sabato 20 ottobre 2018

Franco Astengo: Nazionalizzazioni

NAZIONALIZZAZIONI di Franco Astengo La sinistra massimalista scende oggi in piazza per reclamare che” nell’agenda politica del governo e del parlamento torni di forza la questione della nazionalizzazione dei servizi, delle aziende e delle infrastrutture strategiche del paese. Non solo. L’intero sistema di welfare, devastato dai tagli, dalle privatizzazioni e dalle esternalizzazioni del personale, deve tornare in mani pubbliche per riaffermare la priorità degli interessi collettivi rispetto a quelli privati.”. Come si può notare si tratta di un tema molto complesso da declinare in forma articolata al riguardo del quale andrebbe aperta una riflessione approfondita partendo ad alcuni elementi che non possono, nell’essere affrontati, subire semplificazioni: Qual è l’obiettivo della nazionalizzazione di alcuni settori? Forse quello dell’apertura di una fase di transizione a un sistema diverso da quello della democrazia parlamentare in crisi? Il tema delle nazionalizzazioni si pone, infatti, di fronte a due questioni decisive: la prima riguarda la forma dello stato dentro la quale si sviluppa un sistema di nazionalizzazione di settori strategici. Al riguardo sviluppo soltanto un esempio, quello del rapporto tra il Centro del sistema cioè lo Stato nelle sue articolazioni istituzionali e burocratiche e la Periferia, cioè il sistema degli enti locali. Limitati a questo punto gli interrogativi sarà il caso allora, tanto per fornire alcuni spunti, di compiere qualche passo all’indietro nella storia d’Italia. 1) La storia d’Italia offre due modelli di nazionalizzazione nei settori decisivi della produzione industriale e nella diffusione del welfare. Il primo è stato il modello corporativo. Il corporativismo cattolico ispirò lo “Stato corporativo” fascista, sorto nel 1922. I principi generali del nuovo ordinamento erano enunciati nella Carta del Lavoro, varata nel 1927 e posta a cardine del criterio che doveva presiedere “all'interpretazione e all'applicazione della legge”. In questa struttura il corporativismo si concretò nel riconoscimento, per ogni categoria professionale, di un sindacato unico e obbligatorio (chiamato corporazione), inserito nell'organizzazione politico-amministrativa statale retta dal partito unico e dotato di prerogative consacrate dalla legge (come la rappresentanza legale della categoria, la potestà normativa e tributaria, ecc.). L'organizzazione corporativa fascista era dunque ispirata all'esigenza di inglobare l'attività economica nell'apparato burocratico statale, col duplice scopo di appoggiarsi ai centri del potere finanziario e di eliminare, con lo spegnimento della dialettica di classe, l'opposizione di un proletariato per decenni educato dal socialismo. Il regime tentò di realizzare in tutte le implicazioni l'idea corporativa, con una serie di disposizioni legislative che si susseguirono dal 1926 al 1939. All'istituzione effettiva delle corporazioni si giunse solo nel 1934, mentre già dal marzo 1930 era stato reso operante il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, quale organo supremo di collegamento e di rappresentanza di tutte le categorie della produzione unitariamente considerate. Punto d'arrivo del tentativo di trasformare lo Stato in senso corporativo fu l'istituzione nel 1939 della Camera dei fasci e delle corporazioni, assemblea rappresentativa suprema del popolo italiano – composta da membri di diritto del partito e da organi corporativi – in sostituzione della Camera dei Deputati. Le controversie di lavoro facevano capo alla Magistratura del Lavoro, che vedeva allargato il suo campo anche al legislativo con potere di emanare norme interessanti intere categorie. L'Iri nacque come ente temporaneo durante il periodo fascista con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una "Sezione finanziamenti" e una "Sezione smobilizzi". Il nuovo istituto assorbì innanzitutto l'Istituto di Liquidazioni. Poi nel 1934 l'IRI stipulò con le tre banche, Commerciale, Credito e Banco di Roma, tre distinte convenzioni con cui gli istituti di credito cedevano all'IRI le proprie partecipazioni industriali e i crediti verso le imprese, in cambio di liquidità, necessaria a proseguire l'attività bancaria. Conseguentemente furono trasferite all'IRI, e poi messe in liquidazione, la Sfi, la Società Elettrofinanziaria e la Sofindit. Le partecipazioni furono infine trasferite all'IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d'Italia il capitale ricevuto per acquisire le finanziarie. Una volta trasferite le quote all'Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L'operazione fu l'applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l'INA, ovvero l'organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano a impiegare in reali processi di sviluppo. In questo modo l'IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporaneamente proprietario di oltre il 20% dell'intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano con aziende come Ansaldo, Terni, Ilva, SIP, SME, Alfa Romeo, Navigazione Generale Italiana, Lloyd Triestino di Navigazione, Cantieri Riuniti dell'Adriatico. Si trattava, in effetti, di grandi aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse pubbliche. Inoltre, l'IRI possedeva le tre maggiori banche italiane. Nel 1934, il valore nominale del patrimonio industriale italiano era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all'ente figuravano: la quasi totalità dell'industria degli armamenti i servizi di telecomunicazione di gran parte dell'Italia un'altissima quota della produzione di energia elettrica una notevole quota dell'industria siderurgica civile tra l'80% e il 90% del settore di costruzioni navali e dell'industria della navigazione Nel complesso, con la costituzione dell'Iri il 21,49% del capitale delle società italiane esistenti al 31 dicembre 1933 era, direttamente o indirettamente, controllato dall'Istituto. Inizialmente era previsto che l'IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con alcune imprese del settore elettrico (Edison e Bastogi) e tessile[4], che furono cedute ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l'IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d'Etiopia. Per finanziare le sue aziende l'IRI emise negli anni trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L'IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l'Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le "caposettore") che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1934 nacque la STET, nel 1936 la Finmare, e nel 1937 la Finsider, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica. Nel dopoguerra la sopravvivenza dell'Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo Stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l'IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo. Solo dopo il 1950 la funzione dell'IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l'IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un'alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l'IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in "supplenza" dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell'industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell'Autostrada del Sole, iniziata nel 1956. Negli anni sessanta, mentre l'economia italiana cresceva ad alti ritmi, l'IRI era tra i protagonisti del "miracolo" italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula IRI" come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione" perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato. In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall'Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori. L'IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell'Italsider di Taranto e quella dell'AlfaSud di Pomigliano d'Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro. Per evitare gravi crisi occupazionali, l'IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i "salvataggi" della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l'acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell'Istituto. Nel 1982 il governo affidò la presidenza dell'IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell'IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. La ristrutturazione dell'IRI durante la presidenza Prodi portò a: la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l'Alfa Romeo, privatizzata nel 1986; la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali; la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat; lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica; la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, operazione che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi, che avanzarono un'offerta alternativa per bloccare la vendita. L'offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME). Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l'IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò: «(Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti.» (S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007) È comunque indubbio che in quegli anni l'IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di "privatizzazioni”, poi realizzate con la chiusura dell’Istituto. 2) Il secondo modello presente nella storia d’Italia fu dunque rappresentato dal sistema a “economia mista” attuato nel periodo intercorso tra la ricostruzione nell’immediato dopoguerra e l’avvento del centrosinistra all’inizio degli anni’60caratterizzato del processo di cosiddetta “Pianificazione Economica. Un processo ideato dal Governo presieduto da Amintore Fanfani e proposto durante il discorso programmatico pronunciato alla Camera dei Deputati il 2 marzo 1962. Fanfani per la prima volta presiedeva un Governo di Centro – Sinistra, che comprendeva: democristiani, socialdemocratici e repubblicani; mentre il Partito Socialista Italiano si asteneva sul voto di fiducia dopo che in precedenza, nel 1960, lo stesso PSI si era astenuto di fronte ad un governo monocolore democristiano (quello delle “convergenze parallele” considerato che contemporaneamente si era avuto l’astensione dei monarchici) presieduto dallo stesso Fanfani che aveva chiuso la tragica parentesi del governo Tambroni appoggiato dall’MSI e respinto in piazza, con un bagno di sangue, nel corso dei moti del Luglio 1960. Erano questi gli anni che gli storici definivano come “boom economico”; quindi pianificare e programmare economicamente lo Stato diventava una priorità per il Governo e i partiti della nuova coalizione di Centro – Sinistra. Il programma economico del governo veniva presentato dal Ministro repubblicano Ugo La Malfa, il quale sottolineava la necessità di una pianificazione economica concordata sia con i sindacati sia con gli industriali. Nel 1962 il Ministro al bilancio la Malfa presentava il documento che prenderà il nome di “Nota aggiuntiva alla relazione annuale di contabilità economica nazionale”. La Nota aggiuntiva tracciava un lucido consuntivo, dei caratteri salienti del processo di sviluppo della fine degli anni ’50. La parte finale della Nota aggiuntiva del Ministro La Malfa segnalava, tra i principali squilibri determinati dalle carenze del passato sviluppo, il persistente squilibrio regionale; lo squilibrio settoriale fra industria da un lato e agricoltura e alcune attività terziarie dall’altro. Per quanto concerneva il Mezzogiorno, la Nota riconosceva che l’intervento straordinario non era stato sufficiente. L’ elaborato, storicamente il testo più importante nel delineare il quadro di economia mista che caratterizzava il periodo (non si entra qui nel merito del rapporto di interscambio con gli USA e il quadro delineato dalla nascente comunità europea in particolare con la CECA), si soffermava sull’anno 1956, analizzando un nuovo Ministero, quello delle Partecipazioni Statali (abolito con referendum popolare nel 1993): questo dicastero aveva il compito di gestire lo sviluppo economico dello Stato , attraverso il controllo di alcune grandi industrie e imprese. Fu da quel momento che il Governo italiano si propose di “entrare” in maniera evidente e chiara nella gestione economica del paese. Fino al 1956 lo Stato gestiva l’ economia italiana attraverso lo sviluppo delle amministrazioni parallele o parastato. Il primo atto di nazionalizzazione fu realizzato agli inizi del 1962 il Governo Fanfani IV ricecendo la fiducia dal parlamento italiano aveva assunto l'impegno di proporre entro 3 mesi dalla fiducia un provvedimento di unificazione del sistema elettrico nazionale. Nella seduta della Camera dei deputati del 26 giugno 1962 fu presentato il disegno di legge di una legge delega che sanciva i principii e le modalità per l'istituzione dell'Ente nazionale per l'energia elettrica (E.N.E.L.). Enel , a quel punto, acquisiva tutte le attività delle aziende operanti nella produzione, trasformazione, trasmissione e distribuzione di energia elettrica, fatto salvo alcune eccezioni, quali gli autoproduttori ovvero aziende che producevano più del 70% di energia elettrica in funzione di altri processi produttivi (a cui successivamente furono equiparate anche le aziende municipalizzate), o le piccole aziende che non producevano più di 10 milioni di chilowattora per anno. A compensazione delle acquisizioni, furono definite le modalità di valutazione del valore delle aziende ed è stato istituito un indennizzo da corrispondere in 10 anni ai creditori al tasso di interesse del 5,5%. Il 1962 è stato considerato un esercizio di transizione in cui tutti gli oneri ed i proventi delle aziende acquisite sono stati trasferiti ad Enel, mentre il 1963 ha segnato il primo anno di esercizio dell'azienda. Nello stesso 1962 il Ministro La Malfa, che come abbiamo visto, aveva già compilato la famosa “Nota aggiuntiva” , istituì una “Commissione nazionale per la programmazione economica” (Cnpe), composta da esperti e rappresentanti delle maggiori organizzazioni di lavoratori e imprenditori. Il lavoro della Commissione doveva assicurare un vero e proprio programma destinato a guidare le azioni di politica economica; la sua composizione aveva suscitato a Sinistra il sospetto che si trattasse di una scelta “modernamente corporativa” , ispirata all’ esperienza francese, avviata da tempo e che veniva rilanciata con il gollismo. La Malfa assicurava la Sinistra della fermezza degli indirizzi che al tempo aveva già adottato proprio nella sua Nota aggiuntiva e la decisione di passare alla direzione programmata dell’economia con una diretta assunzione di responsabilità da parte del Governo. I lavori della Commissione nazionale per la programmazione economica, cominciavano attraverso l’attivazione di una sezione di esperti; venivano riservate per queste sedute plenarie di esperti solo la funzione di raccolta di opinioni. Del resto all’interno del Cnpe si riflettevano tutti i contrasti politici e sociali che emergevano nella società italiana. Un primo rapporto del Vicepresidente della Commissione, Pasquale Saraceno , veniva presentato al Governo nell’ aprile del ’63, poi in un’ edizione riveduta, nel giugno dello stesso anno. Merito del rapporto Saraceno era quello di non essere stato influenzato dall’andamento congiunturale, e di mantenere inalterata la visione dei problemi dell’economia italiana. Dopo un breve preambolo, che veniva dedicato all’indicazione delle prospettive complessive dello sviluppo, il rapporto doveva perseguire tre ordini di finalità: • “assicurare all’economia italiana un alto saggio di sviluppo globale; • eliminare gli squilibri esistenti nel sistema produttivo italiano; • provvedere in modo adeguato a quelle esigenze insoddisfatte, il cui appagamento deve essere direttamente garantito dall’azione pubblica”. La prima parte del rapporto, considerava l’eliminazione degli squilibri esistenti nel sistema produttivo. I problemi che si presentavano erano i seguenti: •le forze di lavoro di determinate zone, in gran parte comprese nel Mezzogiorno, devono in proporzioni eccessive ricercare all’infuori dell’area in cui risiedono le possibilità di un utilizzo pienamente produttivo; • il reddito delle forze di lavoro e, in generale, le condizioni del lavoro agricolo presentano, rispetto al complesso degli altri settori, uno scarto eccessivo. . Un secondo gruppo di problemi si riferiva al fatto che le fondamentali attività culturali, scientifiche e formative che si svolgevano nel paese, non disponevano di strutture organizzative e non ricevevano l’ammontare di risorse che sarebbero state necessarie per consentire a esse, uno sviluppo adeguato al livello di reddito raggiunto nel Paese. La parte terza della relazione, illustrava lo sviluppo dei servizi fondamentali di pubblica utilità: energia, trasporti, comunicazioni. La quarta parte, riguardava, l’efficienza del sistema: più precisamente, al fatto che alcune zone del paese non erano indotte a conseguire i massimi livelli di produttività che sarebbero consentiti dal progresso tecnico e dalle formule organizzative più avanzate. Mentre veniva spiegata in maniera fugace la quinta parte della relazione Saraceno, che riguardava tre campi d’azione pubblica che interessavano la generalità dei cittadini ed erano: lo sviluppo equilibrato dell’edilizia per abitazione, la sicurezza sociale, nelle sue due grandi branche dell’ assistenza e della previdenza e l’assetto urbanistico. L’ultima parte della relazione, riguardava il modo di recuperare i fondi per attuare l’ intero programma; ruolo fondamentale lo giocava la Cassa per il Mezzogiorno, che aveva il compito di vagliare e finanziare tutti i progetti di sviluppo per il Meridione. La conclusione di Saraceno fu nel segno dell’ottimismo. Infatti, lo stesso scriveva nella relazione: “... L’azione pubblica, doveva essere adeguata non solo alle risorse disponibili, ma anche al ritmo con cui le misure in progetto potranno, rovesciando una tendenza in atto, migliorare la capacità dell’azione pubblica.” La linea di continuità della Nota aggiuntiva e del rapporto Saraceno, veniva seguita dal progetto di sviluppo economico, presentato dal governo Presieduto da Aldo Moro. Il Ministro del Bilancio, Antonio Giolitti , presentava alla Commissione nazionale per la programmazione economica il piano del governo per il quinquennio 1965 – 69. Il Piano era concepito come un insieme di decisioni di politica economica da assumersi in sede di Governo e da sottoporre al Parlamento. La novità del Piano Giolitti, rispetto ai precedenti documenti, risiedeva nel tentativo di giungere al momento della definizione delle decisioni di riforma o di investimento che dovevano incidere non nel medio periodo ma nell’immediato. I rapporti con il sistema delle imprese venivano affrontati sulla base di una premessa molto chiaramente formulata: “Il problema di programmazione si compie in una economia mista, nella quale coesistono centri di decisione pubblici e privati, ciascuno dei quali è dotato di una propria sfera di autonomia. Il programma non investe ovviamente la sfera di autonomia dei vari centri se non nella misura in cui coordinamenti e vincoli si rivelano necessari per la realizzazione delle sue finalità” . Per le imprese pubbliche si precisava: “...Una responsabilità riguardante la conformità delle loro decisioni agli obiettivi del programma per un esame preventivo dei programmi specifici e un esame consuntivo dei risultati”. Il documento continuava chiarendo, che le grandi imprese private, quelle cioè le cui decisioni, potevano influire sensibilmente sulla destinazione e ripartizione delle risorse, dovevano comunicare i programmi d’investimento agli organi di programmazione, ai fini di un accertamento della loro conformità agli obiettivi del programma. Per le imprese pubbliche si affermava, inoltre, la necessità di rafforzare i poteri di decisione del governo rispetto alle imprese a partecipazione statale e questo, doveva avvenire attribuendo al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) il potere di approvare i programmi annuali e pluriennali degli enti di gestione delle partecipazioni statali. Il Piano Giolitti continuava facendo notare la scarsa esperienza del Ministero delle Partecipazioni Statali di orientare i programmi delle maggiori imprese pubbliche; si proponeva quindi, la revisione della struttura organizzativa delle imprese a partecipazione Statale, sulla base di grandi gruppi integrati come l’Iri e l’Eni, e inoltre veniva proposto il rafforzamento del controllo del Governo sulle imprese a partecipazione dello Stato. Anche il Ministro Giolitti, nella relazione che illustrava il suo Piano, parlava di Mezzogiorno; egli concentrava la maggior parte delle risorse dello Stato, per garantire la massima industrializzazione nelle aree maggiormente suscettibili di sviluppo. La maggior parte degli investimenti arrivavano al Sud del paese, attraverso progetti finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. Nel 1964, la Commissione nazionale per la programmazione economica, veniva interamente sostituita dall’ “Ufficio del Programma”, era sicuramente una struttura più agile nella quale, intorno al suo Presidente Giorgio Ruffolo , si raccoglievano alcuni dei migliori esponenti della cultura economica dell’epoca; una leva di giovani intellettuali soprattutto di area socialista. Emergevano nel frattempo, profonde fratture tra il nuovo Ufficio per la programmazione e la Ragioneria Generale dello Stato, tensioni, che si manifestavano, a causa delle competenze che essi dovevano avere nel campo economico. L’Ufficio presieduto da Ruffolo, abbozzava il proprio rapporto senza consultare la Ragioneria Generale dello Stato. Era giunto il momento del “tintinnar di sciabole”: Nel luglio del 1964, in un clima politico turbato dalla destra economica contro la politica di programmazione, il primo Ministro Moro, rassegnava le dimissioni prendendo a pretesto la questione del finanziamento delle scuole private e, di conseguenza, anche il Ministro del Bilancio Giolitti, lasciava il suo incarico. Il successivo governo, presieduto ancora da Aldo Moro, aveva come nuovo Ministro del Bilancio Giovanni Pieraccini. Si apriva una nuova fase, nella quale gli obiettivi e i metodi della programmazione sembravano più sbiaditi e, soprattutto, erano meno capaci d’influenzare l’attività del Governo nel suo complesso. Il 1964 fu l’anno della “congiuntura” ma si può affermare che il processo di dismissione dell’intervento pubblico in economia che poi negli anni’90 avrebbe portato alla dismissione dell’IRI e all’adozione di un processo di tipo compiutamente liberista, anche in coincidenza con il mutarsi del quadro di relazioni internazionali, si era già avviato in quel momento, oltre 50 anni fa in quel luglio davvero difficile, caratterizzato anche dal malore che portò alle dimissioni del presidente della Repubblica Segni, fiero avversario della politica di programmazione; 3) Come si collocò il PCI rispetto alla dinamica impressa dal centro-sinistra al tema dell’intervento pubblico in economia e della programmazione ?Alcuni contributi storiografici hanno voluto fornire nella loro ricostruzione un’immagine del PCI tale da raffigurarlo come radicalmente ostile a qualsiasi forma e azione di piano e di programmazione dell’economia in un contesto di regime capitalistico. Piuttosto che dell’assenza della tematica del piano, per il PCI del dopoguerra bisognerebbe parlare, semmai, di un diverso livello di maturazione e di elaborazione di tale tematica rispetto a quella – anch’essa da taluni ignorata o minimizzata – avanzata e fatta propria dai comunisti italiani negli anni Sessanta (discorso, questo, tranquillamente estendibile allo stesso PSI, viste le ovvie e scontate divergenze tra l’elaborazione morandiana intorno al piano socialista e quella lombardiana e giolittiana agli albori del centro-sinistra). È certamente vero che, nonostante le riflessioni togliattiane a proposito del Piano De Man, nei fatti la tematica della programmazione economica non emergerà chiaramente e con forza se non in seguito al 1956, anno in cui prenderà avvio la delineazione della “via italiana al socialismo”. In seguito la riflessione del gruppo dirigente del PCI nella fase del boom economico troverà un primo momento di sistematizzazione nel 1962 in occasione del noto convegno dell’Istituto Gramsci su “Le tendenze del capitalismo italiano”. Quella riflessione si sviluppò a partire dalla qualificazione della trasformazione realizzatasi in quel periodo, come espansione economica «monopolistica». Malgrado però questo comune nucleo analitico, ovvero il riconoscimento del passaggio compiutosi da «paese agrario- industriale» a «industriale- agrario», fu sulle caratteristiche specifiche di questa trasformazione – e in particolare sul rapporto tra modernizzazione e arretratezza nelle strutture del capitalismo italiano – che vene a originarsi all’interno del PCI una profonda divaricazione politico-strategica destinata ad acutizzarsi nella fase post- togliattiana (con l’XI congresso come apice dello scontro) segnando la vita interna del partito per l’intero decennio – fino, grosso modo, alla radiazione del gruppo del “Manifesto”. Il gruppo del “Manifesto” infatti aveva sviluppato uno dei due approcci espressisi nel già citato convegno del 1962 portandolo fino ad un livello di elaborazione tale da provocare (assieme ad altre cause ovviamente9 la rottura con il Partito. In quel Convegno, sul quale si sofferma la nostra attenzione, risultò evidente infatti che era solo in base alla profondità della trasformazione operata dal miracolo economico e alla sua capacità di compiere o meno un salto rispetto alla trama del blocco storico dominante individuato dall’analisi gramsciana (industriali del Nord/latifondisti del Sud) che poteva essere definita e impostata in termini strategici la linea di condotta del partito. Da un lato, rivedendo gli atti, troviamo la linea tratteggiata dalla relazione di Amendola, il quale, ritenendo che «l’originalità della situazione italiana [fosse] data da questo precoce scoppio delle contraddizioni proprie di una società capitalistica avanzata in un paese che non ha ancora risolto le contraddizioni create da uno sviluppo ritardato e distorto del capitalismo». Amendola sembrava così rimanere fedele alla tradizionale idea gramsciano - togliattiana del completamento della rivoluzione democratico- borghese da parte della classe operaia e delle sue organizzazioni politiche. All’interno di questa impostazione, finalità socialista e funzione nazionale (quest’ultima intesa nel senso di quella modernizzazione delle strutture civili del paese che il blocco sociale dominante giudicandolo incapace di realizzare) si trovano a coincidere, concependo conseguentemente la politica delle alleanze come unione di tutti gli interessi offesi, sia dentro sia fuori la fabbrica, dallo strapotere dei monopoli sull’economia italiana. Il blocco sociale così delineato, composto cioè dall’alleanza fra la classe operaia e l’insieme dei piccoli produttori, rappresentava nei fatti la prosecuzione della natura “popolare” del blocco storico già definita da Togliatti nella sua elaborazione, fin dal VII congresso dell’Internazionale comunista. Dall’altro lato invece, gli esponenti della sinistra interna – chi più, chi meno, raccolti attorno alla figura di Pietro Ingrao – come Banfi, Magri e Trentin, pur condividendo l’idea della natura duale della struttura economica italiana, più che sugli elementi di arretratezza posero l’accento sulla modernità dei problemi e delle contraddizioni che il boom stava generando. Contraddizioni tali da inserire l’Italia nel novero dei paesi capitalisticamente maturi e da porre in primo piano non l’obiettivo di una modernizzazione – pur orientata in senso socialista – ma di un vero e proprio ribaltamento del modello di sviluppo. Fu perciò :”la coscienza della «generalizzazione del potere impersonale del capitale […] sull’insieme della società e su tutti i settori della vita civile», della trasformazione dei monopoli da «elemento anomalo e parassitario» a principio «ordinatore e propulsore», dell’estendersi degli effetti del conflitto tra capitale e lavoro ben aldilà della sola realtà di fabbrica”, a condurre i teorici della sinistra interna a considerare insufficiente nella nuova fase non stagnazionistica del capitalismo italiano la semplice lotta antimonopolistica. Appariva così indispensabile la prefigurazione di un’organizzazione sociale alternativa, dettata dall’evoluzione stessa della stratificazione sociale. Evoluzione che vedeva cioè modificarsi profondamente il concetto stesso di “ceti medi”, espressione sempre meno legata alla figura del piccolo produttore autonomo, e sempre più volta ad indicare, al contrario, quella gran varietà di figure professionali ingenerate dalla produzione di massa, sottomesse al salario, ma differenziate per funzioni, cultura e reddito. In presenza di una simile differenziazione, l’estremo corporativismo connesso alle rivendicazioni più immediate di ciascuna categoria imponeva il superamento di una politica delle alleanze basata su una «semplice convergenza con le rivendicazioni delle categorie non monopolistiche» propria del vecchio riformismo». Ciascuna delle due diagnosi proposte in quel convegno proponevauna propria peculiare ricaduta sulle caratteristiche politica di piano da adottare. E se l’approccio antimonopolistico propugnato da Amendola poteva essere definito statalistico - riformatore , volto cioè ad un’azione di democratizzazione degli strumenti del capitalismo di Stato supportata da ampi movimenti di massa, quello della sinistra interna gravitante attorno all’idea ingraiana del «nuovo modello di sviluppo» assumeva invece una connotazione più marcatamente tesa a riconoscere al conflitto industriale e ai suoi momenti di istituzionalizzazione un ruolo più incisivo nella definizione del contenuto e degli obiettivi della programmazione. Se però quest’ultimo approccio risultava più attento alle trasformazioni d ella composizione sociale e alle nuove contraddizioni che a queste erano connesse, l’elemento della modernizzazione nell’analisi della nuova struttura economica tendeva forse ad assumere una valenza quasi idealistica, esagerando e sovrastimando la capacità unificatrice del neocapitalismo italiano e sottovalutando la permanenza e la non risoluzione degli squilibri storici, come ad esempio quello tra regioni settentrionali e regioni meridionali. Come è noto, l’XI congresso avrebbe sancito il prevalere delle posizioni amendoliane e dell’ idea della programmazione democratica, sulla base della quale sarebbe stato elaborato il progetto di “compromesso storico” esplicitamente poi appoggiato anche dal sindacato con l’idea della moderazione salariale contenuta nella cosiddetta “linea dell’Eur” e con l’accettazione della proposta di “austerità”. In questo modo però rispetto allo scopo di questo intervento ci si rivolge troppo in avanti nel tempo ed è bene fermarsi a questo punto. In conclusione:in questa sede si è cercato semplicemente di riassumer alcuni dei passaggi fondamentali sul piano storico verificatisi all’interno della riflessione politica italiana del ‘900 attorno ai temi delle nazionalizzazioni e dell’intervento pubblico in economia. Come si può notare emergono elementi di grande attualità rispetto alle questioni che la stessa manifestazione odierna sulle nazionalizzazioni pone, pur in presenza di elementi affatto diversi rispetto all’epoca in cui queste argomentazioni si sviluppavano. Internazionalizzazione dei processi, innovazione tecnologica, scompaginamento sociale, velocità comunicativa rappresentano naturalmente gli elementi di novità sui quali riflettere, ma forse rimane utile svolgere uno sguardo alle fasi più lontane di una vicenda italiana che rimane di grande interesse. In questo lavoro è stato trascurato un elemento forse dirimente: “nazionalizzazione” implica “nazione”. Ne riparleremo.

Nessun commento: