giovedì 16 ottobre 2014

Mario Deaglio: Fare le riforme vuol dire redistribuire i redditi

Fare le riforme vuol dire ridistribuire i redditi (Mario Deaglio, La Stampa) , , . Banchieri centrali, esponenti economici, responsabili di centri dì ricerca internazionali, da anni ripetono come un mantra tibetano lo stesso ritornello. A questo coro sempre più nutrito si è aggiunto di recente il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, con due specificazioni importanti: le riforme devono essere “strutturali” (non una tantum) e devono riguardare non solo l'Italia ma l’intera Europa. Che cosa sono, allora, queste riforme che l'Italia e il resto d'Europa dovrebbero fare? L'espressione fare le riforme è una foglia di fico per nascondere qualcosa di politicamente scomodissimo: un ridisegno della società attraverso una diversa distribuzione dei redditi. Negli ultimi vent'anni, la distribuzione dei redditi si è ovunque spostata dal lavoro alle rendite. In Germania, gli anziani che vivono di rendite e di altre entrate fisse non sono mai stati così ricchi e così in buona salute, come titolava di recente il tedesco Welt am Sonntag. Negli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli utili delle società non sono mai stati così alti. E mai così alto negli ultimi decenni, è stato l’indice Gini (che misura la disuguaglianza dei redditi), che ha visto l’Italia di diventare uno dei Paesi avanzati con maggior disuguaglianza, solo di poco inferiore a quella degli Stati Uniti. Mentre però negli Stati Uniti la società è diseguale ma anche relativamente mobile, e chi è povero può ragionevolmente pensare di migliorare sensibilmente la propria posizione economica, in Italia diventano sempre più rigide le barriere che rendono difficile questo miglioramento, come dimostrano le norme per l'ingresso alle varie “libere” professioni. Fare le riforme significa quindi ridistribuire i redditi in modo più equo. Le vie sono molteplici e tocca ai politici dire chiaramente quale e quanta ridistribuzione intendono attuare. Fare le riforme implica però non tanto - o non solo - la riduzione del carico fiscale, come chiedono gli imprenditori ma anche la riduzione dei costi “esterni”. Occorre ripensare radicalmente la burocrazia organizzandola sulla base dei modelli, più semplici e più efficaci, di Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, e ridurre così i tempi delle decisioni pubbliche, essenziali nel modo di produzione postindustriale. Per far questo non basta, o non serve, “tagliare i costi” lasciando invariata la struttura, come hanno latto, in vario modo, i governi degli ultimi dieci anni. E' necessario ridurre i livelli decisionali e, per conseguenza, imboccare una strada scomodissima che implica una riduzione sensibile nel numero dei pubblici dipendenti A tale riduzione fa da contrappunto la riduzione degli incarichi di lavoro di numerose categorie professionali che, volenti o nolenti, vivono sulla complicazione delle procedure pubbliche. Un esempio fra i tanti: l'invio a domicilio, già dal 2015, della dichiarazione precompilata dei redditi toglierà lavoro ai Caf e ai commercialisti. L'(eventuale) semplificazione della giustizia e l'accorciamento dei tempi potrebbe significare meno lavoro per le professioni legali. E l'elenco, naturalmente, potrebbe continuare. Dietro il generico “fare le riforme” si nasconde quindi una trasformazione rapida e non indolore della società. Alcuni Paesi - Portogallo, Grecia, Irlanda - non se la sono sentita di fare tutto da soli, pur avendo i loro governi maggioranze più solide dell'attuale governo italiano e hanno conferito alla cosiddetta troika (composta di rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale, della Bce, della Commissione di Bruxelles) una sorta di giudizio di ultima istanza sulla adeguatezza e la sufficienza quantitativa delle manovre di risanamento. Hanno passato un paio d'anni d'inferno e sembrano oggi in via di guarigione. L'Italia non è nella loro condizione ma, se vorrà conservare un ruolo rilevante nell'economia, nella politica, nella società globale, non potrà semplicemente evitare il problema. Che è già, tra l'altro, in maniera inconfessata, al centro del dibattito politico italiano.

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