STORIA DELLA LEGISLAZIONE ELETTORALE ITALIANA
In questi giorni è ripreso il dibattito sulla modifica della legge elettorale: un tema tante volte evocato, nel corso di questi ultimi anni e mia affrontato seriamente.
L'iniziativa è partita da un gruppo di autorevoli studiosi per una proposta di referendum tesa ad eliminare dall'attuale sistema il premio di maggioranza, unificare i diversi livelli di sbarramento, ripristinare il voto di preferenza.
Verificheremo come questa iniziativa andrà avanti, nel frattempo però abbiamo pensato fosse utile ricostruire la storia della legislazione elettorale nel nostro Paese, a partire dai giorni dell'Unità, allo scopo di fornire un modesto contributo di conoscenza a quanti fossero interessati all'argomento.
Sono d'obbligo, di conseguenza le scuse per la sicuramente eccessiva lunghezza del testo e, nello stesso tempo, il più vivo ringraziamento per quanti avranno la pazienza di leggerlo per intero o, almeno, in parte.
Dal partito di notabili al partito di massa
Il 27 Gennaio 1861, si svolsero le prime elezioni del Regno d'Italia, per eleggere i deputati dell'VIII legislatura, così denominata per affermare come la costituzione del Regno fosse avvenuta, a livello formale, in continuità con la realtà statuale del Regno di Sardegna.
Lo Statuto Albertino del 1848 fu, infatti, esteso a tutto il nuovo Regno.
Il sistema politico si configurava secondo il modello della monarchia costituzionale “pura”, che vedeva al vertice il Re con i ministri che rispondevano del loro operato soltanto al monarca e che prevedeva, inoltre, la presenza di due Camere: il Senato di nomina regia ed una Camera dei Deputati elettiva.
I criteri di formazione della Camera dei Deputati erano demandati alla legge ordinaria, che presentava due ambiti di competenza: da un lato l'estensione del diritto di voto, dall'altro la definizione del meccanismo di traduzione dei voti in seggi, comunemente inteso come “sistema elettorale”.
Il decreto legislativo del 17 Dicembre 1860, avente come oggetto sia l'estensione del suffragio universale, sia la definizione del sistema di scrutinio individuava il corpo elettorale come composto nella cittadinanza maschile di età maggiore o eguale di 25 anni, ristretto in base ad una serie di regole molto precise: la prima operazione era il collegamento con l'alfabetizzazione (qui si operava un primo taglio nella possibilità di entrare in possesso della “cittadinanza politica”, se si pensa che al 1861 la popolazione in grado di leggere e scrivere era stimata attorno al 2,5% nell'intero Paese).
Il secondo fattore, usato per contenere l'ampiezza del corpo elettorale, fu quello di coniugare voto e censo (secondo il principio del “pagare le tasse, votare): le legge elettorale del 1860 prevedeva, dunque, il diritto di voto per coloro che pagavano almeno 40 lire di imposta .
Infine la legge prevedeva una serie di categorie che, per il ruolo svolto all'interno dello Stato si riteneva fossero idonee a esercitare il diritto di voto indipendentemente dal pagamento del censo( le categorie erano 21, elencate nello stesso Statuto: membri delle Accademie; Camere di Agricoltura e Commercio; professori ed insegnanti delle Regie Accademie; professori e dottori delle Regie Università; professori degli istituti di istruzione pubblica secondaria; impiegati civili e militari in servizio; membri degli ordini equestri; laureati; procuratori presso i tribunali e le corti d'appello; notai, ragionieri; liquidatori; geometri; farmacisti e veterinari).
Per quanto concerne il sistema di scrutinio, si preferì il sistema maggioritario a doppio turno, chiuso su collegi uninominali.
La definizione dei collegi (al momento dell'unificazione erano 443, saliti con l'inserimento del Veneto nel 1866 a 493 e, dopo l'acquisizione del Lazio nel 1870 a 508. Questo numero restò invariato, ad eccezione per le tre legislature del maggioritario plurinominale – 1882, 1886. 1890 – fino alla XXIV legislatura, l'ultima eletta con un sistema maggioritario a doppio turno, chiuso su collegi uninominali) non seguiva i confini amministrativi del Regno: l'accorpamento dei Comuni all'interno del collegio elettorale tagliava trasversalmente mandamenti e province, definendo i confini secondo convenienze politiche.
Più circostanziata era la normativa relativa all'elezione al primo o al secondo turno.
Per essere eletto già al primo turno, un candidato doveva ottenere la maggioranza assoluta dei voti validi in un collegio dove avessero votato almeno un terzo degli iscritti.
Nel caso in cui mancasse una delle due condizioni si passava al turno di ballottaggio, cui avevano accesso soltanto i due candidati più votati; era eletto il candidato che otteneva la maggioranza semplice.
Se, in corso di legislatura, il seggio restava vacante, si ricorreva all'elezione suppletiva, per la quale valevano le stesse regole.
Le elezioni del 1861 furono, dunque, le prime dell'Italia Unita.
Con questi comizi si inaugurò secondo i moduli del governo rappresentativo, la dicotomia tra paese reale e paese legale.
Esaminando i dati delle elezioni che caratterizzarono l'età del cosiddetto “governo dei moderati” è possibile cogliere la portata politica di alcuni fenomeni tipici del rapporto elettorale, e di evidenziarne gli elementi di distorsione strutturale del sistema.
La legge elettorale, con le doppie forche caudine del leggere e dello scrivere e del censo e con la consueta esclusione delle donne, bloccò l'accesso al voto del 98% degli italiani.
Del 2% aventi diritto al voto, si reca alle urne, in media il 50%.
Quindi, in ultima analisi solo l'1% della popolazione fu coinvolto nel processo di integrazione connaturato con l'esercizio di sovranità, che si realizzava attraverso l'esercizio del diritto di voto.
Fu questa una caratteristica che si consolidò negli anni della Destra.
La percentuale nazionale di partecipazione, che nel '61 fu del 57,1%, diminuì progressivamente fino a toccare il minimo nel '70, con una astensione elettorale del 56,6%.
Nelle elezioni per la XII legislatura (1874) il livello di partecipazione risalì fino al 55,8%, mentre la soglia del 60% fu quasi toccata nel 1876 in occasione di quelle elezioni il cui esito, dando la maggioranza alla Sinistra legittimò, alla fine, l'operazione “trasformistica” attraverso la quale, qualche mese prima, era caduto il ministero Minghetti, sostituito da Depretis.
Un dato da sottolineare, nel quadro dell'analisi riguardante la partecipazione al voto in quel periodo, riguarda il fenomeno dei collegi, privi di competizione tra diverse candidature.
Nelle prime elezioni del Regno, la presenza di un candidato unico risultò poco frequente: soltanto in 25 collegi sui 443 in cui era suddiviso il territorio nazionale .
La dislocazione geografica del fenomeno dimostrò come in realtà soltanto in due regioni (Piemonte e Toscana) la presenza di un leader indiscusso avesse una qualche ragione di fondo (pensiamo a Cavour e a Ricasoli),
La prassi del “candidato unico” assunse, poi, maggiore consistenza con il definirsi delle identità politiche locali e si radicò soprattutto al Sud: con le elezioni del '74 e del '76 si registrarono, infatti, rispettivamente 50 e 36 collegi “non contestati”.
A fianco di questi dati va però anche considerato il livello di opposizione esercitata nei confronti del “candidato sicuro”.
In quest'ottica, anche in presenza di due candidati, vi furono diversi collegi in cui la inconsistenza del candidato sconfitto rendeva assimilabili a quelli “non contestati”.
Se, infatti, aggiungiamo ai collegi a candidatura unica quelli in cui l'opposizione raccolse meno di 50 voti, risultò evidente come nell'età della Destra mediamente su un quarto dei collegi non si riscontrava una reale competizione.
Tra il '61 ed il '76, dunque, si radicarono diversi elementi che condizionarono anche il successivo dibattito politico sul ruolo della rappresentanza.
Distanza tra paese reale e paese legale, scarsa legittimazione del sistema politico, rimando sine die del problema di trasmissione di un'identità nazionale che stentava a travalicare i confini del Piemonte, progressivo radicamento di una topografia politica che tendeva ad identificare geograficamente la contrapposizione governo/opposizione assommando alla “frattura” classica Nord/Sud, quella Destra/Sinistra, progressiva identificazione dell'area di conquista politica con il Sud, su cui più intenso diventava il livello di controllo del Governo, attraverso la manipolazione delle amministrazioni e l'attività dei prefetti: questi i punti di un dibattito difficile, la cui risoluzione era a tesa soprattutto all'obiettivo della legittimazione nazionale della rappresentanza politica.
Il primo allargamento del diritto di voto
Su questi temi si aprì il confronto sulla necessità della riforma del suffragio nel senso della sua estensione, con un confronto tra Destra e Sinistra che si sviluppò con grande intensità nel passaggio tra la XII e la XII legislatura (1874-1876).
Compimento del ventunesimo anno d'età e capacità di leggere e scrivere rappresentarono i due punti sui quali la Sinistra puntò per allargare la possibilità d'accesso al voto politico.
Quest'idea, già espressa in un progetto di riforma presentato alla Camera da Cairoli nel '72 e nel '73, fu rilanciata da Depretis nel suo famoso discorso agli elettori di Stradella l'11 Ottobre 1875, cosicché nel '76 ottenuto il mandato ministeriale, con consenso del Re, prese avvio lo studio della riforma.
La riforma fu varata con l'approvazione della legge elettorale del 7 maggio 1882, n.725, che intervenne sia sull'estensione del suffragio sia sul sistema di scrutinio.
Per quanto concerne il suffragio, la normativa fu approvata dopo un lungo iter parlamentare, cominciato nel 1876 con il passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra storica.
Fu abbassato il limite d'età da 25 a 21 anni e dimezzato (19,80 lire di imposta) il criterio del “censo”.
Inoltre il diritto di voto fu esteso anche a coloro che avevano superato il biennio elementare obbligatorio, introdotto dalle legge Coppino nel 1876 ( il superamento del biennio elementare poteva essere sostituito dall'aver frequentato, durante il servizio militare, la scuola reggimentale).
La ratio che sottendeva questa riforma era frutto del compromesso raggiunto all'interno dell'aula parlamentare tra i progressisti ed i moderati, al fine di produrre un allargamento del corpo elettorale equilibrato tra aree urbane (al riguardo delle quali rispondeva il criterio della frequentazione scolastica) e aree rurali (per le quali valeva il criterio della diminuzione della cifra d'imposta).
Per quanto concerne invece il sistema di scrutinio, si rimase fermi al sistema maggioritario a doppio turno, ma fu sensibilmente allargata la dimensione del collegio, che passò da uninominale a plurinominale, semplificando in modo radicale l'elezione al primo turno ( la normativa prevedeva che al primo turno fossero eletti i candidati, nel numero previsto all'assegnazione dei seggi al collegio, che avessero ottenuto il maggior numero dei voti, anche a maggioranza relativa, purché il consenso ottenuto fosse superiore all'ottava parte degli elettori iscritti). Se non veniva eletto al primo turno un numero di candidati pari ai seggi assegnati al collegio, passava al ballottaggio un numero di candidati pari al doppio dei seggi rimasti scoperti. Va ricordato come la dimensione dei collegi plurinominali non fosse omogenea: si avevano così 3 collegi e 2 seggi; 61 collegi a 3 seggi; 36 collegi a 4 seggi; 35 collegi e 5 seggi. Fu introdotto anche il cosiddetto “voto limitato”, per cui nei collegi a 5 seggi l'elettore poteva votare soltanto per 4 candidati, come tutela per la rappresentanza delle minoranze).
L'effetto fu quello di una drastica riduzione dei ballottaggi, che avevano toccato la punta massima nel 1870 con 342 ed erano ancora 149 nel 1880: i ballottaggi scesero a soli 4 nel 1882 (per poi salire, al ritorno del collegio uninominale, da un minino di 39 nel 1900 ad un massimo di 77 nel 1904).
I temi che si erano intrecciati nel dibattito avevano toccato i temi dell'essenza del diritto elettorale, l'opportunità della riforma, la messa in discussione di tutto l'impianto istituzionale del Regno.
Pareva impossibile, infatti, affrontare il tanto deprecato carattere di “localismo” della rappresentanza nazionale se non fosse stata ripensata l'organizzazione dello stato in chiave decentrata: un punto di dibattito che intrecciandosi con i temi “classici” del periodo, il significato intrinseco del collegio elettorale , il più delle volte concepito come mero serbatoio di voti e la realtà di una Camera in cui permaneva una frammentazione in piccoli gruppi, che portava ad una intrinseca instabilità del sistema.
La speranza era quella che si andasse affermando una composizione “politica” della Camera, realizzando un legame naturale tra corpo elettorale e rappresentanza nazionale, conducendo così alla “definizione” dei partiti.
Il cambio di sistema di scrutinio era stato , dunque,proposto dalla Sinistra Storica nell'intento di costruire una rappresentanza effettivamente “nazionale”, non legata semplicemente alla realtà del collegio di elezione: un obiettivo fallito perché altre infatti erano le cause che costringevano il deputato ad una dimensione ristretta di relazione politica, sia di dipendenza dai “grandi elettori”, sia di dipendenza dal governo.
Il 29 Ottobre 1882 si svolsero le elezioni, con il sistema previsto dalla nuova legge: la partecipazione elettorale si mantenne in linea con l'andamento crescente, già segnalato a partire dalle elezioni del 1874.
Il dato fondamentale di novità fu costituito dalla presentazione di candidati suddivisi in liste all'interno dei collegi: le “Associazioni Costituzionali” presentarono loro raggruppamenti, la Sinistra entrò nella competizione con le liste dei “Progressisti”, l'Estrema cercò di differenziarsi dalla Sinistra, comparvero liste concordate (le cosiddette “liste miste”, anche definite delle “Unioni Monarchico – Liberali”).
Ci fu anche chi, senza troppo pensarci su definì la propria lista con il reale nome che avrebbe dovuto avere “lista trasformista” (un appellativo che, all'epoca, non aveva ancora il compiuto senso negativo come poi sarebbe accaduto in futuro): questo fatto accade nel collegio di Napoli III.
La lettura dei risultati risultò molto complicata.
Un dato significativo fu rappresentato dalla riuscita delle liste: ovverosia la verifica di quanto avesse funzionato il voto dato alla lista, anziché sparso tra i diversi candidati (era possibile infatti votare per i candidati inclusi in diverse liste, e candidarsi pure in liste diverse).
A questo modo si rilevò come, nel 68% dei casi gli elettori si erano espressi al di là delle liste presentate, scegliendo invece tra i diversi candidati, mentre solo nel restante 32% dei casi funzionò il ruolo dei comitati elettorali.
Il legame “ad personam” apparve, evidentemente, ancora più forte del concetto di appartenenza “partitica” (anche perché i partiti non risultavano ancora strutturati in una certa dimensione) e il clima trasformista che aveva contraddistinto la competizione elettorale non aveva certo contribuito a far sì che i partiti si definissero compiutamente all'interno del paese reale: certamente il sistema a liste contrapposte era stato recepito meglio dall'elettorato connotato politicamente a sinistra, anche se sui risultati aveva gravato il peso del condizionamento esercitato dal Governo, attraverso i Prefetti, nella gestione della macchina elettorale.
Le elezioni del 1882 segnarono, inoltre, il più alto tasso di rinnovamento nella composizione della Camera (il 44%) dalle elezioni del 1861.
Le successive elezioni del 1886 e del 1890 non mutarono il quadro circa la prospettiva di costruzione di una dimensione “nazionale” del Parlamento e di affermazione dei partiti nella società: così si riaprì il dibattito e, con la legge del 5 Maggio 1891, si ritornò al collegio uninominale, cogliendo l'occasione per ridisegnare in modo sostanziale anche la stessa geografia dei collegi.
Fu modificata anche la regola riguardante i ballottaggi: per essere eletti al primo turno era necessario, al candidato ottenere la maggioranza assoluta a condizione che avessero partecipato al voto almeno un sesto degli iscritti.
Il suffragio universale maschile
Alla legge elettorale si rimise mano nel 1912, quando il Ministero Giolitti promosse l'introduzione del suffragio “quasi” universale maschile.
La decisione di procedere alla concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi (le donne erano escluse: il motivo principale di questa scelta era rappresentato dal timore che, in larga parte, potessero essere strumentalizzate dalla propaganda clericale) giunse, ancor prima che si potesse avviare a realizzazione quella diffusione dell'istruzione primaria, prevista dal ministro Luzzati, allo scopo di sconfiggere definitivamente l'analfabetismo.
Giolitti forse comprendeva il pericolo di questa soluzione ma vedeva chiaramente come non fosse più possibile sottrarsi alla scelta dell'allargamento democratico, implicita nella universalizzazione del suffragio, senza essere scavalcato da una sinistra molto combattiva.
Da fine politico qual era intuiva le difficoltà che sarebbero sorte per lo stato liberale, dall'immissione totale delle masse nella vita pubblica, in un momento in cui né il benessere, né l'istruzione erano tanto diffusi da garantire la piena riuscita dell'operazione,agli effetti della conservazione dell'assetto istituzionale consolidato.
Tuttavia si rendeva conto dell'assoluta necessità per la classe dirigente liberale di guidare la grande trasformazione in atto in quel momento storico, a pena di veder finire quell'egemonia borghese sulla società italiana di cui il liberalismo giolittiano era, al tempo stesso, l'ultima espressione ed il più moderno garante.
Probabilmente egli era fiducioso che quei metodi di governo che aveva utilizzato con una inedita spregiudicatezza, si sarebbero rivelati ancora utili a contenere le spinte eversive per il sistema,provocate dall'incrementata pressione delle masse da quel momento non più escluse dal voto, e soprattutto a rendere i loro rappresentanti in Parlamento, con una sagace operazione trasformistica, meno ostili alle istituzioni dello stato liberale.
Nel corso del lungo dibattito che precedette l'approvazione della legge, fu anche formulata la proposta di abbandonare il sistema elettorale fondato sul collegio uninominale con ballottaggio, sostituendolo con l'adozione del sistema proporzionale di attribuzione dei seggi di deputato, sulla base delle percentuali di voti riportate da ogni partito o schieramento politico.
Sonnino, in particolare, sosteneva l'opportunità di una simile riforma ritenendo che la proporzionale con scrutinio di lista avrebbe contribuito, in modo decisivo, alla nascita di veri partiti moderni,dal contenuto dichiaratamente ideologico.
Giolitti, naturalmente, respinse tale proposta affermando la difficoltà formale e l'inopportunità di varare per via legislativa due riforme di tale importanza, con un unico provvedimento.
In realtà egli era profondamente ostile a ogni modifica radicale del sistema elettorale,sul quale si fondava l'effettivo potere delle forze liberali in Italia e che rappresentava, per lui, uno strumento essenziale al mantenimento dell'egemonia politica e parlamentare.
La mancata riforma del Senato rimasto docile strumento del potere, il controllo governativo dell'apparato statale mediante la persistenza di uno stretto legame tra burocrazia e classe politica, la manipolazione elettorale facilitata dal collegio uninominale e il dominio tradizionalmente esercitato sulla maggioranza dei deputati, gli apparivano ancora mezzi sufficienti a fronteggiare la situazione parlamentare che sarebbe scaturita dall'allargamento del suffragio.
Ma questo calcolo apparve destinato a rivelarsi preso errato, perché il mondo politico al quale erano connaturati i metodi giolittiani di governo, si stava avviando al tramonto.
La normativa prevedeva che, al compimento del trentesimo anno di età, tutti i cittadini maschi ottenessero, indipendentemente dall'istruzione e dal censo,il diritto di voto.
Tra i 21 ed i 30 anni vigeva la normativa precedente (studio o censo), oppure l'aver prestato il servizio di leva nell'esercito.
Per rendere possibile l'esercizio di voto agli analfabeti, dato che il voto era espresso fino ad allora scrivendo il nome del candidato su una scheda fornita all'elettore presso il seggio, si introdusse la scheda prestampata che l'elettore portava direttamente da casa, avendola ottenuta dal comitato elettorale del proprio candidato.
La scheda doveva corrispondere ad un modello standard, con la facoltà per il candidato di inserirvi, oltre nome e cognome, anche un contrassegno stampato o anche figurato (molti ricorsero alla propria fotografia stampata in centro: potenza della personalizzazione della politica!).
Per garantire la segretezza e la sicurezza del voto fu istituita una busta ufficiale ( la cosiddetta busta “Bertolini”,dal nome del deputato proponente),che veniva consegnata all'elettore all'interno della sezione elettorale.
Ogni elettore deponeva la scheda nella busta e, quindi, sigillatala, la consegnava al Presidente di seggio perché la deponesse nell'urna.
Fu modificato anche il criterio di traduzione dei voti in seggi, modificando la norma per l'elezione al primo turno: risultava immediatamente eletto il candidato che avesse ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, in presenza di una partecipazione al voto di un decimo degli aventi diritto.
Il 29 Settembre 1913 Vittorio Emanuele III firmò il decreto di scioglimento della Camera dei Deputati.
I comizi elettorali furono convocati per il 27 Ottobre e, nel caso dei ballottaggi la seconda convocazione fu fissata per il 2 Novembre.
Quando la XXIII legislatura si concluse ufficialmente il Paese si trovava già in piena campagna elettorale.
Le incognite che si trovavano di fronte alla classe politica, erano prevalentemente di due tipi: in parte esse corrispondevano a fattori di carattere strutturale, in parte di carattere congiunturale.
L'inserimento di poco più di cinque milioni di elettori (le statistiche ufficiali indicano la cifra esatta di 5.353.042 unità) nel corpo elettorale rappresentò, naturalmente, un interrogativo a cui i protagonisti della politica (partiti, comitati elettorali, deputati uscenti) guardarono con un certo timore.
Questo dato, già di per sé indicativo di un mutamento di quadro di grande rilievo, andava collocato all'interno di un contesto storico nel quale il confronto politico, in particolare attorno alla guerra di Libia, aveva riacceso gli animi verso una ondata di nazionalismo, che aveva finito con il coinvolgere la gran parte della classe parlamentare.
Tornando ai fattori di mutamento in atto, in quella fase, appariva innegabile – dal punto di vista strutturale – come la concessione, o meglio, il riconoscimento, del diritto elettorale ad un popolo maturo, ma ancora in gran parte analfabeta, imponeva non poche considerazioni circa la ricaduta politica di un allargamento cui risultava, sostanzialmente, interessata la popolazione rurale.
La media dell'analfabetismo tra i maschi maggiorenni, calcolata tra tutte le Province di cui la punta massima era rappresentata da Caltanissetta con il 63,8% e la minima da Torino con il 6,9%, era del 34,7%.
Va, comunque, ricordato come il rapporto tra l'aumento degli elettori iscritti secondo la nuova normativa e quello naturale che si sarebbe normalmente registrato, indicò come i nuovi elettori non appartenessero esclusivamente al mondo degli analfabeti.
Un esempio può essere chiarificatore: la città di Palermo, che si trovava al 6? posto per aumento percentuale del numero degli elettori, si situava, invece, al 30? posto per quella degli analfabeti.
La situazione risultò ancora più complicata dal fatto che l'unica forza politica che disponesse di una organizzazione ramificata a livello nazionale era l'Estrema, pur con qualche differenziazione al suo interno tra socialisti, radicali e repubblicani: i primi presenti in modo consistente soprattutto al Centro- Nord, i secondi al centro-sud, gli altri invece radicati solo in Romagna e nelle Marche.
Il grande assente, nel panorama delle strutture dei partiti, era, invece, quello liberale che, sottoposto al logoramento di una prassi trasformistica che lo aveva eletto a partito di governo per eccellenza, aveva visto, per converso, bloccarsi qualsiasi possibilità di sviluppo sul terreno dell'organizzazione politica, all'interno della società.
La struttura di un “possibile” partito liberale si era formata, nel corso di lunghi anni, attraverso i comitati elettorali dei grandi notabili: una sorta di strutture fantasma, paragonabili per certi aspetti alle organizzazioni locali dei piccoli partiti della tanto discussa democrazia americana.
Alla già difficile ed imprevedibile evoluzione politica si aggiunse la mina vagante rappresentata da clericali e cattolici, la cui potenziale partecipazione elettorale, in una competizione a suffragio quasi universale, destava non poche preoccupazioni in tutte le parti politiche.
Sottobanco la rete dei rapporti tra cattolici e liberali, si stava già tessendo a pieno ritmo.
Non era la prima volta che i cattolici si apprestavano a sostenere i liberali, ma ciò che era cambiato riguardava l'approccio stesso a quel tipo di operazione, non più lasciata alla discrezione dei Vescovi.
Dal 1910, quando a capo dell'Unione Elettorale cattolica era stato chiamato il conte Gentiloni, si era cercato di centralizzare l'organizzazione delle masse cattoliche, espropriando le singole diocesi di quella sostanziale autonomia goduta fino al 1909, nella consapevolezza che la politica del caso per caso attuata fino ad allora stava acquistando, a fronte del suffragio allargato, una dimensione nazionale.
All'incertezza di una competizione in cui erano radicalmente mutati i termini di riferimento si aggiunse, dunque, l'incognita del significato dell'alleanza tra liberali e cattolici: legittimazione di una parte politica, fino ad allora tenuta ai margini del sistema o condizionamento, con conseguente ricaduta sul programma politico del governo?
All'avvicinarsi della scadenza elettorale crebbe, in progressione geometrica, il clima di tensione e di incertezza nel Paese.
Il 26 Ottobre, data delle elezioni, la partecipazione al voto risultò in lieve calo, assestandosi sul 59%.
La composizione politica della nuova Camera, espressa da un elettorato quasi triplicato, non riservò apparentemente sorprese:i liberali conseguirono 270 seggi; i costituzionali democratici 29; i democratici 11; conservatori cattolici 9; cattolici 20; radicali 62; radicali dissidenti 11; repubblicani 8; repubblicani dissidenti 9; socialisti ufficiali 52; socialisti riformisti 19; socialisti indipendenti 8.
Il “numero”, nuovo tiranno, non aveva, dunque, rivoluzionato le appartenenze politiche.
In realtà la bomba scoppiò il 7 Novembre successivo, allorquando il Conte Gentiloni, in una intervista rilasciata al “Giornale d'Italia”, dichiarò che in 228 collegi i candidati liberali erano stato eletti in forza del sostegno dei voti cattolici.
Il monito che giunse ai liberali da quell'intervista sembrava dire: avete vinto dove noi vi abbiamo sostenuto, abbiamo vinto contro di voi quando ci avete combattuto, avete perso dove vi abbiamo abbandonato.
In sostanza non c'era futuro politico, in Italia, senza l'appoggio dell'elettorato cattolico.
Proporzionale e partiti di massa
Il suffragio universale maschile, senza condizioni, fu varato dal Ministero Orlando con la legge del 16 Dicembre 1918, che stabiliva l'acquisizione dell'elettorato attivo per tutti i cittadini maschi che, nel pieno godimento dei diritti civili e politici, avessero compiuto i 21 anni di età.
Erano, poi, transitoriamente ammessi all'esercizio del diritto, in accordo con altre nazioni europee, tutti coloro che, pur non avendo ancora compiuto i 21 anni di età, avessero prestato servizio militare in reparti mobilitati in zone di guerra.
A distanza di pochi mesi dal varo del suffragio universale maschile, fu per la prima volta radicalmente modificato anche il sistema elettorale, con l'abbandono del maggioritario e il passaggio al proporzionale sancito dalla legge del 15 Agosto 1919.
Si chiudeva così un ciclo storico della rappresentanza politica e ci si avviava ad aprirne uno nuovo, segnato dal cambio degli attori politici: dal notabile,che era stato l'indiscusso protagonista della stagione dell'Italia liberale, si passava agli esponenti delle organizzazioni dei partiti, che ricoprivano un ruolo di “mediatori” della politica, con una funzione di “ponte” tra paese reale e paese legale, la cui distanza era stata tante volte segnalata nel corso dell'Ottocento.
Fin dal 1909 Santi Romano, nella prolusione pronunciata all'apertura dell'anno accademico dell'Università di Modena, aveva denunciato le carenze del sistema rappresentativo italiano e la sua incapacità di rappresentare quella molteplicità di forze, che stavano emergendo all'interno di una società sempre più politicizzata.
Con l'introduzione del sistema proporzionale cambiarono anche le modalità di espressione di voto.
Al termine del conflitto mondiale la classe politica liberale avvertì l'urgenza del cambiamento, senza però assumere piena coscienza della strutturalità della crisi di sistema.
I partiti collocati all'estrema del sistema politico – istituzionale, sostenuti dalle varie formazioni politiche formate dai combattenti di ritorno dal fronte, rilanciarono la tematica della Costituente: a questo modo si segnava la fine di un ciclo storico, quello dell'identificazione dei liberali con lo Stato che aveva caratterizzato i primi cinquant'anni (e oltre) dall'Unità d'Italia.
Si cercò di risolvere l'interrogativo rottura/continuità, reso ancora più difficile da affrontare con l'emergere di una profonda crisi economico – sociale, attraverso un continuismo di facciata, per garantire la trasformazione nella legalità.
A sostenere la necessità di gestire la crisi dello Stato attraverso una costituzionalizzazione delle forze politiche fu Filippo Turati, affermando come la proporzionale fosse il sistema in grado di “polarizzare le forze del malcontento e della ribellione, inalveandole nelle correnti dell'ordine e della conquista pacifica e legale”.
Alla capacità di evoluzione del sistema, nella logica di Trati, andava dunque ricondotta la possibilità di assorbire le spinte centrifughe che, in una situazione di alta conflittualità rischiavano di rompere non solo gli equilibri politici, ma anche quelli istituzionali che erano alla base del patto fondativo dello Stato.
In realtà la proposta di Turati andava a porsi, in sostanza, quale punto di mediazione, affinché lo Stato fosse tenuto al riparo dalla potenziale eversione in cui poteva sfociare l'alto livello di conflittualità presente sia a livello politico, tra partiti e gruppi ancora divisi dalla discriminate dell'intervento, sia a livello sociale all'interno della crisi economica indotta dalle esigenze di riconversione dell'industria bellica e di ricostruzione del Paese, dopo gli sforzi della guerra e la conseguente crescita esponenziale del debito pubblico.
In questo clima politico andava a calarsi la proposta di riforma elettorale, ed era lecito porsi una domanda: l'adozione del sistema proporzionale sarebbe risultato un atto politico efficace per ricucire la spaccatura tra legalità istituzionale e autonomia politica della società?
La discussione sul sistema elettorale si aprì nell'estate del 1919, facilitata dal fatto che era già operante all'interno della Camera una commissione nominata per dibattere una riforma presentata da Giovanni Camera, fin dal 20 Aprile 1918.
Emerse fin da subito, nel corso del dibattito, una cospicua convergenza sulla riforma, tra socialisti, cattolici, radicali e liberali: le voci di dissenso apparvero poche ed isolate.
Esistevano, però, forti diversità tra i sostenitori del progetto di passaggio al proporzionale: i liberali coglievano la positività di un meccanismo che non schiacciasse le minoranze, al momento di tradurre i voti in seggi; i radicali puntavano sulla giustizia redistributiva nella ripartizione dei seggi e sul superamento della logica notabilare nelle candidature; per cattolici e socialisti si trattava di realizzare un filtro che permettesse ai partiti, intesi quali soggetti centrali del processo di istituzionalizzazione della capacità politica della società, di entrare nel circuito della gestione dello Stato ed influire direttamente sulla formazione del Governo.
L'ampiezza di questo spettro interpretativo, pur ponendo in discussione la sopravvivenza della classe di governo, garantiva comunque una continuità nell'impatto istituzionale dello Stato.
Il terreno di contrattazione era rappresentato dal disegno di legge redatto dalla Commissione Parlamentare, insediata già da marzo(a maggioranza proporzionalista) che concluse i suoi lavori redigendo due progetti.
Il primo di tipo classicamente proporzionale; l'altro, che pur legato alle dinamiche proprie dello scrutinio di lista, poneva accanto ad una rappresentanza di carattere politico, un livello di rappresentanza di carattere politico, un livello di rappresentanza di carattere politico, un livello di rappresentanza selezionato attraverso gli interessi: un elemento, quest'ultimo, oggetto di un forte dibattito proprio in quel periodo.
L'impianto del progetto varato dalla maggioranza della Commissione, favorevole all'impianto proporzionale, puntava a ridefinire il livello della rappresentanza, sia in relazione alla provenienza geografica (non più rapportata ai ristretti confini del collegio uninominale) sia al riguardo della formazione politica della rappresentanza stessa, seguendo l'indicazione di fondo del superamento del controllo privilegiato dello Stato da parte dei notabili, riconoscendo invece il partito quale istituzione intermedia tra lo Stato e la società.
Prima ancora di portare questo progetto in aula, si aprì una discussione coinvolgendo anche il Governo, e furono inserite due modifiche di rilievo:ridimensionamento dell'allargamento dei collegi(ridisegnati secondo una logica di pura contrattazione politica), creando circoscrizioni all'interno delle quali eleggere soltanto 5 deputati; mutamento del sistema di traduzione dei voti in seggi, adottando il sistema d'Hondt, che considera perso qualsiasi residuo e che premia il partito di maggioranza relativa.
La prima fase del dibattito vide l'assemblea interrogarsi sul significato e sull'opportunità della riforma, esplorando gli interrogativi più pesanti: da un lato l'abbandono di un criterio di rappresentanza che aveva, sino ad allora, privilegiato i caratteri di individualità della rappresentato e del rappresentante, al di là della formalizzazione statutaria del riferimento alla nazione, dall'altro la fine del collegio uninominale, in genere riconoscibile nei confini del comune, pareva mettere in pericolo quella rete di rapporti che, in un sistema politico accentrato, garantivano i collegamenti con la periferia,e, di conseguenza la rappresentanza territoriale.
Soltanto socialisti e cattolici, in quel momento, ritenevano il sistema proporzionale in grado di affrontare e superare le difficoltà che incontrava l'affermazione di un nuovo sistema politico; tutte le altre forze politiche convenivano a favore di un mutamento, a condizione che il sistema contenesse elementi tali da fare da collegamento tra il vecchio ed il nuovo.
Il 31 Luglio 1919, la Camera dei Deputati votò per la prima volta a favore del sistema proporzionale, con 277 voti contro 38.
La formulazione tecnica della legge rappresentò, allora, il terreno sul quale si giocavano i passaggi successivi, sino alla formulazione finale del nuovo sistema elettorale.
Il primo ostacolo da affrontare fu rappresentato dalla definizione dei collegi: il testo del Governo aveva ridotto a 5 il numero massimo di deputati da eleggere in un collegio, e si verificò su questo punto una spaccatura tra socialisti e cattolici da una parte (favorevoli a portare al numero massimo di 10 i deputati eleggibili in un collegio) ed i liberali dall'altra (difensori della proposta del Governo).
Il problema dell'ampiezza dei collegi era strettamente collegato agli effetti che la formula di traduzione di voti in seggi, avrebbe potuto produrre.
Adottando il sistema d'Hondt i governativi avevano cercato di collegare la limitata ampiezza dei collegi con l'effetto sovrarappresentativo per il partito di maggioranza relativa, mentre l'ampliamento del collegio avrebbe avuto l'effetto di far rispettare maggiormente il criterio di proporzionalità.
La votazione sulla determinazione dell'ampiezza e dei confini geografici dei collegi rappresentò un segnale forte del potere che, il sia pur variegato, schieramento liberale continuava a mantenere all'interno dell'Assemblea: passò, infatti, la proposta di mantenere i collegi a 5 deputati, sia pure soltanto per quella che sarebbe stata la successiva tornata elettorale, per poi salire a 10 in quelle seguenti.
Fu così garantita, in una qualche misura, la continuità nel cambiamento.
Restavano così da definire poche altre questioni, tra le quali quella della scheda.
Fu deciso di abbandonare l'idea della “scheda di Stato” e di ritornare al metodo seguito con le elezioni del 1913, quello della cosiddetta “busta Bertolini”.
Il quadro istituzionale dello Stato era, però, ormai profondamente modificato.
Al particolare rapporto tra esecutivo e legislativo, che aveva caratterizzato l'era prebellica, era subentrata quella diversa relazione tra Governo e Monarchia che, nella sottovalutazione del Parlamento, aveva consentito il reinserimento della stessa Monarchia nel gioco politico, facendola apparire più che mai, per la stabilità ed il prestigio ottenuti con l'intervento e la guida del conflitto mondiale, come il fulcro dell'intero sistema.
Così, di fronte all'inefficienza e all'instabilità dei Ministeri, incapaci persino di guidare efficacemente l'apparato burocratico-amministrativo dello Stato, le possibilità di un sistema parlamentare apparivano, a quel punto, del tutto problematiche.
Si tentò, comunque, il rilancio del sistema e, nella speranza di consolidare le basi popolari e favorire quell'incontro tra proletariato riformista e borghesia progressista che appariva indispensabile per la difesa delle istituzioni democratiche, si acconsentì all'introduzione della legge elettorale proporzionale richiesta da quanti auspicavano l'avvio di nuovi sistemi politici.
La prima Camera fu eletta con il sistema proporzionale restò in carica poco più di un anno.
Lo scioglimento anticipato, determinato dalla sostanziale incapacità di formare maggioranze , dato il risultato favorevole ai nuovi grandi partiti di massa, Socialisti e Popolari non disponibili a sostenere i governi liberali, fu formalmente presentato con la necessità di rappresentare in Parlamento anche le nuove regioni annesse al termine del primo conflitto mondiale.
Fu rivista anche la composizione geopolitica dei collegi, ovviamente ampliati rispetto al periodo del maggioritario: 6 collegi avevano 10 deputati, 2 con 11, 5 con 12, 3 con 13, 2 con 14, 3 con 15, 1 con 16, 3 con 17, 3 con 18, 2 con 19, 1 con 20, 1 con 23, 1 con 24, 1 con 28.Inoltre un deputato era assegnato a Zara, 4 a Trieste e Bolzano, 5 a Gorizia, 6 all'Istria e 7 a Trento.
Il Fascismo
Il governo Mussolini, appena entrato in carica dopo la Marcia su Roma, mise mano alla legge elettorale, che fu modificata con la legge del 18 Novembre 1923, secondo le linee proposte da Giacomo Acerbo, introducendo una correzione maggioritaria al sistema proporzionale.
Si stabiliva, infatti, che al partito di maggioranza che, a livello nazionale avesse ottenuto almeno il 25% dei voti, sarebbero stati assegnati i 2/3 dei seggi della Camera dei Deputati.
La normativa, introducendo, il principio dell'elezione nazionale al contrario di quanto previsto dalla legge elettorale del 1918 secondo la quale il metodo d'Hondt si applicava all'interno delle singole circoscrizioni,realizzando così una sorta di “conguaglio” tra i collegi nei quali il Partito Nazionale Fascista presentava punti di forza e quelli dove presentava punti di debolezza.
Al tempo stesso questo meccanismo determinava, per i partiti di minoranza (che complessivamente potevano raggiungere il 75% dei consensi) una sostanziale sottorappresentazione, poiché avrebbero dovuto dividersi il restante terzo dei seggi secondo la logica proporzionale, penalizzando ovviamente in modo più pesante proprio quelle province in cui rimaneva indiscusso il primato delle forze di opposizione.
Ma come si era arrivati a quella soluzione?
Subito dopo le elezioni del 1919 si ritornò a parlare di modica della legge elettorale, anche se le prime proposte di variazione riguardarono soltanto elementi di natura tecnica.
Il primo intervento di rilievo fu, invece, formulato dai socialisti, attraverso un articolo di Giacomo Matteotti, apparso sulla “Critica Sociale” nel 1920, nel quale riteneva la “proporzionale integrale” inadatta per determinare i livelli di rappresentanza negli Enti Locali.
La motivazione addotta andava contro la logica con cui i riformisti si erano battuti per l'introduzione del sistema proporzionale per le elezioni politiche.
Matteotti, infatti, sollevò il problema per quei casi in cui nel Comune o nella Provincia, vi fossero più partiti dalla forza equivalente e non in grado di formare una alleanza di governo: appariva così necessario introdurre un meccanismo di sovrappresentazione della maggioranza relativa.
Il risultato poteva essere ottenuto, sempre secondo Matteotti, attraverso l'attribuzione alla maggioranza dei 2/3 dei seggi, al di fuori da qualsiasi tipo di calcolo di tipo proporzionale.
I socialisti apparvero così muoversi sul delicato terreno del sistema elettorale, secondo una pericolosa logica di “compartimenti stagni”.
Ancora una volta i termini del rapporto sistema politico – sistema rappresentativo, che sembrava fossero stati lucidamente delineati nel corso del dibattito parlamentare del '19, tornarono a confondersi con la presunzione (del resto perpetuatasi nel tempo) che i partiti potessero nascere forti, in presenza dell'applicazione di un sistema elettorale piuttosto che di un altro.
Invece, pensare che un partito diventasse forte per l'innaturale lievitazione prodotta da un sistema elettorale e che questa lievitazione rafforzasse il sistema politico significava, invece, avallare l'insediamento di sistemi che non potevano altro che avviarsi sulla strada dell'autoritarismo.
In questo quadro, il fascismo, arrivato in modo più o meno legale, al potere pose all'ordine del giorno la riforma della legge elettorale.
Dopo neppure un mese dall'assunzione al Governo, nel corso della seduta del Consiglio dei Ministri dell'11 Novembre 1922, Mussolini presentò un ordine del giorno sulla riforma elettorale, in cui si affermava, da un lato, l'impossibilità di un ritorno all'uninominale, dall'altro la necessità di rivedere il sistema rigidamente proporzionale in vigore, affinché fosse garantita, assieme alla rappresentanza di tutti i partiti, anche la “formazione di un governo di maggioranza parlamentare”.
Il 29 Novembre, nel corso di un incontro tra Mussolini, il Presidente della Camera De Nicola ed il presidente della Commissione Interni Casertano, si delineò un nuovo sistema elettorale i cui fondamentali elementi erano costituiti da un premio di maggioranza dei 2/3,da assegnarsi alla lista che avesse raggiunto il maggior numero dei voti e il resto 1/3 dei seggi, divisi proporzionalmente fra tutte le liste in competizione; ed una suddivisione di carattere prevalentemente “regionale” delle circoscrizioni.
Su queste basi si aprì un intenso dibattito tra le forze politiche, all'interno del quale però la vera questione da affrontare risedeva nell'individuare la finalità perseguita dal progetto di riforma elettorale.
Il rafforzamento dell'esecutivo, a scapito della frammentazione parlamentare, costituì indubbiamente la cartina di tornasole per verificare la realizzazione di un coagulo tra il fascismo e l'antipartitismo liberale, vecchia maniera.
Dietro a questo disegno si poteva già intravvedere lo statalismo che poi avrebbe caratterizzato il fascismo: si intrecciavano, a questo punto, diversi problemi che andavano dall'unificazione dei fascismi, all'emarginazione delle altre forze politiche, nessuna esclusa.
Il Gran Consiglio del Fascismo, all'inizio dell'Aprile 1923, fu in grado di approvare un ordine del giorno, redatto da una apposita Commissione, attraverso il quale si motivava la necessità di passare ad un sistema dicotomico che applicava il maggioritario plurinominale secco per il partito di maggioranza relativa ed il proporzionale per i partiti minori, perseguendo così il fine esplicito di veder totalmente eletta tutta la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti.
La redazione del progetto definitivo fu affidata da Mussolini a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che lo presentò all'inizio del Giugno 1923.
Adempiuta la formalità dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il 9 Giugno 1923, fu presentato alla Camera il progetto di riforma elettorale.
Furono due i punti attorno ai quali si sollevò più intensamente la discussione, in quanto segnavano una rottura netta con il principio rappresentativo che aveva retto l'Italia liberale:
1) Il passaggio al maggioritario “secco” per definire la lista di maggioranza, legalizzando così il dominio di una minoranza potenzialmente isolata, senza ricorso a coalizioni con forze politiche vicine;
2) Il diverso criterio di formazione della cifra elettorale e conseguentemente di selezione della rappresentanza tra maggioranza e minoranza..
Per il computo dei voti del partito di maggioranza si sarebbe fatto ricorso, infatti, al “Collegio Unico Nazionale”.
Per i partiti di minoranza si sarebbero mantenuti, invece, i collegi territoriali,ad impianto regionale o interprovinciale.
La scelta anomala del Collegio Unico Nazionale, se aveva una giustificazione interna al Fascismo, nel volere cioè legittimare il condizionamento del Fascismo centrale sui fascismi locali nella scelta della rappresentanza, funzionò anche come calmiere nella definizione del quorum.
Tuttavia l'istituzione del Collegio Unico Nazionale non aveva precedenti e questo fatto portò al profilarsi di notevoli perplessità: ma il Fascismo non poteva transigere, la centralizzazione del Partito e la sua identificazione con lo Stato rappresentavano un passaggio obbligato per accelerare il cambiamento.
Per contro le minoranze sarebbero arrivate a Montecitorio polverizzate e rese incapaci da questa frammentazione di contrastare il partito dominante, attraverso una seria e costruttiva opposizione.
Appariva, insomma, più che evidente che ciò che era stato posto in discussione, attraverso la legge elettorale, risultava essere in definitiva l'indiretta formalizzazione della concessione dei pieni poteri sine die al fascismo.
In una Camera che sembrava presa d'assedio, il 10 Luglio 1923, previo assenso del Presidente del Consiglio, prese avvio la discussione generale.
Il dibattito si misurò sul punto di fondo della legge: si trattava di motivare la necessità di passare da una Monarchia Costituzionale parlamentare che aveva avuto al centro, fino a quel momento, la Camera elettiva quale organo di direzione politica del sistema, ad una forma rivisitata di Monarchia Costituzionale “pura” in cui il partito di governo sarebbe uscito non solo definito dal risultato elettorale, ma precostituendo già i parametri di maggioranza e stabilendo a priori l'estensione del proprio consenso.
Il problema dello sviluppo del dibattito parlamentare era quello di come supportare, da un punto di vista teorico, questo impianto in presenza di una classe politica liberale, che avrebbe dovuto far da argine ai tentativi di manipolazione autoritaria del sistema.
Il 15 Luglio 1923 si passò alla discussione generale e all'esame dei singoli articoli: il vero nodo gordiano da sciogliere si rivelò posto attorno, da un lato, al premio di maggioranza e dall'altro al livello di consenso da raggiungere per farlo scattare.
Popolari e repubblicani presentarono emendamenti, tesi a quantificare con un certo equilibrio il rapporto tra premio di maggioranza e quorum da raggiungere: 2/5 dei voti e 3/5 dei seggi fu la proposta presentata da Gronchi e Chiesa, appoggiata anche da Amendola.
La presidenza del Consiglio, per bocca di Acerbo, si dichiarò disposta a discutere il quorum, ma rifiutò qualsiasi patteggiamento sul livello del premio che doveva restare fissato ai 2/3 dei seggi.
Per la prima volta e sul nodo cruciale, lo scontro fu radicale: messa ai voti la proposta di popolari e repubblicani fu bocciata con 178 voti contro 157.
L'usurpazione fascista del potere passò, così, alla Camera con soli 21 voti di scarto (la votazione sull'intero articolato diede, poi, 235 voti a favore contro 139).
Il passaggio al Senato avvenne, in una sola giornata, il 14 Novembre 1923: parteciparono al voto 206 senatori, 165 a favore, 41 contrari.
Alla legge Acerbo, definita da Filippo Turati “la marcia su Roma in Parlamento” si deve la costruzione della prima deputazione nazionale a maggioranza fascista.
Il successo fascista, in queste circostanze, appariva scontato e le elezioni politiche del 6 Aprile 1924 diedero al Governo la facile vittoria del suo listone di 356 membri comprendente due terzi di fascisti ed un terzo di personalità di altra provenienza politica, ormai conquistate al regime.
La ripartizione proporzionale dei seggi residui alla Camera dei Deputati tra le liste di opposizione sconfitte vide i popolari scendere a 39 seggi dei 108 del 1921, i socialisti a 46 da 123, e soltanto i comunisti salire da 15 a 19.
Il perdurare dell'illegalità e delle violenze, l'abbattersi di una rigida censura sulla stampa di opposizione ed indipendente,le intimidazioni e le minacce a danno degli antifascisti rivelarono abbastanza chiaramente che il Governo non si sarebbe accontentato della vittoria elettorale e che non avrebbe mai più acconsentito al mantenimento nel Paese e in Parlamento di una qualsiasi dialettica politica.
Infatti l'uccisione di Giacomo Matteotti da parte degli squadristi fascisti dopo la veemente denuncia fatta in Parlamento dal deputato di Rovigo del clima di intimidazione e di violenza che aveva caratterizzato lo svolgimento delle elezioni, l'abbandono delle Camere da parte di numerosi deputati dell'opposizione (il cosiddetto “Aventino”) nella speranza di sollevare quella “questione morale” che avrebbe dovuto decidere il Re a rompere con il Governo, restaurando un clima di normalità democratica nel Paese, l'incertezza politica che segnò profondamente quella fase, costituirono l'epilogo del dramma.
A questo epilogo seguì, con il fallimento dell'Aventino, l'inerzia del Re e la decisione di Mussolini di assumersi tutta la responsabilità politica e morale dell'assassinio Matteotti sopprimendo le ultime guarentigie liberali, la caduta del sipario sul sistema instaurato nel 1848, con lo Statuto Albertino.
La legge Acerbo, al di là del suo carattere eccessivamente maggioritario e, quindi, vessatorio per le minoranze nella ripartizione dei seggi di deputato, non aveva significato da sola la rottura del sistema e la fine della legalità statutaria.
Infatti, il carattere rappresentativo del regime, anche se forzato dalla legge elettorale iniqua per le opposizioni, non era ancora contestato, né, peraltro, la legalità statutaria poteva dirsi infranta per l'abbandono della proporzionale, dato che la costituzione vigente non prevedeva (come adesso) un determinato sistema elettorale per la formazione della Camera dei Deputati, ma lasciava alla legge la regolamentazione e la determinazione della delicata materia.
Se sul piano politico, perciò, appare piuttosto evidente come il regime parlamentare fosse già entrato in crisi al momento dell'intervento nella prima guerra mondiale, avesse chiuso i battenti con le dimissioni di Facta e la successiva formazione del Ministero Mussolini dopo la marcia su Roma, , su quello più squisitamente costituzionale il discorso diventa più sfumato non essendovi la possibilità di determinare con eguale precisione il verificarsi di un fatto che abbia segnato il trapasso in un certo momento da quel regime alla dittatura autoritaria.
La tesi fascista di una continuità nell'ordinamento statuale, infranta dalla marcia su Roma instauratrice di una nuova legalità, o quella opposta, di parte antifascista, del colpo di stato ai danni del sistema costituzionale vigente compiuto, appunto, in quel momento, pur cogliendo qualche elemento della realtà politica destinata ad incidere sulla struttura statuale di lì a breve, non sembrano esatte in quanto l'alterazione del sistema si compì solo successivamente.
E', infatti, soltanto dopo la svolta determinata dal discorso di Mussolini del 3 Gennaio 1925 che si può intravedere l'alterazione del sistema, in senso autoritario e dittatoriale.
Ma questa svolta non si realizzò solo per la fine di molte guarentigie liberali e per il persistente allontanamento dei deputati aventiniani dai lavori parlamentari.
Anzi ,questi fatti potevano trovare ancora una qualche giustificazione, sia pure molto forzata, da parte degli apologeti del nuovo ordine, capaci di spiegare come il restringimento dei diritti di libertà potesse ricollegarsi alla prassi in materia seguita dai governi liberali per motivi di emergenza, quali la situazione dell'ordine pubblico o lo stato di guerra, e come l'assenza di qualche deputato dell'opposizione non impedisse il regolare svolgimento dei lavori della Camera, essendovi sempre un numero sufficiente di presenza a garanzia della loro legalità.
Invece le leggi costituzionalmente rilevanti poste in essere nello stesso periodo erano destinate ad apparire nella forma e nella sostanza come le basi fondamentali di un nuovo sistema, come le cornici, nella quali doveva svolgersi la vita dello Stato, divenuto così autoritario e dittatoriale.
Nonostante il risultato raggiunto, la legge Acerbo restò in vigore per le sole elezioni del 1924; già nel 1925, conclusa la crisi seguita al delitto Matteotti cui abbiamo già accennato poco sopra, il fascismo cambiò la legge elettorale, attraverso l'introduzione (inedita per l'Italia) del sistema maggioritario secco “all'inglese”, demandando così ai Fasci territoriali la formazione della Camera.
Questa legge, comunque, non fu mai utilizzata.
Infatti il processo di centralizzazione che il fascismo registrò al suo interno, a partire dalla modifica dello Statuto del Partito, approvata nel 1926, e l'avvio del progetto di riforma dello Stato voluto dal governo portarono nel 1928 a un nuovo cambiamento della legge elettorale, che si realizzò attraverso la legge del 17 maggio 1928 che introdusse il plebiscito.
In base a questa legge, il Gran Consiglio del Fascismo, che all'uopo era stato istituzionalizzatosi (diventando quindi, a tutti gli effetti,gli organi dello Stato) aveva il compito di redigere, tenendo conto dei suggerimenti proposti dalle Corporazioni, una lista di 400 nomi che doveva essere approvata o rigettata in blocco dal corpo elettorale.
Gli italiani di sesso maschile furono chiamati due volte al voto per il plebiscito: nella prima occasione, il 24 Marzo 1929, la percentuale dei votanti fu pari all'89,6% (un percentuale non altissima, date le condizioni di agibilità democratica pressoché inesistenti). Su 8.663.412 votanti, i sì furono 8.519.559, i no 135.761 (quasi tutti concentrati nel triangolo industriale del Nord- Ovest, più quelli raccolti attorno a fabbriche di grande dimensione in Veneto, Emilia e Toscana), con 8.092 schede nulle o contestate.
Ancora diversi i risultati del secondo plebiscito, tenutosi nel 1934, con 10.060.426 votanti e solo 15.215 contrari (0,15%) e lo 0,01% di voti nulli.
Tuttavia la commissione parlamentare, che aveva studiato la riforma del 1928, aveva colpito nel segno affermando che la legge elettorale in discussione in quel momento non doveva altro che rappresentare il ponte verso la vera forma -stato del fascismo: quella corporativa.
L'istituzione delle corporazioni nel 1934 aprì, infatti, la strada ad un'ulteriore revisione della rappresentanza, ma il problema non era più incentrato, sul terreno teorico/concettuale, attorno al significato da attribuire al termine, bensì sul come impostare le basi tecniche per impiantare la nuova “Camera corporativa”.
I lavori preparatori non furono né semplici, né brevi.
Le linee generali furono lanciate da Mussolini nel marzo del 1936, intervenendo alla II Assemblea nazionale delle Corporazioni.
In quella sede il Capo del Governo individuò nella congiunzione corporazioni – partito il tessuto connettivo della nuova rappresentanza.
Si entrò così nella “terza fase” , quella già preannunciata da Mussolini nel 1934, della riforma della Camera tendente a far riacquistare al consesso “ il carattere rappresentativo mediante la compenetrazione tra Partito e Camera, fra Corporazioni e Camera).
Alla Camera il progetto di legge relativo fu presentato il 29 novembre 1938 , messo in discussione il 14 Dicembre, e approvato per acclamazione con 351 voti favorevoli.
La discussione al Senato si svolse il 19 Dicembre 1938, e fu approvata nello stesso giorno con 156 voti favorevoli e 10 contrari.
La legge 19 Gennaio 1939, n.129, sostituì alla Camera dei Deputati la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il corpo elettorale era di fatto cancellato, poiché i membri della nuova istituzione entravano a farne parte ope legis. Si trattava, però, di una involuzione tutta interna al fascismo.
Le vecchie regole del gioco erano così definitivamente saltate,anche se all'interno degli istituti parlamentari si cercò di sposare la tesi “evoluzionista”.
Era inutile, in ogni caso, individuare nella trasformazione della Camera delle nuove regole del gioco: nessuno, in quel momento, aveva il coraggio di affermare che non si giocava più.
La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale
Tra il 25 Luglio 1943 , giorno della caduta del fascismo, ed il 2 Giugno 1946, giorno dell'elezione dell'Assemblea Costituente e del referendum istituzionale, si sviluppò un intenso dibattito sui temi istituzionali ed elettorali: furono approvati nel giugno del 1944 e nel marzo 1946 due “costituzioni provvisorie” (così furono denominati i Decreti luogotenenziali n.151 del 1944, e n.98 del 1946), co l'ultima delle quali si stabiliva l'elezione di una Assemblea Costituente per la redazione di una nuova Costituzione dello Stato unitario, unitamente all'indizione di un referendum popolare per la scelta istituzionale, tra Monarchia e Repubblica, da svolgersi in contemporanea con l'elezione -appunto – dell'Assemblea Costituente.
Fu approvata anche l'estensione del voto alle donne: un provvedimento di cui si discuteva fin dall'Ottocento.
Finalmente anche l'Italia si allineava alle democrazie più moderne, estendendo il suffragio fino all'universalità.
In questa fase cominciò anche la discussione tra le forze politiche il dibattito intorno al sistema elettorale, con il quale si sarebbe dovuta eleggere l'Assemblea chiamata a redigere il nuovo testo della Costituzione.
Il dibattito ripropose l'antico confronto tra proporzionalisti e maggioritari e, se i reduci del vecchio liberalismo pre – fascista come Vittorio Emanuele Orlando o Benedetto Croce, si pronunciarono a favore del maggioritario, imputando al proporzionale il crollo dello stato liberale con la conseguente deriva fascista, la maggioranza delle forze politiche si assestò sulla scelta del proporzionale, riconoscendo a questo sistema, nella sua variabile del quoziente (fu adottato il sistema “Imperiali corretto”), la capacità di tradurre meglio all'interno dell'Assemblea la composizione politica presente all'interno della società, corrispondendo appieno alla logica dei grandi partiti ad integrazione di massa, quali erano in quel momento la DC, il PSIUP ed il PCI.
All'Assemblea Costituente eletta il 2 Giugno 1946 toccò, secondo quanto sancito dal Decreto Luogotenenziale del marzo 1946, di elaborare il testo della nuova legge elettorale per le future legislature repubblicane.
Si ripresentarono così al dibattito i due tradizionali orientamenti: quello favorevole al sistema proporzionale e quello favorevole al sistema maggioritario.
Le diverse istanze trovarono alla fine un punto di convergenza in un testo che conservava, per la Camera dei Deputati, il sistema proporzionale su circoscrizioni plurinominali concepite come sezioni di un Collegio Unico Nazionale; per il Senato invece si prevedeva un sistema misto: maggioritario per cui collegi dove un candidato avesse superato il 65% dei voti validi e proporzionale su collegi regionali, laddove questa maggioranza (che in effetti si verificò in ben poche occasioni) non fosse stata raggiunta da alcuno.
Fu questo il sistema attraverso il quale fu eletto il primo Parlamento repubblicano con le elezioni del 18 Aprile 1948.
Entriamo, allora, nel merito del dibattito attraverso cui si arrivò a queste scelte, appena sintetizzate poco sopra.
L'11 Giugno 1944 si formò il primo governo Bonomi, espressione diretta del riconoscimento del CLN (cioè dei partiti) quale fonte primaria del potere politico.
A questo punto il confronto sulla riorganizzazione dello Stato si fece più serrato e tema prevalente diventò ancora una volta quello della rappresentanza politica.
La prima “costituzione provvisoria”, adottata già dal Governo di Salerno, abrogò il disposto del terzo comma del regio decreto legge 2 Agosto 1943, n.705 con cui si stabiliva che entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, si sarebbe eletta una nuova Camera dei Deputati.
Questo provvedimento fu sostituito dalla norma che formalizzava l'impegno, a liberazione avvenuta, di demandare la scelta istituzionale al popolo italiano attraverso l'elezione a suffragio universale di una Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto avere anche il compito di “deliberare la nuova Costituzione dello Stato”.
Diventava, dunque, più che mai necessario incominciare a ripensare in termini di suffragio e di sistema elettorale.
Si riaprì, a questo punto, quel dibattito che aveva attraversato tutti gli anni'20 della storia politica italiana.
Di nuovo gli stessi schieramenti, di nuovo la stessa contrapposizione: da una parte i vecchi liberali, sopravvissuti al fascismo, Orlando, Croce, Nitti, uniti dalla comune lettura per la quale il proporzionale è la “causa di tutte le sciagure italiane, almeno nel campo politico”; dall'altra, morto Turati, rimane Sturzo il vecchio paladino della proporzionale.
Posizioni vecchie in un quadro nuovo, che posero l'interrogativo inquietante: il continuismo era una scelta di capo o risultava connaturato al riprodursi di una classe dirigente che intendeva riconfermare le proprie radici?
Il fascismo, con la sua rivoluzione, aveva almeno mantenuto fede a quell'impegno di ricambio della classe dirigente che aveva proclamato all'indomani del suo trionfo?
Sulle scelte che furono compiute in quel periodo pesò il retaggio di una tradizione politica che non si era interrotta e che non aveva mai risolto la questione del rapporto tra stato e società.
Porre, allora, il problema elettorale significava dunque, in quello scorcio nel quale qualcuno sperava nella “nuova era”, mettere in discussione tutto l'impianto del sistema politico, non solo occuparsi semplicemente della formazione della rappresentanza nazionale.
Questo fu l'interrogativo, ed i partiti arrivarono a quell'appuntamento senza aver sviluppato una chiara analisi dello stato di cose in atto.
La Democrazia Cristiana non aveva voce univoca: nel “Programma di Milano, si affermava che la Camera dei Deputati doveva essere eletta “a suffragio universale con sistema proporzionale”, mentre nelle “Idee Ricostruttive”, redatte da De Gasperi nel 1943, non si faceva neppure riferimento al sistema di scrutinio, limitandosi a ribadire il principio del suffragio universale; posizione analoga a quella che si ritrovava nel “Programma della Democrazia Cristiana”, dato alle stampe nel gennaio del 1944.
I socialisti intervennero nell'agosto del 1945 sul tema elettorale, rilanciando l'idea del premio di maggioranza, riconfermando cioè, nella sostanza le posizioni tenute da Matteotti nel 1925.
Per i comunisti, invece, si dovette aspettare il deliberato assunto dal Consiglio Nazionale dell'Aprile 1945 , laddove si fece riferimento al sistema elettorale, indicando un favore di massima per il proporzionale.
Repubblicani ed azionisti presero una posizione chiara soltanto in tempi successivi, al formarsi della commissione ministeriale chiamata a preparare il sistema elettorale per la Costituente, ed espresso in modo netto la preferenza per il proporzionale.
Con l'assunzione della Presidenza del Consiglio da parte di Parri, nel giugno del 1945, il problema elettorale ricevette indirettamente una accelerazione.
Fu con il governo Parri, infatti, che furono costituite e rese operative tutte quelle strutture attraverso le quali fu possibile elaborare la legge elettorale per la Costituente.
Nel Luglio del 1945 fu costituito il Ministero per la Costituente, affidato a Pietro Nenni, con l'esplicito compito di preparare la strada alla formazione di quell'Assemblea che, al di là del dibattito intorno alle altre funzioni a cui avrebbe dovuto adempiere, avrebbe dovuto senz'altro anche porre le basi del nuovo patto istituzionale.
Il 31 Agosto 1945, con decreto, fu nominata la “Commissione per la elaborazione del progetto di legge elettorale politica per la Costituente”.
Il provvedimento nacque in un contesto dove stava diventando sempre più evidente che, al di là della formale unità d'azione che caratterizzava l'attività del CLN, rimaneva sullo sfondo una forte contrapposizione proprio intorno alla questione elettorale.
I punti dello scontro erano, sostanzialmente due: la funzione delle assemblee elette e l'essenza del rapporto rappresentativo.
I termini del problema si inscrivevano in un trend di lungo periodo.
Da un lato si intendeva riaffermare, anche dopo l'esperienza del fascismo, che compito dell'assemblea dei deputati fosse, prima di ogni altro, l'espressione del governo, in ossequio pieno alla tradizione liberale.
Dall'altro canto si puntò, invece, sulla necessità di rendere esplicita la composizione delle alleanze tra le forze politiche senza costringerle a patti fuori -natura.
Una lettura realistica della ripresa politica italiana escludeva, infatti, in quel momento che sulla scena si potessero presentare meno di sei gruppi strutturati.
Per quando riguardava, invece, il rapporto relativo alla rappresentanza politica, il punto dirimente stava nella contrapposizione della rappresentanza per persone o per partiti.
Nella prima ipotesi si sostanziava tutta la tradizione ottocentesca, legando nel momento elettorale al deputato al collegio e durante la legislatura il deputato alla nazione; nella seconda istanza, quella che collegava la rappresentanza ai partiti, andava considerata la valenza istituzionale di intermediazione politica assunta dal partito in quella che era stata la sua evoluzione novecentesca (giunta, in quel momento, quasi metà del secolo quasi a completa maturazione), riconsiderandola dopo l'esperienza ormai chiusa dei totalitarismi europei.
Il tentativo di chi puntò a far emergere l'idea della rappresentanza attraverso i partiti era quella di definire, sul piano teorico, una indicazione per la quale il momento elettorale avrebbe dovuto servire per determinare a quale partito, ottenuta la maggioranza, toccasse il compito di tradurre nello Stato la propria Weltanschauung (secondo l'elaborazione portata avanti da Costantino Mortati fin dal 1941).
Appariva evidente come dall'antipartitismo del pensiero politico liberale cresciuto alla scuola di Mosca, ci si volse verso una concezione della politica in cui il partito, smessi i panni della setta, rappresentasse il canale dell'organizzazione politica, attorno alla quale doveva ruotare la vita dello Stato: Weimar, il simbolo del Parteinstaat, distrutto dal totalitarismo nazista, risorse a diventò patrimonio della scienza costituzionale che vedeva nel modello di “stato dei partiti” il futuro della politica (ancora Costantino Mortati: “La Costituzione di Weimar”, Sansoni, Firenze 1946).
La Commissione ministeriale per la legge elettorale iniziò i lavori il 1 Settembre 1945.
Fin dalla prima riunione Nenni, che la presiedeva, cercò di trovare una mediazione nel contrasto tra uninominalisti e proporzionalisti, stabilendo il principio dell'eccezionalità che rappresentava la formazione di una Assemblea Costituente.
Era implicito nel discorso di Nenni l'idea maturata nell'antifascismo italiano che riteneva come la Costituente non rappresentasse l'unico soggetto detentore della sovranità.
La fase costituente rappresentava, per contro, la traduzione nel diritto di quanto era avvenuto nella fase finale del conflitto e durante la lotta di Resistenza, nel corso di un periodo nel quale era emersa la necessità di imprimere nel dettato costituzionale quello stesso spirito di mutua convergenza e di reciproco controllo che aveva animato, e stava ancora animando, l'attività ciellenistica.
In questo senso la formazione dell'Assemblea che avrebbe dovuto preparare la Costituzione andava deideologizzata al massimo, per poter far filtrare “tutte le correnti di opinione”.
E' il caso di ricordare, ancora, come in precedenza all'apertura della discussione vera e propria sulla legge elettorale, la Commissione risolse alcune questioni, apparentemente minori: quella dell'eleggibilità, dove si affermò l'estensione dell'elettorato passivo anche alle donne; l'età, dove fu bocciato una proposta di Terracini di estensione del diritto di voto ai diciottenni, il tema del voto obbligatorio che fu respinto con 5 voti , contro 2 e 2 astenuti.
Alla fine, affrontato il nodo del sistema elettorale, prevalse l'idea della proporzionale, anche se erano diverse le anime che concordarono su questa scelta.
Diversità che riemersero allorquando si trattò di individuare, successivamente, il concreto metodo di traduzione dei voti in seggi.
Ritornarono, infatti, in quella fase i tentativi di bilanciare il rapporto persone/gruppi, dimostrando come, in quel momento, il processo di identificazione per partiti non fosse ancora percepito in quella dimensione che poi caratterizzerà la politica di massa negli anni a venire.
L'impossibilità di trovare nuove ipotesi percorribili portò, infine, la commissione ad individuare, tra l'insoddisfazione generale, nel dettato normativo del 1919 il testo di riferimento per l'elaborazione della legge elettorale.
Il successivo passaggio alla Consulta, che nominò anch'essa una commissione ad hoc, i cui lavori iniziarono il 9 Gennaio 1946, ripropose, in modo ancor più radicale, lo scontro tra i partiti circa la declinazione “tecnica” dei due punti riguardanti il disegno delle circoscrizioni e l'espressione dei voti di preferenza.
Risorsero, dunque, anche se prontamente stornati, i tentativi di posticipare l'approvazione delle legge elettorale, nell'attesa che fossero definiti i reali compiti dell'Assemblea Costituente che si sarebbe andata ad eleggere.
Su questo punto, però, anche la nuova commissione decise di tirare diritto: il sistema proporzionale come scelta di campo per la definizione della legge elettorale non poteva più essere rigettato.
Tuttavia il fatto che questa volta la scelta non ottenesse l'unanimità dei consensi, bensì la sola maggioranza, indicava come fosse ormai finito il tempo dell'unità del CLN, quale garanzia del prevalere dell'interesse generale su quello particolare.
L'impianto del nuovo disegno di legge previde, dunque, il sistema del quoziente, la divisione del territorio nazionale in circoscrizioni che tendenzialmente non ricalcavano più i confini della regioni, bensì quelli delle province con una attribuzione di seggi che andava da un minimo di 7 deputati ad un massimo di 36 (il collegio cui era assegnato il numero minore di seggi era quello di Potenza e Matera, appunto 7, quello cui ne furono assegnati di più fu quello di Milano e Pavia con 36. La Valle d'Aosta ebbe, invece, un solo deputato), la riduzione del quorum d'efficienza a un decimo dei voti di lista.
Il Ministero De Gasperi spostò ulteriormente verso destra l'asse della legge, orientando alcune modifiche verso i desideri di quella parte politica: fu abolito il quorum d'efficienza, togliendo così ogni elemento di presunta rigidità alle liste di partito; si rettificò ulteriormente il quoziente elettorale, aumentando di un'altra unità il divisore nei collegi che avrebbero dovuto esprimere più di 20 deputati, si stabilì, infine, che la lista del Collegio Unico Nazionale, attraverso cui sarebbero stati recuperati i resti non utilizzati, poteva essere formata soltanto da candidati già comparsi nelle liste circoscrizionali.
Con queste ultime revisioni la legge elettorale fu definitivamente approvata, attraverso l'emanazione del Decreto Luogotenenziale n.74 del 10 Marzo 1946 e si andò, così, al voto del 2 Giugno: contemporaneamente per il referendum istituzionale e l'Assemblea Costituente, mentre tra il Marzo e l'Aprile di quell'anno si era votato per un certo numero di Amministrazioni Locali.
La campagna elettorale per le elezioni della Assemblea Costituente fu, in realtà, compromessa da quella ritenuta prioritaria per il referendum sulla scelta istituzionale.
I congressi dei partiti fornirono una chiara indicazione dell'orientamento che si era profilato, fra le diverse forze politiche.
La linea favorevole alla Repubblica era, del resto, scontata tra comunisti, socialisti, azionisti.
Tra i democristiani il problema si presentò in forma più complessa.
Nel corso del congresso DC (Roma, 24-27 Aprile 1946) emerse una chiara indicazione filo – repubblicana, ma questa fu accantonata con la votazione di una mozione che, esaltando la volontà di coscienza del singolo cittadino rispetto al problema istituzionale, non impegnò di fatto il partito a dare una precisa indicazione di scelta ai propri iscritti.
Tra i liberali fu messa in minoranza la mozione presentata dalla segreteria, caldamente sostenuta da Benedetto Croce, orientata verso un agnosticismo dichiarato e prevalse, invece, un orientamento favorevole alla monarchia, pur lasciando libertà di dissenso.
Al primo congresso dell'Uomo Qualunque, partito funzionale alla collocazione politica del non sopito afascismo di una parte rilevante dell'elettorato, non si prese posizione sul tema istituzionale, preferendo discutere intorno ad una non ben definita pace sociale.
Intanto le elezioni amministrative che si erano svolte tra il Marzo e l'Aprile 1946 fornirono un primo elemento per verificare l'andamento della situazione politica.
Su 5.722 comuni, 2.354 furono conquistati dalla DC, 2.289 videro, invece, prevalere lo schieramento socialcomunista.
A livello geografico la sinistra controllava l'Italia settentrionale e centrale, mentre i partiti di centro potevano contare su una notevole maggioranza nell'Italia meridionale e nelle Isole.
La presenza delle “due Italie” fu confermata dai risultati del 2 Giugno, sia andando ad analizzare i dati del referendum istituzionale, sia prendendo in esame la geografica politica dei voti espressi per l'elezione della Assemblea Costituente.
Una linea di confine che univa le estreme pendici della Toscana, dell'Umbria e delle Marche divideva l'Italia repubblicana da quella monarchica.
La stessa linea di confine che separava l'Italia della sinistra da quella del centro -destra.
L'Assemblea Costituente si trovò di fronte al tema, già affrontato in via preparatoria dalla “Commissione Ministeriale per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” (la cosiddetta “commissione Forti”) di ricostruire la griglia di riferimento relativa alla rappresentanza nazionale, all'interno del dettato costituzionale.
La seconda sottocommissione dell'Assemblea divenne, così, il laboratorio politico all'interno del quale nacque concretamente la nuova forma stato repubblicana.
Il principio del bicameralismo (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica), caldeggiato soprattutto dalle destre e dalla Democrazia Cristiana, non incontrò particolari ostacoli neppure a sinistra dove, con la presentazione di un ordine del giorno da parte del socialista Lami Starnuti, si accettò formalmente l'impianto bicamerale, a condizione che la seconda Camera non fosse costituita in modo tale da alterare sostanzialmente la filosofia politica del Paese, quale fosse stata rispecchiata dalla composizione della prima camera.
Il secondo problema posto in discussione fu quello relativo ai sistemi elettorali per le due Camere.
Immediatamente si evidenziò la tendenza della maggioranza a non attribuire alla carta costituzionale una valenza prescrittiva in merito alle tecniche di traduzione dei voti in seggi: nonostante un quadro del dibattito sostanzialmente favorevole alla scelta del sistema proporzionale ci si orientò, alla fine, sia per la Camera, sia per il Senato (per l'elezione del quale si indica il collegio uninominale) il rimando alla legge ordinaria, ribadendo nel testo della Costituzione il semplice vincolo di un sistema elettorale a suffragio universale e diretto, per entrambi i rami del Parlamento.
Un primo progetto di legge elettorale fu preparato dal Governo e presentato dal Ministro dell'Interno, Scelba, all'Assemblea Costituente il 10 Maggio 1947.
Il modello di legge proposto dal governo partiva, sostanzialmente, dal DLL n.74 del 1946, che aveva regolato le elezioni per l'Assemblea Costituente.
In realtà il Governo, pur mantenendo la griglia già sperimentata, tentò di introdurre qualche significativa modifica: l'aumento del numero delle preferenze, il ridimensionamento dei collegi, l'abolizione del collegio unico nazionale ed il trasferimento dei resti sui collegi regionali, al cui riparto peraltro avrebbero potuto partecipare soltanto le liste che avesse conquistato almeno un quoziente all'interno della Regione.
Inoltre si proponeva di introdurre l'obbligatorietà del voto, accompagnata da precise sanzioni.
Il profilarsi di uno scontro con i partiti minori indusse il governo al ritiro del progetto e alla presentazione di un altro disegno di legge che ricalcava, in modo più radicale, la legge elettorale per la Costituente.
Il garantismo ministeriale per la sopravvivenza dei partiti intermedi fu indubbiamente, in quella fase, sollecitato dalla crisi di governo che andava profilandosi all'orizzonte, poiché in quel momento, in seguito alla rottura del tripartito con PCI e PSI, la strategia centrista della DC era chiamata a fare i conti con la vitale presenza di piccole formazioni politiche alla sua destra ed alla sua sinistra.
Il problema del collegio unico nazionale e del riparto dei resti fu risolto, nell'ultima versione della legge, stabilendo il recupero dei resti, conteggiati nazionalmente, a livello di circoscrizione aumentando di tre unità il divisore per abbassare il quoziente elettorale, ed aumentare così la distribuzione dei seggi all'interno delle circoscrizioni stesse.
Il testo definitivo della legge elettorale per la Camera fu approvato il 21 Dicembre 1947, con 275 voti a favore e 82 contrari. Essa divenne la legge n.6 del 20 Gennaio 1948, successivamente unificata con le altre normative per l'elezione della Camera dei Deputati nel T.U. 5 febbraio 1948, n.26.
Il criterio di formazione del Senato apparve, fin dai dibattiti preparatori, molto più complesso.
Se non c'erano dubbi circa la natura politica della rappresentanza della Camera dei Deputati, rispetto alla seconda Camera i partiti avevano ipotesi per certi versi contrastanti.
Doveva essere fatti interagire diversi termini del problema riguardante la rappresentanza della seconda Camera: le professioni/interessi, gli organi locali, l'elettorato. Ma una formula che attribuisse un ruolo attivo a tutte e tre le categorie apparve di difficile costruzione.
Il tentativo di Lussu di far passare, nel disorientamento generale, l'affermazione di principio: “La seconda Camera è la Camera delle Regioni”, fu abilmente aggirato dal democristiano Tosato che corresse il tiro facendo approvare la formula (oggi tornata di grande attualità) secondo la quale la “seconda Camera è eletta su base regionale”.
Questo significava che, dalle originarie istanze autonomistiche, poteva rimanere in gioco anche solo il collegio elettorale allargato, concepito come mero contenitore territoriale di voti.
L'adunanza plenaria dell'Assemblea Costituente affrontò il problema della Seconda Camera nell'autunno del 1947 e la vexata quaestio dell'elezione fu risolta da un ordine del giorno che vide la convergenza Nitti – Togliatti: “ L'assemblea costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto e con il sistema del collegio uninominale”.
L'ordine del giorno, posto in votazione il 7 Ottobre 1947, passò con 190 voti contro 181.
La legge elettorale per il Senato fu predisposta dal Ministero e presentata in Assemblea da Scelba l'11 Dicembre 1947, in un disegno di legge che cercava di recepire l'istanza base emersa dai dibattiti precedenti, sia in merito al collegio uninominale, sia in merito alla base territoriale/regionale.
La tecnica di traduzione dei voti in seggi, tuttavia, predisponeva un meccanismo di elezione che si allontanava sia dal maggioritario secco che da quello a due turni, ricorrendo ad una soluzione intermedia che richiamava in vita indirettamente il sistema proporzionale: i candidati si sarebbero presentati singolarmente sui collegi uninominali e sarebbe risultati eletti solo nel caso del raggiungimento di una percentuale pari al 50% più uno dei voti validi; i seggi non assegnati con questo metodo sarebbero stati attribuiti su base regionale ai gruppi di senatori che avessero dichiarato precedentemente un collegamento, avvalendosi di un eguale simbolo di riconoscimento, in forza del sistema del quoziente corretto e dei più alti resti, con le stesse modalità della Camera dei Deputati.
Il meccanismo, dopo un forte dibattito, fu modificato da un ordine del giorno Dossetti, che elevava la percentuale necessaria per l'elezione diretta nel collegio uninominale al 65% de voti espressi, mentre i seggi non attribuiti in prima istanza sarebbero stati assegnati su un collegio unico regionale recuperando, evidentemente, il sistema proporzionale.
Su questa proposta, che riproponeva nella sostanza il sistema elettorale a loro più congeniale, convennero i comunisti riequilibrando così totalmente l'orientamento dell'Assemblea in favore della consolidata posizione che la forma partito stava ottenendo nell'impianto istituzionale della Repubblica.
Il testo per l'elezione del Senato, divenne legge il 6 Febbraio 1948, con il numero 29.
La convergenza PCI-DC, in quel momento era già lettera morta fin dal maggio 1947, quando la fine del governo tripartito DC-PCI-PSI( quest'ultimo tornato alla antica denominazione dopo la scissione del PSLI, guidato da Saragat su posizioni socialdemocratiche, avvenuta nel corso del congresso di Roma, Palazzo Barberini, svoltosi nel Gennaio 1947), sanzionò l'avvio del centrismo degasperiano.
La crisi della democrazia italiana si aprì, dunque, ancor prima che la Repubblica muovesse i suoi primi passi e lo dimostrò proprio l'andamento delle elezioni per la I legislatura, tenutesi il 18 Aprile del 1948.
L'entrata in vigore della carta costituzionale, avvenuto proprio il 1 Gennaio 1948, segnò l'uscita dal provvisorio ma non chiuse le ostilità; il passaggio della politica mondiale dall'eurocentrismo al bipolarismo finì con il trasferire all'interno dei paesi del vecchio continenti quell'idea che Churchill per primo manifestò fin dal 1946: una cortina di ferro era calata sui paesi controllati dall'URSS.
Nonostante ciò le sinistre premevano su tutti i fronti interni d'Europa.
La Gran Bretagna fu la prima nazione in cui si svolsero le elezioni politiche: gli inglesi furono chiamati alle urne il 5 Luglio 1945 e posti davanti alla scelta tra i conservatori che intendevano andare avanti seguendo lo schema che aveva portato alla vittoria bellica ed i laburisti che proponevano una svolta politica per il futuro.
Vinsero proprio i laburisti, con il 48% dei voti e 393 deputati, con i conservatori al 39,6% e 213 seggi.
I francesi, invece, votarono tre volte tra il 1945 ed il 1946 evidenziarono un paese chiaramente spostato a sinistra (il 2 Giugno 1946, proprio in concomitanza con le prime elezioni generali in Italia, i comunisti raccolsero il 25,95%, i socialisti il 21,1%, i cattolici del MRP il 28,2%, i radicali l'11,6% e la destra si vide ridotta al 12,8%); in Germania le elezioni si svolsero tra il 1946 ed il 1947 nelle quattro zone controllate dagli Alleati, indicando una prevalenza socialdemocratica a Berlino e nelle zone statunitense ed inglese, una prevalenza dei cristiano – democratici e dei cristiano – sociali nella zona francese (dove, peraltro, vi era stata fin dall'Ottocento una prevalenza dello Zentrum) ed una scontata prevalenza del partito socialista unificato, la SED, nella zona di appartenenza sovietica.
In Italia la radicalizzazione della lotta fu, d'altra parte, ancora più accentuata in quanto su di essa non giocò solo il fattore politico, ma anche – e fortemente – quello religioso.
La politica di apertura di Togliatti verso le masse cattoliche, esplicitata attraverso la posizione assunta dal PCI di fronte all'articolo 7 della Costituzione con il quale si riconosceva il Concordato tra lo Stato Italiano e il Vaticano stipulato l'11 Febbraio 1929 tra Mussolini ed il Cardinal Gasparri, non servì, almeno per il momento, a pacificare gli animi.
Stati Uniti e Vaticano da un lato, l'Unione Sovietica dall'altro rappresentarono così le spinte “esterne” verso una lettura di tipo manicheo della futura politica dello Stato.
I comizi in vista del 18 Aprile 1948 si aprirono così da un lato tra i timori generalizzati che la volontà popolare potesse non essere rispettata e dall'altro ad affrontare potenziali piani eversivi, che dall'esterno avrebbero potuto fornire soluzioni eterodirette alla vicenda politica italiana.
Alle elezioni l'affluenza alle urne risultò altissima (92,9%), così come altissimo fu il numero dei voti validi (il 97,8% dei suffragi espressi).
Le liste che si presentarono alla competizione elettorale furono 114; di queste solo 10 riuscirono, alla fine, ad ottenere una rappresentanza parlamentare.
L'indice di dispersione dei voti in relazione alle liste che non ottennero seggi fu sostanzialmente basso, par cioè all'1,3%.
Dal punto di vista del funzionamento delle formule elettorali, c'è ancora da ricordare come per il Senato il quorum del 65% necessario per l'elezione diretta fu raggiunto, in queste prime elezioni in soli 15 collegi, concentrati in 5 Regioni: Lombardia, Bergamo (DC 70%), Clusone (DC 76,7%), Treviglio (DC 68,4%); Trentino – Alto Adige, Bressanone (PPST-SVP 79,8%), Mezzolombardo (DC 80,7%), Pergine (DC 71,7%), Trento (DC 69,1%); Veneto , Bassano del Grappa (DC 77,2%), Cittadella (DC 73,4%), Schio (DC 71,1%), Treviso (DC 66,3%), Verona Collina (DC 69,9%), Vittorio Veneto – Montebelluna (DC 67,5%); Abruzzo, Lanciano – Vasto (DC 68,6%); Sicilia, Acireale (DC 66,1%).
Le elezioni indicarono, comunque, un unico indiscusso vincitore: la Democrazia Cristiana.
Forte di questo consenso generalizzato la DC si presentò all'apertura della I legislatura, con la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati e quella relativa al Senato ( va ricordato come il “plenum” del Senato fosse completato da personalità perseguitate dal Fascismo o dichiarate decadute da parlamentare nell'occasione delle leggi cosiddette “fascistissime”: questi “senatori di diritto” risultarono prevalentemente collocati a sinistra).
Il meccanismo proporzionale che informava l'impianto delle leggi elettorali per le due Camere, pur non esercitando un'azione coercitiva sul voto e pur trovandosi a funzionare all'interno di un sistema politico tradizionalmente debole, non impedì però all'elettorato di schierarsi.
Con il 18 Aprile 1948 si chiuse, così, definitivamente un'epoca.
Se l'esarchia ciellenista aveva rappresentato il momento della rottura rispetto alla tradizionale gestione del potere, indicando il prevalere dei partiti di massa e l'avvenuta ricongiunzione stato/società, il 18 Aprile, sanzionando la politica centrista quale asse portante degli equilibri nel sistema politico italiano, determinò un passaggio di normalizzazione, tanto è vero che gli anni della I legislatura sono, non a caso, ricordati come quelli del “congelamento costituzionale”, gli anni nel corso dei quali progressivamente si radica dell'idea dell'ineluttabilità e dell'insostituibilità -appunto- della politica centrista.
Il fallimento della “Legge Truffa”
In questo quadro si collocò la proposta di modifica della legge elettorale in senso maggioritario.
Nell'anno precedente la conclusione della Prima Legislatura e in concomitanza con lo svolgimento delle elezioni amministrative (in più tornate tra il 1951 ed il 1952) il ministro dell'Interno Scelba, (democristiano) , nel corso della seduta della Camera del 21 Ottobre 1952,propose una modifica del sistema elettorale per l'elezione della Camera dei Deputati, volta ad assegnare un premio di maggioranza alla o alle forze politiche apparentate che avessero ottenuto un consenso pari almeno al 50% più uno dei voti validi.
Con tale premio si prevedeva che le forze di governo (DC-PSDI-PRI-PLI) apparentate tra loro avrebbero avuto garantita la governabilità.
La proposta aprì un fortissimo dibattito all'interno del Parlamento, causando anche la scissione dei tre partiti laici alleati con la DC e la durissima opposizione delle sinistre comunista e socialista.
Vale però la pena di fare un passo indietro e ricostruire al meglio questa fase di scontro politico, la cui analisi rimane fondamentale per comprendere le dinamiche del sistema politico italiano in quel periodo.
Come abbiamo già segnalato poco sopra le elezioni amministrative, che si svolsero in due tornate tra il 1951 ed il 1952, rappresentarono per la DC il primo campanello d'allarme.
Raffrontando i risultati ottenuti in quelle competizioni la Democrazia Cristiana segnava un calo, rispetto alle precedenti elezioni politiche, intorno al 13,4%.
L'erosione risultava ancora di più accentuata se si consideravano i risultati disaggregati del Sud, laddove appariva chiaramente un trasferimento di voti in favore della destra monarchica e neo-fascista.
La Democrazia Cristiana non poteva, quindi, avviare una politica di riforme fino al punto di correre il rischio di una rottura con i partner moderati nel Governo, a meno che non fosse poste le condizioni per realizzare una solida maggioranza parlamentare, che la ponesse fuori sia da condizionamenti espressi da un fragile consociativismo governativo, sia da momentanee ed occasionali convergenze di partiti opposti.
Fu durante il congresso democristiano di Anzio, del giungo 1952, che, all'interno del dibattito tra le diverse strategia che andavano confrontandosi all'interno del partito di maggioranza, si profilò una intesa tra la nuova corrente di Iniziativa Democratica (il gruppo che faceva capo a Rumor e Taviani) e De Gasperi, a favore di una riforma della legge elettorale in senso maggioritario.
Sul problema della correzione della proporzionale si concentrò il dibattito politico da quel momento ad Ottobre, quando come abbiamo visto il disegno di legge fu presentato alla Camera.
L'idea del ricorso al maggioritario, come soluzione strumentale ad una cronica fragilità di governo, diventò immediatamente il tema del dibattito non solo all'interno dei singoli partiti, ma anche sulla stampa quotidiana, dove la scelta di modificare la legge elettorale fu discussa e attaccata da più parti.
D'altro canto propendere per il sistema uninominale non sarebbe stato semplice per la DC: alcune forze politiche ben sapendo che, con quel sistema, avrebbero corso concretamente il rischio di sparire, avrebbero sicuramente teso a ricomporre gli equilibri tra i partiti prima delle elezioni (il timore di De Gasperi, era principalmente quello di un ritorno dei socialdemocratici nel PSI).
Il dibattito riaprì anche, per certi aspetti, la questione del riflesso dei modelli europei sulla politica italiana, ed è indubbio che, anche in quella occasione, il paese di riferimento restasse la Francia.
Sembrò, infatti, di ravvisare come nella proposta degasperiana gli estremi di quella ingegneria costituzionale che portò in Francia i partiti della terza forza all'adozione,nel '51, di una legge elettorale mista maggioritario/proporzionale studiata proprio in funzione del rafforzamento elettorale dell'alleanza di governo, che rischiava di perdere il consenso nella società francese.
Il progetto di legge Scelba si articolava così, a livello tecnico, attorno a due principi chiave: mantenimento dello scrutinio di lista su collegi plurinominali e revisione del meccanismo di riparto proporzionale, a condizione che fosse superata una determinata soglia di consenso.
Per quanto concerneva la compilazione delle liste era prevista la possibilità dell'apparentamento tra liste presentate, ed ammesse con lo stesso contrassegno, in almeno 5 circoscrizioni.
I seggi da attribuire passavano da 574 a 590 seggi.
La correzione al sistema di scrutinio sarebbe scattata solo nell'ipotesi che almeno uno dei gruppi politici apparentati raggiungesse, a livello nazionale, una percentuale pari al 50% più un voto.
Nel caso non si fosse verificato il raggiungimento del quorum previsto, si sarebbe ritornati al testo legislativo del 1948.
Nel caso in cui, invece, la nuova legge fosse diventata operante, il calcolo del quoziente per l'attribuzione dei seggi sarebbe stato eseguito sia per la maggioranza, sia per la minoranza, a livello nazionale, partendo dall'assegnazione di 385 seggi al gruppo vincitore e di 204 alle altre liste considerate nel loro complesso.
I due quozienti ottenuti sarebbero poi stati applicati alle cifre elettorali delle liste apparentate, all'interno delle singole circoscrizioni per l'assegnazione dei rispettivi seggi.
Nella relazione presentata alla Camera Scelba sottolineò l'esigenza di un collegamento tra la funzionalità del Parlamento, la stabilità del Governo, la difesa delle libere istituzioni democratiche.
Il dibattito intorno alla legge elettorale cominciò alla Camera il 7 Dicembre 1952, partendo dalle tre relazioni elaborate in sede referente: una di maggioranza, redatta dal democristiano Tesauro e due di minoranza, rispettivamente opera di Luzzatto e Capalozza per l'area di sinistra e di Almirante per l'area di destra.
A partire dal 19 Dicembre 1952 furono presentati 132 ordini del giorno, al cui illustrazione continuò fino al giorno 23, data in cui la maggioranza presentò un ordine del giorno firmato da Bettiol, capogruppo della DC, Colitto del PLI, Amadeo del PRI e Vigorelli del PSDI, coll'esplicita volontà di bloccare il dibattito.
L'ordine del giorno rappresentava una chiara sintesi dei principi contenuti nella legge e, di conseguenza, la sua approvazione rappresentò un presupposto automatico per il passaggio alla discussione degli articoli.
Il 4 Gennaio 1953 cominciò l'esame dei circa duemila emendamenti presentati al testo del disegno di legge.
Si trattava, in tutta evidenza, di una vera e propria prova di forza a cui non era più possibile, per i contendenti, sotterrarsi.
Dopo una lunga discussione circa l'ammissibilità della fiducia, che di per sé significò la chiusura del dibattito sulla legge elettorale, al fiducia stessa fu posta in votazione con appello nominale e concessa, il 21 Gennaio 1953, con 339 voti su 364.
Al momento della votazione comunisti e socialisti uscirono dall'aula.
Con una successiva votazione a scrutinio segreto, tutto il disegno di legge fu approvato con 332 voti a favore su 349.
Il disegno di legge arrivò al Senato il 5 Marzo 1953, dopo che la Commissione Interni della seconda Camera aveva approvato la relazione di maggioranza redatta dal liberale Raffaele Sansa Randaccio.
Le relazioni di minoranza furono tre: una del missino Enea Franza, una del socialista Domenica Rizzo, l'ultima del comunista Carlo Cerruti.
Il dibattito fu avviato il 26 Marzo, esaurita la procedura di sostituzione del dimissionario presidente Paratore sostituito da Meuccio Ruini. Paratore, infatti, riteneva la procedura di fiducia inammissibile nel caso in questione.
La speranza di approvare rapidamente il provvedimento fu vanificato dall'ostruzionismo delle opposizioni che protrasse la seduta per tre giorni e tre notti, fino al 29 Marzo.
In un clima di scontro aperto si svolse la votazione sulla riforma: ancora una volta la sinistra si astenne e la legge fu approvata con 174 voti su 177 votanti, alle ore 15,55 del 29 Marzo 1953.
La legge fu percepita dall'opposizione parlamentare, più che dall'opinione pubblica rispecchiata dalla stampa, come “una truffa” al proprio diritto, non tanto alla rappresentanza (ridimensionata,ma non cancellata) quanto alla possibilità di essere essa stessa classe di governo.
Va ancora ricordato che subito dopo l'approvazione della nuova legge elettorale per la Camera dei Deputati, il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, il 4 Aprile firmò il decreto di scioglimento sia della Camera, sia del Senato, legando di fatto la vita delle due Camere.
Il testo costituzionale aveva, invece, stabilito per il Senato una durata di 7 anni.
Il Senato fu sciolto anticipatamente anche nel 1958, infine nel 1963, con legge costituzionale 9 Febbraio 1963 n.2 fui modificato l'articolo 57 della Costituzione ed anche per la legislatura senatoriale fu stabilita la durata di 5 anni.
Il 7 Giugno 1953, giorno della elezioni,nessuna forza politica, né singolarmente né apparentata, raggiunse la maggioranza assoluta e la ripartizione dei seggi avvenne, così, ancora con il metodo proporzionale.
Il risultato elettorale del 7 Giugno 1953 segnò una perdita secca di voti per la DC (circa due milioni di voti inameno), una tenuta delle sinistre ed una nettissima ripresa delle destre.
Con il forte ridimensionamento che la DC subì, in quella occasione, cadde anche il disegno degasperiano di “democrazia protetta” e la stabilità governativa dovette essere nuovamente cercata in una logica di alleanze, in modo da attenuare la forza delle opposizioni.
Multipartitismo polarizzato e “conventio ad excludendum”
La II legislatura repubblicana abrogò definitivamente la sfortunata legge del '53, passata alla storia come “Legge truffa” e ripristinò, in data 16 Maggio 1956, una nuova legge elettorale proporzionale, con la ripartizione dei seggi in sede circoscrizionale ed il recupero dei resti in sede nazionale.
Venuta meno, come abbiamo visto, l'ipotesi di una solida concentrazione centrista capace di espungere dal disegno politico, in modo equidistante, la destra e la sinistra tutte le carte tornarono in gioco e attorno alla DC riprese quel gioco delle alleanze che, poi, avrebbe trovato una certa stabilità dopo l'apertura verso il PSI: progetto che prese realistica consistenza con il varo del primo governo Moro, avvenuto il 4 Dicembre 1963, attraverso l'alleanza tra DC,PSI, PSDI,PRI.
Non è questa la sede per ricostruire la difficile storia politica di quegli anni.
Un dato emerge chiaramente: l'assunzione della proporzionale come sistema connaturato alla democrazia non fu recepita dalle forze politiche come canale d'accesso alla piena cittadinanza di tutti i partiti.
La barriera ideologica, che sbarrò la strada al Partito Comunista (secondo la nota formula della conventio ad excludendum ipotizzata da Leopoldo Elia), ingenerò il mito del “sorpasso”, caricando ogni competizione elettorale di una aspettativa che ha finito di investire tutta la costituzione materiale dello Stato.
Ad un modello inglese, fondato sulla logica dell'alternanza secondo il principio del “people's governament” si contrappose quello del “governo di partito” in lotta per la conquista dello Stato.
Questo trend caratterizzò il susseguirsi delle elezioni che segnarono il passaggio dagli anni'50 agli anni'60 del XX secolo.
Per tutti gli anni'60-'70 del secolo scorso furono rari gli interventi volti a rimettere in discussione il criterio di traduzione dei voti in seggi, per le elezioni politiche.
Unico intervento fu l'abbassamento del diritto dei voti ai diciottenni, approvato nel 1975.
Soltanto alla metà degli anni'70 la spinta alla trasformazione, dovuta alla modernizzazione del Paese, ai nuovi equilibri internazionali, allo scongelamento di fratture tradizionali, all'irrompere sulla scena di nuovi soggetti sociali e generazionali e accompagnata dalla strategia della tensione che radicalizzò lo scontro tra legittimazione sociale e occupazione del potere, pose DC e PCI di fronte alla necessità di rivedere il proprio essere “stato” ed “antistato”.
“Terza fase” di ispirazione morotea, “Compromesso storico” di elaborazione berlingueriana furono, all'inizio degli anni'70, le due strategie attraverso le quali i due grandi partiti di massa pensavano di poter recuperare il Paese a quella “democrazia dei partiti”, vero cui l'aveva proiettata il dettato costituzionale.
Fu in quel momento, forse, in cui per la prima volta, tra le pieghe della politica italiana, si affacciò il problema del consociativismo nei termini di una condivisione della responsabilità politica, che non poteva lasciare ai margini dello Stato nessun partito.
Quando l'indice di scostamento tra elettorato democristiano e comunista raggiunse il minimo storico, con le elezioni del 1976, facendo registrare al sistema politico italiano il massimo grado di polarizzazione intorno alle due maggiori forze politiche, in una situazione di potenziale aggregazione centripeta delle stesse, il dato elettorale fece da trampolino di lancio ai governi di “solidarietà nazionale”.
Si passò così ufficialmente dalla contrapposizione frontale alla coalizione, senza che questa in realtà conducesse alla percezione dell'esistenza di possibili alternanze di governo.
L'impianto della democrazia restò, dunque, incompiuto e i fragili meccanismi di reciproca accettazione che li reggevano portarono ad una gestione contrattuale del potere che, nell'omologazione del pluripartitismo di governo, inserì meccanismi di spartizione che rappresentarono l'aspetto deteriore e corruttore del consociativismo.
Con l'avallo della formula “tutti al governo, nessuno all'opposizione” il sistema restò bloccato all'interno di una sorta di spirale partitocratica.
Da qui nacque sempre più profonda l'esigenza di rivedere l'archetipo fondativo dello Stato, e primo fra tutti il meccanismo della rappresentanza nazionale.
In questo clima riprese il confronto su sistemi elettorali.
Nel corso degli anni'80 si registrò, quindi, l'apertura di un intenso dibattito attorno al tema della legge elettorale,a partire dai lavori della Commissione bicamerale per le riforme presieduta, dal 1983 al 1985 dal liberale Aldo Bozzi.
In quel dibattito tornò alla ribalta l'introduzione del modello maggioritario secco “all'inglese”, ma non furono trascurati altri modelli di importazione straniera: il sistema tedesco(sul quale fu relatore Pietro Scoppola), di cui si valutava positivamente lo sbarramento al 5% al fine di ovviare alla frammentazione partitica, ed il maggioritario a doppio turno, di derivazione francese(progetto Milani -Pasquino del gruppo della Sinistra Indipendente), ed anche la riedizione di un proporzionale con premio di maggioranza, riproposto dalla DC, attraverso una relazione redatta da Roberto Ruffilli.
Nel complesso, però il dibattito sulla legge elettorale non risultò al centro dei lavori della Commissione che vi dedicò soltanto quattro sedute (su cinquanta) , nell'arco di due anni, limitandosi alla fine di registrare (nel documento finale) il disaccordo generale.
Appariva così quanto mai faticosa la ricerca di un meccanismo che, considerando tutte le variabili del sistema politico italiano, potesse realizzare una felice sintesi tra governabilità e rappresentanza, uscendo contemporaneamente da quel circuito che escludeva per principio il singolo cittadino dalla regole del gioco.
L'elaborazione più avanzata, in quel periodo, può essere individuata nel concetto di “cittadino come arbitro” elaborato da Ruffilli nel 1988, individuando come il nesso cruciale delle riforme sistemiche (siamo al tempo della “Grande Riforma” lanciata dal Governo Craxi, in senso decisionista e presidenzialista) necessarie alla Repubblica si collocasse nella improrogabile” disponibilità di tutti i partiti all'accettazione dei vincoli e delle compatibilità ed alla fine dei limiti della loro pur legittima battaglia per il potere”.
Stagione referendaria e mutamento del sistema: il “Mattarellum”
Il primo segnale evidente di scollamento tra la società civile ed il sistema dei partiti si verificò nell'occasione del referendum sulla riduzione ad una sola delle preferenze esprimibili nella elezione per la Camera dei Deputati, svoltosi nel Giugno del 1991 ed osteggiato da parte della DC, dal PSI e dalla Lega Nord che, in quel momento, stava accelerando fortemente il suo processo di crescita.
Il referendum passò a grande maggioranza e si aprì così la strada a quella stagione che è stata definita come delle “transizione italiana”.
“Tangentopoli” e “caduta del Muro di Berlino” rappresentarono i fattori decisivi perché ogni modello di forma – partito vigente fosse travolta, assieme ai resti del meccanismo dello “spoil system”.
Nel 1993 (il 18 Aprile) gli elettori furono chiamati a indicare, attraverso un referendum volto ad eliminare la clausola del 65% nel sistema elettorale per il Senato, la loro preferenza per un sistema maggioritario o proporzionale.
La vittoria degli abrogazionisti impresse una svolta in senso maggioritario al dibattito e fu letta come una “chiara” indicazione proveniente dalla base del Paese a favore dell'abbandono del sistema proporzionale.
La proporzionale aveva, in realtà, già mostrato la corda a partire dalla fine degli anni'70.
Abbiamo visto come, alle elezioni del 1976 si fosse verificato un altissimo livello di polarizzazione, mentre a partire dalle elezioni del 1979 si avviò una inversione di tendenza che evidenziava una progressiva polverizzazione del sistema politico.
A un calo progressivo dei partiti storici corrispose l'entrata in Parlamento di formazioni politiche alternative: Radicali, PdUP, Verdi, Leghe il cui accesso era garantito da un sistema elettorale il cui principio di specularità rendeva sempre più difficile la formazione di maggioranze, capaci di convergere su di un programma e,quindi, garantire anche la governabilità.
Le istanze favorevoli la maggioritario si innestarono così su questo filone.
Una curiosità da ricordare è come, in sede di Assemblea Costituente, affrontando il tema del referendum si discusse anche delle materie che dovevano restarne escluse.
In quell'occasione furono elencate le leggi tributarie,quelle di bilancio, di amnistia, id indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali.
In quel lontano 16 Ottobre 1947, tuttavia fu presentato da alcuni deputati comunisti, prima firmataria Maria Maddalena Rossi, una proposta finalizzata ad includere fra queste leggi, anche quelle elettorali.
Contro il parere di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, l'iniziativa fu approvata dalla maggioranza dei costituenti.
Nonostante questo, nel testo costituzionale a tutti noto, le leggi elettorali non figurano tra quelle escluse da referendum.
Quasi nessuno richiama il fatto che solo Costantino Mortati nelle sue Istituzioni di Diritto Pubblico ricorda come “La Costituente aveva votato un emendamento che escludeva dal referendum anche le leggi elettorali, ma tale aggiunta, per errore omissivo, non venne inserita nel testo approvato con la votazione finale, sicché non è entrata in vigore”.
Così per un errore di quarantotto anni prima, il 18 Aprile 1993, per volontà popolare il principio maggioritario entrò formalmente nel gioco istituzionale
Abbiamo visto come il referendum accelerò l'iter della riforma e fu così varata la legge (denominata “Mattarellum” dal cognome del suo relatore Mattarella del PPI: un appellativo inventato dal politologo Sartori, che cercava di indicare anche alcune “mattarelle” contenute nella legge, previsioni un po' balzane come quello del cosiddetto “scorporo” tendente a favorire le liste minori nella parte proporzionale) . Si introduceva difatti sia per la Camera, sia per il Senato un sistema misto: maggioritario secco per il 75% dei seggi da assegnare e proporzionale per il 25%, con la legge 4 Agosto 1993, n.276 e legge 4 Agosto 1993, n.277.
La “ratio” delle legge era quella di superare la frammentazione del sistema dei partiti verso la composizione di un sistema politico bipolare, senza al tempo stesso recidere la tradizione pluralistica, elemento distintivo del sistema politico italiano.
Nel dibattito svoltosi alla Camera e al Senato l'abbandono del sistema proporzionale era apparso, da subito, un dato pressoché acquisito, ma non vi fu mota convinzione nel sostenere il passaggio al maggioritario.
Il confronto tendeva ancora a misurarsi su doppio turno e turno unico, ma apparve anche la prospettiva del maggioritario “secco”.
All'interno della Commissione affari costituzionali della Camera i commissari del PDS, allontanandosi dalla loro tradizionale posizione favorevole al doppio turno esordirono con una proposta di “proporzionale personalizzato alla tedesca”, corretta stavolta da un premio di maggioranza per la lista più votata.
La DC restò invece legata alla proposta già avanzata da Mattarella all'interno della Commissione bicamerale per le riforme elettorali, già insediata nel settembre 1992 e che fin dal 10 Febbraio 1993 aveva approvato alcuni criteri direttivi per la riforma, con il voto favorevole di DC, PDS, PSI, PSDI e PRI.
Il progetto democristiano prevedeva “Doppio voto su un'unica scheda per l'attribuzione del 60% di seggi a maggioranza entro collegi uninominali e del restante 40% proporzionalmente su base regionale o subregionale; scorporo del margine riportato dai vincitori nei collegi a carico delle liste collegate; recupero dei resti nel collegio unico nazionale, riservato ai partiti che avessero superato una soglia nazionale del 3%”.
Fu l'esito del referendum a porre la questione della riduzione della quota di seggi destinata all'assegnazione proporzionale.
La linea monoturnista fu accolta di fatto senza un reale dibattito all'interno della commissione e l'approvazione del maggioritario secco fu così approvato successivamente anche da Camera e Senato.
Più delicato apparve, invece, l'aspetto relativo alla quota proporzionale, perché appariva evidente a tutti che dalla scelta dei meccanismi di funzionamento di questa parte della formula elettorale sarebbe dipeso il livello di frammentazione prodotto dal sistema.
Alla fine, come abbiamo visto, l'accordo fu trovato alla quota del 25%, mantenendo il sistema dello scorporo e riducendo al 4% la soglia di sbarramento per l'accesso alla ripartizione dei resti per i partiti nelle circoscrizioni (dopo una proposta iniziale del 5%).
Mentre per la Camera dei Deputati fu scelto il voto attraverso la doppia scheda, per il Senato l'opzione fu per la scheda unica e il recupero proporzionale (anche in questo caso fissato al 25%) sarebbe avvenuto attraverso il recupero dei migliori candidati battuti nei collegi uninominali.
In realtà la modifica della legge elettorale per le elezioni politiche fu preceduta dalla modifica delle legge elettorale destinata all'elezione dei sindaci e dei presidenti di provincia, introducendo per la prima volta nella storia d'Italia l'elezione diretta per gli organi monocratici.
L'elezione diretta di Sindaci , Presidenti di Provincia e Presidenti di Regione
Questo nostro lavoro è limitato all'analisi del mutamento, nel tempo, dei sistemi elettorali politici ma, in questo caso, ci pare il caso di riassumere i sistemi elettorali in vigore per gli Enti Locale e le Regioni, per le quali, a partire dal 2000 è prevista l'elezione diretta del Presidente: Sindaci, Presidenti di Provincia e Presidenti di Regione hanno, inoltre, la facoltà di nominare (e revocare) direttamente i propri Assessori.
Abbiamo ,quindi, ritenuto utile ai fini complessivi del nostro discorso riassumere, molto brevemente, i tratti fondamentali dell'ordinamento legislativo che regge la formazione degli organismi istituzionali negli Enti Locali e nelle Regioni.
Nei comuni fino a 15.000 abitanti (circa 7.500 su 8.100) è utilizzato, fin dal 1993 (legge 81/93) un sistema elettorale maggioritario grazie al quale risulta automaticamente eletto Sindaco il candidato che ottiene più voti.
Poiché la sua coalizione è collegata ad una lista di candidati al Consiglio Comunale, a questa lista sono attribuiti i due terzi dei seggi e sono dichiarati eletti i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di preferenze.
Gli elettori hanno diritto ad esprimere una sola preferenza.
I seggi rimanenti sono ripartiti proporzionalmente fra le altre liste.
Nei Comuni al di sopra dei quindicimila abitanti il sistema è pure maggioritario, ma a doppio turno eventuale.
Gli elettori dispongono di due voti: uno per il Sindaco, uno per il Consiglio (con una preferenza), che possono usare in maniera disgiunta (analogo sistema è usato per l'elezione del Presidente della Provincia, cui si allineano anche tutte le altre norme citate in seguito salvo, appunto, questa del voto disgiunto: per il Presidente della Provincia è necessario votare una lista facente parte della stessa coalizione che presenta, appunto, il candidato).
Al primo turno è eletto immediatamente Sindaco ( o Presidente di Provincia) il candidato che ottiene più del 50% dei voti.
Altrimenti è necessario un secondo turno, di ballottaggio, tra i due candidati più votati.
La ripartizione dei seggi in Consiglio viene calcolata proporzionalmente (con sbarramento per le liste che, da sole o collegate, non abbiano conseguito almeno il 3%): tuttavia alle liste collegate con il Sindaco (o il Presidente della Provincia, vincente) sono comunque assegnati almeno il 60% dei seggi a titolo di premio.
In tal caso le liste non collegate al Sindaco(a al Presidente della Provincia) eletto si ripartiscono il 40% dei seggi residui.
Il premio non viene assegnato, tuttavia, nel caso in cui le liste collegate al Sindaco eletto restano sotto il 40% (in tal caso si torna alla ripartizione strettamente proporzionale), ovvero nel caso in cui l'altra coalizione (pur collegata al candidato sconfitto) abbia ottenuto più del 50% dei voti (anche in tali casi la ripartizione resta strettamente proporzionale).
Nel caso del turno di ballottaggio se lo schieramento che ha appoggiato il candidato sindaco (o presidente di Provincia) vincente, al secondo turno, ottiene il 60% dei seggi nel Consiglio, da ripartirsi proporzionalmente fra le liste ed i partiti che ne fanno parte.
Sono possibili apparentamenti fra il primo ed il secondo turno.
I seggi rimanenti sono ripartiti proporzionalmente fra le altre liste.
I candidati sindaci sconfitti sono comunque tutti eletti, purché la loro lista abbia ottenuto i voti necessari per conquistare almeno un seggio.
Anche la legge elettorale regionale, nata nel 1968 (le prime elezioni regionali, nella Regioni a statuto ordinario si svolsero il 7 Giugno 1970) era di impianto proporzionale, con un sistema di lista con voti di preferenza largamente simile a quello utilizzato per eleggere la Camera dei Deputati fino al 1992.
Pur non essendo investita dai referendum la legge elettorale regionale è stata riformata in due occasioni: nel 1995 e nel 1999.
La legge n.43 del 23 Febbraio 1995, innovò significativamente la precedente disciplina creando un sistema elettorale misto, sul quale si innescò poi la riforma costituzionale (legge costituzionale 1/1999) che aggiunse la vera e propria elezione diretta del Presidente della Regione.
La legge del 1995 confermò il sistema di attribuzione dei seggi della vecchia legge del 1968, che utilizzava come abbiamo visto, il metodo proporzionale, ma limitatamente all'80% dei seggi; stabilì, invece, che il 20% di seggi residui fossero assegnati sulla base di liste regionali, destinati a costituire un premio di maggioranza : tale sistema è rimasto inalterato, con il passaggio all'elezione diretta del Presidente che, a fianco del proprio nome, si trova collocato un listino di nomi corrispondente al 20% dei seggi in consiglio regionale, i cui candidati saranno automaticamente eletti in caso di una sua vittoria (il premio di maggioranza è ridotto alla metà, se le liste che appoggiano il presidente eletto superano il 50% dei voti).
La stessa riforma costituzionale 1/1999 ha introdotto due altri importanti principi: quello del “simul stabunt, simil cadent” stabilendo che, qualora il Consiglio Regionale sfiduci con mozione motivata il Presidente eletto, questi decada con la sua Giunta, il Consiglio sia sciolto e si proceda a nuove elezioni e, infine, attribuì competenza legislativa in materiale elettorale in ciascuna regione. Per questo motivo è in atto un meccanismo di revisione delle leggi elettorali delle diverse Regioni già arrivato in porto in Basilicata, Marche, Puglia e Toscana.
IL Ritorno al sistema proporzionale
Dal 1994 al 2005 si è, dunque, votato in Italia per le elezioni legislative generali con il sistema misto “maggioritario al 75% e proporzionale al 25%” già descritto: un sistema notevolmente complesso al riguardo del quale si possono trarre alcune indicazioni di bilancio, dopo che – appunto- si sono svolte con quel sistema tre tornate elettorali: 1994, 1996, 2001,
La prima valutazione riguarda il fatto che questo sistema elettorale non aveva, in alcun modo ridotto il numero dei partiti che, anzi, grazie al potere di ricatto di cui disponevano per far vincere/perdere i candidati nei collegi uninominali (si noti, non con le liste proporzionali che avrebbero dovuto superare lo sbarramento del 4% a dimensione nazionale) si facevano consegnare un numero significativo di seggi nei collegi ritenuti “sicuri”.
In secondo luogo il sistema ha effettivamente incoraggiato la formazione di coalizioni e la competizione bipolare.
Tuttavia, ancora nelle elezioni del 2001 addirittura cinque milioni di elettori (un settimo dell'elettorato complessivo) scelsero partiti e liste non coalizzate.
Inoltre le coalizioni elettorali, politiche e di governo sono state conflittuali e non hanno contenuto l'instabilità di governo.
Al terzo punto si è notato come effettivamente sia stata prodotta l'alternanza di governo, ma questo fatto può difficilmente essere attribuite semplicemente al “sistema”, poiché l'alternanza si ha anche in altre sistemi politici delle nuove democrazie mediterranee come Spagna, Grecia, Portogallo, che usano sistemi elettorali proporzionali.
Quarto, ed ultimo punto, i collegi uninominali, nei quali troppo spesso le coalizioni avevano “paracadutato” i loro candidati, non hanno prodotto, tranne in pochi casi eccezionali, un miglioramento nei rapporti tra elettori ed eletti.
Tra molte critiche e ipotesi di intervento si arrivò fino al 2005, quando, sul pretesto di una riforma volta ad eliminare il principio dello “scorporo” all'interno del computo dei voti per l'attribuzione dei seggi nella parte proporzionale, i partiti della maggioranza di centro-destra avviarono una proposta di totale rivisitazione del sistema elettorale che introduceva un sistema proporzionale “corretto”.
La nuova legge(n.270 del 21 Dicembre 2005) prevedeva, innanzitutto, una molteplicità di “soglie di sbarramento” applicate secondo percentuali diverse sia ai singoli partiti sia alle coalizioni, condizionando a questo modo lo svolgimento delle elezioni in termini di ripartizione tra voti e seggi.
In secondo luogo era introdotto un “premio di maggioranza”, distribuito alla Camera a livello nazionale e al Senato a livello regionale, presentando così il rischio di maggioranza diverse nelle due assemblee.
Infine, per la prima volta dal dopoguerra, è stato abolito il voto di preferenza, con l'introduzione delle cosiddette “liste bloccate”.
Questa legge , preceduta da molti dichiarazioni di esponenti del centrosinistra favorevoli alla “proporzionale” è stata voluta, formulata e approvata dall'allora “Casa delle Libertà” con intenti chiaramente difensivi.
Il sistema precedente avrebbe comportato secondo gli strateghi elettorali del centro – destra una sicura e ampia sconfitta nelle elezioni previste per il 2006 e il sistema proporzionale avrebbe potuto attutire il peso di questa sconfitta,poiché il centro sinistra era sempre apparso più forte nei collegi uninominali, indebolendosi, invece, nella quota maggioritaria.
Peraltro, come abbiamo visto, la legge non configura il ritorno alla proporzionale utilizzata in Italia per elezioni svoltesi tra il 1946 ed il 1992.
Qualcuno ha parlato di sistema misto.
La categoria generale di sistema misto è diventata di moda con la proliferazione di sistemi elettorali non facilmente catalogabili nelle grandi categorie “classiche.
Proponiamo qui di definire il “Mattarellum” come “sistema elettorale maggioritario in collegi uninominali con recupero di lista proporzionale” e l'attuale sistema come “sistema elettorale proporzionale spersonalizzato con premio di maggioranza”.
La logica profonda del sistema approvato nel 2005, può essere riassunta in due punti: riportare i partiti al centro della competizione politica; non abbandonare del tutto la logica del bipolarismo per coalizioni (il tentativo di ridurre questa parte al “bipartitismo” svolto attraverso il referendum del Giugno 2006, è stato respinto dagli elettori che hanno fatto mancare, in una dimensione molto larga, il “quorum”).
Ferma restando la “base regionale” per l'elezione del Senato, per la Camera dei Deputati si rimane alle 27 circoscrizioni in cui era stato suddiviso il Paese ai fini dell'assegnazione dei seggi per la quota proporzionale, nel precedente sistema: una conferma dovuta, peraltro, ai tempi molto ristretti di approvazione della legge
Con questo sistema elettorale si sono svolte le elezioni nel 2006 e nel 2008.
Le elezioni del 13-14 Aprile 2008 hanno prodotto un risultato chiaro e netto, con il successo della coalizione tra Popolo della Libertà, Lega Nord e Movimento per le Autonomie.
Sia alla Camera dei Deputati, sia al Senato si è realizzata un'ampia maggioranza parlamentare, smentendo quanti presagivano (sulla scorta dell'esito del 2006) un risultato foriero di instabilità ed incertezza.
L'altro risultato degno di nota, fornito dall'ultima consultazione elettorale legislativa, è stato quello di una forte riduzione della frammentazione partitica; nella XVI legislatura, attualmente in corso, sono presenti soltanto 5 gruppi parlamentari (contro i 14 alla Camera ed i 12 al Senato).
Una semplificazione che ha pochi esempi al mondo e che lascia, comunque, il tema di una sottorappresentazione di settori non secondari dell'elettorato.
Inoltre, nel corso della legislatura si è verificato un notevole numero di passaggi di parlamentari da un gruppo all'altro (la scissione del PDL ha formato il grippo del FLI; quella del PD il gruppo dell'API; parlamentari di varia provenienza hanno formato il gruppo di “Iniziativa Responsabile”, dimostrando come, oltre al dato del deficit di rappresentatività politica il sistema non impedisce un ulteriore livello di frammentazione in sede parlamentare.
Si è, inoltre, dimostrata con tutta evidenza una forte difficoltà del sistema bipolare.
A questo punto il dibattito si è riaperto e l'iniziativa referendaria di cui si accennava all'inizio appare essere un punto di sviluppo della discussione sul quale riflettere (inoltre, l'abolizione del premio di maggioranza toglierebbe di mezzo l'ambigua figura del “Capo della Coalizione” che si situa davvero “border line” a livello costituzionale, dando un colpo all'imperante modello della “personalizzazine della politica”
Sul sistema politico italiano incombono altre esigenze urgenti di riforma che non intendiamo dimenticare: dal bicameralismo paritario, alla disciplina dei sistemi elettorali locali, alla formazione dei gruppi parlamentari, ai rimborsi elettorali fino alle regole di raccolta delle firme per la presentazione delle liste, sia in sede nazionale, sia in sede locale.
Speriamo, attraverso questo nostro lavoro, di aver fornito semplicemente un utile contributo di conoscenza.
Savona, li 22 Giugno 2011 Franco Astengo
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