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sabato 1 ottobre 2022
Roberto Biscardini: Qualche considerazione a caldo
QUALCHE CONSIDERAZIONE A CALDO
di Roberto Biscardini
Le elezioni del 25 settembre hanno rispettato le previsioni. Ciascuno di noi ha sbagliato di poco. Era assolutamente chiaro il successo della Destra e di Fratelli d’Italia, il calo ella Lega e la tenuta di Berlusconi.
Anche la percentuale di voti ottenuti da Calenda era nelle cose: L’ipotesi della doppia cifra era inesistente, il 5% troppo poco.
Che il centrosinistra finisse così, intorno al 25% punto più o punto meno, con un risultato disastroso del Pd, era anch’esso prevedibile, dopo la sciagurata gestione del partito di Letta che ha fatto di tutto (al di là delle dichiarazioni) per evitare la grande coalizione, l’alleanza tecnica con il M5s e perdendo per strada Calenda. Non nascondendo la solita superbia, secondo la logica dell’antica autosufficienza, per accontentarsi dell’egemonia a sinistra alla faccia degli interessi di tutti.
Un risultato disastroso appunto, che è anche minore del 19% considerando che nella lista Italia Democratica e Progressista confluivano qualche partito e molte altre formazioni. C’è infatti da pensare che Art.1, Psi, Demos, Movimento Repubblicano, Volt, Casini, Base Italia ed altri, almeno il 2 o 3% l’abbiano portato in dote. Quindi abbiamo un Pd al 16 / 17%, e questo nonostante negli ultimi giorni ci sia stato un certo recupero delle annunciate astensioni che hanno dato un contributo alla polarizzazione favorendo contemporaneamente sia il Pd sia la Meloni.
Sul piano politico con queste elezioni non solo il Pd è sempre più quel partito del potere e delle istituzioni, che mantiene i suoi voti soprattutto nelle aree Ztl, ma addirittura è un partito che non riesce a trasferire il peso del proprio consenso locale e dei suoi Sindaci (ancora tanti nel Paese) sul voto delle politiche, nonostante in alcuni collegi si siano spesi fino all’osso per sostenere i candidati dell’uninominale. Perde e non raccoglie più voti tra i giovani, tra i pensionati e persino nel mondo del lavoro, tra gli operai e i più sfruttati.
Così per il Pd si chiude un ciclo. Vedremo come va a finire. Ma certamente sembra chiaro, anche al suo gruppo dirigente, che non basta più cambiare un segretario o il nome per uscire dalle difficoltà e ritornare a parlare al Paese.
Sarebbe l’ennesimo segretario (quindici in dieci anni), senza cambiare politica e senza riuscire più a rispondere alle domande e ai bisogni dei cittadini.
Una cosa però sembra chiara: il Pd, o come si chiamerà, non è più l’unico riferimento possibile della sinistra italiana, né potrà esercitare più il monopolio dell’opposizione.
Tanto più che, al di là degli astensionisti che con la loro scelta hanno già espresso un giudizio contro tutti, sinistra inclusa, la somma dei voti di chi si colloca all’opposizione di sinistra o di centrosinistra, al netto del Pd, supera il 32%.
E non vale la dichiarazione a posteriori secondo la quale sarebbe colpa degli altri se non si è riusciti a realizzare il “campo largo”, ma anche che bastavano pochi voti del M5s per eleggere, soprattutto al sud, un po’ di parlamentari del Pd anziché far vincere quelli di Destra. Perché non si è fatto il contrario, favorendo alcuni candidati dei M5s che peraltro hanno dimostrato di avere più voti del Pd?
Per quanto riguarda il Partito socialista, l’amarezza per la non elezione dei suoi candidati non basta. Ciò che è accaduto è figlio della storia drammatica degli ultimi 10 anni: dal 2013, quando, pur essendo in una botte di ferro, si preferì non presentare il simbolo per eleggere i propri parlamentari nella quota uninominale sotto l’ombrello del Pd. Ma è soprattutto la naturale conseguenza delle scelte che sono state fatte all’ultimo congresso di Roma. In quel congresso il Psi si è messo nelle mani del Pd, ancora prima che venissero indette le elezioni. Insieme ad Articolo Uno si decise un’alleanza con il Pd nel momento in cui quel partito era già al suo minimo storico, senza identità, senza politica e senza prospettiva, secondo uno schema vecchio di almeno dieci anni. Sia il Psi che Articolo Uno accettarono un’alleanza senza garantirsi nemmeno la presenza del loro simbolo in vista della prossima campagna elettorale e così sono spariti definitivamente dalla scena.
Sia dal punto di vista politico che dal punto di vista pratico. Il Psi non ha fatto alcuna campagna elettorale per difendere e rendere visibile la propria identità, ma nello stesso tempo nel programma di Italia Democratica e Progressista sotto il simbolo del Pd non si fa neppure un cenno dell’alleanza con i socialisti. E così i socialisti sono cancellati anche formalmente. La non elezione di Maraio, di per sè un fatto grave, è quindi figlia della sbagliata disponibilità, o ingenuità, ad accettare, in quanto segretario di partito, una posizione non solo non sicura, ma per certi versi persino umiliante.
Nell’ultimo congresso il Psi accettando la piena subalternità al Pd, nel nome dell’elezione del proprio segretario e magari anche del suo presidente, ha rinunciato a fare delle elezioni un momento della propria esistenza politica.
D’altra parte si era già sprecata l’occasione di dare a quel congresso il significato della svolta: l’inizio di un processo nuovo per costruire un’area più larga del socialismo italiano in cui il Psi non fosse l’unico riferimento. Non si è accettata l’idea, rivendicata da alcuni di noi, di fare un congresso aperto, anche ai non iscritti, che persino nella trattativa con il Pd avrebbe avuto un diverso peso politico.
C’è chi oggi dice: “adesso possiamo partire da zero, meglio da zero che da 0,1”. Non è così, perché non si tratta di ripartire dal solo Psi, ma di costruire le condizioni per un grande movimento socialista che si identifichi con la sinistra, così come la sinistra deve identificarsi con i principi del socialismo.
Ma per questo occorrono nuove energie, visione e coraggio. E vecchie passioni. Occorre chiamare tutti coloro che sono disponibili a fare propria la questione socialista, senza distinzioni e senza troppi aggettivi. Come all’origini della nostra storia. Non esiste a priori la sinistra buona e la sinistra cattiva, quella moderata e quella troppo di sinistra, quella di governo e quella populista (termine ambiguo, usato solo in modo dispregiativo per tenere fuori un elettorato persino socialista che in assenza di un’offerta politica si è rivolto altrove), esiste il socialismo come forza unificante delle forze popolari e di chi ha bisogno di giustizia sociale e di libertà.
A distanza di trent’anni la Seconda repubblica certifica che senza una grande forza socialista la sinistra è fuori gioco. Lascia spazio alla destra, non riesce ad esercitare alcuna critica nei confronti del capitalismo, non è socialdemocratica e crea le condizioni per la vittoria di governi reazionari.
Molti di noi non hanno rinunciato a cambiare il corso delle cose.
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