giovedì 20 settembre 2018

Franco Astengo: Sinistra e paura della politica

SINISTRA E PAURA DELLA POLITICA di Franco Astengo Due articoli apparsi giovedì 20 settembre a pagina 4 del “Manifesto” sembrano scritti apposta per far tornare indietro di almeno quarant’anni i militanti più anziani: all’epoca cioè delle rotture e scissioni tra i diversi gruppi. Una vicenda che ebbe sicuramente il suo epicentro nella formazione della lista elettorale del 1976. Da una parte (articolo firmato da Adriana Pollice) si narra dello scontro interno a “Potere al Popolo” che si sta svolgendo attorno all’elaborazione dello Statuto tra un’anima che vede in PaP una nuova soggettività politica (con un uso molto accentuato del web come strumento di comunicazione e di decisionalità) e un’altra anima in particolare derivante da Rifondazione Comunista che vede il soggetto come un assemblaggio di sigle e movimenti, ciascheduno dei quali manterrebbe la propria distinta identità e concorrerebbe a formare una sorta di cartello che, alla fine, mi si consenta lo scetticismo, altro non si risolverebbe che in un cartello elettorale (con tante scuse per la semplificazione). A fianco (a firma di Daniela Preziosi) si resoconto su LeU con un titolo sconsolato e assieme sconsolante: “ LeU, l’amarezza di Grasso, A rischio di consunzione”. Nel caso di LeU l’oggetto del contendere è un altro pezzo del classico degli orrori della sinistra italiana: quello del rapporto con il PD. Tra SI e MdP la contesa della costruzione del nuovo partito si gioca (anche in questo caso situazione descritta con l’accetta, ma credo con veridicità sostanziale) nella relazione da stabilire con il PD. Una caricatura del vecchio dibattito che, alla fine degli anni’70, aveva interessato l’allora “nuova sinistra” sul tema delle relazioni da intrattenere con il PCI (terzo polo a sinistra, o “area comunista”?). Inutile per gli addetti ai lavori rimarcare, in questo momento, la differenza “storica” tra PCI e PD. Ritengo però che ben pochi ormai hanno idea di quale fosse la consistenza politica, sociale, culturale del Partito Comunista Italiano. Tutto questo si verifica in un quadro di mancata riflessione rispetto a ciò che realmente è accaduto nel corso di questi anni attraverso un vero e proprio spostamento d’asse nel rapporto tra sistema politico e società, l’imporsi di nuove contraddizioni, l’emergere di fenomeni in parte inediti e in parte già presenti nella realtà, di assoluta perdita da parte della sinistra della capacità di lettura dei fenomeni economici, politici e culturali fino a ridursi a entità ( non soltanto sul piano elettorale) assolutamente irrilevanti favorendo così l’ascesa dei soggetti che, ridotta la politica a pure apparire, stanno (provvisoriamente?) dominando la scena. E’ davvero grave che si riduca a diatribe di questo genere (era Marx che scriveva, quando la storia si ripete, lo fa in farsa?) senza che si pensi di avviare una riflessione di fondo sulla realtà: segnali di questa riflessione a livelli adeguati pare proprio che non ne stiano arrivando e il “politicismo” dilaga quale unica forma possibile. Queste poche righe contengono semplicemente una constatazione. La constatazione riguarda l’intera sinistra italiana, quella rivoluzionaria, quella massimalista, quella riformista (tanto per rispettare le antiche separazioni e appartenenze) che sembra aver trovato – in negativo – un denominatore comune: quello della paura della politica e, di conseguenza, del ricercare di nascondersi e di mistificarsi (pensare di mantenere semplicisticamente, in queste condizioni, determinate etichette è – appunto – mistificarsi). Partiamo dal principio: è’ stata negata, nel corso di questi anni, la storia originale e particolare delle formazioni politiche che hanno rappresentato, nel ‘900, il movimento operaio italiano, le parti più avanzate dell’intellettualità del nostro Paese, i rappresentanti di un agire politico che aveva prodotto aggregazione e iniziativa all’interno dei grandi partiti di massa. Non si è cercato di apprendere nulla da questa storia. Si è rinnegata la forma della politica attiva con la scusa della modernità, una modernità intesa come individualismo, negazione dell’agire pubblico e collettivo. Si è fraintesa la politica con l’idea della governabilità come unica frontiera possibile, scambiando le elezioni come il solo momento possibile di espressione politica, riducendosi a un elettoralismo deteriore: com’è dimostrato sia dalla vicenda dell’evoluzione del PDS in PD, sia dalla storia dell’involuzione drammatica dell’area che aveva dato vita a Rifondazione Comunista che, di scissione, in scissione dopo aver tentato un davvero improbabile connubio tra movimento e governo, si è ridotta – letteralmente – a nascondersi com’è stato nel caso dell’Arcobaleno, della Lista Ingroia, di quella Tsipras e ancora a PaP. Ci si è nascosta la verità: non era sparita la classe operaia, non erano venuti a mancare i soggetti di una possibile alternativa politica e sociale. Al contrario, proprio la ferocia capitalistica nella gestione del ciclo che stiamo vivendo ha riacutizzato gli elementi portanti di quella che era sta la nostra identità, a partire dalla necessità di misurarsi appieno con la contraddizione di classe, da intrecciarsi strettamente con quelle contraddizioni post-materialiste tra le quali emerge l’altro feroce atteggiamento del capitalismo rispetto all’ambiente naturale e alla devastazione del territorio e alla progressiva negazione della differenza di genere, nascosta in una logica dei “diritti” di pretta matrice individualista. Inoltre ha fatto passi da gigante la visione riguardante la necessità di un drastico “taglio” nel rapporto tra decisionalità politica e istanze sociali nella logica della riduzione di un presunto “eccesso di domanda”. Ancor più grave ciò che è accaduta nella componente di sinistra rimasta nel PD: accecata a tal punto dalla paura di non riuscire a sopravvivere da accettare per un lungo tratto disegni di tipo autoritario fino a rompere soltanto in una situazione che non ha saputo realizzare il vero punto che sarebbe risultato fondamentale: fornire una risposta politica a quella parte di sinistra che convintamente era tornata alle urne per respingere, il 4 dicembre 2016, proprio quel tentativo autoritario di rottura dell’impianto costituzionale. La paura più evidente e drammatica riguarda però la “forma” dell’azione politica. Questo disastro è stato attuato da una generazione che non lascia eredi e dietro l’apparente impossibilità di ricostituire un’adeguata soggettività politica, punta a perpetuare ignavia e sostanziale cinismo. Le generazioni successive che si approcciano alla politica, esaurita la fase della riflessione sugli universali e sull’appartenenza diretta alla rappresentanza delle contraddizioni sociali, non paiono trovare sbocchi e riferimenti adeguati. La sinistra italiana ha alle sue spalle una storia lunga e gloriosa che non può essere dismessa; così come non possono essere dismesse le volontà di rivolta e di riscatto sociale. L’appello riguarda tutti, indipendentemente da dove si collocano e nell’idea di fare in modo di cercare di comprendere l’insufficienza di tutte le posizioni di improbabile rendita organizzativa. La necessità è quella di ripensare l’organizzazione politica rifiutando sempre di considerare le idee di eguaglianza come marginali o minoritarie e ricollocando l’idea della costruzione del partito politico nella sua insuperabile “centralità sistemica”. Non ci sono margini di conservazione o ritagli di primazia.

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