CADUTA DELLE DITTATURE E ASSALTO ALLA DEMOCRAZIA: UN PARADOSSO SUL TEMA DEL POTERE
Questo abbozzo di riflessione, limitata al terreno teorico – politico, ci è stata suggerita dal presentarsi, nella stretta attualità, da un apparente paradosso: mentre nel Nord-Africa cadono le dittature, tra rivoluzioni di “velluto” e incredibili bagni di sangue, in Italia si sta preparando l'ennesimo assalto alla democrazia, principalmente sul terreno della divisioni dei poteri, quella storica individuata dall'Illuminismo.
Questo perché, davvero, nella settimana prossima il tema della giustizia sarà affrontato, proprio nel nostro Paese, in quella direzione tentando di completare un antico sogno: l'immunità per “l'unto del signore” (perfezionando così un meccanismo di detenzione del potere in forma “personale”, quasi mutuato da quel tipo di forma del potere che sta crollando – appunto – in Nord Africa e che rimane in piedi nei paesi dell'ex-URSS) e la soggezione del potere giudiziario a quello politico.
L'assenza di una riflessione su questi punti, proprio dal versante teorico, appare come una grave lacuna, in particolare a sinistra, laddove i soggetti politici esistenti paiono aver rinunciato ad un qualsiasi ruolo in questo senso, affidandosi, da un lato, ad una sorta di pragmatismo spicciolo sul modello dettato dalla politologia e dalla sociologia statunitense (compreso il discorso delle primarie) e dall'altro muovendosi su di un terreno di “narrazione” quasi millenaristica, imperniata su di una sorta di salvifica “personalizzazione” (salvo improvvise scivolate nel più deteriore politicismo): una personalizzazione, alla fine, non molto diversa nei suoi risvolti fattuali da quella esercitata dall'Avversario con la A maiuscola (ricordando sempre che gli originali normalmente prevalgono sulle imitazioni).
Riprendiamo, però, il tema centrale del discorso e, cioè quello del potere, partendo dalle origini della sua concezione.
Nel lessico corrente potere è la capacità di produrre effetti da parte di una forza in un ambiente.
In senso politico, il potere è sempre potere dell'uomo sull'uomo, vale a dire la capacità di condizionare il comportamento di altri uomini.
Aristotele, distingue, nella “Politica” tre tipi di potere in base all'ambito su cui si esercita: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni sugli schiavi, il potere dei governanti sui governati, vale a dire il potere politico in senso stretto.
In età moderna Locke riprende questa classificazione quando apre il secondo dei suoi “Trattati sul governo” distinguendo il potere del padre sui figli, dal capitano di una galera sui galeotti ( la forma moderna di perpetuazione della schiavitù, a fini economici) e del governante sui sudditi.
Ma ancora Max Weber, in una pagina di “Economia e Società”, dopo aver distinto il potere “costituito in virtù di una costellazione di interessi”, dunque il potere specificatamente economico, e il potere “costituito in virtù dell'Autorità” precisa che quest'ultimo è rappresentato dal “potere del padre di famiglia o dal potere di ufficio o dal potere del principe”.
Il potere d'ufficio è la tipica forma del potere burocratico, è il potere rappresentato dalla grande impresa o dalla pubblica amministrazione, la “famiglia pubblica” come anche è stata chiamata.
Nello Stato, come si è sviluppato in Europa tra il XVII ed il XIX secolo, giunge a compimento il processo di istituzionalizzazione del potere avviato nei secoli precedenti.
In questo processo vengono a sintetizzarsi tre tendenze, che convergono nel garantire un consolidamento del sistema statale: a)la crescente”spersonalizzazione” dei rapporti di potere: il potere coincide sempre meno con le singole persone a cui è attribuita facoltà di prendere decisioni vincolanti e sempre più attraverso la macchina normativa; b) la crescente “formalizzazione”; l'esercizio del potere si orienta sempre più nettamente a regole, procedimenti rituali; c) la crescente “integrazione” dei rapporti di potere in un ordinamento onnicomprensivo: il potere si cementa con una struttura sociale che lo sostiene e ne viene sostenuta.
Solo su questa base potrà svilupparsi quella forma di potere estraneo alla sovranità che è, secondo Foucault, il potere “disciplinare”.
Se, agli albori della modernità. Hobbes (il filosofo nel quale, come rileva Levi Strauss, “potentia” fisica e “potestas” giuridica vengono a coincidere) teorizzava ancora l'indivisibilità del potere sovrano e dunque la permanenza nelle stesse mani della spada della guerra e della spada della giustizia, rivendicando al sovrano secolare anche le tradizionali prerogative della Chiesa, quali la convocazione delle assemblee, la nomina dei pastori e la remissione dei peccati, con Locke, Montesquieu e Sieyès matura, invece, la dottrina della separazione dei poteri, destinata a diventare il cardine dello Stato di diritto liberale.
In particolare l'abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere costituente e poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della Costituzione come atto normativo mirante a definire e disciplinare la titolarità e l'esercizio del potere sovrano.
Al potere viene riconosciuta sia la funzione costitutiva della società politica (potere costituente) sia quella regolativa della società civile (potere costituito).
Per la sua duplice natura di prima fonte del diritto e di decisione fondamentale sulla forma da dare all'unità di un popolo, il potere costituente è un potere onnipotente: all'origine dell'ordine costituzionale sta un atto di rottura rivoluzionaria, che si iscrive ancora nel codice dell'assolutismo politico.
Questi capisaldi della teoria costituzionale del potere entrano in crisi nel corso del XX secolo.
A perdere presa sulla realtà sono tanto l'idea del potere costituente, quanto quello della classica divisione dei poteri.
Pare essersi strutturato un “dualismo” del potere che ha soppiantato la centralità del Parlamento, riproponendo lo schema che vede, da una parte, lo stato governativo che ha prevalso sullo stato legislativo (con l'inflazione dei decreti e delle decisioni particolaristiche) e dall'altro la modifica dei poteri, con una contrapposizione diretta tra potere esecutivo e potere giudiziario, senza alcuna possibilità di intermediazione da parte dei cosiddetti “corpi intermedi”.
L'età contemporanea è inoltre l'epoca in cui i confini del potere politico tornano a confondersi: l'età delle ideocrazie totalitarie e l'età della colonizzazione del potere politico da parte di quello economico.
E' l'età della politicizzazione e della proliferazione dei poteri sociali: anche la società dei diritti è, in fondo, una società di micropoteri.
Il potere diventa quindi una risorsa che non si divide tra coloro che lo detengono come proprietà esclusiva e coloro che lo subiscono, è piuttosto una risorsa che circola attraverso un'organizzazione reticolare.
Il potere non si concentra al vertice ma si disperde nella società transitando attraverso gli individui, questo è anche il senso della tesi dell'inflazione del potere sviluppata da Luhmann, in conseguenza della quale non solo nella sua variante totalitaria, ma anche in quella democratica la società contemporanea è dunque una società nella quale il potere politico appare problematico.
La grande finzione della modernità, l'assunzione di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra potere costituente e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo, legislativo, giudiziario sembra proprio essere venuta meno.
Ritorniamo, quindi, al punto di partenza: quale risposta possibile, nel quadro di questa modificazione profonda della realtà del potere, alla richiesta di superamento dell'autocrazia che viene dal Nord Africa e quale opposizione da portare avanti, in Italia, al tentativo di riunificare gli incerti confini delle forme del potere proprio in una nuova autocrazia?
Si tratta di temi da non sottovalutare, principalmente da parte delle forze che intendono richiamarsi a “storici” concetti di esercizio della democrazia, in particolare in un rapporto equilibrato e positivo tra rappresentatività politica e governabilità.
La sola strada,a questo punto, appare essere quella di tornare ad essere rigorosi interpreti delle distinzione tra “potere costituente” e “potere costituito”, respingendo l'idea di una sopraffazione dell'economico e del sociale nei riguardi del “politico”.
Una nuova teoria dell' “autonomia del politico”? No, piuttosto, una sorta di “ritorno allo Statuto”.
Nel caso italiano la Costituzione del 1948 ha rappresentato un momento di superbo equilibrio nel mantenimento della classica divisione dei poteri e di costruzione di rapporti sociali misurati sul raccordo tra diritti e doveri.
La difesa e l'affermazione della democrazia, laddove essa è reclamata quasi come “nuova frontiera” e laddove essa è attaccata in nome di una ritorno alla “modernità” del principato (o “sultanato” che dir si voglia) passa attraverso l'affermazione del dettato Costituzionale nella sua interezza: un punto sul quale poggiare per una iniziativa politica conseguente ,partendo proprio dall'idea della “centralità” del Parlamento e delle assemblee elettive ed il ritorno al concetto di rappresentatività politica e di separazione dei poteri, rifiutando l'idea di una presunta “post-modernità” che altro non sarebbe che un brusco ritorno al passato.
Savona, li 26 Febbraio 2011 Franco Astengo
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