Dall'adl
Guasto è il mondo
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A margine della revisione teorica in corso nel PSE (seconda parte).
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di Felice Besostri
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Finalmente è stato tradotto anche in italiano il libro uscito postumo di Tony Judt (1948-2010) con il titolo “Guasto è il mondo” (Laterza, 2011, titolo originale Ill fares the land).
Si legga la parte dedicata all’altra grande crisi del 1929-1932 in cui tutta la sinistra storica, dai comunisti ai socialdemocratici, non elaborò alcuna proposta su cosa fare affinché non si ripetesse e si uscisse dalla crisi. Una volta detto che la colpa era del capitalismo e delle sue contraddizioni interne, ci si è fermati là.
Da quella crisi si uscì con le politiche economiche keynesiane, ma soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale.
Non ci sono ricette semplici ma si dovrebbe quantomeno sottoporre a una verifica proposte come quella di una decrescita, come unica risposta alla compatibilità ambientale. Senza crescita non si possono ridurre le diseguaglianze mantenendo un sistema democratico, cioè basato sul consenso della maggioranza dei cittadini.
Le disparità di reddito e di patrimoni si sono incrementate anche all’interno delle società sviluppate e gli squilibri di sviluppo planetari, aggravati dalle speculazioni sulle materie prime e i prodotti agro-industriali, sono un fattore costante di minaccia alla pace oltre che provocare fenomeni di portata mondiale, quali le migrazioni di massa, in cui fattori economici e politico-sociali sono strettamente intrecciati.
In una situazione come questa si comprende (psicologicamente, meno politicamente), che, nonostante la revisione iniziata all’interno del PSE (e che si è estesa all’Internazionale Socialista dopo gli infortuni legati ai partiti associati di Egitto e Tunisia, radiati in tutta fretta) e dei suoi maggiori partiti (SPD e Labour in testa), si pensi agli anni ’90 del secolo scorso ancora come la golden age del socialismo democratico europeo.
Ricordate quando su quindici membri dell’allora UE, tredici avevano un primo ministro socialista e il 14° era Romano Prodi? Mai i partiti socialisti democratici avevano avuto tanto consenso democratico come allora. In realtà, si tratta di una constatazione tanto fuorviante quanto quella che, dopo le sconfitte elettorali, dà il socialismo, nella versione socialdemocratica, per definitivamente tramontato.
Il punto è altro: l’uso fatto del consenso per raggiungere gli obiettivi propri di un movimento socialista e di sinistra sia nelle politiche economiche nazionali sia nelle istituzioni europee.
Il consenso in elezioni nazionali è stato l’alibi per non cambiare nulla, né nella struttura e nel coordinamento europeo dei partiti socialisti, né nelle istituzioni europee, men che meno per mettere in discussione il pensiero unico neoliberista. Finché c’era crescita era possibile una distribuzione della ricchezza, che si traduceva in consenso elettorale.
Se mi è consentito un paragone, è stata una fase, come quella dell’acme dell’imperial-colonialismo europeo, che ha consentito le prime leggi sociali per tenere buona la forza crescente dei partiti socialisti democratici.
Così, il socialismo democratico del secondo Dopoguerra ha fatto un compromesso con il capitalismo, che nel complesso si deve giudicare virtuoso, nel senso che ha consentito un modello sociale europeo che rappresenta una delle più alte conquiste dell’umanità e che altri stati di forte sviluppo come gli USA o la Federazione Russa e la stessa Cina Popolare sono costretti a invidiarci.
Prima ancora, il nesso originario e indissolubile del socialismo democratico europeo venne però stabilito più con la libertà e la democrazia. In questo, la rottura con il filone comunista è stata netta. (2/3. Continua
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