sabato 31 luglio 2021

Daniele Nalbone: Il triste dibattito sul reddito di cittadinanza

Micromega Luglio 30, 2021 Il triste dibattito italiano sul Reddito di Cittadinanza DANIELE NALBONE Mentre, come raccontato nelle puntate sul reddito di base nel mondo, a livello globale si susseguono sperimentazioni e studi su una misura di welfare universale e incondizionata, nel nostro Paese il dibattito è incagliato su furbetti e imprenditori che non trovano forza lavoro. Prima parte: Il reddito di base negli Usa, soluzioni locali a un problema globale Seconda parte: dal Brasile all’intero Sudamerica? Terza parte: il reddito di base in Africa, da aiuto caritatevole a scintilla di sviluppo Quarta parte: Dai villaggi dell’India alle metropoli della Corea del Sud: è l’Asia il vero laboratorio del reddito di base Cosa si intende per reddito di base incondizionato? Il reddito di base “incondizionato” non è accompagnato dalla richiesta di alcun requisito ai beneficiari. Viene erogato senza obbligo di lavorare o dimostrare la volontà di lavorare. Perché il reddito di base dovrebbe essere incondizionato? Il reddito di base, per usare le parole di Conor Hunter (Basic Income Network Scotland), “garantisce un diritto umano”. Ogni individuo ha diritto a uno standard di vita adeguato alla salute e al benessere di sé stesso e della sua famiglia, compresi cibo, vestiario, alloggio, assistenza medica e servizi sociali necessari e diritto alla sicurezza sociale ed economica in caso di disoccupazione, malattia, disabilità, vedovanza, vecchiaia o per altra mancanza di mezzi di sussistenza in circostanze al di fuori del suo controllo. I diritti umani sono inalienabili e pertanto qualsiasi sistema in atto per proteggere o fornire questi diritti non dovrebbe comportare condizioni. Il reddito di base offre libertà al destinatario. Porre condizioni sulla ricezione del reddito di base significa che non è più un pagamento che conferisce al destinatario i diritti e la libertà associati all’idea stessa della misura; il pagamento diventa quindi un incentivo a controllare l’individuo a comportarsi in un certo modo (a cercare o a svolgere un lavoro, per esempio). “Solo rivendicando incondizionalità all’interno della definizione di Reddito di Base”, sottolinea ancora Conor Hunter, “possiamo essere sicuri che esso garantisca libertà e diritti a tutti; e non potrà essere strumentalizzato per riprodurre meccanismi di potere o ridurre la libertà e i diritti degli individui”. Non staremo qui a discutere o a ricostruire cosa è accaduto negli ultimi venti anni: sarebbe l’ennesimo viaggio tra le crisi. Quello su cui è utile mettere l’accento è come nei primi venti anni del nuovo secolo sia emerso con forza il reddito di base come “una delle proposte in grado di offrire una prospettiva forte di cambiamento possibile” spiegano Rachele Serino e Sandro Gobetti nell’introduzione al libro “Verso il reddito di base – Dal reddito di cittadinanza per un welfare universale”. Come abbiamo visto nel breve viaggio intorno al mondo che abbiamo fatto nelle scorse settimane su MicroMega+, il reddito di base, soprattutto quello che viene accompagnato dai termini “universale” e “incondizionato”, cioè destinato a tutti gli esseri umani e senza alcun obbligo o contropartite, è diventato una proposta che ha oltrepassato le frontiere. “Un dibattito che nella metà degli anni Ottanta dello scorso secolo era relegato a pochi economisti, sociologi, filosofi, ricercatori o reti di sostenitori” continuano Serino e Gobetti, “è divenuto ormai parte delle agende di governi locali, regionali, nazionali, sostenuto da migliaia di persone nel mondo, fino a interessare le imprese tecnologiche ed è studiato in numerose accademie. Mai come in questi primi venti anni del nuovo millennio il reddito di base ha avuto così tanto seguito”. Si è passati dal dibattito teorico, dall’ideazione di possibili schemi di attuazione, “ad avere a disposizione dati empirici, esperienze reali, ricerche sul campo, studi approfonditi, rapporti ufficiali sui risultati prodotti dall’introduzione, anche se in molti casi sperimentale, di questa misura”. E, dato interessante che merita di essere analizzato, negli ultimi anni sono cambiati anche gli attori in campo: siamo passati da organizzazioni non governative a Unicef e Onu, da consigli comunali a governi nazionali, arrivando – attenzione – alle grandi imprese della tecnologia e filantropi multimiliardari. Mentre i datori di lavoro italiani riempiono le pagine dei giornali lamentandosi di non trovare forza lavoro a causa del reddito di cittadinanza (che, ricordiamo, è in media un’erogazione di 500 euro mensili con punte di 780 subordinata al non rifiuto di un massimo di tre offerte di lavoro) Jack Dorsey, fondatore di Twitter, ha finanziato – nel solo 2020, in piena pandemia – con 15 milioni di dollari oltre trenta comuni statunitensi della rete Mayors for a guaranteed income (che abbiamo raccontato qui) per sostenere le sperimentazioni di reddito di base. Qualche domanda ulteriore dovremmo farcela se il candidato alle ultime presidenziali Andrew Yang, attualmente in corsa per diventare il candidato democratico alla corsa a sindaco di New York, ha come suo primo punto del programma la creazione di un programma di reddito di base universale individuando come principale forma di finanziamento un Data Dividend, ovvero una tassa sui Big Data, il vero “petrolio” delle imprese tecnologiche. “Il nostro Paese invece è arido rispetto al dibattito mondiale in corso sul tema del reddito, non cogliendo lo spirito che sta attraversando il pianeta” sottolinea Gobetti. Eppure, il tema è in agenda. Il dato più interessante, secondo il rappresentante del Basic Income Network Italia, è “la convinzione comune che il reddito di base possa permettere alle persone di essere libere di scegliere il proprio percorso di vita e dunque autodeterminarsi. Per questo il concetto di incondizionalità assume una forza dirompente”. Molto spesso la domanda al centro delle polemiche è: dove trovare i fondi necessari? “Nella prima settimana di aprile 2020, durante il lockdown globale, sono stati 106 i Paesi che hanno introdotto nuove forme di protezione sociale, di sostegno al reddito, sussidi” con un aumento dei programmi di quasi il 50 percento. “Tra le formule di intervento, il trasferimento diretto di denaro alle persone è stato quello più ampiamente utilizzato (per un totale di 241 programmi). Una stima preliminare del numero di beneficiari sostenuti in modo diretto da forme di cash transfer ammonta a circa seicento milioni di persone nel mondo”. I soldi, quindi, ci sono. L’Italia, secondo Gobetti, “deve agganciarsi quindi al dibattito globale e cominciare a sintonizzarsi con il resto del mondo”. Un dovere, anche perché “il futuro sarà questo”. Il dibattito negli Stati Uniti, Paese storicamente non certo ai primi posti per le misure di welfare, “è nato da un lato dagli esperimenti locali e, dall’altro, dalle trasformazioni tecnologiche che hanno stravolto la nostra società. Il terzo millennio ‘tech’ dovrà necessariamente essere affrontato con nuovi modelli e, per farlo, abbiamo bisogno di una riflessione alta sul futuro del lavoro”. Il tema del reddito, sottolinea Gobetti, “non è più solo ascrivibile a un processo, diciamo così, teorico o filosofico e nemmeno a un processo analitico ed economico. I dati empirici in nostro possesso richiedono uno scatto in avanti proprio a partire da quanto sta avvenendo in diverse città, se vogliamo ragionare in termini europei della questione”. Primo passo, abbandonare l’idea che il reddito di base – come è invece il reddito di cittadinanza – possa essere una misura proattiva per il mondo del lavoro. “Solo in Italia parliamo di questo. Di quanti posti di lavoro si possono creare grazie a quella che in realtà è, e deve essere, una misura di puro welfare. Continuiamo a discutere di condizioni per consentire l’accesso al reddito, ma l’unica condizione è che non devono esserci condizioni”. In conclusione, non possiamo non analizzare come il principale problema del dibattito italiano sia dovuto alla narrazione – giornalistica e politica – che da quando il reddito di cittadinanza è entrato in vigore ha preso piede. Abbiamo aperto su questo punto il nostro viaggio nel mondo alla scoperta delle sperimentazioni in corso di un nuovo welfare: torniamo quindi al punto di partenza. “Quella rappresentata dal reddito di cittadinanza è stata un’occasione persa” commenta Gobetti. Non che la misura non sia servita, soprattutto alla luce della pandemia, anzi. Ma “doveva essere una scintilla. Invece basta sfogliare i giornali o accendere la tv per capire che il Movimento 5 stelle ha perso il treno”. Un problema politico e al tempo stesso strategico. Problema politico. “Il Movimento 5 stelle doveva fare fronte compatto durante il lockdown e costringere l’allora premier Conte ad ampliare la platea del reddito di cittadinanza, ad abbattere i troppi paletti presenti, anziché dar vita a una serie di bonus e una tantum che sono stati presi letteralmente d’assalto dalle persone in difficoltà. Quando è stato lanciato il bonus di 600 euro, a maggio del 2020, in una nottata sono arrivate quattro milioni di richieste e il sito dell’Inps è andato in tilt”. Ma, così facendo, “il reddito di cittadinanza sarebbe andato verso il reddito di base” e “il Pd evidentemente non poteva permetterlo”. Problema strategico. “In Italia ci sono competenze importanti per studiare gli effetti del reddito di cittadinanza da ogni angolazione”, ma “il Movimento 5 stelle ha perso tempo a scontrarsi politicamente con gli oppositori della misura anziché concentrarsi sulla produzione – a livello governativo – di rapporti sul suo funzionamento. Penso che neanche chi ha ideato il reddito di cittadinanza abbia, oggi, contezza di ciò che questa misura rappresenti per la parte più povera del Paese” altrimenti, “considerando che erano al governo con Conte e lo sono tutt’ora con Draghi, non sarebbero andati avanti a cercare, ogni volta, una misura per i maestri di sci, una per gli stagionali, una per le badanti, una per le baby sitter”. “Forse”, conclude Gobetti, “hanno avuto timore di Renzi e di un eventuale ritiro della fiducia al governo Conte, che poi è comunque arrivato. Fatto sta che nella scelta di non ampliare la platea del reddito di cittadinanza, ma di creare addirittura un reddito di emergenza, hanno boicottato il loro stesso cavallo di battaglia elettorale e hanno ulteriormente certificato la frammentazione del lavoro e del welfare italiano”. Il problema del lavoro e del welfare è invece “universale” e, per questo, richiede “risposte universali che, stavolta, erano lì, a un passo. Potevano ampliare e includere. Hanno scelto di dividere e frammentare. Hanno messo il bollino sulla giungla nella quale siamo intrappolati da decenni”.

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