Shayn McCallum
Il neo-liberismo e il “mea culpa” dei socialisti
La Convention del Partito del socialismo europeo, tradizionale appuntamento per attivisti e leaders del socialismo europeo, è finita. La sensazione è al tempo stesso di speranza e di preoccupazione di fronte all’enormità dei compiti che abbiamo di fronte. Le testimonianze di leaders nel frattempo caduti, come Georges Papandreu, sottolineano la disperazione dei tempi che stiamo vivendo e ci fanno capire come probabilmente ci troviamo all’ultimo stadio di una contro-rivoluzione avverso le conquiste della socialdemocrazia del secondo dopoguerra.
Tuttavia dobbiamo essere onesti con noi stessi e, prima di procedere oltre, recitare un “mea culpa”. La verità è che la socialdemocrazia non è oggi vittima di un golpe strisciante dei mercati contro una democrazia efficiente, perché noi siamo stati a suo tempo attivi collaboratori di questo processo di mercatizzazione.
Certo ci andrei cauto a lanciare accuse di tradimento o appiccicare etichette di “Quisling” sulla fronte dei passati leaders o anche auspicare un qualche atto catartico di ripudio; non è il caso. Ma dopo l’assalto conservatore (ma in verità libero-scambista radicale) degli anni ‘80 e dopo la confusione ideologica che ha investito la battaglia liberale sul socialismo a seguito del collasso di quella contraffazione che fu il socialismo “reale” nell’Est Europa e in URSS, credere, come è capitato a molti nostri compagni, che ogni speranza in una alternativa di società debba essere accantonata, è perfettamente comprensibile anche se tragicamente sbagliato.
Martin Schulz, nelle sue conclusioni alla Convention, ha ricordato a noi tutti con forza, in un modo che non ricordavamo da tempo, che noi siamo socialisti e che il socialismo rimane, nel suo nucleo teorico, l’opposto del capitalismo. Capitalismo significa dominio del capitale, socialismo significa subordinazione dell’economia alla società, attraverso meccanismi democratici. E stiamo vedendo sempre più chiaramente quanto questi due diversi approcci, capitalista e socialista, siano opposti in modo inconciliabile.
Questo certo non significa che ci sia un modello astratto di socialismo che noi si voglia imporre in alternativa al dominio del capitale, piuttosto significa che dobbiamo lavorare a creare nuovi, flessibili, tendenzialmente aperti sistemi di potere attraverso i quali il popolo possa riprendere il controllo della propria vita collettiva e individuale.
Alcuni compagni socialdemocratici preferiscono parlare di “decent capitalism”. I rimedi che loro propongono rispetto allo stato di cose esistente sono al tempo stesso ragionevoli e senz’altro sostenibili come punto di partenza per una trasformazione delle nostre società. Personalmente non ho nulla di sostanziale contro le loro proposte, ma qualcosa ho da ridire sull’etichetta. Usando il termine “capitalismo”, sia pure “capitalismo decente”, diamo anche simbolicamente l’impressione di limitarci ad un terreno sul quale evidentemente i nostri nemici esercitano piena sovranità. Hanno i loro Hayek da scagliarci contro. “Decent capitalism” appare una dicitura debole e senza ambizione. Anzi peggio, a che cosa mira? Sembra il tentativo di ricondurre a ragione le forze che meno sono interessate alla decenza. La logica di un mercato scatenato è intrinsecamente indecente.
Anche a voler rassicurare i settori più timorosi dell’opinione pubblica, insistendo sul nostro senso di responsabilità, sul nostro voler salvaguardare quanto di buono si è costruito nel corso della storia, ecc., non possiamo comunque restare invischiati in un sistema economico ripugnante che ha sempre operato contro di noi e la nostra impresa migliore, la democrazia. Dobbiamo rendere evidente a tutti che noi vogliamo una economia sociale e democratica. Ora questa economia, mentre è contro il dominio del capitale, non è intrinsecamente contraria al mondo degli affari e contro mercati ben regolati; del resto niente è peggio per molti imprenditori di un capitalismo scatenato che porta allo sfacelo soprattutto le piccole e medie imprese (e non necessariamente secondo la regola schumpeteriana della “distruzione creativa”). Dobbiamo essere coraggiosi abbastanza, in quanto socialdemocratici, da rendere chiaro a tutti che siamo per il potere del popolo (i.e. della democrazia) e ci opponiamo al potere del capitale (i.e. capitalismo). L’argomento che ci sarebbe un “buon capitalismo” e un “cattivo capitalismo” appare piuttosto naif, lasciamolo ai nostri nemici.
La Convention del PES ha invece dimostrato che la socialdemocrazia del XXI secolo è ben viva e che è ben capace di produrre idee e leaders. Ma ora è giunto il momento di essere coraggiosi e chiari. Timide mezze-misure o un socialismo che quasi si vergogna, non solo fallisce nel convincere gli elettori, ma permette ai nostri nemici di avere la meglio. Dobbiamo mostrarci non disponibili a compromessi e coraggiosamente difendere la sovranità popolare di contro all’arroganza del capitale. Ma dobbiamo essere chiari anche nell’etichettare i nostri nemici: non sono conservatori, sono dei rivoluzionari neo-liberali che vogliono il prepotere dei pochi sui molti; per questo dovere di socialisti e socialdemocratici è fare ciò che è necessario per riaffermare il diritto della maggioranza contro l’arroganza delle élites.
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
mercoledì 30 novembre 2011
martedì 29 novembre 2011
lunedì 28 novembre 2011
domenica 27 novembre 2011
Mario Lettieri-Paolo Raimondi: le idee del prof. Monti
Economia
a cura di ItaliaOggi
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Le idee del Prof. Monti
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di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista
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Le idee del Prof. Monti sono solide e consolidate. Certo aspettiamo la verifica dell’operato del suo governo. Oltre alle indicazioni date nei discorsi alle Camere del Parlamento, vi sono due suoi importanti documenti, preparati in momenti non sospetti, che meritano un’attenta lettura.
Sono dei paper che possono aiutare a capire meglio lo spirito ed il progetto dell’”uomo dell’emergenza”.
Il primo è “La Commissione Attali e l’Italia” pubblicato nel 2008, prima della Lehman Brothers e dell’esplosione della crisi finanziaria globale, insieme al Prof. Franco Bassanini. Il documento è l’introduzione alla pubblicazione in italiano del “Rapporto Attali. Liberare la crescita. 300 decisioni per cambiare la Francia” che dettaglia le proposte per far fronte alle sfide di sviluppo e di dinamismo dell’economia e della società francesi.
Monti rimase positivamente impressionato dall’iniziativa francese di mettere in campo un vasto spettro di competenze economiche e politiche ma soprattutto culturali e professionali europee ed internazionali, per riflettere non solo sui problemi generali ma per predisporre un set di riforme e di misure precise. Infatti, bisognava convincere i francesi, che vivevano le sfide della competizione globale come se fosse una minaccia.
La Commissione Attali propone riforme che mettono in discussione rendite e privilegi per affrontare al meglio il futuro. Si trattava e si tratta di “dire la verità anche con un’analisi spietata della realtà economica”, di sfidare i “medici pietosi”, le cui deboli analisi sui ritardi nella modernizzazione economica e sociale “offrivano alibi a scelte di conservazione e alle resistenze da parte degli interessi colpiti dalle riforme”.
Il Rapporto Attali fa proprio le best pratices degli altri paesi per superare i ritardi accumulati, per coniugare le sue proposte di crescita con il superamento delle disuguaglianze, per liberare energie e risorse per la ripresa, salvaguardando i livelli di solidarietà e di coesione sociale.
Monti rimase affascinato dallo spirito europeo con cui Jacques Attali affrontava la sfida, superando i vecchi cliché dello sciovinismo francese e collocandosi nel solco dell’economia sociale di mercato che “valorizza meriti e talenti, la capacità di imprenditoria e la tutela dei diritti fondamentali di tutti”.
Riteniamo che tale esperienza sia stata d’ispirazione per il Prof. Monti anche nella stesura del suo Rapporto “Una nuova strategia per il Mercato unico” preparato per la Commissione europea e pubblicato il 9 maggio 2010.
Si tratta di un documento di 118 pagine denso di proposte concrete per una risposta europea unitaria alle sfide dell’integrazione e della crescita economica e sociale contro la crescente “stanchezza da integrazione” e l’avanzata dei nazionalismi economici che, spinti dagli effetti della crisi, potrebbero portare a delle “conseguenze drammatiche” e allo “sgretolamento dell’Ue”.
Monti parla della necessità della “decisione politica” nella costruzione dell’Unione economica europea. Ribadisce che la piena realizzazione del Mercato unico è il pilastro essenziale per dare forza e unità al sistema monetario dell’euro e alla capacità di crescita dell’economia europea. Ciò significa riformare, modernizzare e semplificare l’intero sistema delle norme fiscali, legali, amministrative, economiche, ecc. di ogni singolo Stato membro dell’Unione ed uniformarle per promuovere il mercato della produzione, del lavoro, dei movimenti di uomini, di mezzi e di capitali a livello europeo. Solo così per Monti il Mercato unico può preparare la formazione di un unico governo economico europeo e diventare fattore di solidità generale dell’Ue..
Nel suo Rapporto gli interlocutori principali per avviare un tale processo sono i cittadini, i consumatori e le Pmi. Quindi vuole un’Europa dove le libertà economiche devono “dialogare” con i diritti dei lavoratori, dove le priorità sono nella creazione delle infrastrutture “fisiche” del Mercato unico, che deve rimanere “aperto ma non disarmato rispetto ai concorrenti a livello globale”.
Va sottolineato il fatto che sulle cause della crisi globale Monti evidenziava che “la liberalizzazione finanziaria iniziata negli anni ’90 senza essere accompagnata, soprattutto negli Usa, da regolamentazioni prudenziali e di vigilanza, è stata una dei principali fattori dell’origine della crisi finanziaria”, che non può essere affrontata con soluzioni “troppo blande”.
Tra le sue proposte, significativa è quella dell’istituzione degli eurobond con cui trasformare parte delle obbligazioni dei singoli Stati in titoli europei. C’è ovviamente il sostegno, anche con un quadro giuridico più favorevole, agli investimenti di lungo termine nelle infrastrutture, come quelli proposti dal Fondo Margherita delle Casse Depositi e Presti europee.
Il Rapporto è ricco di proposte concrete. Egli però insiste sul “rafforzamento del processo di attuazione”. A tal fine propose la creazione di “un gruppo specifico per la politica fiscale” in Europa.
Il successo dell’azione del governo Monti dipenderà, oltre che dal risanamento di bilancio italiano, dalla capacità di intervento in sede europea per la realizzazione di un vero Mercato unico e di una effettiva unione politica ed economica oltre che monetaria dell’Europa. Nonché dall’impegno collettivo a non essere “disarmati” nei confronti della speculazione e dei mercati finanziari senza regole.
a cura di ItaliaOggi
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Le idee del Prof. Monti
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di Mario Lettieri, già Sottosegretario all'economia (governo Prodi)
e Paolo Raimondi, Economista
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Le idee del Prof. Monti sono solide e consolidate. Certo aspettiamo la verifica dell’operato del suo governo. Oltre alle indicazioni date nei discorsi alle Camere del Parlamento, vi sono due suoi importanti documenti, preparati in momenti non sospetti, che meritano un’attenta lettura.
Sono dei paper che possono aiutare a capire meglio lo spirito ed il progetto dell’”uomo dell’emergenza”.
Il primo è “La Commissione Attali e l’Italia” pubblicato nel 2008, prima della Lehman Brothers e dell’esplosione della crisi finanziaria globale, insieme al Prof. Franco Bassanini. Il documento è l’introduzione alla pubblicazione in italiano del “Rapporto Attali. Liberare la crescita. 300 decisioni per cambiare la Francia” che dettaglia le proposte per far fronte alle sfide di sviluppo e di dinamismo dell’economia e della società francesi.
Monti rimase positivamente impressionato dall’iniziativa francese di mettere in campo un vasto spettro di competenze economiche e politiche ma soprattutto culturali e professionali europee ed internazionali, per riflettere non solo sui problemi generali ma per predisporre un set di riforme e di misure precise. Infatti, bisognava convincere i francesi, che vivevano le sfide della competizione globale come se fosse una minaccia.
La Commissione Attali propone riforme che mettono in discussione rendite e privilegi per affrontare al meglio il futuro. Si trattava e si tratta di “dire la verità anche con un’analisi spietata della realtà economica”, di sfidare i “medici pietosi”, le cui deboli analisi sui ritardi nella modernizzazione economica e sociale “offrivano alibi a scelte di conservazione e alle resistenze da parte degli interessi colpiti dalle riforme”.
Il Rapporto Attali fa proprio le best pratices degli altri paesi per superare i ritardi accumulati, per coniugare le sue proposte di crescita con il superamento delle disuguaglianze, per liberare energie e risorse per la ripresa, salvaguardando i livelli di solidarietà e di coesione sociale.
Monti rimase affascinato dallo spirito europeo con cui Jacques Attali affrontava la sfida, superando i vecchi cliché dello sciovinismo francese e collocandosi nel solco dell’economia sociale di mercato che “valorizza meriti e talenti, la capacità di imprenditoria e la tutela dei diritti fondamentali di tutti”.
Riteniamo che tale esperienza sia stata d’ispirazione per il Prof. Monti anche nella stesura del suo Rapporto “Una nuova strategia per il Mercato unico” preparato per la Commissione europea e pubblicato il 9 maggio 2010.
Si tratta di un documento di 118 pagine denso di proposte concrete per una risposta europea unitaria alle sfide dell’integrazione e della crescita economica e sociale contro la crescente “stanchezza da integrazione” e l’avanzata dei nazionalismi economici che, spinti dagli effetti della crisi, potrebbero portare a delle “conseguenze drammatiche” e allo “sgretolamento dell’Ue”.
Monti parla della necessità della “decisione politica” nella costruzione dell’Unione economica europea. Ribadisce che la piena realizzazione del Mercato unico è il pilastro essenziale per dare forza e unità al sistema monetario dell’euro e alla capacità di crescita dell’economia europea. Ciò significa riformare, modernizzare e semplificare l’intero sistema delle norme fiscali, legali, amministrative, economiche, ecc. di ogni singolo Stato membro dell’Unione ed uniformarle per promuovere il mercato della produzione, del lavoro, dei movimenti di uomini, di mezzi e di capitali a livello europeo. Solo così per Monti il Mercato unico può preparare la formazione di un unico governo economico europeo e diventare fattore di solidità generale dell’Ue..
Nel suo Rapporto gli interlocutori principali per avviare un tale processo sono i cittadini, i consumatori e le Pmi. Quindi vuole un’Europa dove le libertà economiche devono “dialogare” con i diritti dei lavoratori, dove le priorità sono nella creazione delle infrastrutture “fisiche” del Mercato unico, che deve rimanere “aperto ma non disarmato rispetto ai concorrenti a livello globale”.
Va sottolineato il fatto che sulle cause della crisi globale Monti evidenziava che “la liberalizzazione finanziaria iniziata negli anni ’90 senza essere accompagnata, soprattutto negli Usa, da regolamentazioni prudenziali e di vigilanza, è stata una dei principali fattori dell’origine della crisi finanziaria”, che non può essere affrontata con soluzioni “troppo blande”.
Tra le sue proposte, significativa è quella dell’istituzione degli eurobond con cui trasformare parte delle obbligazioni dei singoli Stati in titoli europei. C’è ovviamente il sostegno, anche con un quadro giuridico più favorevole, agli investimenti di lungo termine nelle infrastrutture, come quelli proposti dal Fondo Margherita delle Casse Depositi e Presti europee.
Il Rapporto è ricco di proposte concrete. Egli però insiste sul “rafforzamento del processo di attuazione”. A tal fine propose la creazione di “un gruppo specifico per la politica fiscale” in Europa.
Il successo dell’azione del governo Monti dipenderà, oltre che dal risanamento di bilancio italiano, dalla capacità di intervento in sede europea per la realizzazione di un vero Mercato unico e di una effettiva unione politica ed economica oltre che monetaria dell’Europa. Nonché dall’impegno collettivo a non essere “disarmati” nei confronti della speculazione e dei mercati finanziari senza regole.
sabato 26 novembre 2011
Francesco Maria Mariotti: Lucrezia Reichlin e la BCE
Il 26 novembre 2011 12:34, Francesco Maria
ha scritto:
> Lucrezia Reichlin spiega molto bene oggi sul Corriere come un intervento più
> forte della BCE a tutela dei titoli dei Paesi in crisi di liquidità sia
> difficile, ma non necessariamente in contraddizione con la missione
> originaria dell'Eurotower: il sentiero è strettissimo, ma va percorso,
> nell'attesa - ma dobbiamo fare in fretta! - che l'Europa si dia una
> costituzione politica ed economica più forte.
> FMM
>
> (...) È lecito chiedersi se questo non sia in contraddizione con il
> principio della politica monetaria unica.La risposta non è semplice. Da un
> lato una banca centrale non deve agire in modo da illudere il mercato che
> non ci sia rischio Paese quando questo c'è: una tale politica ucciderebbe
> ogni incentivo per i governi a mettere in atto il risanamento del bilancio.
> Dall'altro, per perseguire la stabilità dei prezzi in tutti i Paesi, la
> banca centrale deve far sì che il meccanismo di trasmissione dal tasso a
> breve ai tassi effettivi sia omogeneo. Se il fattore rischio riflettesse un
> reale problema di solvibilità per alcuni Stati, la Bce si troverebbe a far
> fronte ad un dilemma. Ma se quest'ultimo fosse distorto in quanto causato da
> un attacco speculativo dei mercati alla cui origine c'è un problema di
> liquidità e non di solvibilità, il da farsi è chiaro. Francoforte deve
> intervenire per adempiere al suo mandato di stabilità dei prezzi, cioè non
> per salvare gli Stati, ma per far funzionare la politica monetaria.
> In pratica è difficile distinguere tra solvibilità e liquidità, ma la posta
> in gioco è troppo alta per poter peccare per il timore di sbagliare. Per
> ragioni di politica monetaria e per adempiere al suo mandato la Bce dovrebbe
> darsi un obbiettivo quantitativo sugli spread e programmare gli interventi
> di acquisto di titoli di Stato e le operazioni di liquidità alle banche
> necessarie per raggiungere questo obbiettivo. L'annuncio di tale obbiettivo
> avrebbe un effetto rassicurante per i mercati e darebbe lo spazio ai nuovi
> governi dell'Europa per mettere in atto le riforme strutturali necessarie a
> navigare verso una rotta più virtuosa nel lungo periodo. Farlo non significa
> rinnegare il mandato, ma, al contrario, perseguirlo.
> Lucrezia Reichlin, La Bce intervenga con più forza sui mercati (Corriere
> della Sera, 26 novembre 2011)
>
> Lucrezia Reichlin spiega molto bene oggi sul Corriere come un intervento più
> forte della BCE a tutela dei titoli dei Paesi in crisi di liquidità sia
> difficile, ma non necessariamente in contraddizione con la missione
> originaria dell'Eurotower: il sentiero è strettissimo, ma va percorso,
> nell'attesa - ma dobbiamo fare in fretta! - che l'Europa si dia una
> costituzione politica ed economica più forte.
> FMM
>
> (...) È lecito chiedersi se questo non sia in contraddizione con il
> principio della politica monetaria unica.La risposta non è semplice. Da un
> lato una banca centrale non deve agire in modo da illudere il mercato che
> non ci sia rischio Paese quando questo c'è: una tale politica ucciderebbe
> ogni incentivo per i governi a mettere in atto il risanamento del bilancio.
> Dall'altro, per perseguire la stabilità dei prezzi in tutti i Paesi, la
> banca centrale deve far sì che il meccanismo di trasmissione dal tasso a
> breve ai tassi effettivi sia omogeneo. Se il fattore rischio riflettesse un
> reale problema di solvibilità per alcuni Stati, la Bce si troverebbe a far
> fronte ad un dilemma. Ma se quest'ultimo fosse distorto in quanto causato da
> un attacco speculativo dei mercati alla cui origine c'è un problema di
> liquidità e non di solvibilità, il da farsi è chiaro. Francoforte deve
> intervenire per adempiere al suo mandato di stabilità dei prezzi, cioè non
> per salvare gli Stati, ma per far funzionare la politica monetaria.
> In pratica è difficile distinguere tra solvibilità e liquidità, ma la posta
> in gioco è troppo alta per poter peccare per il timore di sbagliare. Per
> ragioni di politica monetaria e per adempiere al suo mandato la Bce dovrebbe
> darsi un obbiettivo quantitativo sugli spread e programmare gli interventi
> di acquisto di titoli di Stato e le operazioni di liquidità alle banche
> necessarie per raggiungere questo obbiettivo. L'annuncio di tale obbiettivo
> avrebbe un effetto rassicurante per i mercati e darebbe lo spazio ai nuovi
> governi dell'Europa per mettere in atto le riforme strutturali necessarie a
> navigare verso una rotta più virtuosa nel lungo periodo. Farlo non significa
> rinnegare il mandato, ma, al contrario, perseguirlo.
> Lucrezia Reichlin, La Bce intervenga con più forza sui mercati (Corriere
> della Sera, 26 novembre 2011)
>
venerdì 25 novembre 2011
giovedì 24 novembre 2011
mercoledì 23 novembre 2011
Peppe Giudice: Di quale socialismo (democratico) abbiamo bisogno
DI QUALE SOCIALISMO (DEMOCRATICO) ABBIAMO BISOGNO
pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno lunedì 21 novembre 2011 alle ore 20.34
DI QUALE SOCIALISMO (DEMOCRATICO) ABBIAMO BISOGNO
Con la sconfitta del PSOE sparisce dall’Europa uno degli ultimi residui del “blairismo” – l’ultimo-ultimo è paradossalmente il PD (o una sua componente).
Nella sinistra italiana (anche in quella “radicale”) c’è stato un entusiasmo del tutto ingiustificato nei confronti di Zapatero. Come d’altra parte coloro che in nome del trio “Zapatero-Blair-Fortuna” (che nulla c’entrano con Nenni-Lombardi-De Martino) hanno effettuato l’ennesimo travestimento della cooperativa di Boselli (travestimento durato solo pochi mesi).
Il socialismo spagnolo ha una lunga e gloriosa tradizione. Ma è anche un partito che (soprattutto a causa del lungo periodo di clandestinità e messa al bando nel quarantennio franchista) ha scontato un lungo ritardo di elaborazione sia rispetto alla socialdemocrazia tedesca che ai partiti socialisti latini (francese ed italiano). Era in larga parte un partito massimalista, fortemente intriso di anticlericalismo di stampo massonico. Felipe Gonzalez ed Alfonso Guerra, dopo il ritorno della democrazia in Spagna (nel 1975) hanno avuto il merito di aver legato questo vecchio partito al processo di rinnovamento del socialismo democratico con Brandt e Mitterand, di averlo radicato tra i lavoratori (non dimentichiamo che il PSOE prima del 1936 era comunque di gran lunga il principale partito della sinistra in Spagna) tramite la rivitalizzazione della vecchia centrale sindacale socialista UGT. Ed il Psoe ha saputo ben gestire la transizione dal franchismo ad una democrazia matura. I primi quattordici anni di governo socialista con Gonzalez hanno indubbiamente un segno positivo (tenuto conto delle condizioni di partenza della nostra “sorella latina”). La creazione di una pubblica amministrazione efficiente (certo più della nostra), un ottimo ed efficiente uso delle risorse europee, una crescita dell’economia costante. Certo lunghi anni di permanenza al potere hanno anche generato fenomeni di corruzione …ma questo non invalida il bilancio globalmente positivo.
Con Aznar il modello economico spagnolo si affianca a quello anglosassone. Nel senso di puntare ad una economia dell’indebitamento privato. Poca industria e molto mattone con la creazione di una grande bolla speculativa nell’edilizia (teniamo conto che la Spagna ha molto puntato sul turismo) ed una spinta molto poco latina all’indebitamento delle famiglie. Era il modello tanto esaltato (prima dalla crisi) dai pennivendoli liberisti italiani. Così come l’Irlanda e la Gran Bretagna. Costoro erano i paesi che crescevano di più, prima del 2007, ma la loro era una crescita drogata dall’indebitamento privato (favorito molto dalle banche tedesche, nel caso della Spagna).
Crescita forte fino al 2007, e mazzata ancora più forte dopo il 2009 (l’Irlanda ha mandato alle stelle il rapporto deficit-PIL per salvare le banche).
Ma torniamo a Zapatero. Egli diviene il capo del governo in pieno miracolo economico drogato. Cerca di immettere elementi di maggiore equità in un modello che genera di per sé forti diseguaglianze, ma non mette in discussione il meccanismo che le produce e non pensa alla costruzione di un modello diverso di sviluppo che possa meglio conciliarsi con una politica socialdemocratica. E quindi alla fine viene travolto dalla crisi strutturale che si abbatte come una mannaia sulla penisola iberica.
La crisi del Psoe è innanzi tutto una crisi di pigrizia intellettuale che ha pervaso quei socialismi che alle spalle non avevano una forte elaborazione. L’adesione al blairismo (dopo approfondiremo) è anche il frutto del disarmo ideologico. E dello scambiare il socialismo per la corretta gestione – quel “socialismo dei cittadini” (che non vuol dire nulla) che piace tanto a “Repubblica” ed a Scalfari.
Per cui il grosso della politica socialista si sposta su un terreno tutto liberale. Certo di quel liberalismo progressivo che in parte deve essere fatto proprio dal socialismo democratico. Il tema dei diritti civili, della libertà di scelta della persona. Ma tutto ciò è impropriamente stato immerso in una riedizione di un anticlericalismo di altri tempi (che Gonzalez non ha mai sposato) ed all’interno di una cultura relativista e post-moderna che se è certamente compatibile con l’ultra-individualismo di Pannella (che non a caso in economia sposa il darwinismo sociale) non è assolutamente conciliabile con i valori del socialismo democratico (si veda la polemica di Habermas contro il relativismo ed il post-moderno): quelli ad esempio espressi nel paragrafo iniziale di Bad Godesberg. Il Psoe è stato sommerso dalla confusione ideologica più marcata ed ha contribuito ad accrescere la confusione nella già iper-confusa sinistra italiana.
Insomma quel blairismo che il Labour di oggi rinnega (aveva già di fatto iniziato a rinnegarlo Gordon Brown che per primo propose la tassazione sulle transazioni finanziarie e portò l’aliquota fiscale al 50% sui più ricchi) Zapatero non riesce a supearare.
Il blairismo supportato dal pensiero di Giddens (il quale su Repubblica nel 2007 annunziò la morte del socialismo democratico), e cioè di un pensiero di risulta neoliberale tra i più mediocri (Giorgio Ruffolo diceva che Giddens si era convinto di una idea stupida: che potesse esistere un capitalismo senza proletari), ha avuto effetti deleteri sul socialismo europeo, proprio perché ha cercato di espellerne il suo nucleo vitale : la centralità della giustizia sociale nella emancipazione del lavoro e nel riequilibrio tra economia e società.
Mentre (faccio un esempio) il programma di Bad Godesberg parla di destinare una quota della crescita patrimoniale delle grandi imprese ad un fondo sociale gestito da lavoratori e cittadini per lo sviluppo di attività socialmente utili e produttive, Giddens diceva che non bisognava impedire l’arricchimento illimitato privato. Gli sfuggiva una cosa semplicissima: se non si pone un limite all’arricchimento privato, salta la democrazia stessa.
Il socialismo democratico vero è convinto che la contraddizione centrale del capitalismo sta nel carattere sociale della produzione e l’appropriazione privata del plusvalore (o surplus che dir si voglia). Solo che questa contraddizione non la ritiene risolvibile (anzi è aggravata) con il collettivismo burocratico (sovietico cinese cubano). Lenin diceva che il capitalismo di stato è l’anticamera del socialismo. Mai affermazione fu più gravemente contraddetta dalla storia. Kautsky diceva, invece, che il socialismo è insieme l’organizzazione sociale della produzione e l’organizzazione democratica della società. Che la storia abbia dato pienamente ragione a Kautsky e torto marcio a Lenin è solare. Qualche anchilosato se ne deve fare una ragione.
Infatti uno stato totalitario controllato da una nomenclatura di un partito unico crea una nuova classe dominante (sul proletariato e sull’intera società) che assume in se il monopolio del potere economico e politico. Non c’è appropriazione privata del plusvalore più devastante di questa.
Il socialismo democratico ad iniziare dagli anni 20 e trenta punta ad una economia mista e pluralista in cui coesistono intervento pubblico diretto (ma con forma di gestione democratica – aperto a lavoratori ed utenti) nei settori strategici , democrazia economica con la co-determinazione dei lavoratori nelle grandi imprese private (principio della responsabilità sociale dell’impresa); sviluppo di un settore di economia sociale e cooperativa, fondata su principi di mutualità e reciprocità (il settore dove meglio si dispiega l’ideale socialista); un welfare di qualità e di alto profilo; la programmazione democratica dello sviluppo che oggi implica il controllo della sua compatibilità ambientale. Ecco come appare la mappa del socialismo democratico fondendo insieme Bad Godesberg, il Piano Meidner dei socialdemocratici svedesi ed il Progetto Socialista del PSI del 1978.
Quindi uscire definitivamente dal blairismo (la SPD ed il Labour sono sulla buona strada, il PSF non è mai stato blairiano).
I “sinistristi” di ogni tipo non si facciano illusioni: non esiste socialismo e sinistra fuori dal socialismo democratico: Lenin e Trotzky sono pezzi da museo (ed hanno fatto troppi danni). Chavez è un pagliaccio. Del resto lo dimostra il fatto che quando vanno male i partiti socialisti il loro elettorato non va verso la sinistra neo-comunista ma verso l’astensione.
L’ultima roccaforte del blairismo è rimasto il PD in Europa. Fuori dalla storia. Io credo che l’inizio della riscossa della sinistra e del socialismo democratico in Italia sta nella fine del PD. In questo partito vi sono ormai anime che non possono convivere più insieme. La crisi economica e le risposte da dare ad essa accentuano drammaticamente tali contraddizioni. Prima vi sarà questo chiarimento, meglio sarà per tutti.
“Larga la foglia stretta è la via, dite la vostra che ho detto la mia.”
PEPPE GIUDICE
pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno lunedì 21 novembre 2011 alle ore 20.34
DI QUALE SOCIALISMO (DEMOCRATICO) ABBIAMO BISOGNO
Con la sconfitta del PSOE sparisce dall’Europa uno degli ultimi residui del “blairismo” – l’ultimo-ultimo è paradossalmente il PD (o una sua componente).
Nella sinistra italiana (anche in quella “radicale”) c’è stato un entusiasmo del tutto ingiustificato nei confronti di Zapatero. Come d’altra parte coloro che in nome del trio “Zapatero-Blair-Fortuna” (che nulla c’entrano con Nenni-Lombardi-De Martino) hanno effettuato l’ennesimo travestimento della cooperativa di Boselli (travestimento durato solo pochi mesi).
Il socialismo spagnolo ha una lunga e gloriosa tradizione. Ma è anche un partito che (soprattutto a causa del lungo periodo di clandestinità e messa al bando nel quarantennio franchista) ha scontato un lungo ritardo di elaborazione sia rispetto alla socialdemocrazia tedesca che ai partiti socialisti latini (francese ed italiano). Era in larga parte un partito massimalista, fortemente intriso di anticlericalismo di stampo massonico. Felipe Gonzalez ed Alfonso Guerra, dopo il ritorno della democrazia in Spagna (nel 1975) hanno avuto il merito di aver legato questo vecchio partito al processo di rinnovamento del socialismo democratico con Brandt e Mitterand, di averlo radicato tra i lavoratori (non dimentichiamo che il PSOE prima del 1936 era comunque di gran lunga il principale partito della sinistra in Spagna) tramite la rivitalizzazione della vecchia centrale sindacale socialista UGT. Ed il Psoe ha saputo ben gestire la transizione dal franchismo ad una democrazia matura. I primi quattordici anni di governo socialista con Gonzalez hanno indubbiamente un segno positivo (tenuto conto delle condizioni di partenza della nostra “sorella latina”). La creazione di una pubblica amministrazione efficiente (certo più della nostra), un ottimo ed efficiente uso delle risorse europee, una crescita dell’economia costante. Certo lunghi anni di permanenza al potere hanno anche generato fenomeni di corruzione …ma questo non invalida il bilancio globalmente positivo.
Con Aznar il modello economico spagnolo si affianca a quello anglosassone. Nel senso di puntare ad una economia dell’indebitamento privato. Poca industria e molto mattone con la creazione di una grande bolla speculativa nell’edilizia (teniamo conto che la Spagna ha molto puntato sul turismo) ed una spinta molto poco latina all’indebitamento delle famiglie. Era il modello tanto esaltato (prima dalla crisi) dai pennivendoli liberisti italiani. Così come l’Irlanda e la Gran Bretagna. Costoro erano i paesi che crescevano di più, prima del 2007, ma la loro era una crescita drogata dall’indebitamento privato (favorito molto dalle banche tedesche, nel caso della Spagna).
Crescita forte fino al 2007, e mazzata ancora più forte dopo il 2009 (l’Irlanda ha mandato alle stelle il rapporto deficit-PIL per salvare le banche).
Ma torniamo a Zapatero. Egli diviene il capo del governo in pieno miracolo economico drogato. Cerca di immettere elementi di maggiore equità in un modello che genera di per sé forti diseguaglianze, ma non mette in discussione il meccanismo che le produce e non pensa alla costruzione di un modello diverso di sviluppo che possa meglio conciliarsi con una politica socialdemocratica. E quindi alla fine viene travolto dalla crisi strutturale che si abbatte come una mannaia sulla penisola iberica.
La crisi del Psoe è innanzi tutto una crisi di pigrizia intellettuale che ha pervaso quei socialismi che alle spalle non avevano una forte elaborazione. L’adesione al blairismo (dopo approfondiremo) è anche il frutto del disarmo ideologico. E dello scambiare il socialismo per la corretta gestione – quel “socialismo dei cittadini” (che non vuol dire nulla) che piace tanto a “Repubblica” ed a Scalfari.
Per cui il grosso della politica socialista si sposta su un terreno tutto liberale. Certo di quel liberalismo progressivo che in parte deve essere fatto proprio dal socialismo democratico. Il tema dei diritti civili, della libertà di scelta della persona. Ma tutto ciò è impropriamente stato immerso in una riedizione di un anticlericalismo di altri tempi (che Gonzalez non ha mai sposato) ed all’interno di una cultura relativista e post-moderna che se è certamente compatibile con l’ultra-individualismo di Pannella (che non a caso in economia sposa il darwinismo sociale) non è assolutamente conciliabile con i valori del socialismo democratico (si veda la polemica di Habermas contro il relativismo ed il post-moderno): quelli ad esempio espressi nel paragrafo iniziale di Bad Godesberg. Il Psoe è stato sommerso dalla confusione ideologica più marcata ed ha contribuito ad accrescere la confusione nella già iper-confusa sinistra italiana.
Insomma quel blairismo che il Labour di oggi rinnega (aveva già di fatto iniziato a rinnegarlo Gordon Brown che per primo propose la tassazione sulle transazioni finanziarie e portò l’aliquota fiscale al 50% sui più ricchi) Zapatero non riesce a supearare.
Il blairismo supportato dal pensiero di Giddens (il quale su Repubblica nel 2007 annunziò la morte del socialismo democratico), e cioè di un pensiero di risulta neoliberale tra i più mediocri (Giorgio Ruffolo diceva che Giddens si era convinto di una idea stupida: che potesse esistere un capitalismo senza proletari), ha avuto effetti deleteri sul socialismo europeo, proprio perché ha cercato di espellerne il suo nucleo vitale : la centralità della giustizia sociale nella emancipazione del lavoro e nel riequilibrio tra economia e società.
Mentre (faccio un esempio) il programma di Bad Godesberg parla di destinare una quota della crescita patrimoniale delle grandi imprese ad un fondo sociale gestito da lavoratori e cittadini per lo sviluppo di attività socialmente utili e produttive, Giddens diceva che non bisognava impedire l’arricchimento illimitato privato. Gli sfuggiva una cosa semplicissima: se non si pone un limite all’arricchimento privato, salta la democrazia stessa.
Il socialismo democratico vero è convinto che la contraddizione centrale del capitalismo sta nel carattere sociale della produzione e l’appropriazione privata del plusvalore (o surplus che dir si voglia). Solo che questa contraddizione non la ritiene risolvibile (anzi è aggravata) con il collettivismo burocratico (sovietico cinese cubano). Lenin diceva che il capitalismo di stato è l’anticamera del socialismo. Mai affermazione fu più gravemente contraddetta dalla storia. Kautsky diceva, invece, che il socialismo è insieme l’organizzazione sociale della produzione e l’organizzazione democratica della società. Che la storia abbia dato pienamente ragione a Kautsky e torto marcio a Lenin è solare. Qualche anchilosato se ne deve fare una ragione.
Infatti uno stato totalitario controllato da una nomenclatura di un partito unico crea una nuova classe dominante (sul proletariato e sull’intera società) che assume in se il monopolio del potere economico e politico. Non c’è appropriazione privata del plusvalore più devastante di questa.
Il socialismo democratico ad iniziare dagli anni 20 e trenta punta ad una economia mista e pluralista in cui coesistono intervento pubblico diretto (ma con forma di gestione democratica – aperto a lavoratori ed utenti) nei settori strategici , democrazia economica con la co-determinazione dei lavoratori nelle grandi imprese private (principio della responsabilità sociale dell’impresa); sviluppo di un settore di economia sociale e cooperativa, fondata su principi di mutualità e reciprocità (il settore dove meglio si dispiega l’ideale socialista); un welfare di qualità e di alto profilo; la programmazione democratica dello sviluppo che oggi implica il controllo della sua compatibilità ambientale. Ecco come appare la mappa del socialismo democratico fondendo insieme Bad Godesberg, il Piano Meidner dei socialdemocratici svedesi ed il Progetto Socialista del PSI del 1978.
Quindi uscire definitivamente dal blairismo (la SPD ed il Labour sono sulla buona strada, il PSF non è mai stato blairiano).
I “sinistristi” di ogni tipo non si facciano illusioni: non esiste socialismo e sinistra fuori dal socialismo democratico: Lenin e Trotzky sono pezzi da museo (ed hanno fatto troppi danni). Chavez è un pagliaccio. Del resto lo dimostra il fatto che quando vanno male i partiti socialisti il loro elettorato non va verso la sinistra neo-comunista ma verso l’astensione.
L’ultima roccaforte del blairismo è rimasto il PD in Europa. Fuori dalla storia. Io credo che l’inizio della riscossa della sinistra e del socialismo democratico in Italia sta nella fine del PD. In questo partito vi sono ormai anime che non possono convivere più insieme. La crisi economica e le risposte da dare ad essa accentuano drammaticamente tali contraddizioni. Prima vi sarà questo chiarimento, meglio sarà per tutti.
“Larga la foglia stretta è la via, dite la vostra che ho detto la mia.”
PEPPE GIUDICE
martedì 22 novembre 2011
Vittorio Melandri: Si è fatto diventare il socialismo una cattiva illusione
Il Berlusconismo non è finito e per sovrappiù….
“Si è fatto diventare il socialismo una cattiva illusione”
Negli anni settanta, per i tipi di una casa editrice di Cosenza, “Edistampa – Edizioni Lerici”, fu pubblicata una collana dal titolo emblematico, “le prospettive del socialismo”.
In un agile volumetto di quella collana, uscito nel marzo del 1976, fu proposta una intervista raccolta nel febbraio di quell’anno da Marco D’Eramo da Gilles Martinet, titolo, “il socialismo oggi e domani”.
Oggi lo stesso D’Eramo su il manifesto ci descrive una “sinistra fuori gioco”, e a me viene qui di riproporre quanto Martinet lucidamente affermava….
“Le tecniche moderne di stampa ci permettono di realizzare un grande decentramento. La stampa entra infatti nella sua terza età, con i calcolatori, le trasmissioni a distanza, la fotocomposizione. Non è questione, in un tale ambito, di contestare agli avversari del socialismo il diritto d’espressione. Ma subito dovremo capovolgere il rapporto di forza e contemporaneamente trasformare le condizioni di funzionamento della TV e della radio”.
D’Eramo a quel punto gli chiedeva: “Non rischia di essere un programma velleitario, visto il permanere di rapporti di potere ormai «territorializzati»?
....e così rispondeva quel riformista, scrittore, intellettuale che fu anche diplomatico a Roma dopo la vittoria di Mitterand a Parigi:
“Va modificato anche il quadro istituzionale. Cioè dobbiamo toccare la classe politica, i notabili. È una grande difficoltà per noi perché, per parlare proprio francamente, dobbiamo ammettere che una parte dei nostri quadri fa parte di questa classe politica, che i nostri notabili non sono poi tanto diversi dagli altri notabili, che c’è una specie di solidarietà tra loro. E però, se non cambiano, le stesse situazioni si ripeteranno, i notabili conservatori battuti in un voto riprenderanno più o meno rapidamente il loro posto. (…..) Se non approfittiamo di una vittoria che sarà necessariamente fragile, limitata, provvisoria, dato che l’avremo ottenuta in un quadro che non ci favorisce, se non ne approfittiamo per cambiare le regole del gioco, allora rischiamo di essere rovesciati facilmente alle prossime elezioni. Noi siamo per l’alternanza, per il totale diritto d’espressione dei nostri avversari, perché abbiano tutti i mezzi della concorrenza contro di noi. Ma essi ci impongono la concorrenza in un quadro che è il loro. Se riuscissimo una sola volta a vincere nel loro quadro, dobbiamo senza indugi imporgli la concorrenza nel nostro quadro.”
Sono passati trentacinque anni da allora, qualche vittoria la sinistra in Europa l’ha pur conquistata, ma anche la vittoria meno fragile è stata lasciata cadere senza nemmeno provare ad imporre un diverso quadro di riferimento, ed oggi una sinistra ormai persino incapace di riconoscere se stessa, da un lato sedicente riformista ma senza riforme, dall’altro sedicente radicale ma senza radici, riesce solo ad inseguire gli altri o a dire di no agli altri.
È questo il modo per cui “si è fatto diventare il socialismo una cattiva illusione”, e non basta denunciare in modo vibrante il trionfante “egoismo sociale” per invertire la rotta, perché per dirla con Paolo Sylos Labini.....
“allo squallore delle prospettive economiche si accompagna lo squallore delle prospettive dell’incivilimento….”
....e da queste sono convinto che si possa sperare di uscire, per dirla ancora con Sylos Labini, solo con l’offerta di......
.....“ideali degni di essere perseguiti dalle nuove generazioni, in luogo dell’ossessiva caccia ai soldi che oggi domina e immiserisce la vita sociale dei paesi sviluppati: i giovani hanno un bisogno addirittura biologico di ideali.”
Se la sinistra non torna a studiare come produrre nuovi ideali, il suo destino è davvero segnato ed accontentarsi di morire democristiani, semplicemente cambiando denominazione, non è il massimo, anche perchè, e concludo parafrasando una citazione di Monsignor Gianfranco Ravasi che cita Erich Fromm……
«Morire è tremendo, ma l’idea di dover morire avendo vissuto democristiani è poi craxo-berlusconiani e poi comu-democratici è proprio insopportabile»
vittorio
“Si è fatto diventare il socialismo una cattiva illusione”
Negli anni settanta, per i tipi di una casa editrice di Cosenza, “Edistampa – Edizioni Lerici”, fu pubblicata una collana dal titolo emblematico, “le prospettive del socialismo”.
In un agile volumetto di quella collana, uscito nel marzo del 1976, fu proposta una intervista raccolta nel febbraio di quell’anno da Marco D’Eramo da Gilles Martinet, titolo, “il socialismo oggi e domani”.
Oggi lo stesso D’Eramo su il manifesto ci descrive una “sinistra fuori gioco”, e a me viene qui di riproporre quanto Martinet lucidamente affermava….
“Le tecniche moderne di stampa ci permettono di realizzare un grande decentramento. La stampa entra infatti nella sua terza età, con i calcolatori, le trasmissioni a distanza, la fotocomposizione. Non è questione, in un tale ambito, di contestare agli avversari del socialismo il diritto d’espressione. Ma subito dovremo capovolgere il rapporto di forza e contemporaneamente trasformare le condizioni di funzionamento della TV e della radio”.
D’Eramo a quel punto gli chiedeva: “Non rischia di essere un programma velleitario, visto il permanere di rapporti di potere ormai «territorializzati»?
....e così rispondeva quel riformista, scrittore, intellettuale che fu anche diplomatico a Roma dopo la vittoria di Mitterand a Parigi:
“Va modificato anche il quadro istituzionale. Cioè dobbiamo toccare la classe politica, i notabili. È una grande difficoltà per noi perché, per parlare proprio francamente, dobbiamo ammettere che una parte dei nostri quadri fa parte di questa classe politica, che i nostri notabili non sono poi tanto diversi dagli altri notabili, che c’è una specie di solidarietà tra loro. E però, se non cambiano, le stesse situazioni si ripeteranno, i notabili conservatori battuti in un voto riprenderanno più o meno rapidamente il loro posto. (…..) Se non approfittiamo di una vittoria che sarà necessariamente fragile, limitata, provvisoria, dato che l’avremo ottenuta in un quadro che non ci favorisce, se non ne approfittiamo per cambiare le regole del gioco, allora rischiamo di essere rovesciati facilmente alle prossime elezioni. Noi siamo per l’alternanza, per il totale diritto d’espressione dei nostri avversari, perché abbiano tutti i mezzi della concorrenza contro di noi. Ma essi ci impongono la concorrenza in un quadro che è il loro. Se riuscissimo una sola volta a vincere nel loro quadro, dobbiamo senza indugi imporgli la concorrenza nel nostro quadro.”
Sono passati trentacinque anni da allora, qualche vittoria la sinistra in Europa l’ha pur conquistata, ma anche la vittoria meno fragile è stata lasciata cadere senza nemmeno provare ad imporre un diverso quadro di riferimento, ed oggi una sinistra ormai persino incapace di riconoscere se stessa, da un lato sedicente riformista ma senza riforme, dall’altro sedicente radicale ma senza radici, riesce solo ad inseguire gli altri o a dire di no agli altri.
È questo il modo per cui “si è fatto diventare il socialismo una cattiva illusione”, e non basta denunciare in modo vibrante il trionfante “egoismo sociale” per invertire la rotta, perché per dirla con Paolo Sylos Labini.....
“allo squallore delle prospettive economiche si accompagna lo squallore delle prospettive dell’incivilimento….”
....e da queste sono convinto che si possa sperare di uscire, per dirla ancora con Sylos Labini, solo con l’offerta di......
.....“ideali degni di essere perseguiti dalle nuove generazioni, in luogo dell’ossessiva caccia ai soldi che oggi domina e immiserisce la vita sociale dei paesi sviluppati: i giovani hanno un bisogno addirittura biologico di ideali.”
Se la sinistra non torna a studiare come produrre nuovi ideali, il suo destino è davvero segnato ed accontentarsi di morire democristiani, semplicemente cambiando denominazione, non è il massimo, anche perchè, e concludo parafrasando una citazione di Monsignor Gianfranco Ravasi che cita Erich Fromm……
«Morire è tremendo, ma l’idea di dover morire avendo vissuto democristiani è poi craxo-berlusconiani e poi comu-democratici è proprio insopportabile»
vittorio
Claudio Bellavita: oggi in Spagna...
I risultati delle elezioni spagnole dovrebbero farci aprire una seria riflessione sulle enormi insufficienze della cultura di sinistra a affrontare il mondo quale è adesso.
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Quello che più impressiona, oggi in Spagna domani in Italia , sono i flussi da sinistra all'astensione, da sinistra ai movimenti populistici dell'antipolitica e dei regionalismi esasperati, che usano un linguaggio di sinistra per costruirsi dei comodi partiti personali. Che talvolta vengono anche ignorati nei sondaggi della ripetitiva casta giornalistica, ma non saranno ignorati dai giovani elettori indignati.
Non illudiamoci che il voto della Spagna abbia colpito chi era al governo e non era in grado di affrontare la crisi, e quindi un risultato analogo premierà la sinistra in Francia e forse in Germania: perché il problema è che in nessun paese la sinistra ha idee per affrontare questo tipo di crisi.
La cultura e l'informazione circolano molto velocemente nell'Europa dei giovani, unificata da Erasmus e da Internet molto di più di quel pensino quelli che hanno più di 40 anni. E l'informazione più diffusa è che in ogni paese la sinistra cui i giovani guarderebbero volentieri sopravvive con idee polverose e non aggiornate al salto in avanti della globalizzazione, realizzatasi a valanga senza che nessuno pensasse di vigilare sullo strapotere della finanza pura, slegata da qualunque attività produttiva non trasformabile in titoli finanziari sempre più eterei e difficili da capire e monitorare anche per i premi Nobel, figuriamoci per gli uomini della sinistra sprovveduta e retrodatata.
I ragazzi si chiedono come è possibile che le informazioni che si scambiano sui contratti di lavoro nei loro paesi siano ignote ai loro sindacalisti , che ripetono una trita demagogia non aggiornata alla realtà produttiva e del mercato del lavoro che dovrebbe essere europeo ma è ormai mondiale per l'assenza di coordinamento europeo della sinistra e dei sindacati, che sono così intimiditi dai funzionari europei e internazionali che non si pongono neanche il problema di mettere dei paletti europei alla globalizzazione.
Berlusconi farà ridere, ma i bonzi della sinistra e del sindacato sono prodotti scaduti. Come gli stati maggiori degli eserciti che perdono le guerre, studiano solo come avrebbero potuto vincere quelle che ci sono già state, e sono state perse.
Poi c'è il comportamento schizofrenico nella selezione dei quadri politici per il ricambio. La sinistra è pronta a buttarsi nelle braccia di una non meglio specificata "società civile", o dei tecnici, perchè pensa che abbiano le ricette che loro non hanno avuto il tempo di studiare, ma è altrettanto pronta a sparare addosso a chi chiede il ricambio dal suo interno. Per lo meno in Italia, dove l'attività più diffusa è misurare il tasso di sinistra di chi si affaccia alla scena. Senza che nessuno dei misuratori abbia la più vaga idea di cosa voglia dire, oggi, in Europa, essere di sinistra.
Ma insomma! abbiamo una crisi finanziaria che si vuole risolvere con misure di austerità sociale e non con misure finanziarie: e nessuno di sinistra si alza a dire che la testardaggine dei tedeschi, che prima non vogliono fare nulla, poi vogliono fare poco e tardi, ma non vogliono fare quel che hanno fatto USA e GB, stampare della moneta, sta portando alla catastrofe l'Europa intera , e sarebbe la terza volta che la catastrofe la provocano i tedeschi.
In Italia, la formazione del governo Monti farà si che nulla resti come prima, né il bipolarismo forzoso, nè la mancanza di un centro: quelli che si illudono di salvarsi con qualche manovra e il mantenimento del premio di maggioranza, reale o conseguente alla divisione in collegi uninominali, potrebbero battere il naso contro una imprevista maggioranza di centro.
Sarebbe perfino meglio: forse è arrivato il momento di mandare a casa una classe politica provinciale, che continua a inseguire vecchi miti (l'intesa coi cattolici, la società civile, le categoriche affermazioni dei testimoni di Geova dell'ultra sinistra) e non è capace di passare dall'Italia all'Europa e dall'Europa al mondo.
E' una strada lunga da percorrere, ma per fortuna siamo nel secolo veloce, e i giovani sanno correre, e fin dall'università imparano lo slalom intorno ai docenti ingessati. Per ora ci informano che sono indignados. Con noi.
.
Quello che più impressiona, oggi in Spagna domani in Italia , sono i flussi da sinistra all'astensione, da sinistra ai movimenti populistici dell'antipolitica e dei regionalismi esasperati, che usano un linguaggio di sinistra per costruirsi dei comodi partiti personali. Che talvolta vengono anche ignorati nei sondaggi della ripetitiva casta giornalistica, ma non saranno ignorati dai giovani elettori indignati.
Non illudiamoci che il voto della Spagna abbia colpito chi era al governo e non era in grado di affrontare la crisi, e quindi un risultato analogo premierà la sinistra in Francia e forse in Germania: perché il problema è che in nessun paese la sinistra ha idee per affrontare questo tipo di crisi.
La cultura e l'informazione circolano molto velocemente nell'Europa dei giovani, unificata da Erasmus e da Internet molto di più di quel pensino quelli che hanno più di 40 anni. E l'informazione più diffusa è che in ogni paese la sinistra cui i giovani guarderebbero volentieri sopravvive con idee polverose e non aggiornate al salto in avanti della globalizzazione, realizzatasi a valanga senza che nessuno pensasse di vigilare sullo strapotere della finanza pura, slegata da qualunque attività produttiva non trasformabile in titoli finanziari sempre più eterei e difficili da capire e monitorare anche per i premi Nobel, figuriamoci per gli uomini della sinistra sprovveduta e retrodatata.
I ragazzi si chiedono come è possibile che le informazioni che si scambiano sui contratti di lavoro nei loro paesi siano ignote ai loro sindacalisti , che ripetono una trita demagogia non aggiornata alla realtà produttiva e del mercato del lavoro che dovrebbe essere europeo ma è ormai mondiale per l'assenza di coordinamento europeo della sinistra e dei sindacati, che sono così intimiditi dai funzionari europei e internazionali che non si pongono neanche il problema di mettere dei paletti europei alla globalizzazione.
Berlusconi farà ridere, ma i bonzi della sinistra e del sindacato sono prodotti scaduti. Come gli stati maggiori degli eserciti che perdono le guerre, studiano solo come avrebbero potuto vincere quelle che ci sono già state, e sono state perse.
Poi c'è il comportamento schizofrenico nella selezione dei quadri politici per il ricambio. La sinistra è pronta a buttarsi nelle braccia di una non meglio specificata "società civile", o dei tecnici, perchè pensa che abbiano le ricette che loro non hanno avuto il tempo di studiare, ma è altrettanto pronta a sparare addosso a chi chiede il ricambio dal suo interno. Per lo meno in Italia, dove l'attività più diffusa è misurare il tasso di sinistra di chi si affaccia alla scena. Senza che nessuno dei misuratori abbia la più vaga idea di cosa voglia dire, oggi, in Europa, essere di sinistra.
Ma insomma! abbiamo una crisi finanziaria che si vuole risolvere con misure di austerità sociale e non con misure finanziarie: e nessuno di sinistra si alza a dire che la testardaggine dei tedeschi, che prima non vogliono fare nulla, poi vogliono fare poco e tardi, ma non vogliono fare quel che hanno fatto USA e GB, stampare della moneta, sta portando alla catastrofe l'Europa intera , e sarebbe la terza volta che la catastrofe la provocano i tedeschi.
In Italia, la formazione del governo Monti farà si che nulla resti come prima, né il bipolarismo forzoso, nè la mancanza di un centro: quelli che si illudono di salvarsi con qualche manovra e il mantenimento del premio di maggioranza, reale o conseguente alla divisione in collegi uninominali, potrebbero battere il naso contro una imprevista maggioranza di centro.
Sarebbe perfino meglio: forse è arrivato il momento di mandare a casa una classe politica provinciale, che continua a inseguire vecchi miti (l'intesa coi cattolici, la società civile, le categoriche affermazioni dei testimoni di Geova dell'ultra sinistra) e non è capace di passare dall'Italia all'Europa e dall'Europa al mondo.
E' una strada lunga da percorrere, ma per fortuna siamo nel secolo veloce, e i giovani sanno correre, e fin dall'università imparano lo slalom intorno ai docenti ingessati. Per ora ci informano che sono indignados. Con noi.
lunedì 21 novembre 2011
Felice Besostri: Spagna
I SOCIALISTI HANNO PERSO MA IL PP NON HA STRAVINTO
di Felice Besostri PSI,Gruppo di Volpedo, Networkper il Socilismo Europeo
Basta guardare le prime pagine dei giornali per capire che l’informazione è politica, dettata dall’ideologia dominante e dai suoi sottoprodotti.
Tutti devono capire che c’è un nuovo ordine in Europa, che non da spazio ai socialisti: con la sconfitta del PSOE, restano solo l’Austria e la Danimarca con un primo ministro socialista: il belga Di Rupo è soltanto incaricato. La Spagna ha dato un segnale all’Europa già nel 1996 con la vittoria di Aznar, quando i primi ministri socialisti erano 13 su 15 dei paesi allora nell’UE. Le politiche economiche e monetarie della de BCE hanno bisogno di governi conservatori egemoni, specialmente dopo la svolta del PSE del 2009. Via i socialisti prima dal Portogallo, poi dalla Grecia e ora dalla Spagna. Non importa che la situazione di quei paesi non migliori sostanzialmente , a parte oggi all’apertura dei mercati lo spread tra i titoli del debito spagnolo e quelli tedeschi. Ma quell’indice significa molto poco per la sua volatilità e, aggiungo, manipolabilità. La sconfitta del PSOE è rotonda ed era annunciata, anzi i sondaggi davano qualche seggio in più sia al PP, che al PSOE. I seggi e in percentuale è il peggior risultato socialista dell’epoca democratica, che apparteneva alle prime elezioni per la Costituente nel 1977. Il dato impressionante sono i voti perduti: rispetto agli 11.064.524 del 2008 i 6.973.880 del 2011, rappresentano 4.091.644 voti in meno. La perdita in percentuale dal 43,64% al 28,73% nasconde in parte l’ampiezza del disastro, perché l’astensione dal voto è aumentata del 3,68%. Gli astenuti in più hanno la consistenza di un partito come CiU, che vince in Catalogna e manda 16 deputati o di UPyD della ex socialista Rosa Diez quarto partito nazionale ma con solo 5 deputati. Ebbene a fronte della perdita epocale del PSOE il PP conquista la maggioranza assoluta di 186 seggi passando dal 40,11% del 2008 al 44,62%. Lo stupefacente è il dato dei voti assoluti perché il PP ha convinto poco gli spagnoli: in voti assoluti ne ha conquistati appena 660.720, uno scarso 2,69%, cioè la consistenza dei due partiti nazionalisti baschi, il tradizionale EAJ-PNV e la novità AMAIUR.
I voto perduti dai socialisti non sono andati, che in piccolissima parte, a beneficio di altre formazioni di sinistra o di centro-sinistra. IU-LV ha quasi raddoppiato la sua percentuale dal 3,8% al 6,92% e i seggi da 2 a 11,ma l’incremento di voti è stato di 717.770, cioè un modesto 17,55% dei voti socialisti scomparsi. Molto meglio è andata alla formazione di centro-sinistra dell’ex-socialista Rosa Diez che passa dal 1,2% al 4,69% e da 1 a 5 deputati con un guadagno di 836.707, il miglior risultato in assoluto di queste elezioni, molto superiore alla matricola AMAIUR, che ottiene 7 seggi con appena 333.628 voti, tutti voti provenienti dall’area astensionista della sinistra abertzale: la tregua dell’ETA comincia a dare i suoi frutti. L'analisi delle elezioni spagnole sarà la cartina di tornasole per capire se la sinistra italiana volta pagina. Quanti si apprestano a festeggiare una ripresa della sinistra antagonista, come magra consolazione in una vittoria della destra, ma per alcuni basta dare una lezione ai socialisti per aver compiuto la loro missione, dovrebbero riflettere. IU ha aumentato i voti, ma recuperandone pochi dai socialisti. IU è ancora lontana dal suo miglior risultato di 21 deputati e il 10,5% del 1996, che comunque era sotto, seppur di poco, del miglior risultato del solo PCE nel 1979. Non si deve dimenticare che questa volta si presentava in coalizione con un dozzina di formazioni dei vari territori e che 3 degli 11 deputati sono della catalana ICV, con cui ha rapporti travagliati. Ha deputati eletti soltanto in 6 circoscrizioni provinciali su 52 e in 5 delle 6 province più popolose, cioè quelle con più di un milione e mezzo di abitanti, dove gli effetti perversi della legge elettorale si sentono meno. IU ha perduto Cordoba, il suo feudo da sempre dove eleggeva il deputato e il Sindaco, ora del PP con maggioranza assoluta. La legge elettorale spagnola non è proporzionale in via di fatto, perché favorisce i maggiori partiti a livello nazionale, ma soprattutto i partiti con base regionale. Parliamo chiaro è stato un compromesso necessario, altrimenti, con una legge all’italiana( soglia del 4% nazionale) sarebbe stata rappresentata soltanto la catalana CiU, ma con i risultati di oggi. Nessun partito basco, navarro, gallego, aragonese o canario sarebbe mai stato rappresentato nelle Cortes e quindi l’indipendentismo sarebbe stato più forte. Con queste elezioni il pluralismo territoriale riceve un duro colpo. In sole tre Comunità autonome il PP non è al potere, Catalogna, Paese Basco e Andalusia. Il PSOE è il primo partito soltanto nelle province di Siviglia e Barcellona, città che gli consente di essere ancora il primo partito di Catalogna. I partiti rappresentati in Parlamento passano da 10 a 8 e i voti raccolti dai partiti con rappresentanza parlamentare sono 1.487.052 meno rispetto al 2008. Chi parla di un aumento del pluralismo guarda soltanto all’incremento di IU e di AMAIUR, cioè con un’ottica distorta. Vogliamo aggiungere che il PP avrà una maggioranza netta anche al Senato a differenza del PSOE e che mentre il PSOE aveva nel programma una riforma elettorale in senso più proporzionale, il PP non cambierà la legge.
Un altro fallimento si deve registrare: il peso politico degli “indignados”. La lotta contro il duopolio PP-PSOE è riuscito solo in parte, perché è stato sostituito dal monopolio del PP. Il movimento era anche diviso sulle indicazioni di voto, che erano almeno tre: votare formazioni minori che potevano fare il quorum in una provincia, dare un voto nullo, che favorisce meno i grandi partiti rispetto al voto bianco e all’astensione ovvero non votare. Poiché dal conto finale mancano sempre 2 milioni di voti socialisti, non possono appropriarsi del 3,68% di astenuti. Ora dovrebbe prevalere a sinistra un superamento sia dell’egemonismo socialista, che del settarismo di settori maggioritari in IU, altrimenti non si va da nessuna parte. Bisognerà anche imparare dalla lezione catalana, la sinistra unita al potere ha dato prova di tali divisioni interne, che ha perso le elezioni a favore dei nazionalisti di CiU.
21 novembre 2011
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di Felice Besostri PSI,Gruppo di Volpedo, Networkper il Socilismo Europeo
Basta guardare le prime pagine dei giornali per capire che l’informazione è politica, dettata dall’ideologia dominante e dai suoi sottoprodotti.
Tutti devono capire che c’è un nuovo ordine in Europa, che non da spazio ai socialisti: con la sconfitta del PSOE, restano solo l’Austria e la Danimarca con un primo ministro socialista: il belga Di Rupo è soltanto incaricato. La Spagna ha dato un segnale all’Europa già nel 1996 con la vittoria di Aznar, quando i primi ministri socialisti erano 13 su 15 dei paesi allora nell’UE. Le politiche economiche e monetarie della de BCE hanno bisogno di governi conservatori egemoni, specialmente dopo la svolta del PSE del 2009. Via i socialisti prima dal Portogallo, poi dalla Grecia e ora dalla Spagna. Non importa che la situazione di quei paesi non migliori sostanzialmente , a parte oggi all’apertura dei mercati lo spread tra i titoli del debito spagnolo e quelli tedeschi. Ma quell’indice significa molto poco per la sua volatilità e, aggiungo, manipolabilità. La sconfitta del PSOE è rotonda ed era annunciata, anzi i sondaggi davano qualche seggio in più sia al PP, che al PSOE. I seggi e in percentuale è il peggior risultato socialista dell’epoca democratica, che apparteneva alle prime elezioni per la Costituente nel 1977. Il dato impressionante sono i voti perduti: rispetto agli 11.064.524 del 2008 i 6.973.880 del 2011, rappresentano 4.091.644 voti in meno. La perdita in percentuale dal 43,64% al 28,73% nasconde in parte l’ampiezza del disastro, perché l’astensione dal voto è aumentata del 3,68%. Gli astenuti in più hanno la consistenza di un partito come CiU, che vince in Catalogna e manda 16 deputati o di UPyD della ex socialista Rosa Diez quarto partito nazionale ma con solo 5 deputati. Ebbene a fronte della perdita epocale del PSOE il PP conquista la maggioranza assoluta di 186 seggi passando dal 40,11% del 2008 al 44,62%. Lo stupefacente è il dato dei voti assoluti perché il PP ha convinto poco gli spagnoli: in voti assoluti ne ha conquistati appena 660.720, uno scarso 2,69%, cioè la consistenza dei due partiti nazionalisti baschi, il tradizionale EAJ-PNV e la novità AMAIUR.
I voto perduti dai socialisti non sono andati, che in piccolissima parte, a beneficio di altre formazioni di sinistra o di centro-sinistra. IU-LV ha quasi raddoppiato la sua percentuale dal 3,8% al 6,92% e i seggi da 2 a 11,ma l’incremento di voti è stato di 717.770, cioè un modesto 17,55% dei voti socialisti scomparsi. Molto meglio è andata alla formazione di centro-sinistra dell’ex-socialista Rosa Diez che passa dal 1,2% al 4,69% e da 1 a 5 deputati con un guadagno di 836.707, il miglior risultato in assoluto di queste elezioni, molto superiore alla matricola AMAIUR, che ottiene 7 seggi con appena 333.628 voti, tutti voti provenienti dall’area astensionista della sinistra abertzale: la tregua dell’ETA comincia a dare i suoi frutti. L'analisi delle elezioni spagnole sarà la cartina di tornasole per capire se la sinistra italiana volta pagina. Quanti si apprestano a festeggiare una ripresa della sinistra antagonista, come magra consolazione in una vittoria della destra, ma per alcuni basta dare una lezione ai socialisti per aver compiuto la loro missione, dovrebbero riflettere. IU ha aumentato i voti, ma recuperandone pochi dai socialisti. IU è ancora lontana dal suo miglior risultato di 21 deputati e il 10,5% del 1996, che comunque era sotto, seppur di poco, del miglior risultato del solo PCE nel 1979. Non si deve dimenticare che questa volta si presentava in coalizione con un dozzina di formazioni dei vari territori e che 3 degli 11 deputati sono della catalana ICV, con cui ha rapporti travagliati. Ha deputati eletti soltanto in 6 circoscrizioni provinciali su 52 e in 5 delle 6 province più popolose, cioè quelle con più di un milione e mezzo di abitanti, dove gli effetti perversi della legge elettorale si sentono meno. IU ha perduto Cordoba, il suo feudo da sempre dove eleggeva il deputato e il Sindaco, ora del PP con maggioranza assoluta. La legge elettorale spagnola non è proporzionale in via di fatto, perché favorisce i maggiori partiti a livello nazionale, ma soprattutto i partiti con base regionale. Parliamo chiaro è stato un compromesso necessario, altrimenti, con una legge all’italiana( soglia del 4% nazionale) sarebbe stata rappresentata soltanto la catalana CiU, ma con i risultati di oggi. Nessun partito basco, navarro, gallego, aragonese o canario sarebbe mai stato rappresentato nelle Cortes e quindi l’indipendentismo sarebbe stato più forte. Con queste elezioni il pluralismo territoriale riceve un duro colpo. In sole tre Comunità autonome il PP non è al potere, Catalogna, Paese Basco e Andalusia. Il PSOE è il primo partito soltanto nelle province di Siviglia e Barcellona, città che gli consente di essere ancora il primo partito di Catalogna. I partiti rappresentati in Parlamento passano da 10 a 8 e i voti raccolti dai partiti con rappresentanza parlamentare sono 1.487.052 meno rispetto al 2008. Chi parla di un aumento del pluralismo guarda soltanto all’incremento di IU e di AMAIUR, cioè con un’ottica distorta. Vogliamo aggiungere che il PP avrà una maggioranza netta anche al Senato a differenza del PSOE e che mentre il PSOE aveva nel programma una riforma elettorale in senso più proporzionale, il PP non cambierà la legge.
Un altro fallimento si deve registrare: il peso politico degli “indignados”. La lotta contro il duopolio PP-PSOE è riuscito solo in parte, perché è stato sostituito dal monopolio del PP. Il movimento era anche diviso sulle indicazioni di voto, che erano almeno tre: votare formazioni minori che potevano fare il quorum in una provincia, dare un voto nullo, che favorisce meno i grandi partiti rispetto al voto bianco e all’astensione ovvero non votare. Poiché dal conto finale mancano sempre 2 milioni di voti socialisti, non possono appropriarsi del 3,68% di astenuti. Ora dovrebbe prevalere a sinistra un superamento sia dell’egemonismo socialista, che del settarismo di settori maggioritari in IU, altrimenti non si va da nessuna parte. Bisognerà anche imparare dalla lezione catalana, la sinistra unita al potere ha dato prova di tali divisioni interne, che ha perso le elezioni a favore dei nazionalisti di CiU.
21 novembre 2011
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Giampaolo Mercanzin: Sinistra e crisi
La sinistra "nostrana", nessuno escluso, gongola perche è stato "sconfitto Berlusconi. Non parliamo di Bersani e Vendola che godono addirittura.
Eppure dovremmo pur considerare chi ha vinto e chi ha perso in questa bestiale crisi mondiale. Soprattutto i partiti di "sinistra" dovrebbero fare una approfondita analisi con relativa autocritica, per la situazione che si è determinata. In effetti la "sinistra" dovrebbe considerare che:
Primo: ha perso Obama, che ha ceduto su tutta la linea.
secondo: ha perso Veltroni che con Prodi ha consegnato l'Italia a Berlusconi;
terzo: Ha perso Socrates in Portogallo;
quarto: ha perso Brown a favore di Cameroon;
quinto: ha perso il PS francese che ha lasciato la Francia a Sarkosy
sesto: ha perso la socialdemocrazia tedesca con Sroheder, che ha consegnato la germania alla Merkel:
settimo: ha perso Il PSOE in Spagna - con Zapatero che ha abdicato senza lottare;
ottavo, ha perso Papandreu, che dopo aver minacciato il referendum, ha dovuto cedere il potere a un "governo tecnico;
ottavo: ha perso l'Italia, perché pur di distrugere Berlusconi (che è ancora vivo e vegeto), ha consegnato la democrazia parlamentare al sistema finanziario privato internazionale.
Cosa abbiano da gongolare quindi Bersani e Vendola di questa "vittoria" proprio non si capisce. Un tempo quando i SOCIALISTI (o associati) conquistavano il governo di un Paese era una festa e quando lo perdevano (avolte traumaticamente, come in Cile) era un dramma.
Forse compagni c'è qualcosa che non quadra. Che dite?
Eppure dovremmo pur considerare chi ha vinto e chi ha perso in questa bestiale crisi mondiale. Soprattutto i partiti di "sinistra" dovrebbero fare una approfondita analisi con relativa autocritica, per la situazione che si è determinata. In effetti la "sinistra" dovrebbe considerare che:
Primo: ha perso Obama, che ha ceduto su tutta la linea.
secondo: ha perso Veltroni che con Prodi ha consegnato l'Italia a Berlusconi;
terzo: Ha perso Socrates in Portogallo;
quarto: ha perso Brown a favore di Cameroon;
quinto: ha perso il PS francese che ha lasciato la Francia a Sarkosy
sesto: ha perso la socialdemocrazia tedesca con Sroheder, che ha consegnato la germania alla Merkel:
settimo: ha perso Il PSOE in Spagna - con Zapatero che ha abdicato senza lottare;
ottavo, ha perso Papandreu, che dopo aver minacciato il referendum, ha dovuto cedere il potere a un "governo tecnico;
ottavo: ha perso l'Italia, perché pur di distrugere Berlusconi (che è ancora vivo e vegeto), ha consegnato la democrazia parlamentare al sistema finanziario privato internazionale.
Cosa abbiano da gongolare quindi Bersani e Vendola di questa "vittoria" proprio non si capisce. Un tempo quando i SOCIALISTI (o associati) conquistavano il governo di un Paese era una festa e quando lo perdevano (avolte traumaticamente, come in Cile) era un dramma.
Forse compagni c'è qualcosa che non quadra. Che dite?
domenica 20 novembre 2011
Paolo Borioni-Michael Braun: Unione europea, cosa cambierebbe con i rosso-verdi?
Unione Europea: cosa cambierebbe con i Rosso-Verdi?, di Paolo Borioni e Michael Braun, il Riformista, 20 Novembre 2011
.pubblicata da Paolo Borioni il giorno domenica 20 novembre 2011 alle ore 18.51.Unione Europea: cosa cambierebbe con i Rosso-Verdi?, di Paolo Borioni e Michael Braun, il Riformista, 20 Novembre 2011
Una decisiva novità delle ultime settimane è il pronunciamento di Helmut Schmidt in favore del suo vecchio allievo Peer Steinbrück, già ministro delle Finanze. Ciò potrebbe significare che la scelta Spd per il cancellierato sia, a meno di sorprese, sostanzialmente compiuta. Steinbrück si è detto favorevole a difendere l’Euro anche a fronte di costi per la Germania, perché questo è nell’interesse dei tedeschi. Da cui il rifiuto di stereotipi anti-mediterranei cui la Merkel si è mostrata prona, nonché il favore per gli Eurobonds e il coordinamento fiscale UE. Steinbrück è anche determinato a combattere la finanza improduttiva dei derivati. Si tratta di scelte che, se confermate, rafforzerebbero l’economia reale, e sarebbero compatibili (come argomentiamo qui sotto) con il cambiamento verso una maggioranza Spd-Verdi. Certo, le gravi polemiche fra ambientalisti e sindaco socialdemocratico di Berlino Wowereit (per 3 km. di autostrada!) suggeriscono che problemi potrebbero sorgere. E non a caso in cima alla Spd si è anche ipotizzata la Grosse Koalizion con una Cdu depurata dalla Merkel. Ma questa ipotesi appartiene più che altro a situazioni di necessità.
Secondo uno studio della Fondazione Ebert, l’alleanza Rosso-Verde non solo raccoglie la più elevata somma percentuale di voti, essa è anche l’unica a riscuotere negli elettori comunque collocati un gradimento addirittura maggiore di questa stessa somma (vedi tabella).
C’è inoltre da tenere conto dei governi dei Länder. Le scelte compiute a questo livello hanno utilizzato ormai tutte le soluzioni possibili fra i partiti affermati (Cdu-Csu, Sdp, Linke, Fdp, Verdi: nonostante il bipolarismo all’anglosassone sia per alcuni un fondamento della civiltà democratica).
Tuttavia, mai Spd e Linke hanno retto un Land occidentale: questo rende improbabile una soluzione socialdemocrazia-verdi-sinistra radicale (peraltro sconfitta in Svezia solo un anno fa). Ciò sebbene sia augurabile qualche intesa con la Linke: sia per ragioni di “emergenza sociale”, sia proprio sdoganare nuove soluzioni coalizionali future. Un aspetto, quest’ultimo, da non trascurare. Infatti, nei Länder i Verdi si sono emancipati dalla dipendenza coalizionale verso la Spd: alleanze verdi-destra si sono avute sia in Saarland, sia (con scarsissimo successo) nella città-Land di Amburgo. La Spd, che una volta poteva scegliere fra la maggiore gamma di alleanze (più o meno) accettabili al proprio elettorato, ha perciò perso questo indubbio vantaggio politico. Ragione in più per indurre (se con i giusti contenuti) i Verdi ad un’alleanza a sinistra. La Spd, dal canto suo, potrebbe ragionevolmente aumentare le probabilità di risposta positiva dei Verdi se per esempio escludesse da subito ogni ritorno alla Grosse Koalition. Ciò, peraltro, non dovrebbe rappresentare un sacrificio, vista la mediocre popolarità del governo attuale, anzi potrebbe servire a dinstinguersi dalla Kanzlerin e dalle sue scelte dedite alla ricerca di una sondaggistica sintonia con l’elettorato (che però non arriva).
L’alleanza rosso-verde appare sospinta anche da ragioni di compatibilità fra insediamento sociale e strategie di lungo periodo. Il successo elettorale dei Verdi appare dovuto ad una credibilità ambientalista di lungo periodo. Se tale credibilità non fosse consolidata, cioè, l’impatto dell’incidente di Fukushima non sarebbe bastato a far balzare il partito ambientalista (nel popolosissimo e ricchissimo Baden-Württemberg) addirittura al 24,3%. Al contrario, la Spd soffre ancora dell’impopolarità accumulata sui temi sociali e salariali (cioè nel proprio specifico campo storico di consenso) ai tempi “nuovisti” del Neue Mitte di Schröder, nei quali sono cresciute quella finanziarizzazione e quella disuguaglianza alla fonte della crisi attuale. Ciò contribuisce fortemente a spiegare perché la Spd (e in genere la sinistra riformista europea) tardi ad approfittare elettoralmente della crisi verticale del neoliberalismo e delle sue ricette. Ma per la socialdemocrazia tedesca in questo vi è anche un’opportunità politica, ancora una volta insita nell’alleanza con i Verdi. Questi vantano ormai un saldo radicamento in ceti progressisti precisi. Secondo l’istituto di ricerca DIW i verdi hanno ormai solida presa (il 34% delle preferenze) su di un ceto medio (e medio-alto) istruito, di solito urbano, di età media. Fra i ceti meno istruiti il consenso ambientalista è solo del 13%.
La Spd, di converso, ha perso voti nei ceti operai e salariati (tra 35 e 44 anni), i giovani (18-24) e le donne. In parte si tratta di voto studentesco tipicamente attratto dalle tematiche ambientali. Ma in gran parte si tratta di ceti legati a “mini-jobs” pochissimo pagati (specie all’Est), nonché di lavoro dipendente che sente crescere la propria povertà relativa. La scarsa crescita della domanda interna tedesca, infatti, si deve, oltre che alla morigeratezza retributiva della grandi aziende, anche (e soprattutto) ad ampie zone di bassissimi salari e diritti.
Tutto ciò implica che una crescita della Spd, causata da una nuova e forte attenzione verso queste tematiche e questi ceti, avverrebbe in parte non eccessiva ai danni del (potenziale) alleato Verde. Un governo di centro-sinistra, cioè, potrebbe benissimo condurre a una redistribuzione di tasse e salari favorevole al lavoro dipendente. Ne deriverebbero grandi vantaggi al consenso socialdemocratico, oltre che alla domanda interna (sia tedesca, sia europea). Si tratterebbe poi di una crescita senza deficit spending: un mutamento del tutto socialista, ma senza violare tutti i parametri del Modell Deutschland. Ed è in questa direzione che la Friedrich Ebert Stiftung e l’Instituto IMK della Böckler Stiftung stanno da tempo premendo sui decisori della socialdemocrazia tedesca ed europea, per fortuna oggi sensibile alla necessità di questa svolta. Il recupero elettorale Spd potrebbe così fondarsi su una “distinzione compatibile” con i Verdi. Esso, inoltre, dissiperebbe i timori che a tratti hanno attanagliato la socialdemocrazia tedesca dinanzi all’ascesa elettorale verde: il dover entrare da partner minore in un governo di centro-sinistra.
La compatibilità fra socialdemocratici e Grünen, peraltro, potrebbe saldarsi attorno a politiche di crescita che, specie in Germania, utilizzano l’innovazione, la produzione, la ricerca in campo energetico (la cosiddetta Solar Welle). A questo proposito molto si può fare per approntare meccanismi d’investimento che spostino risorse dalla finanziarizzazione volatile (che ha risucchiato in parte cospicua il mondo economico tedesco) alla produzione strategica.
Del resto, contrariamente alla vulgata diffusa dal liberalismo elitista, le socialdemocrazie non sono state mai soprattutto il partito del debito pubblico, che come oggi si vede è il risultato ultimo di ben altre dottrine. Piuttosto, storicamente, la socialdemocrazia si è distinta per l’attenzione al ciclo investimento-produzione-salari che (è il caso tedesco, scandinavo, austriaco, olandese, belga) ha inteso la produttività come una politica di programmazione negoziata, multilaterale e multilivello, di lunga prospettiva. Dannoso si è invece rivelato il mix di sgravi fiscali stimolanti per il “genio individuale” delle élites imprenditoriali, e di minori retribuzioni per i lavoratori. Distogliere le banche tedesche dal commercio sui prodotti fittizi della finanza, come si propone Steinbrück, è una premessa di tutto ciò, perché significa ricondurre più risorse all’economia reale e all’investimento di lungo periodo.
Per i molti motivi detti la Spd ha la chiave per indurre la Germania ad utilizzare le proprie migliori potenzialità. Le stesse che possono condurre l’Europa, unita, in avanti, anziché, divisa, all’indietro.
Tabella tratta da F. Decker, V. Best, Lost in the new five-party system?, Friedrich Ebert Stiftung, June 2001.
Coalizione
Fdp-Cdu-Csu (Aprile 2011)
Spd-Verdi
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Verdi
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Spd
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Fdp-Verdi
(Settembre 2009)
Spd-Fdp-Verdi
(Marzo 2010)
Spd-Linke-Verdi
(Marzo 2010)
48/47/102
34/53/64
46/62/74
(29/63/46)
(14/49/29)
20/49/41
Il primo numero indica la percentuale di accettazione o fiducia di ogni coalizione
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.pubblicata da Paolo Borioni il giorno domenica 20 novembre 2011 alle ore 18.51.Unione Europea: cosa cambierebbe con i Rosso-Verdi?, di Paolo Borioni e Michael Braun, il Riformista, 20 Novembre 2011
Una decisiva novità delle ultime settimane è il pronunciamento di Helmut Schmidt in favore del suo vecchio allievo Peer Steinbrück, già ministro delle Finanze. Ciò potrebbe significare che la scelta Spd per il cancellierato sia, a meno di sorprese, sostanzialmente compiuta. Steinbrück si è detto favorevole a difendere l’Euro anche a fronte di costi per la Germania, perché questo è nell’interesse dei tedeschi. Da cui il rifiuto di stereotipi anti-mediterranei cui la Merkel si è mostrata prona, nonché il favore per gli Eurobonds e il coordinamento fiscale UE. Steinbrück è anche determinato a combattere la finanza improduttiva dei derivati. Si tratta di scelte che, se confermate, rafforzerebbero l’economia reale, e sarebbero compatibili (come argomentiamo qui sotto) con il cambiamento verso una maggioranza Spd-Verdi. Certo, le gravi polemiche fra ambientalisti e sindaco socialdemocratico di Berlino Wowereit (per 3 km. di autostrada!) suggeriscono che problemi potrebbero sorgere. E non a caso in cima alla Spd si è anche ipotizzata la Grosse Koalizion con una Cdu depurata dalla Merkel. Ma questa ipotesi appartiene più che altro a situazioni di necessità.
Secondo uno studio della Fondazione Ebert, l’alleanza Rosso-Verde non solo raccoglie la più elevata somma percentuale di voti, essa è anche l’unica a riscuotere negli elettori comunque collocati un gradimento addirittura maggiore di questa stessa somma (vedi tabella).
C’è inoltre da tenere conto dei governi dei Länder. Le scelte compiute a questo livello hanno utilizzato ormai tutte le soluzioni possibili fra i partiti affermati (Cdu-Csu, Sdp, Linke, Fdp, Verdi: nonostante il bipolarismo all’anglosassone sia per alcuni un fondamento della civiltà democratica).
Tuttavia, mai Spd e Linke hanno retto un Land occidentale: questo rende improbabile una soluzione socialdemocrazia-verdi-sinistra radicale (peraltro sconfitta in Svezia solo un anno fa). Ciò sebbene sia augurabile qualche intesa con la Linke: sia per ragioni di “emergenza sociale”, sia proprio sdoganare nuove soluzioni coalizionali future. Un aspetto, quest’ultimo, da non trascurare. Infatti, nei Länder i Verdi si sono emancipati dalla dipendenza coalizionale verso la Spd: alleanze verdi-destra si sono avute sia in Saarland, sia (con scarsissimo successo) nella città-Land di Amburgo. La Spd, che una volta poteva scegliere fra la maggiore gamma di alleanze (più o meno) accettabili al proprio elettorato, ha perciò perso questo indubbio vantaggio politico. Ragione in più per indurre (se con i giusti contenuti) i Verdi ad un’alleanza a sinistra. La Spd, dal canto suo, potrebbe ragionevolmente aumentare le probabilità di risposta positiva dei Verdi se per esempio escludesse da subito ogni ritorno alla Grosse Koalition. Ciò, peraltro, non dovrebbe rappresentare un sacrificio, vista la mediocre popolarità del governo attuale, anzi potrebbe servire a dinstinguersi dalla Kanzlerin e dalle sue scelte dedite alla ricerca di una sondaggistica sintonia con l’elettorato (che però non arriva).
L’alleanza rosso-verde appare sospinta anche da ragioni di compatibilità fra insediamento sociale e strategie di lungo periodo. Il successo elettorale dei Verdi appare dovuto ad una credibilità ambientalista di lungo periodo. Se tale credibilità non fosse consolidata, cioè, l’impatto dell’incidente di Fukushima non sarebbe bastato a far balzare il partito ambientalista (nel popolosissimo e ricchissimo Baden-Württemberg) addirittura al 24,3%. Al contrario, la Spd soffre ancora dell’impopolarità accumulata sui temi sociali e salariali (cioè nel proprio specifico campo storico di consenso) ai tempi “nuovisti” del Neue Mitte di Schröder, nei quali sono cresciute quella finanziarizzazione e quella disuguaglianza alla fonte della crisi attuale. Ciò contribuisce fortemente a spiegare perché la Spd (e in genere la sinistra riformista europea) tardi ad approfittare elettoralmente della crisi verticale del neoliberalismo e delle sue ricette. Ma per la socialdemocrazia tedesca in questo vi è anche un’opportunità politica, ancora una volta insita nell’alleanza con i Verdi. Questi vantano ormai un saldo radicamento in ceti progressisti precisi. Secondo l’istituto di ricerca DIW i verdi hanno ormai solida presa (il 34% delle preferenze) su di un ceto medio (e medio-alto) istruito, di solito urbano, di età media. Fra i ceti meno istruiti il consenso ambientalista è solo del 13%.
La Spd, di converso, ha perso voti nei ceti operai e salariati (tra 35 e 44 anni), i giovani (18-24) e le donne. In parte si tratta di voto studentesco tipicamente attratto dalle tematiche ambientali. Ma in gran parte si tratta di ceti legati a “mini-jobs” pochissimo pagati (specie all’Est), nonché di lavoro dipendente che sente crescere la propria povertà relativa. La scarsa crescita della domanda interna tedesca, infatti, si deve, oltre che alla morigeratezza retributiva della grandi aziende, anche (e soprattutto) ad ampie zone di bassissimi salari e diritti.
Tutto ciò implica che una crescita della Spd, causata da una nuova e forte attenzione verso queste tematiche e questi ceti, avverrebbe in parte non eccessiva ai danni del (potenziale) alleato Verde. Un governo di centro-sinistra, cioè, potrebbe benissimo condurre a una redistribuzione di tasse e salari favorevole al lavoro dipendente. Ne deriverebbero grandi vantaggi al consenso socialdemocratico, oltre che alla domanda interna (sia tedesca, sia europea). Si tratterebbe poi di una crescita senza deficit spending: un mutamento del tutto socialista, ma senza violare tutti i parametri del Modell Deutschland. Ed è in questa direzione che la Friedrich Ebert Stiftung e l’Instituto IMK della Böckler Stiftung stanno da tempo premendo sui decisori della socialdemocrazia tedesca ed europea, per fortuna oggi sensibile alla necessità di questa svolta. Il recupero elettorale Spd potrebbe così fondarsi su una “distinzione compatibile” con i Verdi. Esso, inoltre, dissiperebbe i timori che a tratti hanno attanagliato la socialdemocrazia tedesca dinanzi all’ascesa elettorale verde: il dover entrare da partner minore in un governo di centro-sinistra.
La compatibilità fra socialdemocratici e Grünen, peraltro, potrebbe saldarsi attorno a politiche di crescita che, specie in Germania, utilizzano l’innovazione, la produzione, la ricerca in campo energetico (la cosiddetta Solar Welle). A questo proposito molto si può fare per approntare meccanismi d’investimento che spostino risorse dalla finanziarizzazione volatile (che ha risucchiato in parte cospicua il mondo economico tedesco) alla produzione strategica.
Del resto, contrariamente alla vulgata diffusa dal liberalismo elitista, le socialdemocrazie non sono state mai soprattutto il partito del debito pubblico, che come oggi si vede è il risultato ultimo di ben altre dottrine. Piuttosto, storicamente, la socialdemocrazia si è distinta per l’attenzione al ciclo investimento-produzione-salari che (è il caso tedesco, scandinavo, austriaco, olandese, belga) ha inteso la produttività come una politica di programmazione negoziata, multilaterale e multilivello, di lunga prospettiva. Dannoso si è invece rivelato il mix di sgravi fiscali stimolanti per il “genio individuale” delle élites imprenditoriali, e di minori retribuzioni per i lavoratori. Distogliere le banche tedesche dal commercio sui prodotti fittizi della finanza, come si propone Steinbrück, è una premessa di tutto ciò, perché significa ricondurre più risorse all’economia reale e all’investimento di lungo periodo.
Per i molti motivi detti la Spd ha la chiave per indurre la Germania ad utilizzare le proprie migliori potenzialità. Le stesse che possono condurre l’Europa, unita, in avanti, anziché, divisa, all’indietro.
Tabella tratta da F. Decker, V. Best, Lost in the new five-party system?, Friedrich Ebert Stiftung, June 2001.
Coalizione
Fdp-Cdu-Csu (Aprile 2011)
Spd-Verdi
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Verdi
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Spd
(Aprile 2011)
Cdu-Csu-Fdp-Verdi
(Settembre 2009)
Spd-Fdp-Verdi
(Marzo 2010)
Spd-Linke-Verdi
(Marzo 2010)
48/47/102
34/53/64
46/62/74
(29/63/46)
(14/49/29)
20/49/41
Il primo numero indica la percentuale di accettazione o fiducia di ogni coalizione
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Franco Ferrarotti: Lo smantellamento dello stato sociale
Lo smantellamento dello Stato sociale (il manifesto 20 novembre 2011)
di Franco Ferrarotti
Qualcuno l’ha definita la «quadratura del cerchio». È una questione che affligge un quinto dell’umanità - quel quinto privilegiato che non muore di fame (semmai, ha un problema di obesità), gode dell’acqua calda, ha un tetto e un’occupazione più o meno decente - ed è una questione che non si riduce a quelle che, in evidente polemica con l’impostazione marxiana, l’intelligente Daniel Bell chiama le «contraddizioni culturali del capitalismo». Pesca più a fondo. In un mondo in cui gli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, consumano 1’80% delle risorse del pianeta, riguarda la possibilità di conciliare gli entitlements, cioè i diritti di cui i cittadini si ritengono legittimi titolari, con le provisions, cioè le risorse effettivamente disponibili nelle nazioni tecnicamente progredite per farvi fronte. Nei paesi più sviluppati, in particolare nell’Europa Occidentale o Unione Europea, nel Nord America e in Giappone, dopo la grande transizione storica dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti, questa tensione fra entitlements e provisions è diventata drammatica. Notavo vent’anni fa che la tensione, di cui discorre ampiamente con il consueto accattivante praticismo di diligente burocrate Ralf Dahrendorf scaturisce dalle contraddizioni e dai dilemmi dello Stato democratico pluriclasse socialmente orientato, di cui scrivevo nel 1954, introducendo L’azione volontaria di Lord Beveridge in Italia. Ma lo Stato di cui parlano Beveridge e Dahrendorf non può essere spacciato, se non con inammissibili forzature, per lo Stato sociale di William Beveridge. L’interpretazione spenceriana dello Stato, quella che sottende la posizione liberale tradizionale, è puramente negativa. La formulazione classica di questa posizione la si può trovare in Man versus the State. Essa corrisponde abbastanza esattamente agli interessi delle classi medie al loro sorgere nel mondo moderno, in rivolta contro i residui del dispotismo feudale e appassionatamente devote alla libertà di movimento, di azione e di atteggiamento dell’individuo. Non c’è strabismo, temo, che possa far scambiare questa situazione storica e culturale con quella italiana. La ricetta di Beveridge contro gli eccessi dell’autoritarismo centrale e il mito dello Stato onnipresente e onnisciente è di natura strettamente pragmatica e non ha riscontro nella cultura politica italiana, salvo forse il caso del gran lombardo Carlo Cattaneo, del resto presto isolato e battuto, con il suo giudizioso, sobrio e tenace riformismo, dalla retorica delle patrie carducciane e dei “soli dell’avvenìre” privi dì avvenire, In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Pìero Gobetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C’è di più, e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice ROCCO, che solo da pochi anni ha subito varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società viene esaltata come una funzionalità ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti i campi, mentre alle classi popolari vengono dedicati i corsi della “scuola di avviamento professionale”, secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l’intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari. In Europa lo Stato sociale non è più in grado, oggi, di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. E la Banca centrale europea non è disposta e non è comunque in grado di comprare tutti i buoni del Tesoro necessari a “servire” il debito. D’altro canto, la classe politica non può, non ha né il coraggio né la lungimiranza per imporre drastiche misure di cui pure riconosce, a parole, la necessità. Ne va della sua rielezione. Sono misure necessarie ma impopolari: imposta patrimoniale, abolizione di vasti parassitismi in tutti i servizi pubblici, elevazione dell’età pensionabile, riforme delle pensioni di anzianità e dell’assistenza sanitaria pubblica. È chiaro che chi si è battuto in Italia per i diritti sociali e per lo Stato sociale ha avuto una certa quota di illusioni, se non di pura e semplice ingenuità, che una certa vocazione al sarcasmo potrebbe anche presentare come analfabetismo economico o sprovveduta spinta utopistica. Non. andrebbe però dimenticata o sottovalutata, dai duri realisti odierni che non perdono occasione per incensare il mercato (che non è più solo italiano - avvertono - ma è anzi europeo, anzi mondiale), la funzione sociale dell'utopia. Non c’è solo lo Stato. Quando si dice “pubblico”, nella pubblicistìca politica italiana e, cosa più grave, nella mentalità media dei politici, si pensa unicamente allo Stato. Pubblico non significa solo statuale, secondo una impostazione essenzialmente statolatrica, che purtroppo non è stata prerogativa solo della destra politica fascista, ma per anni ha anche permeato e seriamente compromesso le prospettive della sinistra innovatrice. Pubblico significa statuale, ma anche, e forse in primo luogo; sociale. La società civile è più ampia dello Stato; non può accettare di venirne tutta assorbita senza correre il rischio di negarsi. Lo Stato, ad ogni buon conto, con riguardo ai diritti, sociali, si è mosso in Italia secondo modalità di intervento largamente insufficienti: da una parte, trasferimenti monetari e, dall’altra, istituzione di servizi sociali erogatori di prestazioni dirette. Entrambe le modalità di intervento, non solo in Italia, sono approdate ad esiti per certi aspetti negativi, I trasferimenti monetari non garantiscono livelli minimi di sussistenza, tali almeno da far uscire dalle situazioni dì povertà e di indigenza cronica - si vedano in proposito le risultanze della Commissione Corrieri - né fungono da volano per l’economia con l’aumento dei consumi interni, se non marginalmente e per prodotti di uso comune. I servizi sociali, d’altro canto, non sembrano in grado di trarsi fuori dalla spersonalizzante spirale burocratica, autentica maledizione italiana che frustra nel momento dell’implementazione anche le leggi socialmente più avanzate, con incredibili inefficienze, e costi e sprechi incalcolabili, insoddisfazione ai limiti del tollerabile da parte dei cittadini-utenti. La visione generosa di Claudio Napoleoni che scorgeva il loro trasformarsi in relazione comunicativa umana, pensando al rapporto tra operatore sociale e utente, in una vena forse non immemore dell’apporto di Lord Beveridge, resta a tutt’oggi un prologo in cielo, se non un’illusione finanziariamente insostenibile,
Il debito pubblico è dunque destinato a crescere. D’altro canto, la classe politica non può permettersi interventi drastici, teme l’impopolarità. I “mercati”, intanto, speculano sulla paralisi; gli interessi sul debito crescono rapidamente, salgono e scendono, ma soprattutto salgono (dall’1,9% ad agosto al 7,3% a novembre 2011). I politici lasciano il posto e passano le leve di comando ai tecnici; almeno loro non hanno da temere le elezioni, Se necessario, sono nominati senatori a vita. Trionfano nelle loro ovattate stanze, i potentati finanziari, rigorosamente anonimi, ancora giuridicamente “domicili privati”, a vergogna dei giuristi, anche quando le loro inappellabili decisioni incidono sulle condizioni di vita di intere popolazioni. Sono il deus absconditus che comanda a quelli che comandano. Come accadeva in Inghilterra nel Medioevo; quando il boia veniva dalla città vicina, la crisi sociale potrà contare sui suoi anonimi, asettici, ma efficienti macellai sublimati.
di Franco Ferrarotti
Qualcuno l’ha definita la «quadratura del cerchio». È una questione che affligge un quinto dell’umanità - quel quinto privilegiato che non muore di fame (semmai, ha un problema di obesità), gode dell’acqua calda, ha un tetto e un’occupazione più o meno decente - ed è una questione che non si riduce a quelle che, in evidente polemica con l’impostazione marxiana, l’intelligente Daniel Bell chiama le «contraddizioni culturali del capitalismo». Pesca più a fondo. In un mondo in cui gli Stati Uniti, con 300 milioni di abitanti, consumano 1’80% delle risorse del pianeta, riguarda la possibilità di conciliare gli entitlements, cioè i diritti di cui i cittadini si ritengono legittimi titolari, con le provisions, cioè le risorse effettivamente disponibili nelle nazioni tecnicamente progredite per farvi fronte. Nei paesi più sviluppati, in particolare nell’Europa Occidentale o Unione Europea, nel Nord America e in Giappone, dopo la grande transizione storica dallo Stato di diritto allo Stato dei diritti, questa tensione fra entitlements e provisions è diventata drammatica. Notavo vent’anni fa che la tensione, di cui discorre ampiamente con il consueto accattivante praticismo di diligente burocrate Ralf Dahrendorf scaturisce dalle contraddizioni e dai dilemmi dello Stato democratico pluriclasse socialmente orientato, di cui scrivevo nel 1954, introducendo L’azione volontaria di Lord Beveridge in Italia. Ma lo Stato di cui parlano Beveridge e Dahrendorf non può essere spacciato, se non con inammissibili forzature, per lo Stato sociale di William Beveridge. L’interpretazione spenceriana dello Stato, quella che sottende la posizione liberale tradizionale, è puramente negativa. La formulazione classica di questa posizione la si può trovare in Man versus the State. Essa corrisponde abbastanza esattamente agli interessi delle classi medie al loro sorgere nel mondo moderno, in rivolta contro i residui del dispotismo feudale e appassionatamente devote alla libertà di movimento, di azione e di atteggiamento dell’individuo. Non c’è strabismo, temo, che possa far scambiare questa situazione storica e culturale con quella italiana. La ricetta di Beveridge contro gli eccessi dell’autoritarismo centrale e il mito dello Stato onnipresente e onnisciente è di natura strettamente pragmatica e non ha riscontro nella cultura politica italiana, salvo forse il caso del gran lombardo Carlo Cattaneo, del resto presto isolato e battuto, con il suo giudizioso, sobrio e tenace riformismo, dalla retorica delle patrie carducciane e dei “soli dell’avvenìre” privi dì avvenire, In Italia non sono solo le carenze a suo tempo individuate da Pìero Gobetti a pesare (mancanza di una rivoluzione politica come in Francia, e di una riforma religiosa, come in Germania). C’è di più, e di peggio. Bisogna fare uno sforzo e andare a rileggere, sociologicamente, il codice ROCCO, che solo da pochi anni ha subito varianti procedurali di un certo rilievo con riguardo al processo penale. Vi spira una fredda, coerente aria di autoritarismo centralizzato assoluto, in cui la spaccatura classista della società viene esaltata come una funzionalità ritenuta nello stesso tempo necessaria e auspicabile. Ad Alfredo Rocco corrisponde sul piano della scuola e su quello, più ampio, della cultura politica, Giovanni Gentile. Con la sua riforma, Gentile deliberatamente riserva il ginnasio e il liceo alle classi alte, vivaio per i futuri dirigenti in tutti i campi, mentre alle classi popolari vengono dedicati i corsi della “scuola di avviamento professionale”, secondo un disegno di autoperpetuazione delle élite al potere in cui l’intelligenza si suppone duramente condizionata dalle origini sociali e familiari. In Europa lo Stato sociale non è più in grado, oggi, di far fronte ai suoi impegni. Non può far debiti indefinitamente. Non ha più una banca centrale con pieni poteri. E la Banca centrale europea non è disposta e non è comunque in grado di comprare tutti i buoni del Tesoro necessari a “servire” il debito. D’altro canto, la classe politica non può, non ha né il coraggio né la lungimiranza per imporre drastiche misure di cui pure riconosce, a parole, la necessità. Ne va della sua rielezione. Sono misure necessarie ma impopolari: imposta patrimoniale, abolizione di vasti parassitismi in tutti i servizi pubblici, elevazione dell’età pensionabile, riforme delle pensioni di anzianità e dell’assistenza sanitaria pubblica. È chiaro che chi si è battuto in Italia per i diritti sociali e per lo Stato sociale ha avuto una certa quota di illusioni, se non di pura e semplice ingenuità, che una certa vocazione al sarcasmo potrebbe anche presentare come analfabetismo economico o sprovveduta spinta utopistica. Non. andrebbe però dimenticata o sottovalutata, dai duri realisti odierni che non perdono occasione per incensare il mercato (che non è più solo italiano - avvertono - ma è anzi europeo, anzi mondiale), la funzione sociale dell'utopia. Non c’è solo lo Stato. Quando si dice “pubblico”, nella pubblicistìca politica italiana e, cosa più grave, nella mentalità media dei politici, si pensa unicamente allo Stato. Pubblico non significa solo statuale, secondo una impostazione essenzialmente statolatrica, che purtroppo non è stata prerogativa solo della destra politica fascista, ma per anni ha anche permeato e seriamente compromesso le prospettive della sinistra innovatrice. Pubblico significa statuale, ma anche, e forse in primo luogo; sociale. La società civile è più ampia dello Stato; non può accettare di venirne tutta assorbita senza correre il rischio di negarsi. Lo Stato, ad ogni buon conto, con riguardo ai diritti, sociali, si è mosso in Italia secondo modalità di intervento largamente insufficienti: da una parte, trasferimenti monetari e, dall’altra, istituzione di servizi sociali erogatori di prestazioni dirette. Entrambe le modalità di intervento, non solo in Italia, sono approdate ad esiti per certi aspetti negativi, I trasferimenti monetari non garantiscono livelli minimi di sussistenza, tali almeno da far uscire dalle situazioni dì povertà e di indigenza cronica - si vedano in proposito le risultanze della Commissione Corrieri - né fungono da volano per l’economia con l’aumento dei consumi interni, se non marginalmente e per prodotti di uso comune. I servizi sociali, d’altro canto, non sembrano in grado di trarsi fuori dalla spersonalizzante spirale burocratica, autentica maledizione italiana che frustra nel momento dell’implementazione anche le leggi socialmente più avanzate, con incredibili inefficienze, e costi e sprechi incalcolabili, insoddisfazione ai limiti del tollerabile da parte dei cittadini-utenti. La visione generosa di Claudio Napoleoni che scorgeva il loro trasformarsi in relazione comunicativa umana, pensando al rapporto tra operatore sociale e utente, in una vena forse non immemore dell’apporto di Lord Beveridge, resta a tutt’oggi un prologo in cielo, se non un’illusione finanziariamente insostenibile,
Il debito pubblico è dunque destinato a crescere. D’altro canto, la classe politica non può permettersi interventi drastici, teme l’impopolarità. I “mercati”, intanto, speculano sulla paralisi; gli interessi sul debito crescono rapidamente, salgono e scendono, ma soprattutto salgono (dall’1,9% ad agosto al 7,3% a novembre 2011). I politici lasciano il posto e passano le leve di comando ai tecnici; almeno loro non hanno da temere le elezioni, Se necessario, sono nominati senatori a vita. Trionfano nelle loro ovattate stanze, i potentati finanziari, rigorosamente anonimi, ancora giuridicamente “domicili privati”, a vergogna dei giuristi, anche quando le loro inappellabili decisioni incidono sulle condizioni di vita di intere popolazioni. Sono il deus absconditus che comanda a quelli che comandano. Come accadeva in Inghilterra nel Medioevo; quando il boia veniva dalla città vicina, la crisi sociale potrà contare sui suoi anonimi, asettici, ma efficienti macellai sublimati.
sabato 19 novembre 2011
Franco Astengo: Per un progetto politico
PER UN PROGETTO POLITICO E IL TAPPO VENDOLA
La caduta del governo Berlusconi e l'avvento del governo dei "filosofi" presieduto da Monti, rappresentano fatti politici che possono significare una vera svolta per l'intero sistema politico italiano.
Ne scrive già il "Corriere della Sera" oggi 19 Novembre, adombrando, a partire dal centro dello schieramento, una prospettiva di riallineamento complessivo, simile nella forma (ma non nella sostanza) a quanto si verificò all'inizio degli anni’90.
Beninteso il quadro rimane tutto da valutare, in particolare sul versante del centrodestra dove risulterà decisiva la verifica concernente, la "tenuta" del PDL attorno al suo leader, attualmente (ma non definitivamente?) dimezzato.
Attenzione: il quadro generale rimane quello di una crisi gravissima e delle condizioni miserevoli sul piano politico, economico, culturale del nostro Paese, all'interno delle difficoltà europee: i primi provvedimenti annunciati dal nuovo governo vanno tutti nella direzione di spingere verso quel liberismo che sta all'origine di tutti i guai, e non basterà (restando al caso italiano) a mitigare la situazione la presenza, nell'esecutivo, di importanti esponenti del solidarismo cattolico.
Non facciamo l'elenco in questa sede, per ragioni di economia del discorso, ma lo stato degli atti è ben chiaro a tutti senza necessità di entrare nel dettaglio.
Concentriamoci, allora, sulla sinistra.
Affermato che non è sicuramente sprecata la letizia per la caduta del governo Berlusconi, e che altrettanto sicuramente stile e metodo di questo governo possono apparire tratti anche apprezzabili, la sinistra, quella legata alla tradizione "storica" e quella dei nuovi movimenti sociali, con questo governo non c'entra per nulla e la sua posizione naturale è quella dell'opposizione, in nome delle rivendicazioni economiche, sociali, politiche portate avanti nel corso di questi anni.
La riapertura della possibilità di un confronto politico, che appare essere il vero punto di valore in sé rilevabile in questa fase, pone dunque per intero quel tema , che abbiamo cercato con tenacia e ostinazione probabilmente giudicate querule e ostinate da molti, di una nuova soggettività unitaria della sinistra italiana.
Sarebbe il momento di agire, liberandosi delle attuali appartenenze e aprendo la strada alla convergenza verso un nuovo progetto.
Intendo essere chiaro rispetto a questo possibile obiettivo, aggiungendo in conclusione di questo intervento alcune schematiche proposizioni di contenuto: la strategia personalistica delle primarie ad ogni costo nel centrosinistra portata avanti da Vendola e da SeL non ha spazio (la cosiddetta "foto di Vasto" non avrà seguito o meglio per averlo dovrebbe servire una secca riconversione centrista da parte del partito personale del presidente pugliese, che nelle prime battute pronunciate nel corso della crisi - un tiro poi parzialmente corretto - ha rischiato di finire isolato anche rispetto a FIOM e CGIL).
In questo senso Vendola e il suo “cerchio magico” rappresentano una sorta di “tappo” se non avranno l’umiltà e la capacità di porsi al servizio di un progetto molto più grande e ambizioso: essere parte di una nuova sinistra italiana all’altezza delle contraddizioni del futuro.
Così come avrà spazio marginale et residuale l'idea della ricostruzione di un "Partito Comunista".
I comunisti ci sono e servono, eccome, ma per costruire un progetto più grande e ambizioso.
Mi permetto, allora, di delinearne alcuni tratti
Il primo punto riguarda la struttura della soggettività politica: serve un soggetto politico unitario della sinistra, in modo da superare il portato delle divisioni del passato recuperando elementi di tradizioni diverse e innovando la qualità dell'agire politico in relazione al modificarsi delle fratture storiche attorno alla frattura principale originata dallo sviluppo industriale , tenendo conto del modificarsi dell'intreccio tra struttura e sovrastruttura (prioritariamente al riguardo dei processi di diffusione della conoscenza e dell'informazione). Questo soggetto non può essere organizzato sulla base dei principi apparentemente maggioritari del “partito personale” e del “partito leggero”. Occorre ritrovare la strada del soggetto a integrazione di massa, a forte vocazione di rappresentanza generale, strutturato e radicato organicamente sul territorio, non finalizzato esclusivamente alla concezione della politica come lotta per il potere, ma in grado di svolgere una funzione pedagogica e a sviluppare il concetto di “egemonia” avendo ben presente come i nuovi movimenti sociali che debbono essere convolti in questo processo concepiscano il percorso di formazione della “politica”, attraverso la proposizione di politiche pubbliche chiaramente individuate e progettate (dalla policy alla politics, per dirla con termini tecnici).
Il secondo punto riguarda il ruolo delle istituzioni e i meccanismi della rappresentanza politica. Sotto quest’aspetto è possibile riassumere molto rapidamente, in quanto la funzione delle istituzioni dello Stato e degli Enti Locali è chiaramente disegnato dalla Costituzione Repubblicana: va sconfitta l'idea presidenzialista in ogni sua accezione (incluse anche le elezioni dirette di Sindaci, Presidenti e quant'altro, che possono essere anche aver servito la causa nel recente passato ma che, al riguardo della prospettiva di lungo periodo, non possono che essere giudicate negative) con il rilancio del ruolo dei consessi elettivi e la partecipazione politica mediata attraverso partiti dalla vita interna democratica seguendo il dettato dell'art.49 della Costituzione. Il rilancio dei consessi elettivi (sulla base del principio “Il Parlamento come specchio del Paese”) richiede un ragionamento serio sul sistema elettorale che dovrà basarsi sul principio proporzionale, disegnando un sistema politico all'interno del quale sia possibile lo sviluppo di una mediazione politica “alta”, senza forzature improprie al riguardo dell'articolazione della rappresentatività sociale (rappresentatività sociale che nelle sue forme dirette di organizzazione di interessi dovrà godere del massimo di autonomia). In questo senso deve essere superato l’artefatto “bipolarismo all’italiana” e rifiutata la costruzione di improprie coalizioni, preventivamente mediate al ribasso e poi fallimentari sul piano dell’applicazione pratica delle politiche concordate, oltre a rappresentare luoghi di mediazione di bassissimo profilo nella scelta delle candidature.
Il terzo punto riguarda la politica internazionale, in un momento di grande difficoltà sul piano economico dovute alla crisi e di rilevanti sommovimenti popolari in decisive aree del mondo, finalizzati al recupero dei basilari principi democratici, violati da dittature corrotte e oppressive, come nel caso del Nord Africa: l'Europa politica dovrà rappresentare l'obiettivo principale, superando l'attuale Europa del monetarismo, in un processo di adeguamento alle logiche della competizione internazionale che ormai avviene per “aree” fortemente definite sul piano geo-politico.
Il tema dell'Europa dovrà necessariamente essere collegato con gli elementi fondamentali di progetto e di programma politico che il nuovo partito della sinistra sarà chiamato a portare avanti: sono molti i dettagli che dovranno essere affrontati, ma in questa occasione ci si limiterà a indicare due presupposti fondamentali: quelli relativi alla programmazione economica pubblica e, di conseguenza dell'intervento dello Stato in economia (comprendendo in questo tutti i principali passaggi: dall'assetto idrogeologico del territorio, al rilancio delle infrastrutture, a un grande piano di ripresa industriale da avviarsi ovviamente all'interno di un ben definito contesto europeo e utilizzando risorse anche a quel livello). Tema di fondo la qualità della produzione al di fuori di meccanismi di competizione iperliberista.
L'altro presupposto fondamentale è quello dello stato sociale, inteso quale fattore determinante della redistribuzione della ricchezza e della direzione di marcia dell'eguaglianza (emerge, su questo punto, il tema dell'utilizzo del deficit e in questo caso il discorso va rivolto nuovamente in direzione europea). Nell'idea di welfare stanno, ovviamente, i temi della sanità e della scuola.
Non proseguo oltre perché non intendo approfondire più di tanto gli aspetti specifici: rimane fermo l'obiettivo politico di breve periodo che riguarda il porre sul tappeto concretamente, di fronte alle grandi masse, il tema della ricerca di un nuovo “compromesso socialdemocratico” fondato sul modello renano.
Un tema da portare avanti, in netta alternativa al nuovo governo liberista, da una nuova, forte soggettività rappresentativa della sinistra italiana.
Infine: serve da subito un’iniziativa politica conseguente, da portare avanti con coraggio e determinazione, senza la preoccupazione di affrontare momenti di difficoltà che sicuramente si presenteranno sulla strada di chi intende perseguire l’obiettivo di ricostruire, sul serio, la sinistra italiana, in una prospettiva di superamento dei condizionamenti storici e di apertura verso l’avvenire
Savona, lì 19 novembre 2011 Franco Astengo
La caduta del governo Berlusconi e l'avvento del governo dei "filosofi" presieduto da Monti, rappresentano fatti politici che possono significare una vera svolta per l'intero sistema politico italiano.
Ne scrive già il "Corriere della Sera" oggi 19 Novembre, adombrando, a partire dal centro dello schieramento, una prospettiva di riallineamento complessivo, simile nella forma (ma non nella sostanza) a quanto si verificò all'inizio degli anni’90.
Beninteso il quadro rimane tutto da valutare, in particolare sul versante del centrodestra dove risulterà decisiva la verifica concernente, la "tenuta" del PDL attorno al suo leader, attualmente (ma non definitivamente?) dimezzato.
Attenzione: il quadro generale rimane quello di una crisi gravissima e delle condizioni miserevoli sul piano politico, economico, culturale del nostro Paese, all'interno delle difficoltà europee: i primi provvedimenti annunciati dal nuovo governo vanno tutti nella direzione di spingere verso quel liberismo che sta all'origine di tutti i guai, e non basterà (restando al caso italiano) a mitigare la situazione la presenza, nell'esecutivo, di importanti esponenti del solidarismo cattolico.
Non facciamo l'elenco in questa sede, per ragioni di economia del discorso, ma lo stato degli atti è ben chiaro a tutti senza necessità di entrare nel dettaglio.
Concentriamoci, allora, sulla sinistra.
Affermato che non è sicuramente sprecata la letizia per la caduta del governo Berlusconi, e che altrettanto sicuramente stile e metodo di questo governo possono apparire tratti anche apprezzabili, la sinistra, quella legata alla tradizione "storica" e quella dei nuovi movimenti sociali, con questo governo non c'entra per nulla e la sua posizione naturale è quella dell'opposizione, in nome delle rivendicazioni economiche, sociali, politiche portate avanti nel corso di questi anni.
La riapertura della possibilità di un confronto politico, che appare essere il vero punto di valore in sé rilevabile in questa fase, pone dunque per intero quel tema , che abbiamo cercato con tenacia e ostinazione probabilmente giudicate querule e ostinate da molti, di una nuova soggettività unitaria della sinistra italiana.
Sarebbe il momento di agire, liberandosi delle attuali appartenenze e aprendo la strada alla convergenza verso un nuovo progetto.
Intendo essere chiaro rispetto a questo possibile obiettivo, aggiungendo in conclusione di questo intervento alcune schematiche proposizioni di contenuto: la strategia personalistica delle primarie ad ogni costo nel centrosinistra portata avanti da Vendola e da SeL non ha spazio (la cosiddetta "foto di Vasto" non avrà seguito o meglio per averlo dovrebbe servire una secca riconversione centrista da parte del partito personale del presidente pugliese, che nelle prime battute pronunciate nel corso della crisi - un tiro poi parzialmente corretto - ha rischiato di finire isolato anche rispetto a FIOM e CGIL).
In questo senso Vendola e il suo “cerchio magico” rappresentano una sorta di “tappo” se non avranno l’umiltà e la capacità di porsi al servizio di un progetto molto più grande e ambizioso: essere parte di una nuova sinistra italiana all’altezza delle contraddizioni del futuro.
Così come avrà spazio marginale et residuale l'idea della ricostruzione di un "Partito Comunista".
I comunisti ci sono e servono, eccome, ma per costruire un progetto più grande e ambizioso.
Mi permetto, allora, di delinearne alcuni tratti
Il primo punto riguarda la struttura della soggettività politica: serve un soggetto politico unitario della sinistra, in modo da superare il portato delle divisioni del passato recuperando elementi di tradizioni diverse e innovando la qualità dell'agire politico in relazione al modificarsi delle fratture storiche attorno alla frattura principale originata dallo sviluppo industriale , tenendo conto del modificarsi dell'intreccio tra struttura e sovrastruttura (prioritariamente al riguardo dei processi di diffusione della conoscenza e dell'informazione). Questo soggetto non può essere organizzato sulla base dei principi apparentemente maggioritari del “partito personale” e del “partito leggero”. Occorre ritrovare la strada del soggetto a integrazione di massa, a forte vocazione di rappresentanza generale, strutturato e radicato organicamente sul territorio, non finalizzato esclusivamente alla concezione della politica come lotta per il potere, ma in grado di svolgere una funzione pedagogica e a sviluppare il concetto di “egemonia” avendo ben presente come i nuovi movimenti sociali che debbono essere convolti in questo processo concepiscano il percorso di formazione della “politica”, attraverso la proposizione di politiche pubbliche chiaramente individuate e progettate (dalla policy alla politics, per dirla con termini tecnici).
Il secondo punto riguarda il ruolo delle istituzioni e i meccanismi della rappresentanza politica. Sotto quest’aspetto è possibile riassumere molto rapidamente, in quanto la funzione delle istituzioni dello Stato e degli Enti Locali è chiaramente disegnato dalla Costituzione Repubblicana: va sconfitta l'idea presidenzialista in ogni sua accezione (incluse anche le elezioni dirette di Sindaci, Presidenti e quant'altro, che possono essere anche aver servito la causa nel recente passato ma che, al riguardo della prospettiva di lungo periodo, non possono che essere giudicate negative) con il rilancio del ruolo dei consessi elettivi e la partecipazione politica mediata attraverso partiti dalla vita interna democratica seguendo il dettato dell'art.49 della Costituzione. Il rilancio dei consessi elettivi (sulla base del principio “Il Parlamento come specchio del Paese”) richiede un ragionamento serio sul sistema elettorale che dovrà basarsi sul principio proporzionale, disegnando un sistema politico all'interno del quale sia possibile lo sviluppo di una mediazione politica “alta”, senza forzature improprie al riguardo dell'articolazione della rappresentatività sociale (rappresentatività sociale che nelle sue forme dirette di organizzazione di interessi dovrà godere del massimo di autonomia). In questo senso deve essere superato l’artefatto “bipolarismo all’italiana” e rifiutata la costruzione di improprie coalizioni, preventivamente mediate al ribasso e poi fallimentari sul piano dell’applicazione pratica delle politiche concordate, oltre a rappresentare luoghi di mediazione di bassissimo profilo nella scelta delle candidature.
Il terzo punto riguarda la politica internazionale, in un momento di grande difficoltà sul piano economico dovute alla crisi e di rilevanti sommovimenti popolari in decisive aree del mondo, finalizzati al recupero dei basilari principi democratici, violati da dittature corrotte e oppressive, come nel caso del Nord Africa: l'Europa politica dovrà rappresentare l'obiettivo principale, superando l'attuale Europa del monetarismo, in un processo di adeguamento alle logiche della competizione internazionale che ormai avviene per “aree” fortemente definite sul piano geo-politico.
Il tema dell'Europa dovrà necessariamente essere collegato con gli elementi fondamentali di progetto e di programma politico che il nuovo partito della sinistra sarà chiamato a portare avanti: sono molti i dettagli che dovranno essere affrontati, ma in questa occasione ci si limiterà a indicare due presupposti fondamentali: quelli relativi alla programmazione economica pubblica e, di conseguenza dell'intervento dello Stato in economia (comprendendo in questo tutti i principali passaggi: dall'assetto idrogeologico del territorio, al rilancio delle infrastrutture, a un grande piano di ripresa industriale da avviarsi ovviamente all'interno di un ben definito contesto europeo e utilizzando risorse anche a quel livello). Tema di fondo la qualità della produzione al di fuori di meccanismi di competizione iperliberista.
L'altro presupposto fondamentale è quello dello stato sociale, inteso quale fattore determinante della redistribuzione della ricchezza e della direzione di marcia dell'eguaglianza (emerge, su questo punto, il tema dell'utilizzo del deficit e in questo caso il discorso va rivolto nuovamente in direzione europea). Nell'idea di welfare stanno, ovviamente, i temi della sanità e della scuola.
Non proseguo oltre perché non intendo approfondire più di tanto gli aspetti specifici: rimane fermo l'obiettivo politico di breve periodo che riguarda il porre sul tappeto concretamente, di fronte alle grandi masse, il tema della ricerca di un nuovo “compromesso socialdemocratico” fondato sul modello renano.
Un tema da portare avanti, in netta alternativa al nuovo governo liberista, da una nuova, forte soggettività rappresentativa della sinistra italiana.
Infine: serve da subito un’iniziativa politica conseguente, da portare avanti con coraggio e determinazione, senza la preoccupazione di affrontare momenti di difficoltà che sicuramente si presenteranno sulla strada di chi intende perseguire l’obiettivo di ricostruire, sul serio, la sinistra italiana, in una prospettiva di superamento dei condizionamenti storici e di apertura verso l’avvenire
Savona, lì 19 novembre 2011 Franco Astengo
Felice Besostri: ,QUE VIVA ESPAÑA SOCIALISTA Y AUTONOMICA
,QUE VIVA ESPAÑA SOCIALISTA Y AUTONOMICA
Domenica prossima la Spagna voterà in una situazione di certezza sul partito vincitore, il PP di Rajoy, la sola incertezza è rappresentata dall’entità recupero del PSOE su un differenziale di 15/16 punti percentuali: recupero che non dovrebbe, comunque, impedire la maggioranza assoluta dei popolari. Non seguirò quelle elezioni con la serenità di uno studioso, che pure ha fatto una precisa scelta politica socialista, ma sono visceralmente coinvolto. Giovane socialista, dirigente della FGS, nel 1967 a Vienna ho voluto visitare la sede dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista. Nella segreteria ho incontrato il compagno spagnolo Miguel Angel Martinez. Miguel Angel diventò il Segretario generale dell’Internazionale Socialista dell’Educazione, parlamentare alle Cortes e parlamentare europeo, oltre che dirigente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Con Martinez andai nell’allora Cecoslovacchia comunista, aprendo così, un altro filone dei miei interessi politici, quello dell’Europa Orientale, che con Medio Oriente e America Latina, hanno caratterizzato la mia attività internazionale, per così dire extracomunitaria. Spagna e Portogallo erano allora ancora sotto regimi autoritari e fascisti, quello spagnolo in particolare instaurato in seguito ad una guerra civile, che ha coinvolto e segnato anche le vicende della vita italiana. Per farla breve cominciai ad occuparmi concretamente di Spagna organizzando manifestazioni di sostegno e con proiezioni di un documentario ”No passaport for Spain”, girato clandestinamente in Spagna tra i compagni del PSOE e della UGT, organizzazioni che la vulgata a sinistra in Italia dava per scomparsi: il futuro della Spagna era già disegnato dal comunista Santiago Carrillo, dal democristiano Joaquín Ruiz-Giménez Cortés sul piano politico, dalle Comisiones Obreras sul piano sindacale e dalla simpatia per la lotta armata dell’ETA o del F.R.A.P. o per i più pacifici per l’Abate di Monserrat, culla del catalanismo. Da quei primi contatti scaturì un’iniziativa giornalistica dell’Avanti!, allora diretto da Gaetano Arfè e con Ugo Intini a capo della redazione milanese. Nel 1975 finanziò un’inchiesta giornalistica in Spagna, un viaggio attraverso le strutture clandestine del PSOE e delle sue articolazioni territoriali dalla Catalogna al Paese Valenziano, per proseguire a Murcia e nella roccaforte andalusa e giungere a Madrid per concludersi nel Paese Basco. Con me, che fungevo da contatto politico accreditato, due giornalisti Virgilio Baccalini e Giovanni Raffaelli. Si dovevano ancora usare cautele nel fissare i luoghi degli incontri, era il periodo della semi-clandestinità, un gioco di reciproche finzioni, tra l’altro differente da regione a regione e spesso da città a città nella stesa regione. Non si arrestavo più i dirigenti dei partiti clandestini, purché questi si comportassero con discrezione nei contatti con la stampa e gli stranieri. A Siviglia il primo incontro con Felipe Gonzales , nome di battaglia Isidoro, nel suo studio di avvocato del lavoro e con Alfonso Guerra nella libreria Machado. A Madrid ci si rese conto dell’estensione del consenso del PSOE, cui aderivano prestigiosi cattedratici. Niente di paragonabile agli incontri nel Paese Basco con il leader della UGT Nicolas Redondo Urbieta , con i fratelli Mugica Herzog, baschi e ebrei, come massima espressione di minoranza, ma soprattutto con Ramon Rubial, il futuro Presidente del PSOE. Ramon Rubial dopo decenni di confino e carcere lavorava come operaio in un’officina meccanica a 69 anni. Pochi anni dopo nel 1977 il PSI mianese e lombardo, di cui ero responsabile internazionale, contribuì a finanziare la prima campagna elettorale del PSOE nel Paese Valenziano dopo la morte di Franco. Ricordo ancora i comizi tenuti in piccoli paesi della provincia o la conferenza stampa a Valencia di Carlo Tognoli, allora sindaco socialista di Milano. Alle elezioni europee del 1979 il PSI della Lombardia invitò ed ospito 4 giovani dirigenti socialisti. I nomi hanno poi segnato la storia del socialismo spagnolo ed europeo, come Enrique Baron Crespo, Raimun Obiols, Ernest Lluch e Josep Albiñana.Quell’anno il PSOE si confermò il secondo prtito con appena 47 seggi in meno dell’UCD di Adolfo Suarez. Nel 1977 era stata eletta l’assemblea costituente e nel 1978 era entrata in vigore la prima costituzione democratica dopo 40 anni di regime franchista. Due altre grandi emozioni politiche indimenticabili sono legate alla Spagna e alla città di Madrid: una manifestazione di solidarietà internazionale ai socialisti spagnoli nel novembre 1979 e la conquista della maggioranza assoluta del PSOE alle elezioni generali del 28 ottobre 1982.Mi era stato affidato Pietro Nenni, l’unico leader socialista che abbia amato (con Basso, Giolitti e Lombardi era più ammirazione intellettuale e con De Martino un grande rispetto) in quella che fu la sua ultima manifestazione politica , ci lasciò poco dopo il 1º gennaio 1980 . A distanza di oltre 30 anni ho ancora davanti agli occhi e nelle orecchie il tripudio della sala quando fu annunciato il suo intervento. Il vecchio combattente della Guerra di Spagna si ricordava come fosse ieri dove erano le barricate e quando lo feci incontrare con Amutio, con cui aveva combattuto ad Albacete fu travolto dai ricordi.
Il sole splendeva, metaforicamente, nella notte quando fu chiara la vittoria socialista, la prima con Felipe Gonzales quella notte tra il 28 e il 29 ottobre. Non una semplice vittoria ma la maggioranza assoluta con 202 seggi su 350 e la conquista di 30 nuove province cedendone ad AP solo una, oltre che la riconferma dei bastioni di Catalogna e Andalusia.Quella notte si inaugurarono 13 anni e mezzo di egemonia socialista fino alle elezioni del 1996. Non solo questi ricordi, ma anche il dolore per la perdita di compagni amici come Ernest Lluch e Fernando Mugica, tutti e due assassinati da ETA perché uomini di dialogo. Con troppo anticipo sui tempi. Dopo la parentesi di Aznar del 1996 e del 2000, due nuove vittorie con Zapatero nel 2004 e 2008 con una stagione di espansione dei diritti civili senza paragoni in un paese cattolico. Le difficoltà economiche, la rottura dei legami storici con la UGT e i difficili rapporti con la Catalogna, pur guidata da una coalizione di sinistra con i socialisti a capo sono stati tutti segni di un deterioramento di immagine, che ha avuto il suo apice con le misure di austerità. Tutti questi fattori, insieme con l’impossibilità di un rapporto a sinistra per concomitanti egemonismo e settarismo hanno condotto al disastro delle elezioni municipali e autonomiche di questo maggio: indignados da un lato e maggioranze popolari anche in feudi socialisti sono stati i prodotti di un anno orribile. Fatte queste premesse analizzerò ugualmente le elezioni spagnole, ma non aspettatevi un’olimpica serenità
Felice Besostri
Domenica prossima la Spagna voterà in una situazione di certezza sul partito vincitore, il PP di Rajoy, la sola incertezza è rappresentata dall’entità recupero del PSOE su un differenziale di 15/16 punti percentuali: recupero che non dovrebbe, comunque, impedire la maggioranza assoluta dei popolari. Non seguirò quelle elezioni con la serenità di uno studioso, che pure ha fatto una precisa scelta politica socialista, ma sono visceralmente coinvolto. Giovane socialista, dirigente della FGS, nel 1967 a Vienna ho voluto visitare la sede dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista. Nella segreteria ho incontrato il compagno spagnolo Miguel Angel Martinez. Miguel Angel diventò il Segretario generale dell’Internazionale Socialista dell’Educazione, parlamentare alle Cortes e parlamentare europeo, oltre che dirigente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Con Martinez andai nell’allora Cecoslovacchia comunista, aprendo così, un altro filone dei miei interessi politici, quello dell’Europa Orientale, che con Medio Oriente e America Latina, hanno caratterizzato la mia attività internazionale, per così dire extracomunitaria. Spagna e Portogallo erano allora ancora sotto regimi autoritari e fascisti, quello spagnolo in particolare instaurato in seguito ad una guerra civile, che ha coinvolto e segnato anche le vicende della vita italiana. Per farla breve cominciai ad occuparmi concretamente di Spagna organizzando manifestazioni di sostegno e con proiezioni di un documentario ”No passaport for Spain”, girato clandestinamente in Spagna tra i compagni del PSOE e della UGT, organizzazioni che la vulgata a sinistra in Italia dava per scomparsi: il futuro della Spagna era già disegnato dal comunista Santiago Carrillo, dal democristiano Joaquín Ruiz-Giménez Cortés sul piano politico, dalle Comisiones Obreras sul piano sindacale e dalla simpatia per la lotta armata dell’ETA o del F.R.A.P. o per i più pacifici per l’Abate di Monserrat, culla del catalanismo. Da quei primi contatti scaturì un’iniziativa giornalistica dell’Avanti!, allora diretto da Gaetano Arfè e con Ugo Intini a capo della redazione milanese. Nel 1975 finanziò un’inchiesta giornalistica in Spagna, un viaggio attraverso le strutture clandestine del PSOE e delle sue articolazioni territoriali dalla Catalogna al Paese Valenziano, per proseguire a Murcia e nella roccaforte andalusa e giungere a Madrid per concludersi nel Paese Basco. Con me, che fungevo da contatto politico accreditato, due giornalisti Virgilio Baccalini e Giovanni Raffaelli. Si dovevano ancora usare cautele nel fissare i luoghi degli incontri, era il periodo della semi-clandestinità, un gioco di reciproche finzioni, tra l’altro differente da regione a regione e spesso da città a città nella stesa regione. Non si arrestavo più i dirigenti dei partiti clandestini, purché questi si comportassero con discrezione nei contatti con la stampa e gli stranieri. A Siviglia il primo incontro con Felipe Gonzales , nome di battaglia Isidoro, nel suo studio di avvocato del lavoro e con Alfonso Guerra nella libreria Machado. A Madrid ci si rese conto dell’estensione del consenso del PSOE, cui aderivano prestigiosi cattedratici. Niente di paragonabile agli incontri nel Paese Basco con il leader della UGT Nicolas Redondo Urbieta , con i fratelli Mugica Herzog, baschi e ebrei, come massima espressione di minoranza, ma soprattutto con Ramon Rubial, il futuro Presidente del PSOE. Ramon Rubial dopo decenni di confino e carcere lavorava come operaio in un’officina meccanica a 69 anni. Pochi anni dopo nel 1977 il PSI mianese e lombardo, di cui ero responsabile internazionale, contribuì a finanziare la prima campagna elettorale del PSOE nel Paese Valenziano dopo la morte di Franco. Ricordo ancora i comizi tenuti in piccoli paesi della provincia o la conferenza stampa a Valencia di Carlo Tognoli, allora sindaco socialista di Milano. Alle elezioni europee del 1979 il PSI della Lombardia invitò ed ospito 4 giovani dirigenti socialisti. I nomi hanno poi segnato la storia del socialismo spagnolo ed europeo, come Enrique Baron Crespo, Raimun Obiols, Ernest Lluch e Josep Albiñana.Quell’anno il PSOE si confermò il secondo prtito con appena 47 seggi in meno dell’UCD di Adolfo Suarez. Nel 1977 era stata eletta l’assemblea costituente e nel 1978 era entrata in vigore la prima costituzione democratica dopo 40 anni di regime franchista. Due altre grandi emozioni politiche indimenticabili sono legate alla Spagna e alla città di Madrid: una manifestazione di solidarietà internazionale ai socialisti spagnoli nel novembre 1979 e la conquista della maggioranza assoluta del PSOE alle elezioni generali del 28 ottobre 1982.Mi era stato affidato Pietro Nenni, l’unico leader socialista che abbia amato (con Basso, Giolitti e Lombardi era più ammirazione intellettuale e con De Martino un grande rispetto) in quella che fu la sua ultima manifestazione politica , ci lasciò poco dopo il 1º gennaio 1980 . A distanza di oltre 30 anni ho ancora davanti agli occhi e nelle orecchie il tripudio della sala quando fu annunciato il suo intervento. Il vecchio combattente della Guerra di Spagna si ricordava come fosse ieri dove erano le barricate e quando lo feci incontrare con Amutio, con cui aveva combattuto ad Albacete fu travolto dai ricordi.
Il sole splendeva, metaforicamente, nella notte quando fu chiara la vittoria socialista, la prima con Felipe Gonzales quella notte tra il 28 e il 29 ottobre. Non una semplice vittoria ma la maggioranza assoluta con 202 seggi su 350 e la conquista di 30 nuove province cedendone ad AP solo una, oltre che la riconferma dei bastioni di Catalogna e Andalusia.Quella notte si inaugurarono 13 anni e mezzo di egemonia socialista fino alle elezioni del 1996. Non solo questi ricordi, ma anche il dolore per la perdita di compagni amici come Ernest Lluch e Fernando Mugica, tutti e due assassinati da ETA perché uomini di dialogo. Con troppo anticipo sui tempi. Dopo la parentesi di Aznar del 1996 e del 2000, due nuove vittorie con Zapatero nel 2004 e 2008 con una stagione di espansione dei diritti civili senza paragoni in un paese cattolico. Le difficoltà economiche, la rottura dei legami storici con la UGT e i difficili rapporti con la Catalogna, pur guidata da una coalizione di sinistra con i socialisti a capo sono stati tutti segni di un deterioramento di immagine, che ha avuto il suo apice con le misure di austerità. Tutti questi fattori, insieme con l’impossibilità di un rapporto a sinistra per concomitanti egemonismo e settarismo hanno condotto al disastro delle elezioni municipali e autonomiche di questo maggio: indignados da un lato e maggioranze popolari anche in feudi socialisti sono stati i prodotti di un anno orribile. Fatte queste premesse analizzerò ugualmente le elezioni spagnole, ma non aspettatevi un’olimpica serenità
Felice Besostri
venerdì 18 novembre 2011
Francesco Somaini: A sinistra uno squillo di tromba
A Sinistra uno squillo di tromba. L’assemblea del NETWORK per il Socialismo Europeo - di Francesco Somaini
C'è un certo fermento nell'area della Sinistra socialista. E’ l’area, per intenderci, di quei socialisti che si trovano alla Sinistra del PD (o, se si vuole, del suo asse mediano), ma che non si riconoscono con molto entusiasmo in nessuna delle attuali realtà partitiche del Centro-Sinistra (anche quando magari ne fanno parte).
E’ un mondo forse non troppo cospicuo in termini quantitativi, ma tutt’altro che inerte sul piano dell’elaborazione politico-culturale. Lo dimostrano i vivaci siti internet che si sono affacciati sulla scena della Rete negli ultimi tempi, così come i dibattiti e le discussioni di notevole livello che si svolgono ogni giorno su Facebook, su Twitter, e su svariate mailing list.
E’ un’area, ancora, che può contare sul solido lavoro analitico di storici centri studi di ispirazione socialista (la fondazione Nenni, la fondazione Brodolini, ed altre), ma che di recente ha visto soprattutto crescere, per intensità e qualità, le iniziative di svariati circoli ed associazioni, e in cui stanno inoltre emergendo alcune modalità organizzative più articolate e complesse.
Nelle regioni del Nord-Ovest opera ad esempio il Gruppo di Volpedo, che già dal 2008 riunisce una ventina di associazioni di ispirazione socialista e libertaria. Attorno ad altre realtà (come i Circoli Rosselli di Firenze e di Roma) si è cominciato a ragionare su ipotesi di maggiore coordinamento; mentre altri gruppi si sono raccolti già da tempo nella Lega dei Socialisti, articolata, a sua volta, su più leghe regionali e locali.
Infine, da un anno a questa parte, si è costituito anche il Network per il Socialismo Europeo, che sabato e domenica scorsi (12 e 13 novembre) ha tenuto a Passignano sul Trasimeno (PG) la propria prima Assemblea (dal titolo "Idee per l'alternativa").
Europeisti per convinzione, ma persuasi nel contempo che le ricette restrittive e neo-liberiste della BCE non siano né convincenti né condivisibili, quelli del Network ritengono che la via maestra per rispondere alla crisi attuale non possa che risiedere nella costruzione di una vera Europa politica. Forti istituzioni europee investite democraticamente di reali poteri sono la chiave per rilanciare il primato della politica e della democrazia rispetto all’egemonia dei mercati e dei loro grandi manovratori finanziari, e anche per arrestare ed invertire il potente incremento della diseguaglianza prodottosi negli ultimi 30 anni (e che è poi la causa più profonda della crisi stessa). Per costruire un’Europa politica occorrono però attori in grado di spingere realmente in questa direzione; e al Network sono persuasi che questo ruolo non possa che spettare ai partiti socialisti europei, o meglio al PSE, che per questo occorre tuttavia trasformare in un vero grande partito transazionale, liberandolo – come sta già peraltro avvenendo – da ogni residuale tentazione mercatistica di impronta schroederieana o blairiana.
E’ un processo cui potrebbe in realtà contribuire anche la Sinistra italiana, se questa non fosse nelle condizioni in cui è. Il PD sembra infatti perennemente connotato da quell’ambiguità ed incertezza di fondo che lo accompagnano sin dalla nascita. SEL stenta ad assumere i tratti di laboratorio e di embrione di una vera forza riformatrice, ed esita ad esprimere un’autentica cultura di governo. Quanto al piccolo partito dei socialisti di Nencini, che pure del PSE fa già parte, la sua maggiore preoccupazione sembra essere quella di garantirsi un minimo di visibilità rendendosi interprete di un moderatismo ancora più accentuato di quello dei settori più moderati del PD: né il possibile approdo verso questo partito dell’eventuale transumanza trasformistica di “sedicenti socialisti” in cerca di nuova collocazione dopo la crisi del Berlusconismo lascia presagire sviluppi più incoraggianti. Ad oggi insomma, nessuno, tra i partiti attuali del Centro-Sinistra, sembra in condizione di esprimere una seria prospettiva socialdemocratica.
Altre realtà, come i vari movimenti di mobilitazione civile che si sono prodotti nel Paese, o anche esperienze importanti, come quella del movimento arancione che ha portato a Milano alla vittoria di Pisapia, potrebbero costituire degli interlocutori più interessanti, ma questo è un discorso ancora in larga misura da costruire e dagli esiti non scontati.
In questo quadro sconfortante, si è però ora innestata la caduta di Berlusconi. Il fatto, oltre ad essere positivo di per sé, potrebbe esserlo anche per gli sviluppi politici che potrebbe produrre. L’auspicabile nascita del governo Monti (necessaria per far fronte ad una situazione emergenziale) potrebbe ad esempio innescare in tempi non lunghissimi processi rilevanti di scomposizione e ricomposizione politica all'interno di entrambi gli schieramenti: soprattutto se si dovesse arrivare ad una legge elettorale anche appena un po’ meno improponibile di quella attuale. Il quadro politico potrebbe cioè anche evolvere in un senso favorevole all’emergere di una Sinistra più seria e credibile, con un aggancio esplicito al Socialismo Europeo.
Il Network si propone di evidentemente di seguire, e se possibile di agevolare, questi eventuali processi, e per questo ha voluto raccogliere e fare proprio l’appello lanciato il mese scorso dai “Volpediani” perchè questa Sinistra Socialista diffusa si vada costituendo come un’area politica riconoscibile, in grado di far meglio sentire la propria voce. L’ipotesi di un patto di unità d’azione tra le varie realtà di quest’area è insomma già sul tappeto. Qualcosa quindi si sta forse muovendo. Dopodichè, chi vivrà vedrà.
C'è un certo fermento nell'area della Sinistra socialista. E’ l’area, per intenderci, di quei socialisti che si trovano alla Sinistra del PD (o, se si vuole, del suo asse mediano), ma che non si riconoscono con molto entusiasmo in nessuna delle attuali realtà partitiche del Centro-Sinistra (anche quando magari ne fanno parte).
E’ un mondo forse non troppo cospicuo in termini quantitativi, ma tutt’altro che inerte sul piano dell’elaborazione politico-culturale. Lo dimostrano i vivaci siti internet che si sono affacciati sulla scena della Rete negli ultimi tempi, così come i dibattiti e le discussioni di notevole livello che si svolgono ogni giorno su Facebook, su Twitter, e su svariate mailing list.
E’ un’area, ancora, che può contare sul solido lavoro analitico di storici centri studi di ispirazione socialista (la fondazione Nenni, la fondazione Brodolini, ed altre), ma che di recente ha visto soprattutto crescere, per intensità e qualità, le iniziative di svariati circoli ed associazioni, e in cui stanno inoltre emergendo alcune modalità organizzative più articolate e complesse.
Nelle regioni del Nord-Ovest opera ad esempio il Gruppo di Volpedo, che già dal 2008 riunisce una ventina di associazioni di ispirazione socialista e libertaria. Attorno ad altre realtà (come i Circoli Rosselli di Firenze e di Roma) si è cominciato a ragionare su ipotesi di maggiore coordinamento; mentre altri gruppi si sono raccolti già da tempo nella Lega dei Socialisti, articolata, a sua volta, su più leghe regionali e locali.
Infine, da un anno a questa parte, si è costituito anche il Network per il Socialismo Europeo, che sabato e domenica scorsi (12 e 13 novembre) ha tenuto a Passignano sul Trasimeno (PG) la propria prima Assemblea (dal titolo "Idee per l'alternativa").
Europeisti per convinzione, ma persuasi nel contempo che le ricette restrittive e neo-liberiste della BCE non siano né convincenti né condivisibili, quelli del Network ritengono che la via maestra per rispondere alla crisi attuale non possa che risiedere nella costruzione di una vera Europa politica. Forti istituzioni europee investite democraticamente di reali poteri sono la chiave per rilanciare il primato della politica e della democrazia rispetto all’egemonia dei mercati e dei loro grandi manovratori finanziari, e anche per arrestare ed invertire il potente incremento della diseguaglianza prodottosi negli ultimi 30 anni (e che è poi la causa più profonda della crisi stessa). Per costruire un’Europa politica occorrono però attori in grado di spingere realmente in questa direzione; e al Network sono persuasi che questo ruolo non possa che spettare ai partiti socialisti europei, o meglio al PSE, che per questo occorre tuttavia trasformare in un vero grande partito transazionale, liberandolo – come sta già peraltro avvenendo – da ogni residuale tentazione mercatistica di impronta schroederieana o blairiana.
E’ un processo cui potrebbe in realtà contribuire anche la Sinistra italiana, se questa non fosse nelle condizioni in cui è. Il PD sembra infatti perennemente connotato da quell’ambiguità ed incertezza di fondo che lo accompagnano sin dalla nascita. SEL stenta ad assumere i tratti di laboratorio e di embrione di una vera forza riformatrice, ed esita ad esprimere un’autentica cultura di governo. Quanto al piccolo partito dei socialisti di Nencini, che pure del PSE fa già parte, la sua maggiore preoccupazione sembra essere quella di garantirsi un minimo di visibilità rendendosi interprete di un moderatismo ancora più accentuato di quello dei settori più moderati del PD: né il possibile approdo verso questo partito dell’eventuale transumanza trasformistica di “sedicenti socialisti” in cerca di nuova collocazione dopo la crisi del Berlusconismo lascia presagire sviluppi più incoraggianti. Ad oggi insomma, nessuno, tra i partiti attuali del Centro-Sinistra, sembra in condizione di esprimere una seria prospettiva socialdemocratica.
Altre realtà, come i vari movimenti di mobilitazione civile che si sono prodotti nel Paese, o anche esperienze importanti, come quella del movimento arancione che ha portato a Milano alla vittoria di Pisapia, potrebbero costituire degli interlocutori più interessanti, ma questo è un discorso ancora in larga misura da costruire e dagli esiti non scontati.
In questo quadro sconfortante, si è però ora innestata la caduta di Berlusconi. Il fatto, oltre ad essere positivo di per sé, potrebbe esserlo anche per gli sviluppi politici che potrebbe produrre. L’auspicabile nascita del governo Monti (necessaria per far fronte ad una situazione emergenziale) potrebbe ad esempio innescare in tempi non lunghissimi processi rilevanti di scomposizione e ricomposizione politica all'interno di entrambi gli schieramenti: soprattutto se si dovesse arrivare ad una legge elettorale anche appena un po’ meno improponibile di quella attuale. Il quadro politico potrebbe cioè anche evolvere in un senso favorevole all’emergere di una Sinistra più seria e credibile, con un aggancio esplicito al Socialismo Europeo.
Il Network si propone di evidentemente di seguire, e se possibile di agevolare, questi eventuali processi, e per questo ha voluto raccogliere e fare proprio l’appello lanciato il mese scorso dai “Volpediani” perchè questa Sinistra Socialista diffusa si vada costituendo come un’area politica riconoscibile, in grado di far meglio sentire la propria voce. L’ipotesi di un patto di unità d’azione tra le varie realtà di quest’area è insomma già sul tappeto. Qualcosa quindi si sta forse muovendo. Dopodichè, chi vivrà vedrà.
giovedì 17 novembre 2011
Turci-Besostri-Vetrano: Lettera aperta
A Luigi Bersani, Segretario del P.D.
A Riccardo Nencini, Segretario P.S.I.
A Nichi Vendola, Presidente di S.E.L.
Roma, 17 novembre 2011
Cari compagni
l’ampia fiducia che il governo Monti riceverà dal Parlamento e le misure di risanamento e sviluppo che verranno approvate, purtroppo , non riusciranno da sole a portare il nostro Paese fuori dalla crisi.
Gli avvenimenti di questi ultimi giorni nei mercati finanziari e le reazioni a catena provocate dalla speculazione finanziaria nei paesi dell’eurozona – Francia compresa – confermano che la crisi è sistemica ed europea e che da questa crisi, come il Network per il socialismo europeo dice da tempo, l’Italia e gli altri paesi dell’eurozona potranno uscire solo con un netto cambiamento dell’insieme delle politiche europee.
Preoccupa davvero che questo problema sia rimasto sullo sfondo ,quasi rimosso ,nelle discussioni che hanno accompagnato la crisi del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti. Il dibattito nazionale, ripiegato sulla ricerca delle ragioni interne della crisi e sul clamoroso fallimento del governo di centro-destra, ha infatti risentito di una diffusa subalternità rispetto alle posizioni franco-tedesche.
Giuliano Ferrara se ne è accorto recentemente e, anche per giustificare le responsabilità nel governo della crisi da parte di Berlusconi, ha proposto dalle colonne de “Il foglio” che PD e PdL chiedano perentoriamente un confronto europeo per la trasformazione della BCE in un prestatore di ultima istanza
Al di là di queste manovre di corto respiro,è dall’area degli economisti più avvertiti,italiani e stranieri,che da tempo viene una sollecitazione drammatica a cambiare la politica della BCE e le scelte di austerity imposte nei vertici europei dalle forze conservatrici. E’ di questi giorni l’appello su Repubblica di autorevoli economisti esteri quali Krugman ,Stiglitz, De Grawe ,Roubini e Munchau perché la BCE assuma la funzione di prestatore di ultima istanza ,come la FED americana,la Banca centrale inglese e quella giapponese,al fine di bloccare la speculazione e il panico che sta distruggendo il mercato del debiti sovrani. Ancora di oggi è il manifesto firmato da quasi 100 prestigiosi economisti italiani,da De Cecco a Artoni,da Lunghini a Cesaratto,dalla Stiriati a Pivetti,in cui si sostiene che al primo punto dell’agenda del nuovo governo debba essere il mutamento radicale del quadro economico europeo, con un fermo intervento della BCE a ridurre i tassi su tutti i debiti sovrani ai livelli della Germania e politiche più espansive.
Ora finalmente la parola tocca a voi come esponenti dei partiti della sinistra italiana e come parte del più ampio movimento della sinistra europea che ha nel PSE la sua più significativa espressione.
Noi crediamo che la ricerca di un accordo europeo per trasformare i compiti ed i poteri della BCE debba avere un ruolo centrale nell’agenda del Governo Monti al quale responsabilmente il centro-sinistra ha dato il proprio appoggio.
Di pari passo, a nostro avviso, deve procedere la ricerca di un confronto europeo tra le forze socialdemocratiche e della sinistra affinchè, anche in occasione delle prossime scadenze elettorali in Spagna, Francia e Germania, maturi una più attenta comprensione delle ragioni della crisi e vengano proposte soluzioni concertate volte alla crescita, alla piena occupazione, all’equilibrio commerciale tra i vari Paesi ed ad una maggiore equità distributiva tra i Paesi e nei Paesi.
Per il Network per il Socialismo europeo: Lanfranco Turci, Felice Besostri, Giuseppe Vetrano
A Riccardo Nencini, Segretario P.S.I.
A Nichi Vendola, Presidente di S.E.L.
Roma, 17 novembre 2011
Cari compagni
l’ampia fiducia che il governo Monti riceverà dal Parlamento e le misure di risanamento e sviluppo che verranno approvate, purtroppo , non riusciranno da sole a portare il nostro Paese fuori dalla crisi.
Gli avvenimenti di questi ultimi giorni nei mercati finanziari e le reazioni a catena provocate dalla speculazione finanziaria nei paesi dell’eurozona – Francia compresa – confermano che la crisi è sistemica ed europea e che da questa crisi, come il Network per il socialismo europeo dice da tempo, l’Italia e gli altri paesi dell’eurozona potranno uscire solo con un netto cambiamento dell’insieme delle politiche europee.
Preoccupa davvero che questo problema sia rimasto sullo sfondo ,quasi rimosso ,nelle discussioni che hanno accompagnato la crisi del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti. Il dibattito nazionale, ripiegato sulla ricerca delle ragioni interne della crisi e sul clamoroso fallimento del governo di centro-destra, ha infatti risentito di una diffusa subalternità rispetto alle posizioni franco-tedesche.
Giuliano Ferrara se ne è accorto recentemente e, anche per giustificare le responsabilità nel governo della crisi da parte di Berlusconi, ha proposto dalle colonne de “Il foglio” che PD e PdL chiedano perentoriamente un confronto europeo per la trasformazione della BCE in un prestatore di ultima istanza
Al di là di queste manovre di corto respiro,è dall’area degli economisti più avvertiti,italiani e stranieri,che da tempo viene una sollecitazione drammatica a cambiare la politica della BCE e le scelte di austerity imposte nei vertici europei dalle forze conservatrici. E’ di questi giorni l’appello su Repubblica di autorevoli economisti esteri quali Krugman ,Stiglitz, De Grawe ,Roubini e Munchau perché la BCE assuma la funzione di prestatore di ultima istanza ,come la FED americana,la Banca centrale inglese e quella giapponese,al fine di bloccare la speculazione e il panico che sta distruggendo il mercato del debiti sovrani. Ancora di oggi è il manifesto firmato da quasi 100 prestigiosi economisti italiani,da De Cecco a Artoni,da Lunghini a Cesaratto,dalla Stiriati a Pivetti,in cui si sostiene che al primo punto dell’agenda del nuovo governo debba essere il mutamento radicale del quadro economico europeo, con un fermo intervento della BCE a ridurre i tassi su tutti i debiti sovrani ai livelli della Germania e politiche più espansive.
Ora finalmente la parola tocca a voi come esponenti dei partiti della sinistra italiana e come parte del più ampio movimento della sinistra europea che ha nel PSE la sua più significativa espressione.
Noi crediamo che la ricerca di un accordo europeo per trasformare i compiti ed i poteri della BCE debba avere un ruolo centrale nell’agenda del Governo Monti al quale responsabilmente il centro-sinistra ha dato il proprio appoggio.
Di pari passo, a nostro avviso, deve procedere la ricerca di un confronto europeo tra le forze socialdemocratiche e della sinistra affinchè, anche in occasione delle prossime scadenze elettorali in Spagna, Francia e Germania, maturi una più attenta comprensione delle ragioni della crisi e vengano proposte soluzioni concertate volte alla crescita, alla piena occupazione, all’equilibrio commerciale tra i vari Paesi ed ad una maggiore equità distributiva tra i Paesi e nei Paesi.
Per il Network per il Socialismo europeo: Lanfranco Turci, Felice Besostri, Giuseppe Vetrano
Franco Astengo: Il governo Monti
Premesso che non esistono governi tecnici, ma soltanto politici, almeno in un regime democratico, considerato che debbono ricevere la fiducia dal Parlamento, i nuovi ministri appartengono comunque ad aree di riferimento, prevalentemente del centrodestra.
La compagine è connotata da una forte presenza di cattolici, di manager, di economisti. IL Manifesto scrive, credo a ragione, che è comunque meglio confrontarsi con il professor Ornaghi (destra cattolica) che con Calderoli (destra populista). Così com’è meglio non dover combattere nella retroguardia della prostituzione, della corruzione, delle barzellette: sotto quest’aspetto si tratta di una vera e propria liberazione. Ma se le competenze sono un altro pregio, tuttavia non sono né neutre, né neutrali. Nel nuovo governo, ad esempio, la laicità non è contemplata e sul piano economico questo governo è certo più vicino a Marchionne che non agli operai. Sarebbe stato preferibile il confronto elettorale su diverse opzioni ma probabilmente lo sprofondo economico dentro il quale siamo capitati non aveva che questo passaggio intermedio da attraversare (lo scrive nella sostanza anche Marco Revelli sempre sul Manifesto). Sul piano politico, comunque, non rimane che da osservare l’assoluta debolezza del PD incapace di esprimere un qualsiasi barlume di propria autonoma capacità d’iniziativa politica e le necessità urgente di riaggregazione di una sinistra non liberista, formata dall’intreccio tra quello che rimane della sinistra storica (comunisti e socialisti) e dai nuovi movimenti sociali, collocata comunque, in questo caso, all’opposizione, capace di strutturare una propria autonomia politica e raggiunta questa porsi il necessario problema delle alleanze. Buona la posizione della CGIL, giustamente prudente ma ben orientata.
Savona, 17 Novembre 2011 Franco Astengo
La compagine è connotata da una forte presenza di cattolici, di manager, di economisti. IL Manifesto scrive, credo a ragione, che è comunque meglio confrontarsi con il professor Ornaghi (destra cattolica) che con Calderoli (destra populista). Così com’è meglio non dover combattere nella retroguardia della prostituzione, della corruzione, delle barzellette: sotto quest’aspetto si tratta di una vera e propria liberazione. Ma se le competenze sono un altro pregio, tuttavia non sono né neutre, né neutrali. Nel nuovo governo, ad esempio, la laicità non è contemplata e sul piano economico questo governo è certo più vicino a Marchionne che non agli operai. Sarebbe stato preferibile il confronto elettorale su diverse opzioni ma probabilmente lo sprofondo economico dentro il quale siamo capitati non aveva che questo passaggio intermedio da attraversare (lo scrive nella sostanza anche Marco Revelli sempre sul Manifesto). Sul piano politico, comunque, non rimane che da osservare l’assoluta debolezza del PD incapace di esprimere un qualsiasi barlume di propria autonoma capacità d’iniziativa politica e le necessità urgente di riaggregazione di una sinistra non liberista, formata dall’intreccio tra quello che rimane della sinistra storica (comunisti e socialisti) e dai nuovi movimenti sociali, collocata comunque, in questo caso, all’opposizione, capace di strutturare una propria autonomia politica e raggiunta questa porsi il necessario problema delle alleanze. Buona la posizione della CGIL, giustamente prudente ma ben orientata.
Savona, 17 Novembre 2011 Franco Astengo
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