
Naturalmente il solito: “ In ogni stato membro nascerà un’autorità indipendente che dovrà controllare che I salari evolvano in linea con la produttività e valutare I progressi delle riforme”.
La Commissione terrà in considerazione le loro conclusioni per scrivere le indicazioni ai singoli governi e valutare se mettere un Paese sotto procedura per deficit eccessivo o per squilibri macroeconomici.
Proprio la procedura per squilibri macroeconomici (finora mai azionata) dovrà essere usata di frequente anche per incoraggiare “le riforme strutturali”.
Dunque “forzando” i governi ad agire (è un commissariamento che prevede anche sanzioni).
Nello “Stage 2” dell’Unione Economica si legge: “Nel medio periodo il processo di convergenza per rendere più resistente l’Euro deve diventare più vincolante concordando una serie di standard di alto livello definiti nella legislazione europea. La sovranità sarà condivisa, ci saranno decisioni forti a livello di area euro e di singoli paesi. Gli standard comuni riguarderanno mercato del lavoro, competitività, ambiente economico, pubblica amministrazione e politica fiscale”.
Con una stretta ancor più potente sulle riforme dal 2017 e il completamento dell’Unione Bancaria per rendere gli istituti di credito più forti.
Nascerà una “Unione dei Capitali” e un European Fiscal Board, dotando l’Eurogruppo di un presidente a tempo pieno e incorporando il Fondo Salva – Stati e il Fiscal Compact nel diritto comunitario.
Dal 2017 sarà creato un ministero delle Finanze europeo.
Il patto di stabilità “resta l’ancora per la stabilità e la fiducia nelle nostre regole di bilancio”.
Il risultato complessivo sarà quello di una cessione di sovranità che darà sempre più peso a Bruxelles nelle decisioni economiche.
Nella sostanza pare proprio che le vicende di questi anni non abbiano insegnato niente a nessuno e che il cammino intrapreso, in una visione di assoluto deficit democratico, di processo ulteriore di finanziarizzazione dell’economia, di austerità feroce, sarà proseguito in una visione del tutto ideologica e al di fuori da un quadro di ragionevole rapporto con la realtà della crescita delle diseguaglianze e dell’impoverimento generale.
Per la sinistra d’alternativa dovrebbe essercene d’avanzo per aprire un confronto serrato su questo stato di cose, cercando di disegnare una prospettiva diversa.
Partendo, in questa elaborazione, da ciò che manca nel freddo discorso dei banchieri: la politica, le grandi questioni della pace (la guerra è la vera causa dei sommovimenti di popolo cui stiamo assistendo in questi giorni davanti a tutte le frontiere dell’Europa) e delle partnership (ad esempio il tema delle sanzioni alla Russia); la disparità nelle condizioni materiali dei lavoratori; il tema della sovranità; la costruzione di un’ipotesi di alternativa basata su di un progetto di società fondato sull’intreccio tra le grandi contraddizioni dell’oggi e del domani sul piano sociale, ambientale, delle nuove relazioni tra le persone, dell’innovazione tecnologica.
Un confronto politico di respiro internazionalista, recuperando tutti i valori dell’eguaglianza e della solidarietà sociale che hanno caratterizzato, per decenni, la vita della parte migliori della sinistra politica.
Soltanto cecando di ragionare assieme a questo livello potrà essere possibile aprire un varco per il futuro, rompendo il cerchio di questo ottuso irrigidimento ideologico liberista, attraverso il quale si cerca di incamminare il destino dell’Europa (e oltre) verso il mantenimento dei privilegi appannaggio dei pochi, l’esercizio di una democrazia limitata a senso unico, il persistere di un quadro di insopportabili diseguaglianze a tutti i livelli.
Francesco Maria Mariotti: Grecia? Accordo, forse, ma senza illusioni (rassegna stampa)
Probabilmente non ha vinto nessuno, ieri, nella "partita" fra Grecia e Ue; ma parimenti - è la cosa più importante - non ha perso nessuno. Come al solito, in questi casi, conviene essere prudenti; e - come ben spiega come sempre Cerretelli sul Sole24Ore - occorre non illudersi che il problema greco si risolva facilmente: ce lo porteremo dietro per un bel po' e probabilmente (vedi articolo de Gli Stati Generali) solo un reindirizzamento di lungo periodo della economia greca può veramente essere la "soluzione".
La speranza è che questa crisi - non potendosi risolvere con uno "strappo" (né della coesione europea con il Grexit, ma nemmeno delle regole, Deaglio racconta bene la paura di un "precedente greco" che può far esplodere l'Unione) - convinca i governi UE a spostare a livello più avanzato il senso dello stare assieme. Un'Unione più profonda forse può realmente essere protagonista - e non solo vittima - dell'economia globale; e raccoglierne i frutti più positivi.
Francesco Maria
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> In un primo momento non erano stati forniti molti dettagli, ma nella serata di ieri ha cominciato a circolare l’elenco delle proposte ai creditori. Si tratta di un documento di 21 punti in cui si specifica che è il «risultato di difficili negoziati per raggiungere un accordo che non pregiudichi i diritti del lavoro e che non metta in crisi la coesione sociale, ma che dia una prospettiva e sia una valida soluzione per l’economia greca senza colpire i redditi bassi e i medi».
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> Le proposte prevedono:
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> – un avanzo primario di bilancio (cioè il saldo positivo tra entrate e uscite prima del pagamento degli interessi sul debito) pari all’1 per cento nel 2015 e al 2 per cento nel 2016. Si tratta delle cifre proposte dai creditori: Tsipras, per limitare i tagli, aveva chiesto in precedenza cifre più basse (0,75 per cento per quest’anno, 1,5 per cento per il 2016 e 2,5 per il 2017).
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> – sulla questione dell’aumento dell’IVA, il governo greco ha deciso di applicare il tasso più basso pari al 6 per cento soltanto a medicinali e libri, mantenendo l’IVA al 13 per cento su servizi e prodotti come l’energia e gli alimenti di base, e di aumentarla al 23 per cento su tutto il resto. L’IVA resterebbe al 13 per cento anche su uno dei settori più importanti dell’economia del paese, cioè il turismo. I creditori chiedevano invece due fasce di IVA e la fine dell’IVA speciale per le isole. Il governo greco sarebbe anche disposto a mantenere una controversa tassa sugli immobili, l’Enfia, che si era invece impegnato ad abolire.
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> – tassa di solidarietà: il piano prevede di aumentare la “tassa di solidarietà” estendendola a chi guadagna più di 30 mila euro all’anno e alle imprese che hanno utili superiori ai 500 mila euro.
>
> – privatizzazioni: il governo di Tsipras si è sempre dichiarato contrario alle privatizzazioni che erano state avviate dal precedente governo conservatore, ma nel corso dei negoziati ha ceduto ai creditori proponendo infine la privatizzazione di alcuni aeroporti e porti, compreso quello del Pireo, ma non delle società energetiche.
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> – pensioni: la Grecia si impegna ad alzare gradualmente a 67 anni l’età in cui i greci vanno in pensione e a ridurre dal 2016 le possibilità di pensionamento anticipato.
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> – ristrutturazione del debito: i leader europei non hanno fatto dichiarazioni precise a riguardo. «Questo non è il problema più urgente», ha detto per esempio la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tsipras parla invece da tempo della necessità di una rinegoziazione immediata del debito greco rivendicando di nuovo, subito dopo l’ultimo vertice, un “debito sostenibile”. Si tratta in pratica di dire ai creditori o a parte dei creditori: noi dobbiamo darvi 100 entro X anni in teoria, ma non ce la facciamo e rischiate di non vedere i vostri soldi; facciamo che vi diamo 100 entro Y anni, oppure 70 entro X anni. (...)
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http://www.ilpost.it/2015/06/23/quali-sono-le-nuove-proposte-della-grecia/
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> Quindi il prevedibile ed ennesimo fallimento dell'Eurogruppo per mancanza (?) del tempo materiale per sviscerare la proposta greca. Fallimento soffuso però di speranze nuove. A seguire il vertice dei capi di governo dell'Eurozona, cioè il contentino politico invocato e concesso a Tsipras, poi conclusosi con un'altra raffica di buoni auspici e propositi. Dopo tante false partenze in questi cinque mesi di passione, davvero siamo al capolinea? Di sicuro Tsipras questa volta ha presentato riforme concrete: incremento dell'Iva e, con cautela, pensioni , da finanziare aumentando le tasse sui redditi oltre i 30mila euro all'anno e sui profitti societari sopra i 500mila. Senza tagli di spesa, nulla sul mercato del lavoro, niente rincari Iva sull'energia, come preteso dai creditori.
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> Nell'insieme segnali veri di disponibilità sia pur limitati, nel tentativo di contraddire al minimo le promesse elettorali di guerra all'austerità senza rimetterci gli aiuti europei di cui la Grecia ha disperato bisogno. Una partita spericolata che prevede di ottenere anche, contestualmente, l'alleggerimento del debito ritenuto insostenibile. Finora il teorema Tsipras non ha convinto ma solo irritato Eurogruppo, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, decisi a non stravolgere le condizioni fissate per l'erogazione dell'ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi di euro. Per principio e per non dare cattivi esempi. Ora il premier greco ha fatto concessioni, quasi certamente ancora insufficienti, ma il suo gesto, magari con qualche ritocco, può offrire a tutti l'alibi per salvare la faccia, recuperare razionalità negoziale e chiudere un braccio di ferro troppo pericoloso. Un salto collettivo nel buio. Se alla fine sarà accordo e non default della Grecia, nessuno si illude che sarà la panacea e la fine di un incubo. Il problema ellenico resterà per anni la malattia cronica dell'Eurozona: però meglio imparare presto a conviverci piuttosto che tentare di liberarsene con un'amputazione che rischierebbe di uccidere, con la malattia, anche il malato.
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di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/hTnCT6
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La vera paura, che attanaglia mercati e governi, è un’altra: visto il parziale condono alla Grecia del debito, altri Paesi indebitati potrebbero mettersi sulla stessa strada. Perché il Portogallo, che sopporta, senza contestare Bruxelles, misure economiche molto gravose, a causa dei suoi debiti, dovrebbe continuare a essere «virtuoso», visto che un grande accordo sul debito greco dimostrerebbe che la virtù finanziaria non paga? Perché, la Spagna - che tra qualche mese potrebbe essere governata da Podemos - non dovrebbe opporsi alla continuazione di pesanti misure di austerità?
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Questo rischio - che si può definire «rischio politico» - non è facile da controllare e rende particolarmente inquieta un’Unione Europea che vede aprirsi così, la strada della propria disgregazione. Per questo si sta facendo strada l’idea che, anche nel caso di un’uscita della Grecia dall’euro, dovrebbe essere fissato l’obiettivo del suo rientro: l’Unione Europea dovrebbe essere pronta, oltre ad accettare un lunghissimo prolungamento del periodo di restituzione, anche a finanziare trasformazioni produttive dell’economia ellenica, senza le quali, dentro o fuori dell’euro, l’economia greca rimarrebbe disastrata.
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Il rischio che però intimorisce di più la comunità internazionale è quello di cui si parla di meno e che potrebbe essere definito il «rischio ideologico». Alcuni mesi fa, in diverse occasioni, il primo ministro greco, Alexis Tsipras, definì come «ricatto alla democrazia» l’intimazione al suo Paese di restituire, alle date concordate, quanto ricevuto in prestito. Affermando implicitamente che «la democrazia passa davanti al debito», Tsipras ha sostenuto che uno stato democratico potrebbe legittimamente non pagare, specie se i creditori sono banche straniere.
http://www.lastampa.it/2015/06/23/cultura/opinioni/editoriali/lideologia-che-condiziona-i-risultati-DKkIrzSs7t5WUcBOm2cdUJ/pagina.html
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Due giorni fa, in visita all’Expo, un vecchio amico americano mi ha detto con l’usuale franchezza: «Se l’Europa avesse una visione geopolitica, la crisi greca sarebbe stata risolta da un pezzo». In questa rapida frase, c’è un punto importante da cogliere: viste da Washington, le ragioni per tenere la Grecia ancorata all’euro non sono tanto economiche (si tratta, come ormai ripetiamo a memoria, del 2% o poco più del Pil europeo) ma sono politiche. Considerate le difficoltà della Turchia, data la gravità della crisi del Mediterraneo e di fronte alle persistenti fragilità dei Balcani, «perdere» anche la Grecia, regalandola di fatto a Vladimir Putin, equivale a un lusso che l’Europa non può permettersi e che l’America considera insensato. E difatti, dicono gli amanti dei retroscena, Barack Obama ha dato proprio questo messaggio alla Cancelliera tedesca: prendi tu in mano la crisi greca, a noi interessa che venga risolta.
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Il governo Tsipras ha capito benissimo di quale partita si tratti. E infatti – per sottolineare l’importanza geopolitica del dossier greco – ha giocato una sua carta russa, ad effetto ma in verità abbastanza spuntata (Putin potrà anche cedere pezzi di gasdotto ad Atene ma non sostenere i costi a lungo termine di una rianimazione della Grecia). Parallelamente, Atene ha indicato nella Germania, anzi in Angela Merkel, il vero interlocutore. Non c’è da sorprendersi, quindi, se l’ultima proposta negoziale della Grecia, in vista della riunione dell’eurogruppo di oggi, sia stata rivolta direttamente alla Germania (e al suo «braccio destro», la Francia), prima ancora – od accanto – alle istituzioni europee ed internazionali.
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http://www.lastampa.it/2015/06/22/cultura/opinioni/editoriali/senza-intesa-regaleremo-la-grecia-a-putin-u2dAtPl7YSiygstwmW0IZL/pagina.html
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Come è possibile che questo programma così ragionevole non sia accettato dall’Europa? Ho chiesto ad una serie di esperti e la risposta è stata duplice. Innanzitutto questo programma è ancora troppo vago, ed effettivamente il discorso non è corredato da molti numeri. Ma il motivo principale è che nessuno si fida del governo greco. A questa sfiducia hanno contribuito non solo il comportamento nei negoziati ma anche alcune iniziative interne (tra cui l’abolizione delle valutazioni per gli insegnanti), che hanno reso il governo di Tsipras «poco credibile». Sicuramente c’è un problema di credibilità. Il governo Tsipras è fatto di outsider. Molto difficile per degli outsider prendere in mano un governo e gestire un Paese efficacemente durante una crisi come quella attuale. Ma ricordiamoci che il motivo per cui i greci hanno votato questo governo è perché gli insider precedenti erano parte del problema (ad esempio, Samaras era uno dei leader del partito il cui governo aveva falsificato i dati finanziari) e forse proprio per questo erano troppo sottomessi alle richieste della Troika. Non dimentichiamoci che nei primi mesi anche il governo Renzi ha faticato a presentare dei piani numericamente accurati e ha fatto marcia indietro sulle valutazioni Invalsi degli insegnanti. Non per questo è stato vilipeso dalla stampa europea, anzi. Certamente Syriza paga un pregiudizio alla fonte, in quanto formazione di sinistra radicale, che in alcune componenti rifiuta l’economia di mercato. È anche vero che sia Tsipras che Varoufakis hanno commesso errori. Ma anche l’Fmi ha commesso gravi errori (e li ha pure ammessi) eppure i suoi vertici non vengono trattati con la stessa condiscendenza. Syriza paga soprattutto il tentativo di cambiare il modo in cui avvengono le trattative a livello europeo. La burocrazia europea vive di segretezza, perché non è abituata a rispondere a un governo democraticamente eletto. Per questo si trova a disagio con un governo che fa della trasparenza una priorità. La sfiducia che l’Europa dimostra nei loro confronti è soprattutto sfiducia nei confronti della diversità, una diversità che minaccia la sopravvivenza degli attuali burocrati europei. Come uscirne? L’unica persona che in questo momento può salvare la situazione è Angela Merkel
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di Luigi Zingales leggi su http://24o.it/m78ck9
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In questo momento, tuttavia, lo scopo dev'essere ancora quello di mantenere il sangue freddo e raggiungere un accordo. Ma appare sempre più improbabile, con il clima di rabbia e recriminazione che si è venuto a creare. Non sarebbe comunque la fine della storia. Gli europei non possono semplicemente prendere e andarsene, come se nulla fosse: che la Grecia rimanga o meno nell'euro, bisognerebbe fare i conti con molti degli stessi problemi. Gli europei dovrebbero comunque riconoscere che gran parte dei loro soldi non tornerà indietro e dovrebbero comunque dare una mano per evitare il collasso della Grecia.
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di Martin Wolf - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/BjUmCm
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Questi pochi dati dimostrano come senza una profonda ristrutturazione “industriale” del sistema paese, qualsiasi accordo sul debito greco non farebbe altro che rimandare il problema di qualche mese, o al massimo, anno; salvo poi ritrovarselo davanti ingigantito – quando esso riemergerà. Se infatti al momento del salvataggio del 2011 la richiesta di una ristrutturazione “industriale” avesse affiancato quella dell’austerità finanziaria, forse la situazione che si deve affrontare oggi sarebbe diversa.
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La cosa che mi ha più meravigliato, non tanto da parte di Tsipras quanto dal lato dei media e dei creditori che non lo hanno immediatamente contraddetto è il fatto che il primo ministro greco, a giustificazione della propria rigidità negoziale abbia dichiarato qualche giorno fa che «il suo mandato elettorale non gli permette di accettare le condizioni imposte dai creditori». Se dovessimo accettare questa affermazione – che viene peraltro da quasi tutti i politici in odore di elezioni –, ciò significherebbe accettare il principio che, un debitore dopo aver preso a prestito più di quello che era in grado di pagare (ed in questo caso la responsabilità è soprattutto di chi ha concesso il credito) ed averlo sperperato con un livello di vita superiore a quanto si poteva permettere (e qui invece la responsabilità è principalmente del debitore), si arroghi anche il potere di decidere se, quando e quanto del proprio debito pagare. Se è pur vero che i mercati hanno la memoria corta (dopo solo qualche anno dopo il default di certi paesi, i mercati hanno ricominciato a prestare agli stessi), mi pare che in questa situazione, un’affermazione di tale portata rischi di rendere i mercati molto meno propensi ad accettare i rischi di prestare a paesi in bilico e dove la buona gestione delle finanze pubbliche non sia un principio radicato e condiviso.
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Al di là delle critiche che, senza qualche proposta di soluzione, potrebbero essere considerate fine a se stesse – e che credo comunque dovrebbero essere equamente ripartite tra debitore e creditori – proporre di considerare, per una volta, un angolo di analisi alternativo. Poiché la dimensione del problema finanziario, rispetto alla posta in gioco, è relativamente limitato se non per il fatto che viola alcuni principi comunemente accettati, suggerirei infatti di procedere come normalmente si fa, o si dovrebbe fare, con la ristrutturazione di qualsiasi debitore insolvente:
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1. Iniziare a definire in quali settori economici la Grecia, magari dopo qualche riforma strutturale, possa essere competitiva in un mercato globale;
2. Definire un piano di sviluppo e di sostegno a tali settori,
3. Disincentivare lo sviluppo insostenibile di quei settori che non hanno più ragione di sopravvivere vista la loro scarsa competitività con l’aggiunta non indifferente di una vera caccia agli evasori
4. Partendo dai settori “buoni”, definire quanta ricchezza il paese possa effettivamente produrre concludendo con la definizione di quello che possa essere il debito effettivamente sostenibile seppur con scadenze molto dilazionate e tassi particolarmente favorevoli.
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Poiché la questione sociale non può né deve essere sottovalutata, in parallelo va definito quale sia un livello minimo di dignitosa sopravvivenza per coloro che da questa ristrutturazione “industriale” verranno colpiti (esempio i dipendenti pubblici in eccesso) e calcolato quanto denaro sia necessario per permettere, pro tempore, una vita dignitosa agli interessati, a cui, però, deve far riscontro una effettiva disponibilità dei beneficiari dei sussidi a riqualificarsi in quelle attività che verranno individuate come possibili.
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http://www.glistatigenerali.com/macroeconomia/grecia-e-la-ricerca-di-una-soluzione-duratura/
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lunedì 22 giugno 2015
Franco Astengo: Pd
PD: UN INUTILE ACCANIMENTO TERAPEUTICO di Franco Astengo
Francamente desta un po’ di stupore che una persona dai buoni studi, dalle frequentazioni e dagli ascendenti di Fabrizio Barca insista nel cercare di analizzare la realtà del PD (in questo caso romano, ma comunque emblematico di una situazione più generale) e di proporre rimedi alla situazione di malversazione e degrado morale in cui quel “partito” (triple virgolette) si trova.
La questione, infatti, non verte su questo o quell’episodio fronteggiabile con provvedimenti di natura organizzativa, amministrativa, disciplinare ma è di carattere strutturale: riguarda la natura del “partito” (sempre triple virgolette), la sua modalità di costruzione sul piano teorico che lo rendono irredimibile al riguardo di fenomeni degenerativi essendo impossibili misure di immunizzazione.
Tutto nasce, è doloroso ricordarlo a distanza di tanti anni, dalle modalità di scioglimento del PCI che avvennero, come molti ricorderanno, all’insegna di uno slogan molto preciso, quello dello “sblocco del sistema politico”.
A parte la categoria dello spirito dell’ottimismo, derivante soprattutto da una cattiva lettura della caduta del Muro di Berlino e dell’accettazione della visione che ne derivava di “fine della storia”, non si ravvedeva nessun’altra indicazione di prospettiva sul piano ideale e politico, nessuna ricerca di identità, nessun filo che tessesse un barlume di continuità con il passato che non fosse quella fideistica dei militanti chiamati a osservare il dettato del gruppo dirigente.
Su quel punto si verificò un primo momento di frattura, anche molto rilevante: quello della terza scissione, circa 800.000 militanti non scelsero né il PDS, né Rifondazione, semplicemente tornandosene a casa e alimentando, oggettivamente, quell’area di “antipolitica” che, in Italia, è sempre stata molto ampia e consistente.
Via via che la storia dipanava la sua matassa e raggiunta l’agognata meta del governo, il PDS, poi DS mutava la propria natura da partito “all catch party” come si era tentato di programmare all’inizio, pur senza base ideologico – politica e al di fuori da un’analisi concreta del reale in ispecie sul piano internazionale vedi lettura sbagliata della crisi e del suo affrontamento da parte del reaganismo – tachterismo e l’insensata identificazione con l’Europa che andava presentando visibilmente le caratteristiche di assunzione del deficit democratico e di allineamento totale alle logiche monetariste.
Il PDS, poi DS, e ancor più la Margherita, assumevano così la veste di partito non radicato sul territorio, formato da potentati locali di tipo personalistico, percorso da lotte di corrente finalizzate a sistemi più o meno importanti di potere, corroso da una “questione morale” diffusa e del tutto sottovalutata.
Inoltre la leadership di quel periodo era esercitata trascurando del tutto (anzi negando) la funzione di un partito risultando sovrapposta a una logica di coalizione (rissosa e squinternata) posta in rapporto con un bipolarismo mai funzionante nella storia politica di questo Paese.
Il sogno del comunista D’Alema e del fascista Fini dell’”alternanza temperata” era destinato a fallire proprio per la realtà intrinseca al sistema politico italiano: infatti tutte le elezioni svoltesi tra il 1994 e il 2008 assunsero la caratteristica di un referendum, sì o no, attorno ad una persona per niente moderata. L’estremista (ed eccessivo in tutte le sue manifestazioni) Silvio Berlusconi.
I contenuti espressi sul piano programmatico e dell’azione di governo dal cosiddetto centro – sinistra fosse questo Ulivo o Unione, risultavano prodotto di un accomodamento verso quelli della destra populista ed estremista allora egemone e, addirittura, verso quelli del separatismo leghista .
sotto quest’aspetto furono commessi due madornali errori, proprio nel periodo di governo: la modifica del titolo V della Costituzione e le famigeratissime “Leggi Bassanini”: errori da aggiungere a quello del tutto esiziale riguardante il ruolo dell’Unione Europea e della moneta unica.
Con la formazione del PD questi fenomeni sono precipitati in una vera e propria voragine: mantenuti i centri di potere a livello periferico, smarriti completamente elementi peculiari di identità politica, accorciata la visione internazionale(anche per via del modificarsi della situazione in esito alle guerre mediorientali e l’incapacità dell’amministrazione Obama di proporre e produrre soluzioni adeguate) si sono esaltati due meccanismi risultati del tutto decisivi per aprire la frana irreversibile di carattere etico - politico dentro la quale il PD si trova.
Il primo punto è quello della esasperazione del personalismo, arrivato ormai a livelli parossistici non soltanto al centro, con la figura ormai già logora in pochi mesi di Renzi, ma soprattutto in periferia, luogo di presenza di arrivismi infiniti .
E stata questa dell’arrivismo sfrenato, tra l’altro, la causa della sacrosanta e benedetta sconfitta del PD in Liguria: un arrivismo troppo evidente che ha dato fastidio a tanti che si sono ulteriormente allontanati magari soltanto per reazione epidermica a un fenomeno francamente insopportabile.
Il secondo, alimentato dalla sciagurata entrata in campo di primarie senza regole nate soltanto per ratificare ciò che era stato deciso e poi, com’era logico, mutate di natura in scontri da morti e feriti.
Le primarie hanno prodotto il fattore di completamento della degenerazione dell’agire politico che il PD rappresenta: quello dell’individualismo competitivo, per reggere il cui passo sono necessari potere e soldi.
Un “partito” (sempre triple virgolette) quindi frequentabile soltanto, dal punto di vista anche soltanto della militanza attiva e propositiva, attraverso il filtro dell’appartenenza ai vari “cerchi magici” che si sono formati al centro come in periferia.
“Cerchi magici” i cui componenti di maggior spicco agiscono la politica soltanto nel senso dell’acquisizione di potere: si spiega così la presenza di cordate che, nei vari circoli, fanno capo a soggetti con precedenti politici in quelle formazioni che del potere per il potere avevano fatto una bandiera assoluta come UDC e UDEUR.
Fenomeni di diffuso e ormai intollerabile trasformismo che, di nuovo, abbiamo ben visto all’opera anche nell’occasione delle elezioni regionali in Liguria, dove però la transumanza ha dato esiti disastrosi e coloro i quali si erano traghettati all’ultimo momento (Sindaci, Assessori, mica roba da poco) si sono trovati, alla fine, con un pugno di mosche in mano.
Se ne deduce che “Mafia Capitale” non sarà fenomeno isolato: in altre forme questo PD (e non potrà più esserci un altro PD) sarà sempre permeabile alle più pericolose e improvvisate infiltrazioni.
Rimane, purtroppo, il grande equivoco del PD rappresentante di una parte della sinistra italiana: un mito del tutto fallace che si sta esaurendo nell’astensionismo ma che permane nonostante tutti i provvedimenti di pura destra assunti in questi mesi, dal job act, alla legge elettorale e a quelli tentati, dalla riforma della Scuola alla modifica della Costituzione.
Un equivoco che ci auguriamo sia presto ulteriormente sciolto, e in misura più larga di quanto non sia già avvenuto.
La sinistra è attualmente priva di rappresentanza politica, prima di tutto per ragioni di ordine strutturale sul terreno della natura dell’agire politico prima ancora che rispetto all’ideologia, al rapporto con la storia del movimento operaio, ai programmi.
Sarebbe necessario ragionare prima di tutto su un partito (questa volta senza virgolette) e sulle sue funzioni, proprio in un momento dove sotto quest’aspetto si potrebbe apparire del tutto alieni alla realtà.
Un ragionamento fondato su tre punti, attorno ai quali sarebbe necessario avviare una profonda riflessione:
Tre punti sui quali svolgere la propria azione dovranno comunque caratterizzare l’operato di un partito della sinistra:
1) L’intellettuale collettivo che elabora nelle forme scelte di sviluppo dei principi democratici all’interno e all’esterno della propria soggettività;
2) L’attivatore periodico ricostruendo, all’interno di una società tendenzialmente atomistica, un intenso sentimento di solidarietà e di partecipazione svolgendo una funzione di tipo pedagogico;
3) Il collettore delle domande che pervengono dai gruppi subalterni, sintetizzandole nei momenti di opposizione e insieme di proposta politica, fuori e dentro le istituzioni.
domenica 21 giugno 2015
sabato 20 giugno 2015
Franco Astengo: Migranti, guerra, fame
MIGRANTI, GUERRA, FAME: MANCA IL CORAGGIO PER UNA GRANDE INIZIATIVA INTERNAZIONALE di Franco Astengo
Circa sessanta milioni di persone, in condizioni disperate, stanno cercando di fuggire dagli scenari di guerra e di fame che contraddistinguono tante parti del mondo.
Come il solito, secondo il vecchio detto cinese, lo stupido guarda al dito e non alla luna e il fenomeno viene catalogato come quello dei “migranti” che fanno paura, sono brutti, sporchi, cattivi, turbano gli equilibri costituiti.
Così si discute di “quote”, qui nel piccolo laghetto mediterraneo mentre gli scenari bellici sono ben più ampi: investono l’Africa del Nord e quella sub-sahariana, il Medio Oriente, l’Asia Centrale, il Sud-Est asiatico.
E’ il segno del completo fallimento della politica estera USA (quella interna è ben segnata dall’eccidio di Charleston) quale unica “superpotenza” presunta esportatrice di democrazia sulla punta delle baionette.
Si sta ristabilendo un pericoloso equilibrio bipolare con la nuova Russia a vocazione imperiale che si sta cercando di accerchiare (come ai vecchi tempi dell’URSS) fomentando la guerra in Ucraina e andando a svolgere manovre NATO ai suoi confini.
Si tornano a dispiegare missili in Europa come ai tempi dei Pershing e degli SS20, fautori Reagan e Breznev.
Non c’è soltanto la guerra ma anche la fame: ribolle, come sempre, la frontiera tra Messico e USA e quella tra Bolivia e Argentina attraversate da torme di “desperados” che, poi, quando riescono a passare le frontiere sono schiavizzati dai nuovi padroni.
La presuntuosa Europa, mentre non trova pochi soldi per la Grecia, si diletta a discutere prigioniera dei banchieri e dei burocrati, senza riuscire a prendere un minimo di iniziativa a livello internazionale.
Una classe politica arrogante, mediocre, priva di respiro culturale. Una classe politica nel suo complesso frutto del degrado che i soggetti eredi delle grandi idee del '900 hanno subito nella logica della spettacolarizzazione, della contesa “agonistica” per il potere, dell’omologazione nell’idea della ricchezza per la ricchezza allo scopo di alimentare il consumismo individualistico hanno prodotto nel vecchio Continente.
L’ONU, per quel che poteva valere anche in passato, appare soggetto completamente scomparso sul piano politico, privo di funzioni e di capacità di intermediazione e confronto.
Mancano capacità e coraggio per una grande iniziativa internazionale che principi dall’affermare la necessità della pace e il ristabilimento di giusti equilibri.
Gli esempi, però nella storia ci sono e qualche volta, se ci fossero governanti all’altezza sufficientemente illuminati, un’azione non velleitaria potrebbe essere intrapresa.
Torniamo allora al passato, allo scopo di rievocarne alcuni passaggi.
In un mondo dominato ormai, dopo la fine della seconda guerra mondiale, dalla logica dei due blocchi contrapposti: quello occidentale raccolto attorno agli USA, e quello orientale egemonizzato dall’URSS si svilupparono, nel decennio intercorso tra il 1950 (anno di inizio della guerra di Corea) e il 1960 (con il completamento, salvo alcune sanguinose eccezioni come l’Algeria, del processo di decolonizzazione in Africa) si compirono alcuni eventi assolutamente fondamentali per il prosieguo del processo storico a livello planetario.
Assieme alla fine irreversibile del vecchio colonialismo si possono ricordare l’entrata in crisi della “guerra fredda”, la ricostituzione della potenza economica dell’Europa Occidentale e del Giappone, l’emergere della Cina comunista.
Quattro paesi rimanevano ancora in possesso di imperi coloniali: la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e il Portogallo.
A simboleggiare l’anacronismo coloniale è utile ricordare come i primi tre paesi abbiano assistito in questo decennio alla fine dei loro Imperi (una fine subita dai britannici in modo assai meno drammatico rispetto ai francesi) e che l’ultimo paese coloniale, fino al 1975, sia rimasto il povero Portogallo di Salazar e Caetano.
La fine del colonialismo corrispose a una serie di imperativi storici: dopo la seconda guerra mondiale apparve chiaro che la nuova forma di dominio mondiale non passava più attraverso le forme coloniali, bensì attraverso la costituzione di immense sfere di influenza che, includendo paesi sviluppati o meno, non avevano più nulla a che fare con le colonie.
In questo senso agirono le due grandi potenze: USA e URSS.
L’influenza statunitense nel mondo si esprimeva esportando capitali, tecnologia, fornendo aiuti di vario tipo e condizionando le linee politiche degli Stati subalterni, come in Europa Occidentale, oppure saccheggiando risorse e materie prime attraverso una combinazione di sfruttamento economico e di controllo politico sui governi, come in America Latina.
Questa logica esercitata dagli USA rappresentava una nuova forma di imperialismo, che non si basava più sul possesso diretto dei territori dipendenti, bensì sul controllo in senso politico ed economico, così da creare una dipendenza fra Stato guida e Stati di secondo o terzo rango.
Il sistema neo – imperialista era molto articolato e andava da una complessa politica di alleanza e di condizionamento verso grandi paesi fino alla politica brutale in paesi sotto governi- fantoccio in Asia e in America Latina.
Alla sfera di influenza statunitense, basata sull’imperialismo di tipo nuovo, corrispondeva quella sovietica, nella quale l’URSS, pur nemica del vecchio colonialismo e dell’imperialismo di nuovo conio di marca statunitense, realizzava una sua forma di ferreo dominio sui paesi minori, che si manifestava nel controllo politico ed economico e nell’utilizzazione delle risorse dei piccoli e medi Stati dell’Est europeo (certo in una misura meno brutale e massiccia di quanto non facessero gli USA verso i paesi più deboli della loro sfera d’influenza).
Il primato sovietico nel campo socialista poggiava, analogamente a quello statunitense, sul monopolio delle superarmi e dei più avanzati settori tecnico – scientifici.
La decolonizzazione, con il sorgere conseguente di numerosi Stati nuovi, portò al delinearsi di un nuovo mondo che fu battezzato con un’espressione poi corrente per un lungo periodo eppur vaga “Terzo Mondo”.
Un “Terzo Mondo” variegato per storia, economia, struttura politica eppure accomunato da alcune grandi tendenze di fondo: la necessità di svilupparsi in tempi rapidi e la diffusa tendenza al “neutralismo”.
In quest’ambito si svilupparono alcune iniziative clamorose che misero in luce proprio queste tendenze “neutraliste”.
Dopo la conferenza di Colombo (Ceylon) del 1954, nel corso della quale India, Pakistan, Birmania, Ceylon e Indonesia presero posizione per la fine della corsa all’armamento nucleare, contro il colonialismo, a favore della pace e della distensione ebbe grandissima importanza la Conferenza di Bandung (Indonesia), la quale fra il 18 e il 24 aprile 1955 riunì 29 stati che per la maggior parte erano neutrali.
La conferenza era il frutto delle discussioni sviluppatesi tra alcuni paesi asiatici durante la fase finale della crisi indocinese, e dopo la firma, nel settembre del 1954, del trattato istitutivo della SEATO (l’omologo sul fronte del Pacifico, della NATO).
Originariamente la conferenza di Bandung non era ispirata da un comune progetto tra i paesi partecipanti di non allineamento rispetto agli schieramenti della guerra fredda, dato che fra i paesi invitati erano presenti tanto il Pakistan, ben legato all’Occidente dal trattato della SEATO e dalla sua politica generale, quanto la Cina, in quel momento schierata con l’URSS, o le Filippine e il Giappone, capisaldi degli USA nel Pacifico.
L’estensione del campo asiatico a quello afro-asiatico ebbe luogo quando si pose la questione di invitare alcuni paesi arabi e africani di recente indipendenza o di importanza risolutiva per l’ampliamento dei consensi: così l’invito fu esteso all’Egitto, alla Siria, al Libano, alla Liberia, al Sudan, all’Etiopia e al Ghana.
Complessivamente a Bandung furono presenti 29 delegazioni, eterogenee quanto alla provenienza e anche rispetto alla loro linea di politica internazionale ma tutte sensibili al tema degli schieramenti in relazione allo scontro sovietico – americano e ai costi impropri che la logica dello scontro proiettava su tutto il globo, deformando le possibili iniziative di sviluppo come, ad esempio, il cosiddetto “piano di Colombo”, che era stato lanciato nel 1950 su iniziativa britannica, nell’ambito dei paesi asiatici del Commonwealth, e dal quale avevano tratto ispirazione gli stessi promotori della Conferenza di Bandung per dare maggiore evidenza al problema dello sviluppo economico rispetto a quello dei conflitti militari.
In realtà il proposito iniziale fu modificato durante i lavori dal ruolo dominante assunto da alcuni dei partecipanti, come Nehru, Sukarno, Nasser, U Nu e Chou En Lai, che riuscirono a sovrapporre alle tematiche di schieramento nelle quali i 29 partecipanti erano impegnati l’analisi di alcuni principi generali che avrebbero dovuto costituire come una sorta di guida del “non allineamento”.
Il diritto di autodeterminazione nazionale e la condanna del colonialismo ebbero un posto importante nel dibattito, sebbene sul secondo tema si verificassero gli scontri polemici più duri, dato che i Paesi più vicini agli USA, come il Pakistan, posero la questione della condanna come forze imperialistiche dell’URSS e degli altri paesi comunisti.
Un altro punto importante fu rappresentato dall’impegno, sancito in linea di principio, di “astenersi dal partecipare ad accordi di difesa collettiva volti a servire gli interessi particolari delle grandi potenze”.
Era questa la formula del “non allineamento”, la cui formula consentì però una vasta gamma di interpretazioni.
In generale la conferenza ebbe un forte valore simbolico, offrendo anche forti spunti di dibattito e intervento ai movimenti della sinistra critica in Occidente, in quanto vi furono affermati principi del futuro ordinamento internazionale come il forte impegno a favore dell’indipendenza dei popoli coloniali, che avrebbe avuto larga eco nel mondo, così come ebbe grande risonanza l’annuncio di una nascente coalizione neutralistica (alla quale avrebbero poi aderito anche la Jugoslavia e Cuba, al momento della rivoluzione castrista).
Certo non mancarono le contraddizioni, ma gli esiti risultarono fortemente positivi (soprattutto se comparati alla situazione odierna).
Prevaleva la Politica con la P maiuscola, al contrario di oggi dove alla Pietas del Papa si contrappongono soltanto egoismi di ogni natura.
Un quadro drammatico, sconsolante, foriero di ulteriori sciagure.
venerdì 19 giugno 2015
giovedì 18 giugno 2015
martedì 16 giugno 2015
lunedì 15 giugno 2015
sabato 13 giugno 2015
PERCHE’ LA SINISTRA: LONTANO DAGLI OCCHI, LONTANO DAL CUORE. LA "SINISTRA EUROPEA DI GOVERNO" E IL DISTACCO DALLE DRAMMATICHE CONTRADDIZIONI DELL'OGGI
giovedì 11 giugno 2015
mercoledì 10 giugno 2015
martedì 9 giugno 2015
lunedì 8 giugno 2015
domenica 7 giugno 2015
sabato 6 giugno 2015
venerdì 5 giugno 2015
Sigmar Gabriel - Emmanuel Macron: Perché ci serve una doppia Europa
la Repubblica, 4 giugno 2015
Perché ci serve una doppia Europa
di Sigmar Gabriel e Emmanuel Macron
DA UNA frontiera all’altra dell’Unione Europea, dalla Grecia al Regno
Unito, l’ideale europeo è messo in discussione. Nulla di strano se si
considera che la terribile crisi degli ultimi anni ha messo a nudo due
grossi punti deboli dell’architettura europea.
IL primo è l’interruzione del processo di convergenza economica tra i
Paesi dell’Unione, e in particolare quelli della zona euro. Non stiamo
parlando di una difficoltà teorica: la disoccupazione è una realtà
quotidiana per milioni di europei, in particolare i nostri giovani, che
rischiano di diventare una generazione sacrificata. Il secondo punto
debole sono le tensioni politiche: in seno agli Stati membri, dove sono
in ascesa forze antieuropeiste, e fra gli Stati membri. La situazione
greca e quella britannica, per quanto diverse, sono la dimostrazione
che l’interesse generale dell’Europa e gli interessi nazionali sembrano
divergere sempre più.
In questo contesto, dieci anni dopo il no dei francesi al referendum
sulla Costituzione europea, è tempo di riaprire il dibattito economico
e politico. È tempo di rafforzare la zona euro nel quadro di una
riforma più generale dell’Unione, un’Unione dentro la quale ogni Stato
membro deve trovare posto. Noi auspichiamo vivamente che nei prossimi
giorni si riesca ad apportare una soluzione alle difficoltà più
pressanti della Grecia. Ma dobbiamo anche pensare fin d’ora al futuro
dell’Europa.
L’euro è stato creato sulla base di un accordo politico francotedesco,
ma anche sulla base di un’ambiguità costruttiva tipicamente europea.
Francia e Germania hanno quindi una responsabilità particolare per
correggere i difetti della moneta unica. Alla fine degli Anni ‘80
avevamo un progetto politico comune che poggiava su obiettivi economici
differenti: la Germania voleva garantire la sua riunificazione e
sostituire il moribondo sistema monetario europeo con un meccanismo
stabile, costruito sul modello della Bundesbank; la Francia voleva
ancorare la Germania all’Europa e dare al nostro continente più
strumenti per imbrigliare la globalizzazione. Questi obiettivi sono
confluiti in direzione di un approfondimento dell’integrazione europea,
ma hanno finito per mascherare i difetti di costruzione dell’unione
monetaria. Ora è necessario correggere questi difetti, se vogliamo che
l’euro mantenga la sua promessa di prosperità economica, e più in
generale eviti una deriva dell’Europa verso uno scontento ancora
maggiore e divisioni ancora più profonde.
Per riuscirci, è indispensabile accelerare la costruzione di un’unione
economica e sociale, accordandoci su un processo di convergenza per
tappe successive. Per questo processo è necessario portare avanti le
riforme strutturali (mercato del lavoro, attrattività per le imprese…)
e le riforme istituzionali (in particolare per quanto riguarda il
governo dell’economia), ma anche avvicinare i nostri sistemi fiscali e
sociali (per esempio con salari minimi più coordinati o con un’
armonizzazione dell’imposta sulle società). Questo progetto renderebbe
più forti le nostre economie, consentirebbe di mettere i Paesi della
zona euro su un piano di parità e di arrestare la corsa al ribasso che
oggi imperversa attraverso concorrenza fiscale, dumping sociale e
svalutazioni interne non collaborative. Avvicinerebbe le nostre
economie, migliorerebbe le nostre potenzialità di crescita e
permetterebbe di stabilire quali politiche dobbiamo centralizzare,
armonizzare o semplicemente coordinare all’interno zona euro.
Questo processo di convergenza fra gli Stati membri getterebbe le basi
di un bilancio comune per tutta la zona euro, condizione indispensabile
per l’efficacia dell’unione monetaria. Oggi la zona euro poggia
innanzitutto su regole che mirano a garantire la disciplina di
bilancio. Queste regole sono importanti, ma nulla garantisce che la
somma delle politiche di bilancio nazionali condurrà a una situazione
ottimale per la zona euro nel suo complesso, sia nei momenti di crisi
sia nei periodi di crescita. È importante quindi dare alla zona euro
una competenza di bilancio al di sopra dei bilanci nazionali, che ci
consenta di mettere in campo stabilizzatori automatici e adattare la
nostra politica di bilancio al ciclo economico. In un primo tempo, la
competenza di bilancio della zona euro potrebbe essere sviluppata nel
quadro del piano Juncker, per finanziare progetti di investimento
(infrastrutture, reti intelligenti, investimenti di rischio…). In un
secondo momento, potremmo creare per la zona euro un bilancio a tutti
gli effetti, che avrebbe due elementi: uno di “produzione”, per
sostenere gli investimenti, e uno di “stabilizzazione”, con
stabilizzatori automatici a livello europeo. Questo bilancio
disporrebbe di risorse proprie (per esempio una tassa unica sulle
transazioni finanziarie o una frazione di un’imposta armonizzata sulle
società) e della capacità di emettere obbligazioni.
Questo bilancio comune della zona euro non potrebbe e non dovrebbe
dispensare gli Stati membri dall’obbligo di rispettare la disciplina di
bilancio. Per rafforzare l’equilibrio bisognerebbe introdurre un quadro
giuridico comune per la ristrutturazione ordinata dei debiti pubblici
nazionali, se dovesse rendersi necessario, come ultima istanza,
ricorrere a una misura del genere. Tutto ciò consentirebbe di
responsabilizzare i Paesi che beneficiano dell’aiuto degli altri Stati
membri, evitando al tempo stesso misure di austerità inappropriate
quando il peso del debito non è più sostenibile. Contemporaneamente, il
Meccanismo europeo di stabilità (Mes) verrebbe integrato al diritto
comunitario, trasformandosi in un vero e proprio Fondo monetario
europeo.
La zona euro in questo modo poggerebbe su istituzioni comuni più forti,
in grado di adattarsi alle situazioni nazionali e alle circostanze
economiche. Per garantire il buon funzionamento di queste istituzioni,
l’Europa deve apportare soluzioni al deficit di democrazia e alla
difficoltà di operare decisioni. Concretamente, le nuove responsabilità
affidate alla zona euro dovrebbero essere accompagnate da un maggior
controllo democratico, arrivando per esempio a formare una “zona euro”
in seno al Parlamento europeo. Un “commissario all’euro”, con
competenza non solo su questioni di bilancio, ma anche su crescita,
investimenti e occupazione, potrebbe incarnare questa zona euro
rafforzata.
Il rafforzamento della moneta unica non riguarda soltanto la zona euro.
È qualcosa che è impossibile fare senza ripensare più in generale l’
Unione Europea, soprattutto perché dobbiamo essere capaci di rispondere
a una domanda fondamentale: «Qual è il posto degli Stati membri che non
fanno parte della zona euro?». Una zona euro rafforzata dovrebbe essere
il cuore di un’Unione più stretta. Abbiamo bisogno di un’Unione più
chiara e più efficace, con più sussidiarietà e una governance
semplificata. Lo strumento fondamentale dell’integrazione europea è il
mercato unico: bisogna quindi fare un ulteriore passo verso un mercato
interno meglio integrato, con un approccio mirato su certi settori
chiave, come l’energia o il digitale.
Per un miglior funzionamento dell’Europa è necessario anche
incrementare il sentimento di appartenenza comune. Sono i legami più
stretti fra i cittadini che conferiscono legittimità alle istituzioni:
serve quindi rafforzare la nostra affectio societatis . È per questo
motivo, per esempio, che siamo favorevoli a una generalizzazione del
programma Erasmus, consentendo a qualunque cittadino europeo, al
compimento dei diciotto anni, di trascorrere almeno sei mesi in un
altro Paese europeo per studiare o fare un apprendistato.
La costruzione di questa nuova architettura dell’Europa è fondamentale,
non solamente per produrre fin da subito politiche efficaci, ma anche
per garantire la stabilità politica dell’euro e dell’Unione Europea nel
lungo termine. Dobbiamo riconciliare l’interesse generale europeo e gli
interessi nazionali. Il nostro obiettivo comune dev’essere rendere
impensabile, per ogni Stato membro che voglia legittimamente difendere
i propri interessi, concepire il proprio futuro al di fuori dell’Unione
(o all’interno di un’Unione dalle maglie più larghe). Per raggiungere
questo obbiettivo abbiamo bisogno di un’Unione solidale e
differenziata. La Francia e la Germania hanno la responsabilità di
aprire la strada, perché l’Europa non può aspettare più a lungo.
Sigmar Gabriel è vicecancelliere e ministro dell’Economia tedesco.
Emmanuel Macron è ministro dell’Economia francese
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