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martedì 6 agosto 2019
Franco Astengo-Felice Besostri: Per la ricostruzione della sinistra italiana
PER LA RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA:
LINEE DI SUCCESSIONE
di Franco Astengo e Felice Besostri
Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo
di vera e propria ricostruzione.
Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben
individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della
possibile ripartenza:
1) L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e
della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma
immancabilmente votate al fallimento;
2) la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale
valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica
politica, superando in avanti antiche divisioni. Di qui l’impegno ad
evitare d’ora in avanti ogni ridicola diatriba sul “aveva ragione
questo” o “aveva torto quello”, come ogni pretestuosa richiesta di
scuse davanti alla storia (anzi alla Storia) ecc., ecc.;
3) è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli
passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra
loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che
riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole
però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte
infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra
capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso
dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la
questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di
produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente
attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare
insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e
sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post-
materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di
trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta
interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;
4) Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra
economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile,
è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto
la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la
fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia
democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del
liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra
infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico”
o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni
planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione
tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con
l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione.
Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una
nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo
nuovo;
5) della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune
pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a
quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il
fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel
contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi
decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi
livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione
del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine
del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del
2007. Sotto quest’aspetto il grande tema rimane quello di un rilancio
concreto dell’internazionalismo e della prefigurazione di un modello
economico e sociale alternativo a quello neoliberista;
6) in questo quadro un “dialogo Gramsci - Matteotti”, che parta dalla
loro analisi dell’avvento del fascismo dopo la fine della Grande
Guerra, può essere propedeutico ad un rinnovato discorso culturale e
politico di sinistra all’indomani della fine della Guerra Fredda (e in
presenza dei ricordati fenomeni di crisi della democrazia e di
fascismo di ritorno). Non ci interessa costruire una sorta di Pantheon
comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e
che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove
ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto
su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del
pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.
Ritornare a Gramsci e Matteotti dunque. E non solo in ragione del
grande valore morale e politico rappresentato dalla loro comunanza di
martirio, ma soprattutto per alcuni tratti comuni della loro analisi.
Che ci paiono tanto proficue a tanta distanza di tempo ed entro
tutt’altra temperie politica e sociale.
Come preziosa ci appare la coerenza e l’intransigenza, scevra di
settarismo, che sempre sottese la loro vita.
Sicuramente qualcuno potrà trovare fra i due autori testi o passaggi
contradditori tra loro: condanne reciproche, interventi svolti
sull’onda del contingente, che in apparenza parrebbero smentire la
praticabilità di una ricerca attorno appunto a comuni “linee di
successione”, ma si tratterebbe di letture superficiali e strumentali.
Non ci si rapporta così ai classici. E Gramsci e Matteotti sono
certamente dei classici della nostra modernità politica.
Di certo a noi non interessa indulgere in polemiche di corto respiro.
Molto più utile fissare alcune “linee” di lavoro:
1) intanto l’impegno a sviluppare una adeguata “profondità di pensiero
politico”. Potrebbe essere utile in questo senso riscoprire la
categoria di “pensiero lungo”, a indicare uno sforzo di analisi e
proposta che abbia respiro e profondità; premessa indispensabile tanto
alla ricerca delle origini classiche di una teoria critica
dell’esistente, quanto alla immaginazione e realizzazione di scenari
futuri all’insegna della qualità e della civiltà;
2) recuperare poi la capacità di riflessione e intervento sul presente
che fu innanzitutto propria di Gramsci e Matteotti. Se il primo
infatti è stato tanto l’organizzatore degli operai di Torino, quanto
l’acuto interprete dei termini essenziali della “questione
meridionale” (all’epoca coincidente in larga parte con la “questione
contadina”), Matteotti è stato il riferimento dei braccianti di una
delle zone più povere e d’intenso sfruttamento, quella del Delta del
Po, ma anche chi indagò e denunciò le trame spesso oscure che
intrecciavano già allora finanza e sfruttamento delle fonti
energetiche;
3) ma decisiva è anche la questione morale. In Gramsci essa costituiva
una sorta di stile di pensiero e di vita, strettamente connessa alla
fatica del pensiero, al rigore degli studi e delle analisi
indispensabili all’azione politica di una classe operaia che doveva
essere classe dirigente nazionale. Ebbene era la stessa serietà e
intransigenza che animava Matteotti, quella che sempre ne sostenne
l’azione politica e parlamentare; si pensi solo alla capacità
d’inchiesta, alla fermezza con cui agitò proprio la “questione morale”
in faccia al fascismo rampante, quella stessa che costituì la vera
ragione della sua condanna a morte;
4) ora fu proprio una radicale e coerente capacità di analisi a
consentire sia a Gramsci sia a Matteotti di antivedere le dinamiche
sociali e politiche che avrebbero portato al regime fascista. La cosa
è tanto più significativa perché le loro intuizioni si sviluppavano in
un clima nel quale, anche in ambiente antifascista, inizialmente ci si
illuse che il movimento mussoliniano potesse essere solo un fenomeno
passeggero, una “parentesi”, magari addirittura utile per riportare
all’ordine liberale, dopo i drammi della guerra mondiale e
dell’immediato dopoguerra. Del resto allora addirittura a sinistra vi
fu chi non riuscì a cogliere la pericolosità del fenomeno,
considerandolo mero elemento degenerativo del capitalismo, cui ovviare
attraverso il mero rilancio della dinamica della lotta di classe.
Ebbene le analisi ben altrimenti approfondite di Gramsci e Matteotti,
un certo stile intellettuale e morale, tornarono utili non solo dopo
il 1945 per la ricostruzione dei grandi partiti della sinistra
dell’Italia repubblicana, ma mantengono un’intatta utilità ancora
oggi, in un paese in cui la sinistra è letteralmente scomparsa e ci
troviamo di fronte a problemi immani ed inediti di rifondazione e
ricostruzione.
Per questo ci sembra indispensabile avviare un processo di “confronto
costituente”. Gramsci e Matteotti possono contribuire a trovare la
giusta direzione di marcia.
Resta per altro per noi chiaro che quella che ci attende non è una
operazione di mero valore scientifico, individuare infatti le linee
“di frattura” e “di successione” deve servire a meglio preparare il
terreno per lo sviluppo del più alto livello possibile di
progettualità sistemica.
Se ancora a cavallo tra il XIX il XX secolo definire cosa fosse il
socialismo era abbastanza semplice e la divisione era su come
raggiungere l’obiettivo di una società senza classi e con i mezzi di
produzione in proprietà collettiva, oggi non solo in quel che resta
della sinistra ci sono profonde differenze programmatiche, ma proprio
il punto del socialismo è tutt’altro che condiviso. Si tratta
dell’ennesima riprova della profondità di una crisi che è politica,
teorica, morale, di classi dirigenti.
Di qui l’esigenza, che avvertiamo impellente, di un ripensamento dei
fondamenti di una teoria e pratica politica che possano dirsi di
sinistra, socialiste, riformiste, radicali, intransigenti.
Partire da Gramsci e Matteotti dunque come modo migliore per
riprendere il cammino. Per dare sostanza ad un progetto politico
ambizioso: che mira a ridare a poveri e sfruttati il loro partito e
alla democrazia italiana una soggettività politica indispensabile.
Necessaria alla sua qualità, alla sua rappresentatività, alla sua
stessa sopravvivenza.
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