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martedì 1 dicembre 2020
Alberto Ferrari: Storia dell'avvio di un potere economico-culturale
STORIA dell’AVVIO di UN POTERE ECONOMICO-CULTURALE
La devastante pandemia da coronavirus - di cui non riusciamo ancora a vedere la fine perché, per quanto se ne sa oggi, dopo la fase acuta il virus potrebbe rimanere attivo per mesi se non per anni fino a quando non saranno trovati farmaci efficaci o un vaccino efficiente -, accanto alle numerose vittime, che è già di per se un fatto gravissimo, sta generando sempre più pesanti conseguenze sul piano economico-sociali che stanno mettendo in luce i limiti di un modello economico-sociale, quello attuale, da rivedere forse profondamente. In questo senso la pandemia può rappresentare, se la si saprà cogliere, anche una opportunità per avviare politiche economiche innovative.
Le misure di lockdown e di distanziamento sociale che si sono dovute adottare ovunque, come i soli strumenti efficaci per contrastare nell’immediato l’altamente letale diffusione del virus, stanno provocando enormi danni umani sociali e soprattutto economici per un sistema che aveva fatto della globalizzazione dei mercati, dei consumi, dei mezzi di produzione e delle genti, i suoi punti di forza relegando spesso ai margini , nel suo procedere, lo stesso valore della persona umana oltre che dell’ambiente fisico e vivente, considerati entrambi come elementi di ostacolo alle meravigliose sorti progressive del mercato libero da vincoli.
La pandemia si è comportata come se improvvisamente milioni di attività produttive e commerciali, in ogni parte del mondo, si fossero dovute fermare per un tempo ancora non definibile, mostrando la fragilità di un sistema economico che ha creato società che non possono arrestarsi neppure per poche settimane, pena un grave stato di crisi sociale, perché la stragrande maggioranza dei soggetti di cui sono formate non dispongono di risorse finanziarie proprie se non per pochi mesi ( secondo studi recenti della Banca d’Italia e della Bundesbank la gran parte dei lavoratori avrebbero disponibilità economiche per poco più di tre mesi in Italia e per non più di due in Germania.).
Ma non è la prima volta. Se pure in tono minore, ma con non minori vittime, vi avevano già provveduto le crisi geopolitiche, i colpi di stato in America latina e nei paesi detentori di ingente risorse di petrolio e minerarie o di vie di traffico commerciale strategiche, le guerre diffuse e le crisi economiche finanziarie, che ciclicamente avevano segnalato che qualcosa non andava in questo processo di sviluppo che, quasi come un problema per soli addetti ai lavori, aveva preso avvio alla fine della 2° guerra mondiale, nel 1944, in una conferenza tenutasi nella cittadina statunitense di Bretton Woods e i cui risultati posero le premesse per cambiare radicalmente il volto dell’economia capitalista classica.
Durante tale Conferenza, i delegati di 44 Nazioni (l'Italia vi fu ammessa solo nel marzo del 1947) , nell’imminenza della conclusione del conflitto mondiale, stabilirono una serie di accordi per definire un sistema di regole e procedure per controllare la politica monetaria internazionale e le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali Paesi del mondo. Fu il primo esempio, nella storia umana, di un ordine monetario interamente negoziato, destinato a governare i rapporti monetari di stati nazionali indipendenti. Furono istituiti il FMI (fondo monetario internazionale) e la BM (banca mondiale) come istituzioni deputate a sostenere tale processo di sviluppo.
Gli accordi di Bretton Woods in realtà , furono un compromesso tra due piani molto diversi, quello sostenuto da Keynes, là inviato come rappresentante della Gran Bretagna, e quello del delegato americano White. Nei fatti ebbe più peso il piano White e gli accordi risposero sostanzialmente all'esigenza della prevalente cultura economico-finanziaria del principale paese vincitore della II guerra mondiale, di aprire un mercato globale cautelandosi nello stesso tempo con l'imposizione di precise regole del gioco.
Il primo atto significativo in tale direzione fu nel 1947 l’istituzione del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), sostituito dal 1 gennaio 1995 dal World Trade Organization – WTO: accordo, in sintesi, tra i diversi Paesi sottoscrittori per permettere ai prodotti stranieri di accedere ai rispettivi mercati. Con tali atti, apparentemente solo commerciali e per addetti ai lavori, si avviava e si consolidava l’imposizione su tutto il pianeta ( con la sola esclusione allora delle economie comuniste) della nuova cultura economica del libero mercato e della globalizzazione sviluppatesi appunto negli ambienti accademici ed economici americani . Culture le cui valenze “politiche” appariranno sempre più preponderanti, manifeste e “ideologiche” con la caduta dell’URSS.
Infatti nel 1989, sulla spinta dell’imminente implosione del sistema sovietico avviatasi con la caduta del muro di Berlino e dei conseguenti sconvolgimenti geopolitici, su pressione e indicazione del FMI e della BM, Istituti finanziari con sede a Washington fortemente influenzati e controllati dalla politica economica statunitense, furono approntate un insieme di direttive di politica finanziaria ed economica da destinare ai Paesi che si trovano in crisi economica. Tali direttive, da applicarsi come contropartita agli aiuti finanziari richiesti dai paesi in grave crisi economica, in sintesi prevedevano, e ancora prevedono:
- La Svalutazione della moneta nazionale: con l'obiettivo di stabilizzare in tempi brevi l'economia dei Paesi richiedenti i prestiti;
- Tagli Drastici alle Spese nel bilancio dello Stato: per ridurre i deficit di bilancio. Ne segue che le spese da ridurre sono soprattutto quelle di interesse pubblico quali istruzione, sanità e ambiente;
- Alti Incrementi delle Tasse e Imposte: per trovare risorse che paghino il debito;
- La Liberalizzazione del Regime dei Prezzi: per consentire lo sviluppo maggiore al libero mercato con conseguente forte limitazione del potere di acquisto dei salari reali;
- La Liberalizzazione del Mercato del Lavoro: con riduzioni delle norme a tutela dei lavoratori e dei limiti salariali con conseguente precarietà del lavoro e conseguente incremento del lavoro nero;
- La Liberalizzazione dell'import – Export: con riduzione delle barriere doganali di protezione dei prodotti nazionali e conseguente invasione di merci straniere, di esposizione alla concorrenza internazionale delle economie deboli, di stravolgimento dei consumi tradizionali, di perdita di competitività dei prodotti nazionali;
- La Totale e Completa Liberalizzazione dei Flussi di Capitali: con conseguente forte arrivo di capitali esteri sotto forma di investimenti di imprese multinazionali e con i profitti realizzati nel Paese trasferiti in paradisi fiscali o comunque all'estero, sottraendo così ricchezza all'economia nazionale;
- La Vendita di Imprese Pubbliche al Settore Privato: con conseguente acquisizione da parte di imprese straniere di parti significative dell'apparato produttivo nazionale e la limitazione sino alla impossibilità di realizzare interventi con finalità sociali attraverso strutture pubbliche;
- L’Autonomia della Banca Centrale non più Vincolata al Controllo Statale ma di fatto vincolata dalle direttive del FMI e della BM;
Appare dunque chiaro che tali direttive, anche se assunte in modo quasi informale e burocratico come “Standard di procedure” per il FMI e la BM, sono divenute in realtà lo strumento imposto ai paesi poveri, o in difficoltà economiche, che a tali istituzioni chiedevano prestiti, per veicolare i dogmi economici delle politiche che hanno fatto e fanno del libero mercato, a discapito dell'intervento dei Governi nell'economia del proprio paese, il punto centrale delle politiche neoliberiste che oggi dominano a livello mondiale e di cui la globalizzazione altro non è che un necessario ed obbligatorio strumento.
Le direttive cosi elaborate, dopo alcuni mesi, su proposta di John Williamson, economista dell'istituto Peterson, un think tank economico internazionale privato con sede anch’esso a Washington, presero appunto il nome di “Washington Consensus” ( Accordi di Washington). Lungo questa direzione è dunque nato il Washington Consensus il cui scopo, nel momento in cui il FMI (Fondo Mondiale Internazionale) e la BM (Banca Mondiale) erano chiamati ad intervenire in aiuto di paesi poveri in via di sviluppo o in improvvise difficoltà finanziarie a seguito di eventi a forte impatto sulle loro economie, era quello di imporre, assieme ai sostegni finanziari, i modelli economici culturali e sociali del neoliberismo americano perchè considerati, dai loro fautori e sostenitori, come i soli modelli in grado di garantire un sicuro e costante sviluppo alla economia mondiale e alla umanità.
E non importa se i disastri, in termini di aumento delle povertà di guerre e di destabilizzazione sociale di intere aree del mondo, sono lì a dimostrare il frequente fallimento di tali interventi e del pensiero economico cui si ispiravano. Come ben testimoniato in più studi e pubblicazioni da due eminenti Nobel dell’Economia: Paul Krugman e Joseph Stigliz ( Krugman “La Deriva Americana” Editori Laterza; Stiglitz “La globalizzazione e i suoi oppositori” Einaudi). Investimenti costruiti, secondo i due Nobel, sulla base di una miscela di ideologia e politica sbagliata e inadeguata ad affrontare le complessità connesse allo sviluppo del mondo moderno. Stiglitz, in particolare, dimessosi da vice presidente della BM per profondi dissensi sulla gestione della crisi asiatica, ha più volte sostenuto che le politiche economiche promosse dalle principali Istituzioni messe a guida della globalizzazione (FMI, BM, WTO e Tesoro statunitense in particolare) invece di risolvere i problemi della povertà e di uno sviluppo armonico delle nuove e fragili democrazie, si muovono per favorire e tutelare gli interessi dei paesi più ricchi e avanzati.
Nonostante queste denunce, provenienti da fonti autorevoli e documentate, l’ideologia neoliberista, che ha non infrequentemente affascinato anche aree politiche progressiste (Clinton, Blair), non sembra deflettere nel considerarsi come “la sola teoria (e prassi) economica in grado di produrre incessantemente e distribuire ricchezza”, come ha dimostrato anche in tempi recentissimi, in Europa, il drammatico intervento della Istituzioni Finanziarie internazionali nella crisi economica della Grecia con i suoi nefasti risultati. E come sta dimostrando, ancora oggi, di non aver affatto capito la grave crisi sociale economica e finanziaria innescata dalla pandemia da Coronavirus. Ma anzi da quasi la sensazione di volerla indirettamente utilizzare per riallineare duramente alle politiche del Washington Consensus quei Paesi Europei ancora riottosi nel non voler definitivamente sacrificare alla ideologia neoliberista ciò che ancora resta del loro modello di stato sociale.
Scrive Stigliz, studiando le prime sommosse sociali intervenute in molti paesi dell’Africa sub sahariana e dell’America Latina i cui governi si erano rivolti al FMI, che “ esiste un “contratto sociale” che lega i cittadini tra loro e al loro governo. Una parte del contratto sociale esige “equità”, vale a dire che i poveri possano anch’essi godere dei progressi delle società e i ricchi condividerne le sofferenze nei periodi di crisi. Quando le politiche del governo abrogano quel contratto sociale, può accadere che i cittadini non onorino più i loro contratti reciproci o quelli con il governo”. Le politiche del Washington Consensus hanno prestato poca attenzione ai temi della distribuzione e dell’equità, perché essi credono, e replicano duramente alle critiche, che il modo migliore per aiutare i poveri è favorire la crescita dell’economia perché questa, “ gocci a goccia, dovrebbe, prima o poi, far arrivare i vantaggi della crescita anche ai poveri.” . Anche se, conclude Stigliz, questa teoria economica del trickle down ( letteralmente: gocciolio) sembra più un articolo di fede che un fatto dimostrato. “Come evidenzia - è sempre Stigliz che scrive - ciò che è intervenuto dalla fine degli anni ottanta ad oggi dove, anche in pieno progresso economico, i più poveri hanno sempre visto ridursi i loro redditi reali e allargarsi ulteriormente la forbice tra i pochi ricchi e i tanti poveri anche nelle cicliche fasi di recessione economica.” Come dire che non è mai tempo per redistribuire e che è le gocce più grosse sono sempre andate da una parte sola.
IL NUOVO CAPITALISMO ( neo-capitalismo)
Il neocapitalismo quale oggi lo conosciamo e le cui origini possiamo far discendere dalle decisioni assunte nel 1944 a Bretton Woods, con il suo crescente “fondamentalismo di mercato”, non è stato e non è solo una teoria economica, ma è stata la costruzione pazientemente voluta di un sistema culturale sociale e politico perseguito negli Stati Uniti e nel Regno Unito, con caparbia e puntigliosa continuità, anche negli anni nei quali le destre godevano di un minor successo politico. Se tale può essere sembrata dal dopo guerra fino all’inizio degli anni ’80, ossia solo una teoria economica, la motivazione principale andrebbe cercata nella contemporanea presenza in quei decenni di un’altra potente concreta e forte teoria economica: quella rappresentata dall’URSS e dal blocco dei paesi dell’Est.
Lo scontro durissimo tra queste due diverse visioni del mondo non ha consentito di valutare a pieno, per tempo, i difetti i limiti le contraddizioni i rischi e le profonde iniquità insite nella visione neo-capitalista della società. Essendo troppo alta la posta in gioco, apparendo allora, e a ragione, la prima come il baluardo e la difesa dei sistemi democratici e delle libertà individuali e collettive e la seconda come il sistema delle peggiori dittature e della soppressione di tutte le libertà e non solo di quella economica.
Del resto il “ Socialismo realizzato (nell’ambiguità di “ Socialismo Sovietico”) ” non sembrava affatto aver realizzato il potere “del popolo” ma, se mai, il potere “sul popolo”. Del resto Lenin, contrariamente a quello che preconizzava Marx, si trovò a costruire la rivoluzione non con una diffusa e matura classe operaia forgiata nel contrasto con il crescente capitalismo, ma con masse di poveri e servi della gleba della più arretrata e reazionaria monarchia europea. Era quindi inevitabile che la guida del neonato comunismo sovietico finisse per fare perno non sulla classe operaia, pressoché assente, ma su una struttura burocratica di funzionari di partito che non riuscirà mai ad integrarsi pienamente nel popolo, come dimostra del resto la caduta del sistema sovietico, avvenuta per implosione del potere stesso e non per una rivolta civile armata.
Al crollo dell’URSS, iniziato nell’’89 e conclusosi nel ’91, furono determinanti le politiche di Reagan e della Thatcher che rilanciarono, nella politica mondiale, un nuovo capitalismo (neo-capitalismo), di matrice statunitense e anglosassone, la cui caratteristica principale era una forte e più aggressiva caratterizzazione mercantilistica e militare. In questa direzione muscolare del nuovo capitalismo le roboanti dichiarazioni di Reagan di voler finanziare con migliaia di miliardi di dollari la realizzazione di un grande scudo stellare antimissilistico, poi in verità mai realizzato, sortirono il loro effetto. Costringendo il sistema sovietico, nella ricerca spasmodica di non perdere un difficile equilibrio militare, ad abbandonare lo sviluppo economico interno dei beni di largo consumo, già di per se in crisi per le ricorrenti crisi petrolifere di cui l’URSS era esportatrice, per inseguire le nuove politiche economiche americane di sviluppo militare e tecnologico, con la conseguenza di aumentare le proteste e il malumore dei propri cittadini per lo stop dato allo sviluppo interno dei beni di consumo sempre più carenti, preparando così la strada alla implosione dell’intero sistema politico.
La fine del bipolarismo, iniziata con la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e sancita dalla disgregazione dell’Urss nel dicembre del 1991, ha aperto una nuova fase storica che autorevoli analisti hanno denominato "Nuovo ordine mondiale". Da un periodo storico protrattosi per circa 45 anni e caratterizzato dal predominio geopolitico e militare globale di Usa e Urss, si è repentinamente passati ad un nuovo scenario internazionale dominato da un’unica superpotenza.
Nel breve volgere di alcuni decenni un nuovo Capitalismo, oramai più americano che anglosassone, rinnovato dalle politiche di Reagan che si attribuiva forse giustamente il merito della fine del sistema sovietico, era oramai pronto a riprendersi nel mondo il ruolo politico culturale, finanziario e militare che il collasso dell’altra sola grande potenza mondiale gli lasciava. “America is back!” fu lo slogan vincente di Reagan. Riconfermato, senza mezzi termini dalla nuova strategia statunitense enunciata nella direttiva “National Security Strategy of United States” che, pubblicato dall’amministrazione di Bush padre nell’agosto del 1991 all’indomani della I Guerra del Golfo, indicava chiaramente che “al fine di stabilire un nuovo ordine mondiale risulta indispensabile l’affermazione della leadership mondiale statunitense” e che “dobbiamo lavorare con gli altri ma dobbiamo anche essere leader”.
Una nuova era si apriva, con nuovi scenari e nuovi soggetti, tra cui e non ultima l’Europa. Europa che se sino ad ora nel confronto scontro con i paesi dell’Est era indiscutibilmente parte integrante dell’alleanza atlantica, non altrettanto si poteva dire per quanto riguardava i modelli sociali culturali ed economici che nel frattempo si erano andati sviluppando, in particolare a cavallo degli anni ’70, con connotazioni molto simili nei suoi vari stati, al punto da far parlare di un vero e proprio modello sociale europeo (vedesi Michel Albert “Capitalismo contro Capitalismo” Il Mulino).
L’implosione del sistema sovietico, per quella “S” di Socialismo che ha nella sua sigla (URSS), finì però per mettere scompiglio e pesare profondamente anche in quel campo politico, quello del Socialismo democratico, che tanta parte aveva avuto, solo nei due decenni prima, nella costruzione di un modello sociale europeo che su elementi qualificanti quali il ruolo pubblico prevalente nel sistema scolastico nel sistema sanitario e nel sistema pensionistico, tendeva a discostarsi e non poco dal modello sociale americano.
Se infatti il modello sociale americano, anche prima di Reagan, si era da sempre fondato sull’individualismo sfrenato, sul successo personale e sul profitto di breve periodo, quasi si trattasse di una caratteristica antropologica degli americani (Scriveva Alexis de Tocqueville nel 1830 in occasione del suo primo soggiorno in America: << Se si va a scavare a fondo nel carattere nazionale degli americani, si scopre che costoro cercano il valore di ogni cosa unicamente nella risposta a questa semplice domanda: quanti soldi potrà fruttare?>>) , quello europeo, anche per merito della svolta della socialdemocrazia europea nel congresso di Bad Godesberg della SPD nel 1959, si era invece costruito, per la sua diversa storia passata, più sulla valorizzazione del successo collettivo, la ricerca del consenso tra le parti sociali e la preoccupazione economica per il bene comune e per l’impegno finanziario di lungo periodo (Michel Albert “Capitalismo contro Capitalismo” Il Mulino, forse il libro che meglio seppe anticipare il conflitto tra il “neo-capitalismo mercantile” ed il “ capitalismo sociale” sviluppatosi in Europa nei primi decenni del dopoguerra.).
Il successo quasi irrefrenabile che andava riscontrando nel mondo il neocapitalismo americano non era soltanto un successo politico militare tecnologico. Ma esso fu , sin dall’inizio, soprattutto un successo culturale.
I giovani che nelle diverse città della cortina di ferro, da Berlino a Danzica a Varsavia a Budapest a Tirana, manifestavano contro i loro governanti , erano attratti più dal luccichio dei grandi supermercati occidentali: con tutti i loro vestiti e strumenti tecnologici, dalla ricchezza dei loro beni di consumo, dalla loro musica elettrizzante per giovani, che non dai valori astratti delle libertà democratiche che non conoscevano.
La sinistra e la sua intellighentsia di tutto questo, al suo nascere quasi non se ne accorsero (se si esclude come voce solitaria P.P. Pasolini che ne scriveva angosciato già nei primi anni 70) , e, secondo quanto sostiene Raffaele Simone nel suo libro <>. Mentre i fatti hanno dimostrato che la cultura delle masse non è affatto marginale: “ ma che è governando i gusti, i consumi, i piaceri, i desideri e gli svaghi e il modo di immaginare della gente, ancora prima che le sue idee politiche che si possono vincere le battaglie politiche ed economiche”.
La sinistra sta imparando ora duramente a sue spese che o è “pedagogica” o, elettoralmente, non è. Perche non basta essere contro. Non si tratta di “lotta dei lavoratori” se poi questi perdono la propria cultura e con essa la propria identità al punto da simpatizzare, e sostenere elettoralmente, i rappresentanti del campo avverso.
Questo nemico o avversario che porta avanti il suo modello “consumistico - tecnologico”, come lo definiva profeticamente Pasolini, o come ancora molti anni prima lo definiva ancora più profeticamente A. De Tocqueville nel suo libro “La Democrazia in America” , da lui visitata attorno al 1830, <<(Questo nemico) sarebbe più esteso e più mite, e degraderebbe gli uomini senza tormentarli, non li farà soffrire ma al contrario darà a ciascuno l’impressione di stare meglio … “ vedo una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano senza tregua su se stessi per procurarsi piccoli piaceri volgari con cui si appagano l’anima. Ciascuno di loro, preso da canto, è come estraneo al destino di tutti gli altri: i suoi figli e i suoi amici formano per lui l’intera specie umana quanto al resto dei suoi concittadini, li ha accanto, ma non li vede; li tocca ma non li sente; non esiste che in sé stesso e per se stesso, e se una famiglia gli resta pur sempre, si può almeno dire che non ha più patria.>> .
Insomma questa nuova entità è quella che Raffaele Simone chiama, nel suo omonimo libro il Mostro Mite, << Una entità che non ha corpo ne indirizzo postale, che non risiede in nessun luogo, ma ha una sede diffusa, perché è costituita da quanti governano la cultura (il modo di essere) delle masse del pianeta.>>.
Il trionfo del neocapitalismo si profila quindi innanzitutto come il trionfo di un modello culturale. Il resto sarebbe venuto di conseguenza. E poiché nel sistema dell’ideologia del mercato non ci sono pasti gratis, il conto sarebbe arrivato presto e salato.
LA CENTRALITÀ del MERCATO
Dichiarando la centralità del mercato sulla produzione, il neo-capitalismo sovverte tutti i paradigmi del capitalismo classico. Per poterlo fare ha spostato il suo focus dalla “domanda”(rispondere alla domanda, che nasce da una utilità e praticità del potenziale acquirente) , “all’offerta” (sviluppare il mercato, ossia la passione del consumo in se), cambiando così però pelle contenuti e forma al capitalismo stesso, sottraendolo al confronto/scontro con i suoi avversari (il Mostro mite appunto) perché si è gradualmente trasformato in una nuova identità che, come scrive R. Simone “ non ha corpo ne indirizzo postale perché non risiede in nessun luogo” pur avendo una sede diffusa.
Del resto Emanuele Severino nel 2012 scriveva in “Capitalismo senza futuro” (BUR Saggi) che il capitalismo, come noi lo abbiamo sempre definito, (e contro cui la sinistra si è sempre mossa e costruita), “va verso il tramonto non per la contraddizione che il marxismo ha creduto di trovarvi, ma perché l’economia tecnologica va emarginando l’economia capitalistica “ .
Se il capitalismo, scrive Severino, ha come scopo ultimo “ l’incremento del profitto privato” ecco che nel suo sviluppo, sempre più mercatistico, per soddisfare la sua volontà di profitto, è costretto a servirsi sempre più della tecnica, come mezzo per battere la concorrenza con la messa sul mercato di sempre nuova “offerta” e a prezzi concorrenziali; ma per farlo, poiché tanti altri lo fanno, deve dirottare sempre più quote di profitto al potenziamento del suo mezzo, finendo così per dare centralità, con quote crescenti di risorse finanziarie, non al suo diretto desiderio di profitto, ma al potenziamento del proprio mezzo (ossia della tecnica). Ne deriva una crisi economica del capitalismo tradizionale perché perde il suo scopo, che è l’accrescimento continuo del profitto individuale, e si affievolisce.
C’e n’è a sufficienza perché sempre più quote di “capitalisti tradizionali” per sopravvivere capitalizzando ciò che hanno sino ad allora accumulato, finiscano per cedere le proprie attività imprenditoriali a conglomerati produttivi sempre più grandi, perché sempre più onnivori di tecnica, e quindi di potenza. E con i lauti ricavi spostarsi dalla produzione diretta delle merci alla finanziarizzazione delle attività produttive di volta in volta più remunerative.
Scrive E. Severino che a questo punto il sistema non è più capitalistico, ma dominazione della tecnica:<< il carattere privato del profitto , posto come scopo supremo del sistema, ostacola il potenziamento della tecnica (che dovrebbe realizzare il rafforzamento di tale carattere); è quindi inevitabile che tale carattere venga ridimensionato, ridefinito e infine eliminato. E questo, sul tramonto del capitalismo, non ha nulla a che vedere con la tesi marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. Anche supponendo che il saggio di profitto si mantenga alto, è il suo rapporto con la tecnica a costringerlo ad essere sempre meno privato, cioè sempre meno soggetto alle decisioni del capitalista.>>.
Il salto è enorme: Il capitalismo scegliendo di indirizzare i suoi sforzi verso l’offerta delle merci anziché verso la soddisfazione della domanda (scegliendo insomma la centralità del prodotto orientato al mercato) se da un lato determina il nascere incontenibile di milioni di nuove attività produttive contemporaneamente l’esasperazione concorrenziale che ne deriva comporta uno spostarsi di sempre maggiori quote di ricavi dal profitto alla tecnica come mezzo per poter restare sul mercato, in un processo di così frenetica ricerca di capitali che spinge le aziende a continue fusioni per disporre di sempre più risorse finanziarie, non per incrementare il profitto ma per incrementare la tecnica divenuta indispensabile per stare sul mercato. Ma cosi facendo il “capitalismo classico”, e con esso i capitalisti, si spersonalizza e si affievolisce, scegliendo di affidare la guida ad una nuova classe “tecnica” e non più “ precisamente capitalistica ” non avendo questa la diretta proprietà dei mezzi di produzione. Siamo ad un passo perché i proprietari escano di scena come “capitalisti” per assumere in tutto o in parte il ruolo di uomini di finanza.
Ma questa trasformazione non è indolore: il capitalista tradizionale manteneva una stretta simbiosi con il territorio e il contesto abitativo nel quale era sorta e si era collocata la sua attività produttiva oltre che con quelli che in essa vi lavoravano, anche quando de localizzava parti rilevanti delle sue attività.
La nuova classe “tecnica” che dirige, “pro- tempore”, la/le aziende di cui non ha la proprietà diretta dei mezzi di produzione, non è mosso da particolari legami territoriali né con l’azienda né con la gran parte di coloro che in essa vi lavorano. Il suo riferimento, subalterno, è con coloro che a quel ruolo l’hanno direttamente nominato, i finanziatori gli azionisti il consiglio di amministrazione, e, all’interno dell’azienda, con i soli più stretti collaboratori che ne condividono strettamente le sorti. Il resto sono “ risorse umane”.
Un esempio per chiarire meglio il concetto: l’ultimo grande capitalista italiano, l’avvocato Agnelli, non avrebbe mai potuto finire la sua vita lontano dalla “sua fabbrica” dalla sua Torino dai suoi operai, e in quel contesto compirvi i propri funerali come a rappresentarvi un legame, al di là di tutto, comunque di profondo senso comunitario. Il suo vero successore, Marchionne, poteva, come di fatto è avvenuto, vivere ovunque e morire ovunque in una anonima stanza di una eccellenza ospedaliera di un paese anonimo e di cui non si è avuto neppure notizia dei funerali : la Svizzera appunto. Era uomo globale il cui territorio di vita non era una città specifica uno stabilimento specifico ma una ristretta cerchia “cosmopolita” come lo definisce Bauman in “Voglia di Comunità” (Laterza edit.) aggiungendo << La secessione dell’uomo affermato significa per prima cosa e innanzitutto, fuga dalla comunità … perché non ha bisogno della comunità>>. E ciò “gli bastava”, come scriveva A. De Tocqueville nella più sopra ricordata “La democrazia in America” parlando del nuovo cittadino di quella nazione che valuta tutto in termini di valore economico: … non esiste che in sé stesso e per se stesso, e se una famiglia gli resta pur sempre, si può almeno dire che non ha più patria.
L’azienda anonima, la fabbrica anonima dove, al di fuori della stretta cerchia dei dirigenti, la massa dei lavoratori non sono individui ma “ risorse umane”sulle quali al massimo cercare di costruire una artificiale “comunità aziendale”, se utile alla produttività . Ma spersonalizzate al punto che con un clic di una mail spedita da lontano si possa trasferirli, sostituirli o anche licenziarli senza volerli neppure incontrare per non conoscere la loro realtà quotidiana che da quel clic potrebbe risultarne sconvolta.
Del resto nella società del nuovo capitalismo neppure la dirigenza “tecnica” ha certezze, anche se, rispetto ai propri dipendenti, ha privilegi e remunerazioni di gran lunga superiori. Queste sono legate ai risultati economici, alle convenienze delle dislocazioni improvvise, agli ordinativi di solito a brevissimo termine e che nel giro di pochi giorni potrebbero portare a chiusura o a definitive dislocazione di tutto un grande complesso produttivo per esigenze di “ sopravvivenza”.
Se dunque anche un intero complesso produttivo non ha certezze oltre le brevi trimestrali di costi/ricavi e ordinativi, come lo possono chiedere per una intera vita lavorativa i lavoratori? Ma cosa resta ai lavoratori, e alle loro organizzazioni , se anche il “lavoro”, sul quale si era costruito nei secoli scorsi addirittura un etica, l’Etica del Lavoro”, etico non lo è più per un datore di lavoro, anonimo, che lo può cancellare con un clic distruggendo un’intera esistenza?
La GLOBALIZZAZIONE
Come scrive Krugman nel libro La Deriva Americana (editore Laterza) “ la globalizzazione - che sta a significare crescita del commercio internazionale, crescita dei legami tra i mercati finanziari di diversi paesi, e i molti altri modi in cui il mondo sta diventando più piccolo – è la questione del Ventunesimo secolo.” Il commercio tra popoli vicini è sempre stato lo strumento della mescolanza dei popoli delle loro culture della loro integrazione e, in definitiva, della loro crescita economica. Ma se viene assunto acriticamente come un potere dettato da una precisa “ideologia” di dominio allora la reazione contro la “globalizzazione” può diventare violenta. Per questo il graduale processo globale verso il libero scambio ha sempre avuto necessità di essere supportato da complessi negoziati internazionali che avevano i “Dazi” come loro strumento fondante. Perché la loro modulazione e rimodulazione è lo strumento, accanto alla doverosa tutela della propria produzione nazionale, che segnala la volontà di una nazione di avviare e/o tenere rapporti positivi nei confronti di un’altra nazione, o viceversa che segnala l’avvio o il persistere di una crescente ostilità tra due nazioni. I dazi , insomma, quando utilizzati come dice Krugman come “dettati da una precisa ideologia di potenza”, possono assumere il ruolo di strumenti di guerra in tempi di pace ed essere non meno devastanti delle guerre stesse o prodromici ad esse.
In una svolta mercatistica come quella impressa , dal 1945 in poi, al sistema economico del libero mercato dalla ideologia neocapitalistica americana, la “globalizzazione “ era una via obbligata.
Non si poteva immaginare di sviluppare un sistema incentrato “ideologicamente” sul mercato se non ritenendo questo come infinitamente espandibile e dunque con sempre nuovi consumatori da conquistare. É un po’ il mito della frontiera americana della corsa all’ovest che era immaginato così vasto da illudere che c’era sempre una opportunità di ricchezza per ciascuno. Ma per sfortuna dei suoi “ideologi” la terra non è infinita come lo spazio, ma rotonda e finita; cosi alla fine del percorso si finisce per vendere indefinitamente a se stessi ed entrare in un sistema a competizione perversa e distruttiva di ogni stabilità e certezza sociale ed economica.
Perché prima, per decenni, si soddisfano i bisogni primari della società, poi esauriti in gran parte questi, s’inizia a creare il bisogno di beni e prodotti non essenziali o francamente superflui, poi si confida nella tecnica per lo sviluppo di nuovi prodotti e strumenti, poi si comprimono i costi delle materie prime come fossero infinite, infine, per stare sul mercato, diventato globale, nella sua esasperata concorrenzialità si comprimono i salari e la certezza lavorativa degli stessi lavoratori e con lo sviluppo tecnologico, divenuto centrale in ogni processo produttivo, accanto alla liberazione del lavoratore dalle maggiori fatiche nello svolgimento del proprio lavoro, lo si libera però anche dal lavoro stesso.
Ma non era questo il sogno che il maggiore economista del secolo scorso, Keynes, aveva del progresso economico quando scriveva che << il problema economico, ovvero il problema del bisogno e della miseria, e la lotta economica fra classi e paesi, sono storture terribili ma contingenti e non necessarie. >> . E nello scritto “Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930) ” (Esortazioni e Profezie – Editore il Saggiatore), parlando delle rivoluzionarie trasformazioni tecniche che avevano interessato l’industria e stavano allora interessando l’agricoltura scriveva <<.. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremo essere in grado di compiere tutte le operazioni del settore agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati ad impegnarvi . .. la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette disagio e ci pone problemi di difficile soluzione. …… : vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera. >> … << Ma visto in prospettiva ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione dei suoi problemi economici. Tra cento anni, mi sentirei di affermare che il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno ……. . Ciò significa che il problema economico non è , se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana ……>>… ma ciò è sconcertante, << Perché se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana. Pertanto la nostra evoluzione naturale, di tutti i nostri impulsi e di tutti i nostri istinti più profondi è avvenuta in funzione di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale. ….. Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e il benessere gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.>> …. << Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di lodarli e di incoraggiarli perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo “ impegno ” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi.>>. E continua << “Impegno” infatti significa preoccuparsi dei risultati futuri delle azioni, più che della loro qualità o del loro effetto immediato.>> .
Come amava definirsi Keynes stesso :“ Una Cassandra che non è mai riuscita ad influire in tempo sul corso degli eventi” così anche questo profetico scritto, come le tesi da lui sostenute anni dopo nella conferenza di Bretton Woods, non ebbero un numero sufficienti di sostenitori per poter diventare vincenti.
Keynes, anticipando i tempi, ha sempre posto l’accento sul fatto che l’economia non è scienza che riguarda solo il ristretto mondo produttivo e coloro che fanno “i soldi”, ma è una scienza che riguarda direttamente tutte le complessità della vita stessa di ogni società. Rinchiuderla nel “mondo della produzione e degli affari” significa sottrarla ai cittadini , che sono i veri rappresentanti e artefici dei bisogni di ogni società, a favore di una ristretta cerchia di poche e ricche persone che opereranno prevalentemente guardando ai propri interessi.
Perché allora la politica economica neocapitalistica é vincente e globale come non lo è mai stato, nonostante i suoi fallimenti sempre più frequenti e il suo disperato ricorso agli aiuti dello Stato (ossia dei cittadini attraverso i debiti contratti dallo Stato) ? Perché il pensiero politico neoliberista, che la sostiene, subito dopo la 2° guerra mondiale ha scelto di rilanciare la cultura economica capitalista rafforzandone l’aspetto mercatistico fino a farne una vera e propria ideologia e in tale direzione ha continuato per oltre mezzo secolo a portare avanti, con coerenza e consequenzialità, una serie di atti e azioni (dal FMI alla BM, al Washington Consensus alla Globalizzazione dei mercati) finalizzati a sviluppare e rendere potente ed appetibile il proprio modello culturale di società nonostante i suoi numerosi fallimenti.
Una tale determinazione alla sinistra è sempre mancata, anche quando, come negli anni 80-90, governava nella maggioranza degli stati europei, ma non seppe mai avere una politica europea comune che, nei confronti degli atri paesi, operasse con un processo inverso a quello usato dalle destre: ossia usare i dazi per esportare e imporre nei paesi più arretrati e del terzo mondo il proprio modello sociale europeo della democrazia parlamentare e dello stato sociale. Ad esempio adottando una politica di dazi decrescenti verso i paesi che s’impegnavano a muoversi verso forme politiche di democrazia reale con sviluppo di sistemi sanitari, scolastici e pensionistici pubblici, con l’introduzione di norme a tutela della salute dei lavoratori e a tutela dell’ambiente, ecc. Ribaltando così l’ottica della globalizzazione promossa dal neocapitalismo, che ha usato e usa i dazi come strumenti di dominio economico politico e militare, per imporre invece, con la sua supremazia commerciale, il proprio modello culturale di società. Solo così la sinistra avrebbe potuto espandere il proprio modello e contrastare il modello socio-economico delle destre, divenuto oggi dominante. Dunque non la globalizzazione è oggi l’avversario, ma le modalità del suo utilizzo.
Di questo modello, mercatistico, ci restano ora solo gli aspetti più negativi perché, anziché risolvere con il suo enorme sviluppo, come scriveva Keynes (Esortazioni e Profezie – Il Saggiatore 2011), i problemi economici che sempre hanno assillato l’umanità, non ha fatto altro che aumentarli distruggendo culture sradicando popolazioni impoverendo i molti per arricchire in modo abnorme i pochi, mettendo in conflitto tra di loro enormi masse di lavoratori precarizzandone il lavoro e la vita, e non ultimo distruggendo il sistema ecologico.
Di fronte a tutto ciò occorrerebbe mettere in atto una svolta. Ma una svolta che non punti alla sovversione dei massimi sistemi sui quali si reggono oggi le nostre società, perché non avrebbe alcuna speranza di successo. Perché “ il mostro mite” , come ha definito Raffaele Simone la cultura neocapitalista oggi dominante e prevalente, ha da oltre 50 anni permeato di se ogni più piccolo aspetto della vita quotidiana , privata e sociale, di centinaia di milioni di persone in interi continenti e il solo pensare di poterla radicalmente modificare sostituendola d’emblée con un diverso progetto, appare utopico come svuotare il mare con un cucchiaino .
Può risultare forse più utile invece incominciare a mettere in discussione alcuni “fondamentali” della moderna cultura capitalista , riproposti in modo ideologizzante dal neocapitalismo. Come faceva Keynes nel già citato articolo”Prospettive per i nostri nipoti” a proposito della ideologia totalizzante del lavoro , la famosa “Etica del Lavoro”, cosi come interpretato attuato e vissuto nelle nostre attuali società, oppure a proposito del ruolo, anche qui totalizzante, della cultura economica oggi prevalente assunta a forma ideologica nella sua autoconvinzione di essere la sola a saper realizzare il benessere per tutti, nonostante le sue clamorose promesse non mantenute; o ancora a rivisitare gradualmente il rapporto tra cittadinanza, lavoro, precarietà, sicurezza, povertà, riproponendo al centro la dignità della persona: di qualsiasi persona.
Incominciando da alcuni punti deboli del sistema economico attuale, come la necessità di un continuo consumare perché possa stare in piedi, per trasformarli in punti di forza (opportunità) che senza pretendere di “sconvolgere il sistema come attualmente costruito”, possano consentire invece di avviare nuove modalità di cittadinanza, nuove modalità di rapportarsi con il sistema pubblico, nuove modalità di crearsi e inventarsi il lavoro attraverso nuove esperienze, adottando strumenti nuovi di minima sicurezza economica nella redistribuzione del reddito.
In questo senso un primo passo potrebbe essere ottenuto con la rivisitazione dell’attuale sistema di protezione sociale. Sistema sviluppatosi per continue aggiunte e spesso sovrapposizione di interventi, sostituendolo invece con un reddito universale di “sicurezza di cittadinanza”, la cui caratteristica sia quella di non essere pensato in relazioni a diverse tipologie di deprivazione economica, o in sostegno al reddito, o come vera e propria forma di sostegno caritatevole, ma in una forma più globale e preventiva in modo tale da liberare il cittadino dalla burocrazia caritatevole o dalla mille forme di contribuzioni per categorie e classi che, certamente utili e necessarie quando pensate molti decenni fa in una diversa situazione culturale ed economica dell’Italia (e dei paesi europei in generale), oggi appaiono frammentate e spesso per forme fortemente clientelari o meramente assistenziali. Con forti connotazioni caritatevoli che molto spesso, per come sono congeniate, non riescono a raggiungere proprio i soggetti più bisognosi per i quali erano stati pensati .
Ma si cominci a pensarlo e studiarlo sul piano della fattibilità e sostenibilità economica come forma di reddito universale da assegnare a tutti i cittadini, indipendente dal reddito posseduto e senza vincolo alcuno. “
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