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sabato 7 aprile 2018
Paolo Zinna: Il partito dell'establishment e gli outsiders
Cari compagni,
vi propongo un abbozzo di interpretazione del recente passato – sperando che possa aiutarci a individuare la strada per agire sul futuro.
In questi giorni, prima e durante le consultazioni, il palcoscenico pare occupato soltanto dalle due forze “non tradizionali” della politica italiana: Lega e Cinque stelle. Qualche commentatore si spinge a prevedere un bipolarismo futuro fra di loro, ciascuna cementata dal consenso di una metà del paese (il Nord e il Sud) e votata da ceti sociali piuttosto diversi. Non credo a questa visione. Essa presupporrebbe la scomparsa dell’area politica centrista, “responsabile”, conservatrice nei fatti, che ha governato la seconda repubblica.
Passati alcuni anni, infatti, possiamo chiederci: ma i governi dell’Ulivo e dell’Unione, di Forza Italia e del PdL, al di là delle ovvie e vistose differenze, al di là delle roboanti affermazioni programmatiche, non avevano forse qualcosa di comune? La lotta contro il debito, la tassa per l’Europa, la spending review, la riduzione delle tasse sempre promessa e mai fatta, le “maggiori entrate dalla lotta all’evasione” che non si sono mai concretizzate, tutto questo suona familiare. A distanza di qualche anno, riesce difficile attribuire questa o quella affermazione a Gianni o a Enrico Letta, a Prodi o a Frattini, a Vincenzo o a Ignazio Visco, a Draghi o a Tremonti. Non parliamo poi della politica estera. Alla superficie, dunque, molto teatro: Berlusconi e le olgettine, Bertinotti e Turigliatto, Sgarbi e Previti e Vendola, la società civile e i girotondi. Sotto, l’eterno mondo di “grand commis” e banchieri e finanzieri, coi suoi nomi simbolo che attraversano i decenni: Bazoli e Guzzetti, per esempio, Bassanini e Chicco Testa, Cosimo Maria Ferri e Gianni De Gennaro …. E politici perfettamente integrati e adottati: Giuliano Amato e Giorgio Napolitano, per citare solo due nomi.
La seconda Repubblica è stata governata da un ceto politico economico ben insediato nei gangli del potere, attraversato sì da lotte interne, forse più vistose che reali, ma poi incapace, sia nella variante “di centrodestra” che in quella “di centrosinistra” di realizzare vere riforme radicali. Qui forse risiede una delle spiegazioni del nostro sviluppo interrotto, dello svantaggio in termini di crescita economica rispetto a partners europei molto più dinamici (Germania). E forse questa gestione conservatrice e soporifera, almeno in economia ha radici ben più lontane nel tempo, fin negli anni ’70. Che io ricordi, l’ultimo gesto innovativo, “di rottura”, venuto dall’alto, fu l’accordo sul punto unico di contingenza, firmato da Agnelli - ma è del 1975.
Sia in economia che in politica la persistente immutabilità della banchisa ha favorito l’emergere di alcuni outsiders, forti personalità che hanno combattuto per imporsi come “dominus” del sistema, partendo dall’esterno. Fra di loro ci sono state figure molto diverse ed anche episodi di scontri diretti. Però, ad una considerazione attenta, Mario Schimberni, Bettino Craxi, Raoul Gardini, Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi mostrano parecchie caratteristiche comuni.
Sia chiaro che, nella loro contrapposizione all’establishment, non vedo eroi del bene né cavalieri bianchi contri i draghi del conservatorismo. Per quel che mi riguarda, nel mio piccolo, in politica li ho sempre considerati rimedi peggiori del male e quindi avversari da contrastare. Sarebbe miope però non coglierne la carica di innovazione e non vedere i bisogni della società che ne hanno favorito la carriera. Ciascuno di loro portava elementi nuovi, spesso importati da paesi più avanzati: il concetto di public company, la comprensione della società postindustriale, la necessità di dimensioni adeguate, in industria, per competere su scala mondiale, la proiezione economica in ambito almeno europeo, la centralità dell’informazione nell’economia globale, la presa d’atto dell’indebolirsi, in politica, dei corpi intermedi. Tutti questi sono salti concettuali indissolubilmente legati ai nomi che ho citato. Guardando all’indietro, chi li contrastava ci appare rappresentare il passato - si tratta magari di figure moralmente molto più stimabili, ma irrimediabilmente superate.
Significativamente, molti degli outsiders hanno sentito il bisogno di proporre al paese innovazioni istituzionali: la “grande riforma” ed i due referendum di modifica della Costituzione, tutte proposte volte a rafforzare l’esecutivo per assicurare la governabilità - e il paese le ha sempre rifiutate. Naturalmente, anche altri aspetti collegano fra loro questi outsiders: forte determinazione, prepotenza e arroganza, autoritarismo, antipatia personale, tendenza a circondarsi di yes men (di “nani e ballerine” direbbe Rino Formica). Una assoluta indifferenza verso le regole, scritte o non scritte, dell’ambiente, che spesso ha travalicato nell’illegalità più o meno patente.
Tutte le loro vicende, in ogni caso, si sono scontrate con la resistenza dell’establishment che, unito in un riflesso di difesa, li ha combattuti fin dall’inizio, fino ad averne ragione, in tutto o in parte. Nessuno, alla fine, ha raggiunto il suo obbiettivo: chi suicida, chi morto all’estero, chi ridimensionato e in gravi difficoltà economiche. In fondo Berlusconi e Renzi sono quelli che ne sono usciti meglio, ma l’ambizione di essere il “dominus” del paese ormai anche per loro è dietro le spalle.
In sintesi: la palude ci soffoca, gli outsiders falliscono (ed io dico: per fortuna) – quale percorso porterà il paese fuori dal declino?
(somma di due testi pubblicati su FB).
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