lunedì 14 maggio 2012

Peppe Giudice: Linke e linkismo all'italiana

LINKE e “LINKISMO” all’italiana..


pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno venerdì 11 maggio 2012 alle ore 1.05 ·
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LINKE e “LINKISMO” all’italiana.





Due anni fa io scrissi un articolo per “socialismo e sinistra” in cui esprimevo un giudizio globalmente positivo sulla “Linke” (pur con qualche criticità) . Non mi entusiasmava l’alleanza di Lafontaine (un seguace di Willi Brandt) con gli eredi di una delle peggiori dittature dell’est. Ma ritenevo comunque che la Linke potesse svolgere una funzione positiva per stimolare la SPD ad abbandonare la fallimentare “Neue Mitte” di Schroeder. A mio avviso La SPD oggi ha fatto importanti passi in avanti (magari non nella misura da me desiderata) nell’abbandonare quelle posizioni (leggersi Martin Schultz, lo stesso Gabriel e soprattutto la Naheles) e la Linke è in crisi.

Non c’è dubbio che comunque il compagno Oskar Lafontaine abbia giocato un ruolo positivo per un certo periodo. Sarebbe stato molto più positivo se avesse combattuto una battaglia nel partito di cui era stato presidente per quattro anni. Avrebbe messo in seria difficoltà Schroeder. Non dimentichiamo che il periodo più negativo della gestione Schroeder è stato nel secondo mandato (2002-2005). La Agenda 2010 che esprimeva in pieno il suo social-liberismo (ed il mercantilismo tedesco) è del 2004. Quando erano due anni che Lafontaine era uscito dal partito. Con una sinistra forte interna guidata da un grande politico come Lafontaine, essa non avrebbe mai visto la luce.

Comunque la Linke è difficilmente definibile come un partito unitario. E’ invece la somma di due formazioni: un pezzo minoritario della sinistra SPD ad ovest; gli ex comunisti ad Est. Ad est è un partito regionale che prende consensi da quelle fasce che sono state penalizzate da una riunificazione affrettata (ed i cui costi Kohl li scaricati sulla intera Europa…) e che ha trasformato quelle regioni nel “Mezzogiorno” tedesco. Ad ovest c’è un pezzo di sinistra Spd. Quindi due partiti in uno, con radici ideologiche diverse e con territori diversi.

In Italia la Linke è stata vissuta come una spinta a rifondare il comunismo . O a cercare una impossibile sintesi tra socialismo e comunismo del 900. Non si rendevano conto che l’esponente di maggior spicco era Lafontaine che fino a qualche anno prima sarebbe stato definito come social-traditore.

E sul quale voglio spendere due parole in più. Lafontaine era contro l’unificazione tedesca affrettata (come lo era Brandt). Aveva ben capito i rischi che tale operazione comportava. Era contro l’ingresso della Cina nel WTO senza clausole sociali. Era contro l’allargamento ad est dell’Europa. Si rendeva perfettamente conto che l’accelerazione della globalizzazione ed una Europa molto diversa da come la immaginavano i socialisti storici, avrebbe comportato un rischio reale per il modello sociale europeo. Aveva perfettamente ragione. Le sue posizioni sono le stesse della Montemburg e della Aubry nel PSF. Inoltre era un convinto sostenitore del Piano Delors. Tant’è che Delors stesso voleva che Lafontaine divenisse il Presidente della Commissione Europea (l’unico in grado di portare avanti il suo piano). Non lo diventò per un veto di Schroeder ma soprattutto per il veto del capitalismo globalizzato che vedeva in Prodi colui che avrebbe meglio garantito i suoi interessi (quanto ci sarebbe da scrivere su Prodi e l’Ulivismo…).

E del resto con l’appannarsi della figura di Lafontaine la Linke probabilmente ritornerà ad essere partito regionale.

La Linke è la dimostrazione che è impossibile costruire una sintesi tra socialismo e comunismo (inteso come gli eredi in qualche misura della III Internazionale).

Il più grande erede del socialismo rivoluzionario (o comunismo libertario se si preferisce) di Rosa Luxemburg, Cornelius Castoriadis (animatore del gruppo francese “Socialisme ou Barbarie” ) , diceva che il capitalismo si è evoluto in occidente dal modo di produzione feudale. In oriente dal modo di produzione asiatico (Russia, Cina) si è prodotto il capitalismo burocratico di stato. Che è stato il comunismo realizzato della III Internazionale. Castoriadis utilizza inesorabilmente le categorie marxiane per criticare il socialismo reale. E vede nella teoria leninista del partito e della rivoluzione la giustificazione ideologica della formazione della nuova classe dominante nel capitalismo burocratico di stato. Egli infatti rompe con il trotzkismo (era stato un dirigente della IV Internazionale) perché Trotzky critica Stalin ma non rompe con Lenin incapace di vederne la continuità. Lo stesso dice con grande onestà intellettuale Pietro Ingrao in una intervista di una decina di anni fa: “ pensavamo che Stalin avesse tradito l’impostazione di Lenin, ma non era vero”.

Ma a parte l’autoritarismo, l’intolleranza di Lenin, vi sono altri elementi che rendono Lenin e Trotzky completamente obsoleti ed assolutamente inservibili per qualsiasi progetto di trasformazione sociale.

Riccardo Lombardi spiegava che lui utilizzava il termine “acomunista” per indicare la posizione dei socialisti autonomisti (De Martino, Santi, Giolitti ed egli stesso) per due ragioni : una per sottolineare la originalità della posizione socialista; la seconda perché in una società capitalista complessa una posizione comunista è politicamente impraticabile. Il leninismo ed il trotzkismo sono legati indissolubilmente ad una analisi ed ad una terapia rispetto al capitalismo pre-keynesiano.

Per questo, diceva Riccardo, i comunisti occidentali (francesi ed italiani) continuano ad adottare una fraseologia apparentemente rivoluzionaria ma con una pratica che converge con la socialdemocrazia (e talvolta non certo con quella più di sinistra). Carlo Rosselli questo lo aveva già intuito anni prima. La doppiezza è la frattura tra identità e prassi.

Riccardo Lombardi (già Otto Bauer e Rosselli lo avevano intuito negli anni 20 e 30) ritiene completamente superata ed obsoleta la contrapposizione riforme-rivoluzione in una società capitalistica complessa che è trasformabile solo dall’interno ma senza mai perdere la radicalità degli obbiettivi.

Lombardi (e in ciò sta la sua grandezza) è una sintesi straordinaria tra Kautsky e Rosa Luxemburg, Otto Bauer e Carlo Rosselli, è influenzato dall’umanesimo socialista di Erich Fromm, è un grande studioso dell’economia postkeynesiana (Kalecki, Robinson, Kaldor).

Ha prestato grande attenzione ai tempi della sostenibilità della crescita. Uno dei primi a leggere Georgescu-Rogen ed a prestare attenzione al rapporto del MIT commissionato dal Club di Roma (siamo nel 1973) sui limiti fisici dello sviluppo.

Per tornare al tema Lombardi ritiene, già negli anni 50, che la contrapposizione socialisti-comunisti come contrapposizione riformisti-rivoluzionari non ha assolutamente più senso. Persiste invece una seconda linea di discrimine e divisione che riguarda la concezione del partito (centralismo democratico, rapporto partito-società, partito- classe lavoratrice). Per Lombardi (ma anche per Morandi giovane) il partito è un strumento , sia pur importante, ma pur sempre uno strumento come lo sono anche sindacati e movimento cooperativo, di un grande progetto emancipatorio che si chiama socialismo. “Noi lottiamo non per il PSI ma per il socialimo” diceva Riccardo. Per i comunisti resta una sorta di “corpo mistico-politico” una chiesa laica. Sia pur nella versione aggiornata e sofisticata del PCI. Non è un caso che Lombardi non amasse affatto l’idea berlingueriana di diversità che denotava un elementi di integralismo.

Per questa ragione la sintesi di socialismo e comunismo non è stata possibile.

Dopo l’89 il termine è servito solo per auto legittimare i gruppi dirigenti di piccoli soggetti che erano destinati a rimanere per sempre nella marginalità politica.

Ma veniamo ora alla critica che Lombardi fa alla socialdemocrazia. Intanto Lombardi riteneva il termine socialismo democratico più ampio di quello di socialdemocrazia ritenendo quest’ultima una fase storica del socialismo democratico del centro-nord Europa. In realtà Gaetano Arfè fece notare che tale distinzione ha perso di senso.

Comunque la critica al modello socialdemocratico fatto da Lombardi è tutta interna alla cultura del socialismo democratico. Nessuna III via berlingueriana. Anzi lui mette in evidenza che non è possibile assolutamente mettere sullo stesso piano una esperienza che ha condotto al modello sociale più avanzato con regimi fondati sulla oppressione sistematica.

Riccardo vede il limite del modello socialdemocratico nel compromesso fondato su un ritmo forte e costante di espansione economica. Nel momento in cui tutta una serie di fattori riducono il ritmo espansivo, il compromesso entra in crisi, eccezion fatta per una limitata serie di paesi (Svezia, Austria ecc) dove è il sindacato resta fortissimo.

Per Lombardi il capitalismo proprio perché si fonda sulla riproduzione allargata e sul dato che il tasso di crescita della produttività tende a superare quello della domanda, ha da un lato l’esigenza di allargare la sfera del consumo e quindi del mercato ai beni sociali ed ai beni esistenziali (cultura, tempo libero, la stessa sessualità) creando un modello di consumo sempre più alienato ed irrazionale; dall’altro non pone limiti allo sviluppo delle forze produttive e della produzione in un ambiente che limitato. In questo sta l’irrazionalità del capitalismo.

L’alternativa che Lombardi prospetta è quello di un profondo mutamento del modo di produrre e consumare che comporta una profonda riorganizzazione della società e dell’economia. E’ questo il progetto di “socialismo democratico forte” che Lombardi ha in testa. Ma il socialismo di Lombardi è “profetico” ma anche pragmatico e gradualista. “Il problema non è quello di ridurre o meno la velocità del cambiamento, il percorso può essere più o meno accidentato, l’importante è mantenere la direzione di marcia”. Quindi il progetto perseguito ha necessariamente bisogno di momenti e di fasi anche protratte di mediazione e di compromesso. Indispensabili per ottenere un consenso maggioritario nella società complessa. Importante è però non smarrire mai la direzione di marcia.

Questo pensiero di Lombardi era, negli anni 70, presente anche in grandi dirigenti socialdemocratici come Brandt Kreisky e Palme. La socialdemocrazia svedese fu la prima con il Piano Meidner a puntare ad un compromesso sociale più avanzato. Ma negli anni 80, di fronte ai processi di restaurazione del capitalismo liberista, mancò un progetto ed una visione unitaria dei problemi. E questa è una delle cause che portò un pezzo importante delle socialdemocrazie a farsi egemonizzare dal pensiero liberista. Ma su questo abbiamo abbondantemente discusso.

Oggi il pensiero di Lombardi, di Palme o dei Lafontaine (e dei Montemburg) è essenziale per rilanciare il socialismo democratico in una fase in cui la crisi strutturale del capitalismo liberale può far precipitare l’umanità nella barbarie. “Il liberismo è nemico del genere umano” diceva Lafontaine.

Ma per uscire dalla crisi non serve la lagna continua, o la gestione della rabbia. Occorre un progetto di società ed una capacità propositiva di lotta.

Lombardi parlava di una società più ricca, perché diversamente ricca. In questo consiste il progetto socialista che dobbiamo offrire e che deve essere supportato da soggetti politici non minoritari.

Un diverso modo di produrre e consumare Lombardi lo intravedeva (già alla fine degli anni 70) in un sistema produttivo che produca beni al alto contenuto di informazioni ed a basso contenuto di energia, sullo sviluppo dei beni pubblici e dei beni sociali, sulla programmazione e la democrazia economica. Sulla economia mista con un rilancio del ruolo dell’impresa pubblica sottoposta a controllo democratico. Sullo sviluppo degli spazi di autogestione.

Dicevo: questo progetto lo possono sostenere solo partiti che abbiano il 25-30% almeno dei consensi. E che siano socialisti anche se la sinistra oggi è più ampia dei socialisti, essi solo sono in grado di esserne la forza propulsiva. Per questo è importante non fare la Linke ma spostare a sinistra l’asse del PSE.

Questo ovviamente è un discorso valido per la Francia, la Germania, L’Inghilterra. L’Italia è priva di una forza socialista. Il PD non lo è (anche se nel suo interno esistono elementi tendenzialmente socialisti) e c’è chi (come D’Alema) lo vuole fare addirittura diventare uno strumento di stabilizzazione di sistema con l’asse progressisti-moderati (ritornano le convergenze parallele).

A sinistra, in uno spazio non antagonista, intorno a SeL (che è la forza più visibile) si può costruire una sinistra di ispirazione socialista che aggreghi il fronte più vasto possibile coerente con un progetto di socialismo democratico (alla Lombardi o alla Palme). Certo non avrà la forza elettorale delle alte forze socialiste europee, ma già se arriva intorno al 12% è ottima cosa. Non si può pretendere che in una Italia affondata dalla II Repubblica si possa in tempi brevi aggiustare le cose.



PEPPE GIUDICE

1 commento:

mario ha detto...

L'articolo di Giudice è interessante e chiarificatore di alcuni passaggi della storia della socialdemocrazia. C'è però una osservazione che mi sento di fare e riguarda una omissione, non tanto di Giudice ma di tutta la politica socialista. L'omissione è quella che riguarda i movimenti. Nel 68 ad esempio, ma anche oggi rispetto a movimenti come quello dei precari. Non è un caso che Giudice veda SEL, ennesima ristrutturazione di un'area residua del vecchio PC e non veda il movimento dei precari. Ma anche il mondo delle microaziende che è in gran parte, nell'area che il sindacato chiama della “conoscenza”, una risposta del precariato alle condizioni del mercato del lavoro.

Evidentemente non è solo il dogmatismo che impedisce di vedere il nuovo. C'è anche un elemento (forse specifico del comportamento umano) che rende difficile la percezione del nuovo anche in chi ha costruito la sua conoscenza sulla critica del dogmatismo imperante. Anzi forse è proprio la difficoltà e lo sforzo con cui le persone hanno costruito la loro critica e il loro impegno, che rende più difficile capire il nuovo. E questo è paradossale perchè spesso il nuovo è apparso ed è stato in grado di organizzarsi perchè stato facilitato se non prodotto dalla loro critica. Ma come è ovvio, il nuovo non è mai, coincidente con le critiche e le suggestioni precedenti. Nasce e segue vie dificilmente prevedibili.

Negli anni 70 ho visto sia la creatività sociale che la pochezza politica dei movimenti, e mi è rimasta una domanda: perchè le forze intellettuali e politiche che in Italia avevano resistito alla omologazione agli integralismi di destra e di sinistra, quel variegato mondo di liberali radicali, di azionisti e di socialisti non frontisti, è rimasto indifferente, contribuendo così al riflusso del movimento su posizioni vecchie e cieche?

Si trattava non di inseguire il movimento ma di porsi il problema delle forze nuove che si manifestavano e di rinnovare di conseguenza le proprie politiche. In Italia il nuovo era il lavoro mentale “salariato” cioè l'inserimento, in altri paesi già avvenuto, del lavoro mentale nella produzione capitalista, con l'effetto di ricongiungere il lavoro operaio a quello dei nuovi lavoratori della “mente”; ma anche potenzialmente di dividere i lavoratori in due settori oggettivamente diversi per il costo della riproduzione del lavoro.

Insomma è evidente, e probabilmente è un costo obbligato, che l'approccio riformista, che è non dogmatico metodologicamente, sconti comunque la sua “partecipazione” alla gestione politica con un appiattimento della sua visione, alla realtà in cui quella visione si è formata. E a maggior ragione se ha avuto successo questa visione, il cui successo produce un cambiamento, la visione si consolida, con il paradosso che in tal modo si allontana dalla realtà. Osservazione questa che vale poco ovviamente per l'Italia (quale sarebbe mai il successo?) ma sicuramente per la Germania e la Svezia. Per l'Italia purtroppo è bastata la “partecipazione” alla gestione politica, anche con pochi successi, ad appiattire la visione dei socialisti.
Termino con le parole di Lombardi al Congresso del 78: Oggi il partito,... si trova di fronte all’insorgenza nella società di movimenti, di iniziative, con forte tendenza, molte volte confusionaria, all’autoamministrazione, all’autogestione.Oggi un partito socialista che, appunto, riadegui la sua struttura alle necessità attuali, alle scelte della sua nuova linea politica, ma anche alle condizioni della società italiana,deve essere capace di essere il punto di riferimento, di risonanza e di coinvolgimento delle molteplici esigenze che nascono impetuosamente nella società,in tutte le sue strutture[...]e che sono il segno, e nello stesso tempo la motivazione, di un impetuoso sviluppo democratico.Un partito che si limitasse semplicemente ad essere l’interlocutore neutro [...] finirebbe per diventare un partito puramente parlamentare