Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 31 agosto 2019
Livio Ghersi: Tra Di Maio e Zingaretti
Tra Di Maio e Zingaretti.
Cronache di una crisi di governo. La soluzione sembra trovata. Circolano i nomi dei possibili nuovi ministri. Poi il leader politico del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio, esce dall’incontro con il Presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, e rilascia una lunga dichiarazione pubblica che rimette tutto in discussione. Siamo al pomeriggio di venerdì 30 agosto 2019. Tra qualche giorno, il 2 o il 3 settembre, il Presidente Conte dovrebbe sciogliere la riserva, in un senso, o nell’altro.
Da osservatore esterno, rilevo alcune cose poco chiare.
Il Partito Democratico ha esordito chiedendo e pretendendo "discontinuità" rispetto all’esperienza del Governo uscente. Ciò significa chiedere al Movimento Cinque Stelle di adottare indirizzi politici molto diversi, nei contenuti, rispetto a quelli seguiti nel periodo dell’alleanza con la Lega. Luigi Di Maio, da parte sua, si è seduto al tavolo della trattativa affermando che non si pentiva di niente. Sembrava di ascoltare la indimenticabile Edith Piaf: «Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien».
Il Partito Democratico muove dal presupposto che il Presidente Conte sia il rappresentante politico del Movimento Cinque Stelle. Osservazione di buon senso: ma non spetterebbe al Movimento Cinque Stelle stabilire quali sono i propri equilibri politici interni e chi ha il ruolo di guidare la delegazione dei ministri del Movimento nell’eventuale nuovo Esecutivo? Può un partito come il PD, che ha intenzione di avviare un’alleanza politica, pretendere dall’altro partito che si dia una rappresentanza istituzionale definita in un certo modo, piuttosto che un’altra?
Esponenti significativi del Partito Democratico, come il Vicesegretario Andrea Orlando, si sono seduti, con l’aria un po' schifata, al tavolo della trattativa e si sono dichiarati disposti ad ingoiare l’amaro boccone, a condizione di dar vita ad un nuovo Governo, con caratteristiche tali da essere "il più a Sinistra" nella storia dell’Italia repubblicana. Orlando conosce i risultati delle elezioni politiche del 2018 e delle elezioni europee del 2019? Ha contezza degli esiti di tutte le elezioni regionali che si sono tenute nel medesimo lasso di tempo? Di conseguenza, la richiesta di un Governo "più a Sinistra" è tanto lontana dalla realtà, ossia tanto velleitaria, da apparire un’inutile provocazione.
Altri esponenti del PD, come Matteo Orfini, in ciò in perfetta sintonia con esponenti politici della Sinistra italiana, quali Nicola Fratoianni, hanno chiesto l’immediata revoca di alcuni fra i più rilevanti provvedimenti adottati dal Governo uscente, con particolare riferimento al contenimento del fenomeno dell’immigrazione (decreti cosiddetti "sicurezza", uno e due). La linea ufficiale del Partito Democratico, espressa dal Segretario Zingaretti, è più morbida: semplice correzione delle normative, accogliendo i rilievi a suo tempo espressi per iscritto dal Presidente della Repubblica. Sarebbe un eufemismo scrivere che, su questo argomento, l’ambiguità si taglia col coltello.
Consideriamo, in ultimo, la questione del completamento della riforma costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. Posto che manca soltanto la quarta lettura, spettante alla Camera dei Deputati, basterebbe stabilire una data. O definire un "cronoprogramma", come dicono gli addetti ai lavori.
Invece, il Partito Democratico ha cominciato a chiedere "garanzie costituzionali", prima di approvare la riforma. Frase ambigua, che potrebbe anche significare: ricominciamo daccapo, perché la riduzione dei parlamentari è accettabile solo se si modificano, contestualmente, le attribuzioni della Camera e del Senato, arrivando ad un bicameralismo differenziato. Altri dicono: bisogna sospendere l’ultimo voto sulla riforma costituzionale, ed approvare prima una nuova legge elettorale e modificare i Regolamenti parlamentari.
Si può comprendere che gli esponenti del Partito Democratico, dall’alto della loro scienza ed esperienza, considerino i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle come dei "Minus habentes"; ma questi proprio fessi, non sono.
É ovvio che alla riforma costituzionale debbano conseguire conseguenti modifiche della legge elettorale e dei Regolamenti parlamentari; ma devono "seguire" appunto. Nel senso che prima si definisce il quadro normativo a livello costituzionale; poi gli si dà compiuta e coerente attuazione.
C’è poi da chiedersi, poi, perché mai questa ipotetica nuova legge elettorale dovrebbe essere integralmente proporzionale. Il Partito Democratico ha sempre insistito sulla esigenza della "governabilità". Il che significa prevedere leggi elettorali prevalentemente maggioritarie, che trasformino maggioranze relative di voti in maggioranze stabili di seggi parlamentari. La fantasia istituzionale del Partito Democratico, negli ultimi anni, ha prodotto degli autentici "mostri giuridici", nella vana ricerca della legge elettorale maggioritaria più confacente agli interessi del medesimo PD.
C’è invece un rimedio antico e ben collaudato: quello dei collegi uninominali. Mutuati dall’esperienza storica inglese. Ogni territorio ha il suo rappresentante istituzionale assicurato e questo ruolo va al candidato più votato nel collegio di riferimento, con esclusione di tutti gli altri. Un sistema pulito, lineare, che si basa su una sana competizione politica (vince chi sa ottenere più consenso), e che agevola il formarsi di coalizioni politiche che si mettono insieme per esprimere candidati comuni nei singoli collegi. La legge elettorale vigente, la legge 3 novembre 2017, n. 165, prevede che circa un terzo dei parlamentari siano eletti in collegi uninominali con metodo maggioritario. Per l’esattezza, sono eletti con metodo maggioritario 232 deputati su un totale di 630; e 116 senatori, su un totale di 315. La delimitazione territoriale dei collegi è stata fatta di recente, in modo coerente con i dati più aggiornati sulla popolazione residente. Perché bisognerebbe buttare questo lavoro e ricominciare daccapo?
I fautori di una legge elettorale integralmente proporzionale sostengono che questa sarebbe l’unico rimedio per non far vincere la Lega e le altre formazioni di Destra e di Centro-destra. Per il modo in cui attualmente è configurato il sistema politico italiano (è configurato come peggio non si potrebbe!), le destre, infatti, più facilmente raggiungono un legame di coalizione politica. Coalizione che ha i suoi presupposti nelle esperienze degli anni Novanta del secolo scorso, quando era egemone Silvio Berlusconi, ma che ha avuto tante importanti conferme recenti, soprattutto nelle elezioni regionali e locali.
Il campo del Centro-sinistra, invece, è molto più indietro, quanto a possibilità di dar vita ad una alleanza politica fra più soggetti politici solidi, ciascuno dotato di una propria fisionomia ideale e programmatica, e ciascuno con un proprio affidabile radicamento territoriale. Il Movimento Cinque Stelle, poi, finora si è completamente sottratto alla logica della coalizione; ciò lo ha condannato alla puntuale sconfitta in tutte le elezioni regionali e locali.
Accettare, senza riserve mentali, il sistema maggioritario in collegi uninominali significherebbe aprirsi ad una reale concorrenza politica: nella quale non si ha paura di confrontarsi con l’avversario, perché si ha fiducia nei propri valori di riferimento e nei propri programmi. Certo, una quota di seggi andrebbe comunque attribuita con metodo proporzionale, per garantire il pluralismo delle Assemblee parlamentari ed assicurare una sorta di diritto di tribuna pure alle liste minori.
Come si può concludere la crisi? Bisogna ricordarsi che la proposta di dar vita ad un Governo che, prima di andare al voto, facesse poche cose, come mettere al sicuro i conti pubblici ed evitare l’aumento dell’IVA, e che consentisse nel contempo la conclusione dell’iter della riforma costituzionale, è partita non dal Segretario del PD Nicola Zingaretti, ma da Matteo Renzi.
Zingaretti, anzi, non era d’accordo. Ha detto "No" a governicchi (l’ipotesi minimalista di Renzi) ed ha rilanciato, proponendo addirittura un governo di Legislatura. Governo che, nelle condizioni date, non sta né in cielo, né in terra.
Non sono soltanto gli esponenti del Movimento Cinque Stelle a dover maturare. Possiamo dire che la classe dirigente "zingarettiana" si sta dimostrando inadeguata, velleitaria, ammalata del peggiore politicismo?
Senso della realtà, ci vorrebbe. Accompagnato dalla sincera volontà di servire il Paese, di fare ciò che è meglio per l’Italia. Intanto, i mercati finanziari ci guardano con sospetto e l’avvenire è assai incerto.
Palermo, 31 agosto 2019
Livio Ghersi
venerdì 30 agosto 2019
Usa, lo studio Fmi: "I tagli alle tasse di Trump? Solo il 20% dei risparmi usato per investire. Il resto è finito in tasca agli azionisti" - Il Fatto Quotidiano
giovedì 29 agosto 2019
mercoledì 28 agosto 2019
Franco Astengo: Paradigma
PARADIGMA di Franco Astengo
La soluzione della crisi di governo si presenta come un punto di vero e proprio mutamento di paradigma.
Crisi di governo che ha impegnato gli attori presenti nel sistema politico italiano nel corso di questo mese di Agosto.
Scrivo nel momento in cui alcuni tasselli debbono ancora essere sistemati e quindi l’esito finale formalmente incerto, ma l’aver approcciato all’esito della crisi nella forma a questo punto evidente del reincarico a Conte rappresenta un fatto che consente l’avvio di una riflessione a mio giudizio assai impegnativa.
Molti tra gli analisti, i commentatori e i protagonisti politici del passato possono a ragione considerarsi sconcertati e ritenere ormai possibile tutto e il contrario di tutto, almeno secondo i loro consolidati criteri di riferimento nei collegamenti sociali se non addirittura ideologici.
In realtà arriva all’approdo quel processo di personalizzazione direttamente collegato alla trasformazione del sistema dei partiti in atto ormai da qualche decennio e strettamente connesso al fenomeno della disintermediazione che aveva già avuto in Forza Italia e nel PD (R) gli epigoni più impegnati nel corso dei primi anni del XXI secolo.
Tra il 2006 e il 2016 avevamo anche assistito all’elaborazione di progetti di riforma costituzionale, l’uno imperniato sul presidenzialismo, l’altro su di una sorta di cancellierato, entrambi tendenti a superare la democrazia parlamentare e respinti dal voto popolare.
Quei due progetti erano comunque ancora legati a schemi classici, sia pure in evoluzione: oggi siamo al cambio di paradigma.
Il sistema potrebbe ritrovare a questo punto un suo riferimento pivotale sul piano delle dinamiche politiche esprimendosi appunto attraverso una personalizzazione di nuovo conio.
Emergono, infatti, figure in grado di tenere aperti diversi fronti in politica estera, facendosi appoggiare in forma inedita dal presidente USA operando, in contraccambio dell’adoperarsi per far rientrare la Russia nel G8: segnale evidente della prevalenza del tecnicismo degli affari sulla geopolitica, in un quadro nel quale appare ben evidente la conclusione di quello che era stato definito “ciclo atlantico”.
Nello stesso tempo sembra possibile tenere aperti varchi con la Commissione Europea al fine di innalzare il livello del rapporto deficit /PIL: lo scopo dovrebbe essere quello di combattere la povertà attraverso la crescita di livello di assistenzialismo e di rinuncia definitiva alle prospettive di sviluppo così come queste erano state intese nella fase dei “trenta gloriosi”.
Qualsiasi ipotesi di risposta di tipo “socialdemocratico” o “popolare” alla crisi sembra inattuale e meno che mai ci potrà essere spazio per una sorta di “riformismo” nel momento in cui si determina una adesione complessiva ai dettami della “decrescita felice”.
Del tutto da analizzare, inoltre, la realtà e il peso della completa “mediatizzazione” dell’agire politico e del tipo di rapporto sociale e culturale stabilito tra le azioni compiuta nella sfera politica e quelle portate avanti nella quotidianità.
Relazioni ormai consolidatosi nella mediazione totalizzante dell’uso degli strumenti informatici.
Per questi motivi, esposti fin qui in maniera del tutto abborracciata in assenza di un’elaborazione ancora tutta da sviluppare, l’esito della crisi di governo non può essere valutata attraverso l’utilizzo di antiche categorie compresa quello dello scampato pericolo di una involuzione a destra.
Ciò appare evidente se si aderisce, com’è avvenuto per il PD in questo frangente, al superamento dei concetti di destra e di sinistra, consentendo a un sottosegretario uscente del M5S di scrivere:” per noi Lega o PD è indifferente”. Questa o quella per me pari sono.
Ormai l’espressione dei contenuti progettuali e programmatici avviene attraverso una dimensione variabile quella di volta in volta, ritenuta opportunisticamente utili, ai più diversi . variegati(anche ideologicamente)interlocutori politici.
Il quadro generale è ormai quello dell’autoreferenzialità delle scelte portate avanti dai singoli al massimo collegati fra di loro in cordate in lotta per il potere.
Si tratta appunto del compimento di un processo vero e proprio rovesciamento di paradigma: se si pensa di ricostruire una sinistra legata all’inasprimento nella complessità delle contraddizioni sociali si tratta di elementi d’analisi da tenere in conto in una valutazione del tutto dirimente.
martedì 27 agosto 2019
sabato 24 agosto 2019
venerdì 23 agosto 2019
Livio Ghersi: La politica dei peones
La politica dei "peones"
Sentite le dichiarazioni del Presidente della Repubblica di giovedì 22 agosto 2019, al termine del primo giro di consultazioni, mi sembra che la prospettiva di andare, rapidamente, ad elezioni anticipate, si faccia più concreta.
L’ipotetica nuova maggioranza fra Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico incontra tutte le difficoltà, già messe in conto, ma, soprattutto, dovrebbe vincere resistenze psicologiche che hanno poco a che vedere con la razionalità politica. Per il Movimento Cinque Stelle, il PD è stato sempre una forza portante dell’Establishment in Italia. I militanti del Movimento hanno avuto, tra le proprie parole d’ordine, quella di incarnare una politica diversa da quella tradizionalmente rappresentata dal PD. Ritrovarsi ora alleati proprio con il PD in un’esperienza di governo, sarebbe cosa durissima da far digerire agli elettori dei Cinque Stelle.
Anche il Segretario del Partito Democratico ha pochissima voglia di farsi coinvolgere in un’alleanza con il Movimento; ne diffida e non gli si può dare torto. Di conseguenza, gli incontri, per la parte nota al pubblico, hanno avuto e, probabilmente, continueranno ad avere, più un valore tattico che effettiva sostanza. Si tratta di una rappresentazione teatrale, per dimostrare che, fino all’ultimo, si è provato di tutto, pur di evitare la conclusione anticipata della diciottesima Legislatura.
Così il leader della Lega, apparentemente messo in minoranza nelle procedure parlamentari di formalizzazione della crisi di governo, si rifarà vincendo a mani basse le prossime elezioni anticipate, insieme ai suoi alleati di Destra e Centro-destra. A destra c’è qualcosa che somiglia ad una coalizione politica e questo è un vantaggio rilevante, nella competizione elettorale.
La vigente legge elettorale, la legge 3 novembre 2017, n. 165, prevede che circa un terzo dei parlamentari siano eletti in collegi uninominali con metodo maggioritario. Per l’esattezza, sono eletti con metodo maggioritario 232 deputati su un totale di 630; e 116 senatori, su un totale di 315.
Nelle elezioni del marzo 2018, il Movimento Cinque Stelle, interpretando un voto di protesta, straordinariamente consistente e concentrato territorialmente, riuscì a conquistare 76 collegi uninominali degli 80 complessivamente istituiti nelle otto Regioni dell’Italia meridionale e insulare: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna. Ciò sovvertì ogni previsione, perché il Movimento Cinque Stelle correva da solo, mentre il sistema dell’elezione nei collegi uninominali con metodo maggioritario, potenzialmente premia chi disponga di una capacità di coalizione più larga possibile.
Il Partito Democratico ha, in aggiunta ai suoi limiti strutturali, il limite di una ridottissima capacità di coalizione. Non esiste una vera coalizione di Centro-sinistra, perché il PD, in ciò davvero miope, ha sempre fatto di tutto affinché non si consolidassero altre formazioni politiche in quest’area. Più Europa, i Verdi, la Sinistra, la quale non si sa neanche più bene che nome abbia, sono piccole formazioni, sempre a rischio di non ottenere rappresentanza, perché non in grado di superare la soglia di sbarramento. Pure il Movimento Cinque Stelle continuerà a correre da solo, ma non è detto che il grande serbatoio elettorale del Sud continuerà a funzionare come nel 2018. Penso, anzi, che il successo elettorale del 2018 sia destinato a diventare presto il ricordo di un bel tempo che fu e che mai più tornerà.
La molto probabile vittoria della coalizione delle destre, a guida leghista, nelle prossime elezioni anticipate, oltre a tutte le conseguenze negative che già abbiamo individuato, nei rapporti con l’Unione Europea e nella tenuta dei conti pubblici, comporterà anche che la maggioranza destrorsa del nuovo Parlamento eleggerà il prossimo Presidente della Repubblica, alla scadenza del mandato del Presidente Mattarella.
Cosa volete che siano queste quisquilie agli occhi del Segretario Zingaretti, sempre pronto a declamare che il PD non ha paura del giudizio degli elettori! C’è una voglia di perdere che richiederebbe, anch’essa, una terapia psicanalitica.
Tra i temi in discussione fra Movimento Cinque Stelle ed il Partito Democratico c’è il completamento della riforma costituzionale che prevede di ridurre il numero dei parlamentari, portando a 400 il numero dei membri della Camera dei deputati, e a 200 il numero dei membri del Senato. Il Partito Democratico ha già votato contro la riforma nelle prime tre letture, e mantiene la sua contrarietà.
Facendo appello alla mia modesta esperienza di ex funzionario dell’Assemblea regionale siciliana, ricordo agli smemorati che, nelle ultime elezioni regionali siciliane del 5 novembre 2017, gli elettori hanno eletto 70 deputati regionali. Nelle precedenti sedici legislature (a partire dal 1947), i deputati regionali erano, invece, 90. Poiché lo Statuto speciale della Regione Siciliana è stato approvato con legge costituzionale, la modifica del numero dei deputati regionali ha richiesto una legge costituzionale. Con doppia lettura da parte delle due Camere, eccetera, secondo la procedura fissata dall’articolo 138 della Costituzione. Viene appunto in considerazione la legge costituzionale 7 febbraio 2013, n. 2, recante "Modifiche all’articolo 3 dello Statuto della Regione siciliana, in materia di riduzione dei deputati dell’Assemblea regionale siciliana". Tale legge costituzionale, promulgata dal Presidente della Repubblica Napolitano, è stata controfirmata dal Presidente del Consiglio dei Ministri Monti e dal Ministro Guardasigilli Severino. Il Partito Democratico votò sempre a favore della riduzione, in tutte e quattro le letture.
Ma c’è di più. La procedura di modifica dello Statuto regionale fu avviata dalla stessa Assemblea regionale siciliana, con una cosiddetta "legge-voto", presentata al Parlamento nazionale. Tale legge-voto fu approvata durante la quindicesima Legislatura dell’ARS, quando, per la cronaca, nessun deputato del Movimento Cinque Stelle sedeva fra i banchi di Sala d’Ercole. Si era partiti da un disegno di legge di iniziativa parlamentare. Presentato, udite, udite, da un deputato regionale del Partito Democratico. Del quale mi piace ricordare il nome: l’onorevole Giovanni Barbagallo.
C’è stata una stagione in cui l’esigenza di ridurre i costi della politica era considerata un argomento serio. Tanto da non poter essere ignorata da alcuna parte politica. Ad esempio, al tempo dell’ultimo Governo presieduto da Silvio Berlusconi, fu approvato il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 che, all’articolo 14, fissava, per le Regioni a Statuto ordinario, il numero massimo dei consiglieri regionali, in proporzione alla popolazione residente. Così, ad esempio, nelle Regioni con popolazione fino a un milione di abitanti, il numero dei consiglieri non può essere superiore a 20. Nelle Regioni con popolazione eccedente gli otto milioni di abitanti, il numero dei consiglieri non può essere superiore a 80. Quella normativa era tutt’altro che risolutiva. Richiedeva provvedimenti attuativi da parte delle singole Regioni e ciò non sempre è avvenuto. In ogni caso, la Regione in assoluto più popolosa, la Lombardia, elegge 80 consiglieri regionali.
Oggi si vorrebbe ricondurre il tutto alla deriva "populista" del Movimento Cinque Stelle. É sbagliato, tanto più in tempi di crisi economica. Il risparmio annuale derivante dalla soppressione di 345 parlamentari non è un’entità trascurabile. C’è però in ballo molto altro. Quando si chiedono sacrifici ai cittadini per provvedere, tramite le entrate fiscali, a finanziare i servizi pubblici diretti alla generalità, proprio i rappresentanti della classe politica devono ("dovrebbero") essere i primi a dare il buon esempio. Ciò significa non soltanto rinunciare a benefits che non sono strettamente necessari per lo svolgimento del mandato rappresentativo e che, nella misura in cui non servono a questo scopo, sono meri privilegi. Significa anche quantificare in modo razionale i numeri della rappresentanza, a tutti i livelli: deve trattarsi di numeri equilibrati. Il superfluo, proprio perché viene mantenuto a spese dei cittadini contribuenti, va tagliato. Senza troppi complimenti. Avete presente la coesione sociale? Ecco, una politica non percepita come "vita comoda, a spese dei contribuenti", fa bene alla coesione sociale di un Paese.
Il mito della "partecipazione democratica" è quello al quale si fa appello per aumentare i numeri della rappresentanza. Così un più alto numero di mestieranti della politica può avere un avvenire assicurato.
Il lavoro politico non è lavoro? Certo. Ma la politica è attività nobile quando è fatta volontariamente, per passione ideale e per amore nei confronti della comunità sociale della quale si fa parte. Io che sono avanti negli anni, mi onoro di aggiungere, per amore della propria Patria. La politica si arricchisce se a farla sono personalità come Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Luigi Einaudi, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Giovanni Malagodi, Ugo La Malfa, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat. Tra gli attuali 630 deputati quanti sono soltanto dei meri "peones", come appunto vengono chiamati?
Resta l’ultimo argomento della compressione della "capacità rappresentativa". Se, in ipotesi, dopo la riduzione del numero dei parlamentari, si mantenessero i 232 attuali collegi uninominali per la Camera, e i 116 attuali collegi uninominali per il Senato, in ciascun collegio uninominale la capacità rappresentativa del parlamentare eletto rimarrebbe invariata. Ogni territorio, a partire dalla Valle d’Aosta, avrebbe il proprio rappresentante istituzionale garantito. Bisognerebbe, invece, ridurre il numero dei collegi plurinominali. Qui resterebbero da eleggere, con metodo proporzionale, 168 deputati, e 84 senatori. Quando sostengo che i collegi plurinominali dovrebbero essere meno possibile nelle elezioni per la Camera (comunque, dovrebbero essere uno per Regione, al Senato), immagino collegi molto ampi. Molto ampi, nel senso che in ciascuno di essi ci sarebbe un relativamente alto numero di rappresentanti da eleggere con metodo proporzionale. Come gli esperti di leggi elettorali sanno, più ampio è il collegio, maggiore sarà il numero delle liste che otterranno rappresentanza. In questo modo si garantirebbe l’effettivo pluralismo del Parlamento e si garantirebbe una sorta di diritto di tribuna anche alle liste minori.
Nel contempo, la legge elettorale funzionerebbe meglio di adesso, nel senso che sarebbe più facile formare una maggioranza parlamentare, capace di dare un governo stabile al Paese. Tutte le teorie secondo cui ad una riduzione del numero dei parlamentari debba necessariamente corrispondere una legge elettorale integralmente proporzionale sono del tutto destituite di fondamento. Le migliori leggi elettorali non sono né integralmente proporzionali, né integralmente maggioritarie. Devono tendere ad un contemperamento dei due caratteri. Con la legge proporzionale pura diventa molto più difficile eleggere governi stabili.
La polemica contro i proporzionalisti puri, i quali sognano di dare rappresentanza anche a partiti dello zero virgola, è, a ben vedere, la stessa polemica contro i mestieranti della politica, che vogliono gonfiare i numeri della rappresentanza, in nome della "partecipazione democratica". Una democrazia parlamentare funzionante deve essere una costruzione razionale; tutti gli interessi minori, le piccole ambizioni personali, vanno sacrificati a questo fine.
Palermo, 23 agosto 2019
Livio Ghersi
giovedì 22 agosto 2019
mercoledì 21 agosto 2019
Il tribunale boccia il Jobs Act renziano. Una spina per un nuovo governo M5S-Pd-LeU - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
lunedì 19 agosto 2019
La Spagna verso nuove elezioni, Sánchez non ha i numeri - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
sabato 17 agosto 2019
mercoledì 14 agosto 2019
Argentina, l'accoppiata Alberto Fernández-Cristina Fernández de Kirchner batte Macrì alle primarie - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
martedì 13 agosto 2019
Anna Falcone: "Chi odia non ha idee e nasconde il suo vuoto dietro la rabbia. Noi idee ne abbiamo tante e sappiamo come realizzarle. Facciamolo" - nuovAtlantide.org
lunedì 12 agosto 2019
Franco Astengo: Crisi
LA CRISI di Franco Astengo
In queste ore di grande confusione la non ancora ufficializzata crisi
di governo sta mostrando la sua vera cifra complessiva:
1) Autoreferenzialità del sistema politico;
2) Unico obiettivo l’incasso o il pagamento di dividendi (veri e/o
presunti) da parte di alcuni spericolati imprenditori politici che già
conoscevamo come veri e propri avventurieri: Salvini e Renzi “in
primis”;
3) Cambiali in scadenza molto salate da pagare: prima fra tutte quella
relativa all’aumento dell’IVA;
4) Assoluta mancanza di un’alternativa credibile.
Comunque vada, elezioni o non elezioni, il risultato finale sarà
quello di un’ulteriore caduta di credibilità del sistema e di
scivolamento verso l’affermazione dell’idea dell’antipolitica da
trasformarsi in svolta autoritaria.
A sinistra dovremmo cercare di occuparci della qualità della
democrazia e delle fragilità (ormai arrivata al limite del
logoramento) del sistema politico – istituzionale, partendo dalla
difesa della Costituzione Repubblicana.
domenica 11 agosto 2019
Livio Ghersi: per un governo di garanzia elettorale
Per un governo di garanzia elettorale
Nella politica italiana si naviga a vista. Tutto è incerto; quindi i protagonisti politici si rifugiano nell’ambiguità. Ci sono dichiarazioni ufficiali, ma in questa fase contano più i retropensieri.
Il fatto politico oggettivo è la decisione della Lega di sfiduciare il Governo presieduto da Giuseppe Conte. Del tutto discutibile, invece, che a questa scelta politica della Lega debba conseguire, necessariamente, la conclusione della diciottesima Legislatura del Parlamento.
Certo, il partito della Lega vuole le elezioni prima possibile, nella previsione di aumentare considerevolmente il numero dei propri deputati e senatori nella legislatura successiva. Non c’è, però, nessuna legge ineluttabile, di natura politica, o giuridico-costituzionale, che lo imponga.
La Lega ha ridato potenza alla destra italiana; ma è una "potenza" più apparente che reale. La strategia di continuare a contrapporsi alle Istituzioni dell’Unione Europea è di per sé sbagliata e pericolosa. Immaginare di poter, non soltanto evitare l’aumento dell’Iva, ma, contemporaneamente, di poter spendere altre ingenti risorse per ridurre significativamente le entrate tributarie, il tutto in deficit, significa non soltanto violare le regole europee in materia di tenuta dei conti pubblici, ma, soprattutto, equivale a sfidare i mercati finanziari. Considerate le dimensioni del debito pubblico italiano e tenuto conto che Mario Draghi sta per lasciare la presidenza della Banca centrale europea, assumere atteggiamenti di sfida nei confronti dei mercati finanziari è la cosa peggiore da fare.
C’è da stendere un velo pietoso, poi, sull’incultura istituzionale che contraddistingue l’uscente Ministro dell’Interno, in costume da bagno e maglietta. Egli, infatti, chiede i "pieni poteri". Li chieda pure, ma sta proprio a quanti hanno sufficiente esperienza di mondo, memoria storica, attaccamento ai valori della Costituzione repubblicana, rispondergli cortesemente, ma con la massima fermezza, un chiaro "No".
Nelle situazioni difficili, si vede quale sia la stoffa di un politico. L’intervista, rilasciata da Matteo Renzi al quotidiano Corriere della Sera di domenica 11 agosto 2019, dimostra come Renzi sia un uomo che non si impicca alla "coerenza". Ciò per un politico puro è un bene, non un male. La coerenza va bene per Martin Lutero che, nell’aprile del 1521, al cospetto della Dieta imperiale di Worms, diceva: «Qui sto io. Non posso fare altrimenti. Dio mi aiuti. Amen».
I rappresentanti del popolo in Parlamento, invece, siedono nelle due Camere proprio per trovare, di volta in volta, la soluzione che sembra loro più rispondente agli interessi generali dell’Italia. Nelle situazioni difficili e confuse, devono scegliere l’orientamento che costituisca il meno peggio, per evitare un peggio certo e sicuro.
Renzi ha parlato dell’esigenza di dar vita ad un "governo di garanzia elettorale" con tutti quelli che ci stanno; va da sé, infatti, che non si possa consentire all’uscente Ministro dell’Interno di gestire tutta la delicatissima fase elettorale. Tanto più in un momento in cui la tensione fra le forze politiche è alta.
Ha poi aggiunto che bisogna far entrare in vigore la riforma costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. L’iter è quasi completato, perché già ci sono state tre letture e manca soltanto l’ultimo e definitivo voto della Camera dei deputati.
Per quanto mi riguarda, sono sempre stato d’accordo con la proposta di ridurre il numero dei membri del Parlamento italiano. Ai rappresentanti del popolo si possono applicare i medesimi criteri che spiegano il meccanismo dell’inflazione monetaria in economia: più aumenti il numero complessivo dei rappresentanti, meno vale il singolo parlamentare. Viceversa, se fissi un numero equilibrato, avrai un parlamentare "pesante", realmente rappresentativo di un territorio. Avrai un singolo parlamentare che conta individualmente di più, quindi può essere più incisivo. A me, poi, non piace che un troppo alto numero di persone "vivano" di politica; ossia che facciano del loro ruolo istituzionale la propria fonte di sussistenza economica. La democrazia rappresentativa ha dei costi inevitabili, certo, e ben volentieri occorre sopportarli. Non bisogna, tuttavia, ampliare a dismisura il numero degli eletti, nella falsa logica di aumentare la partecipazione democratica. Chi ha a cuore la cosa pubblica fa politica indipendentemente dalle indennità parlamentari; anzi, investe nella politica tempo e denaro proprî. Ciò di cui certamente non c’è bisogno è di mantenere, a spese dei contribuenti, un ceto politico sovradimensionato; il quale, proprio nella misura in cui è sovradimensionato, è parassitario.
Il numero alla fine individuato dalla riforma costituzionale ora in discussione, 400 deputati e 200 senatori, è equilibrato. Un Senato di 200 membri può funzionare perfettamente; mentre, invece, non avrebbe potuto funzionare un Senato di soli 100 membri, come previsto dalla scriteriata riforma costituzionale proposta proprio da Matteo Renzi ed a ragione respinta dal Corpo elettorale nel referendum del 4 dicembre 2016.
La riforma costituzionale è "minimalista"? Non realizza un bicameralismo differenziato, diversificando le competenze delle due Camere? Dal mio punto di vista è, comunque, un passo in avanti. Realizza finalmente almeno una parte di progetti riformatori che si trascinano da decenni. Quindi, non soltanto mi farebbe piacere che questa riforma costituzionale venisse approvata; ma la difenderei anche in un eventuale, successivo, Referendum confermativo.
La riduzione del numero dei parlamentari rimette in qualche modo in discussione le leggi elettorali di Camera e Senato. É previsto che si possa votare con le leggi elettorali vigenti, però rideterminando le percentuali di quanti vanno eletti nei collegi uninominali con metodo maggioritario e di quanti vanno eletti nei collegi plurinominali con metodo proporzionale. Dipendesse da me, lascerei invariato l’attuale numero dei collegi uninominali; il che presenterebbe il vantaggio di non doverli ridisegnare un’altra volta. Così, alla riduzione del numero dei parlamentari, conseguirebbe un’accentuazione del carattere maggioritario dei sistemi elettorali; nel senso che resterebbe una significativa quota di deputati e senatori eletti con metodo proporzionale, ma il loro numero non sarebbe così preponderante come adesso.
In ogni caso, posto che occorrono tempi tecnici, anche se non lunghi, per ricalibrare le leggi elettorali, l’approvazione della riforma costituzionale adesso farebbe il gioco di quanti vogliono rinviare la data della fine anticipata della Legislatura. Anche i nemici della riforma dovrebbero fare buon viso a cattiva sorte.
Il Movimento Cinque Stelle, che sembrava annientato dall’iniziativa della Lega, potrebbe rivendicare il merito di avere determinato una effettiva, concreta, riforma della Costituzione, in un senso certamente gradito alla stragrande maggioranza del popolo italiano. Ne uscirebbe così con onore, limitando i danni. Anche se l’esperienza del Governo Conte è sotto gli occhi di tutti e gli elettori avranno ora tanti elementi di giudizio in più per esprimere il proprio voto in proseguo di tempo.
Un governo di garanzia elettorale, appoggiato in qualche modo (la fantasia dei politici è illimitata) sia dal Movimento Cinque Stelle, sia dal Partito Democratico, e con l’apporto di tutte le altre forze politiche disponibili, non potrebbe mai rappresentare una bizzarria politica superiore alla bizzarria della quale ha dato prova la cosiddetta maggioranza "giallo-verde". Ci rimettiamo, per il resto, alla saggezza del Presidente della Repubblica.
Palermo, 11 agosto 2019
Livio Ghersi
Franco Astengo: Sinistra costituzionale
SINISTRA COSTITUZIONALE di Franco Astengo
Possiamo considerare la battuta pronunciata da Salvini sui “pieni
poteri” una sorta di “voce dal sen fuggita” in occasione di un
eccitato comizio d’apertura di quella che si annuncia come una
campagna elettorale decisiva per molti degli imprenditori politici
attivi nello scenario italiano?
Tralasciamo i paragoni con le analoghe richieste mussoliniane
all’indomani della Marcia su Roma e concentriamoci su di una realtà
innegabile legata al tempo presente: la richiesta di “pieni poteri”
arriva in chiusura di una lunga stagione nel corso della quale, in
nome della “modernità del decisionismo” abbiamo assistito a una serie
di attacchi alla Costituzione Repubblicana e soprattutto alla forma
parlamentare della Repubblica, all’introduzione del maggioritario
addirittura inteso come “vocazione”, all’esasperazione del concetto di
“personalizzazione della politica”.
Sulla “personalizzazione della politica” ci sarebbe ancora da
ragionare nei termini di corrispondenza del fenomeno al tipo di
mutamenti avvenuti in direzione dell’affermarsi dell’individualismo
(prima “competitivo” poi “della paura”).
L’egemonia culturale dell’individualismo ha così provocato un vero e
proprio sfrangiamento sociale al punto tale da far salire la richiesta
del ritorno a un “Comando autoritario”.
L’esasperazione dei concetti di governabilità e di decisionismo sono
degenerati in una richiesta di forme autoritarie di governo
considerate come i soli strumenti in grado di affrontare drasticamente
le contraddizioni emergenti e in particolare quella riguardante il
flusso dei migranti.
E’ stato questo l’humus sul quale è fiorita l’idea dei “pieni poteri”
e oggi fior di analisti, svegliatisi in colpevole ritardo, si
affrettano a ricordare come un tale passaggio non sia previsto in
alcuna parte del nostro ordinamento.
E’ lecito però aspettarsi che, in base all’esito elettorale prossimo
venturo (indipendentemente dalla data di svolgimento dei comizi)
assisteremo a un nuovo attacco alla Carta Fondamentale: ed è lecito,
in questa situazione, pensare che difenderla sarà molto più
problematico di quanto non sia avvenuto in passato.
Proprio in previsione di questo passaggio deve essere rilanciata la
prospettiva di una “Sinistra Costituzionale”, autonoma sul piano della
presenza politica, capace sul terreno elettorale di sviluppare un
discorso di alleanze, formata nel segno di una vera e propria
“ricostruzione di soggettività” e programmaticamente orientata su di
un progetto legato al riconoscere la complessità delle contraddizioni
da affrontare nel segno di una capacità di “riconoscimento sociale”
all’altezza dei tempi avendo sempre al centro la necessità di
combattere l’imperante logica dello sfruttamento, ormai estesa ben
oltre i classici “clevages” investendo il rapporto tra struttura e
sovrastruttura ormai modificatosi radicalmente rispetto ai canoni
classici del ‘900.
Infine un’annotazione di stretta attualità riguardante il tema del
taglio nel numero dei parlamentari: si prospetta, infatti, una
gigantesca truffa all’insegna di un voto semplicemente mediatico e
propagandistico, in piena linea con l’attacco nuovamente in corso che
prevedibilmente proseguirà intensificato se si arriverà a una nuova
legislatura in tempi brevi.
Attenzione: sul tema della struttura del Parlamento si gioca il bene
inalienabile della rappresentanza politica.
In conclusione: il tema della qualità della democrazia, in tempi di
attacchi di matrice autoritaria e di crisi del liberalismo classico,
deve diventare il tema prioritario per una sinistra che intende essere
attivamente presente nei processi politici attuali e di conseguenza
anche nell’eventualità di una campagna elettorale che dovrebbe
svolgersi in tempi molto ristretti.
Una “Sinistra costituzionale” capace anche di valorizzare le diverse
matrici storiche che a suo tempo rappresentarono il fulcro di quel
pensiero superando divisioni ormai anacronistiche.
Si tratta di tenere sulle nostre spalle, come prezioso bagaglio
culturale, quel pensiero profondo che tradotto in politica costituì la
base per affrontare il consolidamento della democrazia dopo il
fascismo, contribuì a ricostruire il Paese dalle macerie della guerra
rappresentando i settori sociali che in quel frangente pagarono il
prezzo più alto sapendo esprimere compattezza sociale e visione di un
concreto e non semplicisticamente utopico futuro di cambiamento.
sabato 10 agosto 2019
venerdì 9 agosto 2019
I tre fronti aperti di Erdogan: il primo nel Rojava - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
giovedì 8 agosto 2019
mercoledì 7 agosto 2019
martedì 6 agosto 2019
Franco Astengo-Felice Besostri: Per la ricostruzione della sinistra italiana
PER LA RICOSTRUZIONE DELLA SINISTRA ITALIANA:
LINEE DI SUCCESSIONE
di Franco Astengo e Felice Besostri
Da molto tempo la sinistra italiana ha bisogno di avviare un processo
di vera e propria ricostruzione.
Alcuni punti fermi di una tale rifondazione sono a nostro avviso ben
individuabili e costituiscono i presupposti fondamentali della
possibile ripartenza:
1) L’inutilità del mero assemblaggio delle residue forze esistenti e
della stanca riproposizione di liste elettorali sempre diverse, ma
immancabilmente votate al fallimento;
2) la necessità di richiamarsi ad un patrimonio storico e culturale
valido sia sul piano della teoria, sia su quello della dinamica
politica, superando in avanti antiche divisioni. Di qui l’impegno ad
evitare d’ora in avanti ogni ridicola diatriba sul “aveva ragione
questo” o “aveva torto quello”, come ogni pretestuosa richiesta di
scuse davanti alla storia (anzi alla Storia) ecc., ecc.;
3) è ora di riavviare, senza anacronistici riferimenti a modelli
passati (Bad Godesberg, Epinay, Primavera di Praga: tra l’altro tra
loro del tutto diversi) l’elaborazione di un progetto originale che
riparta delle contraddizioni e “fratture” fondamentali, incrociandole
però con le nuove contraddizioni imposte dal presente. Se da una parte
infatti non basta più da sola l’antica “contraddizione principale” fra
capitale e lavoro, certo non si può neanche sbilanciare il discorso
dall’altra parte, lasciando campo solo a temi pure urgenti come la
questione ambientale, peraltro strettamente legata al modo di
produzione, o una strategia dei diritti riorganizzata esclusivamente
attorno alle questioni di genere. Occorre invece tornare a pensare
insieme i due piani: materiale e immateriale, struttura e
sovrastruttura, economia e diritto. Le faglie oggi definite “post-
materialiste” devono stare dentro una strategia complessiva di
trasformazione dell’esistente. Per dirla con Carlo Marx: “Non basta
interpretare il mondo, occorre cambiarlo”;
4) Strettamente connesso a quanto appena detto sui mutati rapporti tra
economia e politica, finanza e modello sociale, tecnica e vita civile,
è anche lo sfrangiarsi individualistico della società, ma soprattutto
la crisi evidente della democrazia, palesatasi dopo il 1989. Allora la
fine della Guerra Fredda lungi dall’aprire ad un’epoca di “noia
democratica”, ad un mondo pacificato all’insegna del
liberalismo/liberismo, aprì piuttosto all’epoca della “guerra
infinita” ovvero a modelli equivoci detti di “democrazia del pubblico”
o “democrazia recitativa”. Si aprì insomma un’epoca di tensioni
planetarie potenzialmente antidemocratiche, fondate sulla scissione
tra procedimento elettorale e partecipazione dei cittadini, con
l’esercizio del potere popolare messo pericolosamente in discussione.
Per questo la sua rifondazione è oggi più che mai una priorità per una
nuova sinistra che voglia essere all’altezza delle sfide del tempo
nuovo;
5) della crisi di sistema appena richiamata sono indizio anche alcune
pulsioni che pensavamo ormai accantonate, da quelle nazionalistiche, a
quelle imperialiste, al ritorno di fantasmi quali il razzismo e il
fascismo. Anche tutto questo ovviamente deve essere inquadrato nel
contesto del mutamento delle dinamiche internazionali degli ultimi
decenni. La fase presenta infatti elementi di emersione di nuovi
livelli di confronto tra le grandi potenze e di profonda modificazione
del processo di globalizzazione, così come si era presentato alla fine
del XX secolo e, successivamente, nella fase della “grande crisi” del
2007. Sotto quest’aspetto il grande tema rimane quello di un rilancio
concreto dell’internazionalismo e della prefigurazione di un modello
economico e sociale alternativo a quello neoliberista;
6) in questo quadro un “dialogo Gramsci - Matteotti”, che parta dalla
loro analisi dell’avvento del fascismo dopo la fine della Grande
Guerra, può essere propedeutico ad un rinnovato discorso culturale e
politico di sinistra all’indomani della fine della Guerra Fredda (e in
presenza dei ricordati fenomeni di crisi della democrazia e di
fascismo di ritorno). Non ci interessa costruire una sorta di Pantheon
comune fra compagne e compagni che hanno vissuto passate divisioni e
che invece oggi sono unicamente impegnati ad affrontarne sfide nuove
ed inedite; molto più interessante semmai una ricerca in mare aperto
su quelle che definiamo “linee di successione” rispetto ai grandi del
pensiero e dell’azione politica di sinistra del ‘900.
Ritornare a Gramsci e Matteotti dunque. E non solo in ragione del
grande valore morale e politico rappresentato dalla loro comunanza di
martirio, ma soprattutto per alcuni tratti comuni della loro analisi.
Che ci paiono tanto proficue a tanta distanza di tempo ed entro
tutt’altra temperie politica e sociale.
Come preziosa ci appare la coerenza e l’intransigenza, scevra di
settarismo, che sempre sottese la loro vita.
Sicuramente qualcuno potrà trovare fra i due autori testi o passaggi
contradditori tra loro: condanne reciproche, interventi svolti
sull’onda del contingente, che in apparenza parrebbero smentire la
praticabilità di una ricerca attorno appunto a comuni “linee di
successione”, ma si tratterebbe di letture superficiali e strumentali.
Non ci si rapporta così ai classici. E Gramsci e Matteotti sono
certamente dei classici della nostra modernità politica.
Di certo a noi non interessa indulgere in polemiche di corto respiro.
Molto più utile fissare alcune “linee” di lavoro:
1) intanto l’impegno a sviluppare una adeguata “profondità di pensiero
politico”. Potrebbe essere utile in questo senso riscoprire la
categoria di “pensiero lungo”, a indicare uno sforzo di analisi e
proposta che abbia respiro e profondità; premessa indispensabile tanto
alla ricerca delle origini classiche di una teoria critica
dell’esistente, quanto alla immaginazione e realizzazione di scenari
futuri all’insegna della qualità e della civiltà;
2) recuperare poi la capacità di riflessione e intervento sul presente
che fu innanzitutto propria di Gramsci e Matteotti. Se il primo
infatti è stato tanto l’organizzatore degli operai di Torino, quanto
l’acuto interprete dei termini essenziali della “questione
meridionale” (all’epoca coincidente in larga parte con la “questione
contadina”), Matteotti è stato il riferimento dei braccianti di una
delle zone più povere e d’intenso sfruttamento, quella del Delta del
Po, ma anche chi indagò e denunciò le trame spesso oscure che
intrecciavano già allora finanza e sfruttamento delle fonti
energetiche;
3) ma decisiva è anche la questione morale. In Gramsci essa costituiva
una sorta di stile di pensiero e di vita, strettamente connessa alla
fatica del pensiero, al rigore degli studi e delle analisi
indispensabili all’azione politica di una classe operaia che doveva
essere classe dirigente nazionale. Ebbene era la stessa serietà e
intransigenza che animava Matteotti, quella che sempre ne sostenne
l’azione politica e parlamentare; si pensi solo alla capacità
d’inchiesta, alla fermezza con cui agitò proprio la “questione morale”
in faccia al fascismo rampante, quella stessa che costituì la vera
ragione della sua condanna a morte;
4) ora fu proprio una radicale e coerente capacità di analisi a
consentire sia a Gramsci sia a Matteotti di antivedere le dinamiche
sociali e politiche che avrebbero portato al regime fascista. La cosa
è tanto più significativa perché le loro intuizioni si sviluppavano in
un clima nel quale, anche in ambiente antifascista, inizialmente ci si
illuse che il movimento mussoliniano potesse essere solo un fenomeno
passeggero, una “parentesi”, magari addirittura utile per riportare
all’ordine liberale, dopo i drammi della guerra mondiale e
dell’immediato dopoguerra. Del resto allora addirittura a sinistra vi
fu chi non riuscì a cogliere la pericolosità del fenomeno,
considerandolo mero elemento degenerativo del capitalismo, cui ovviare
attraverso il mero rilancio della dinamica della lotta di classe.
Ebbene le analisi ben altrimenti approfondite di Gramsci e Matteotti,
un certo stile intellettuale e morale, tornarono utili non solo dopo
il 1945 per la ricostruzione dei grandi partiti della sinistra
dell’Italia repubblicana, ma mantengono un’intatta utilità ancora
oggi, in un paese in cui la sinistra è letteralmente scomparsa e ci
troviamo di fronte a problemi immani ed inediti di rifondazione e
ricostruzione.
Per questo ci sembra indispensabile avviare un processo di “confronto
costituente”. Gramsci e Matteotti possono contribuire a trovare la
giusta direzione di marcia.
Resta per altro per noi chiaro che quella che ci attende non è una
operazione di mero valore scientifico, individuare infatti le linee
“di frattura” e “di successione” deve servire a meglio preparare il
terreno per lo sviluppo del più alto livello possibile di
progettualità sistemica.
Se ancora a cavallo tra il XIX il XX secolo definire cosa fosse il
socialismo era abbastanza semplice e la divisione era su come
raggiungere l’obiettivo di una società senza classi e con i mezzi di
produzione in proprietà collettiva, oggi non solo in quel che resta
della sinistra ci sono profonde differenze programmatiche, ma proprio
il punto del socialismo è tutt’altro che condiviso. Si tratta
dell’ennesima riprova della profondità di una crisi che è politica,
teorica, morale, di classi dirigenti.
Di qui l’esigenza, che avvertiamo impellente, di un ripensamento dei
fondamenti di una teoria e pratica politica che possano dirsi di
sinistra, socialiste, riformiste, radicali, intransigenti.
Partire da Gramsci e Matteotti dunque come modo migliore per
riprendere il cammino. Per dare sostanza ad un progetto politico
ambizioso: che mira a ridare a poveri e sfruttati il loro partito e
alla democrazia italiana una soggettività politica indispensabile.
Necessaria alla sua qualità, alla sua rappresentatività, alla sua
stessa sopravvivenza.
lunedì 5 agosto 2019
domenica 4 agosto 2019
Gianna Fracassi, vicesegretario generale Cgil, a RadioArticolo1. “Italia divisa in due. L’esecutivo non ha contezza della gravità della situazione” | Jobsnews.it
sabato 3 agosto 2019
venerdì 2 agosto 2019
Rapporto Svimez. Mezzogiorno sempre più povero e spopolato: «è alla deriva» - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
giovedì 1 agosto 2019
Fracassi e Scacchetti (Cgil). In un anno il governo ha portato l’economia in stagnazione. Dati Istat: occupazione non cresce. Crescita zero. Critiche da Renzi, Speranza, Brunetta, Confindustria, Confesercenti, Confcommercio, Federdistribuzione | Jobsnews.it
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