sabato 29 dicembre 2018

Salvatore Biasco: Il futuro dell'ordine mondiale neoliberista tra trasformazione e resilienza

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La manovra che c'è e quella che non c'è | Gustavo Piga

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Felice Besostri-Enzo Paolini: Sotto il totem della governabilità l'oligarchia dei nominati - nuovAtlantide.org

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Cosa succede al confine tra Serbia e Kosovo? - Pandora Rivista

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Può avere senso politico un “populismo di sinistra”?

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mercoledì 26 dicembre 2018

Franco Astengo: Ricostruzione

PREMESSA di Franco Astengo Care compagne e cari compagni, scusandomi del disturbo e della presunzione, mi permetto inviarvi un ulteriore intervento sul tema della ricostruzione della sinistra. L’intervento è inteso a completamento di una sorta di trittico elaborato in seguito alla stesura di altri due articoli inviati nei giorni scorsi e che troverete in calce sui temi del “ritorno alla politica” e della “disarticolazione del consenso e del dissenso”. L’ambizione, in questo caso, sarebbe quella di avviare un minimo di sistematizzazione di pensiero intorno alla necessità- appunto – di una ricostruzione di soggettività politica a sinistra al di fuori dell’affanno derivante dal politicismo immediato, che è stato fonte di tanti guai nel passato. E’ evidente come non possa essere abbandonata la lotta politica quotidiana ma è altrettanto certo che questa non possa, nella fase corrente, tradursi in altro che in una ferma opposizione al quadro esistente sia sul piano internazionale, sia su quello interno. E’ necessario però dotarci di un livello di superiore riflessione proprio per riuscire a ritrovare la strada di un’adeguata conformazione politica ed in questa direzione cerca di muoversi questo modestissimo contributo. PRIMO CAPITOLO RICOSTRUZIONE E/ O RIFONDAZIONE Ricostruzione: è l'atto di ricostruire, sia in senso proprio che figurato, qualsiasi cosa che sia andata distrutta o persa. Rifondazione: “Profondo rinnovamento di istituzioni o organizzazioni politiche e sociali (per cui è usato anche come denominazione di movimenti, di partiti politici) “. La differenza tra i due termini indica con precisione la diversità di intenti che, rispetto anche al recente passato, è necessario cercare di mettere in atto al riguardo della realtà della sinistra italiana: serve proprio una ricostruzione di una “cosa” (scusatemi l’assonanza con una terminologia che ha portato davvero sfortuna) che è andata distrutta (opportuno, in questo caso; scrivere di “distrutta” e non di perduta). In questi giorni si sta discutendo sull’uscita di un’edizione italiana della rivista “Jacobin”, ebdomadario della sinistra “radical” statunitense: “Jacobin” sviluppa un discorso anti – sovranista e di ritorno a Marx. E’ proprio l’idea del “ritorno a Marx” che può ispirare una riflessione. Partendo da una domanda: per quale via siamo approdati a Marx, noi della generazione successiva a quella della temperie degli anni’30 e poi della guerra mondiale. La generazione che ha approcciato alla politica nel momento più duro della divisione del mondo in blocchi e del peso, qui da noi, della divisione in classi? Come siamo stati capaci di cominciare da Marx? Abbiamo cominciato avendo riconosciuto Il grande merito teorico di Marx nel campo del pensiero sociale: quello di aver ricostituito mentalmente quell'unità andata dispersa con la divisione del lavoro, che diventa “divisione una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale” (dall’Ideologia Tedesca). Da quel momento in poi la nostra coscienza poteva realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente. Da quel momento la nostra coscienza è stata in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la “pura” teoria, teologia, filosofia morale. Ricostituire l'unità di natura e storia ha significato per noi leggendo Marx, giungere a concepire la storicità della natura e la naturalità della storia, guadagnando teoricamente le cadenze pratiche dei tipi storico-naturali della convivenza umana. Ma questa complementarietà di storia e natura nel pensiero di Marx conserverebbe una grossa lacuna se, in sede di teoria politico – sociale, Marx non avesse consapevolezza del carattere storico del suo stesso pensiero materialistico. Di fatto Marx raggiunge questa consapevolezza proprio quando si rende conto che egli riesce ora a vedere e a capire ciò che Aristotele non vide e non capì, perché Marx può vedere e capire ciò che la società greca non aveva: una struttura naturale integralmente trattata dall'uomo, tale cioè da esprimere con il predominio dell'industria sull'agricoltura relazioni interamente sociali, definitivamente slacciate dai vincoli naturalistici. Marx riconosce il merito di Hegel di aver visto la separazione di Stato e società civile nel mondo moderno, ma gli fa carico di non averne visto le fondamenta storiche moderne e di averla supposta come una tappa del cammino compiuto dallo spirito nella storia temporale verso l'estasi dello spirito assoluto. Marx può allora concludere, per un verso, che il dualismo di Stato e Società civile è un prodotto storico, cioè articolazione effettiva di un tipo di relazioni sociali materiali, e per un altro che, quindi, la loro vera unificazione non può essere ideale, non di un superamento nella spiritualità hanno bisogno gli uomini ma, in primis, di una trasformazione che, riportando nella società civile il nesso comunitario che la divisione del lavoro e la dissociazione privatistica hanno fatto emigrare nella sfera astratta dello Stato politico, cancelli l'una come società puramente civile (o società dei privati) e l'altra come società puramente politica (o comunità soltanto illusoria in quanto astratta dai nessi sociali reali), ricostituendo una società omogenea. Lo sbocco comunistico di Marx è proprio l'esito pratico della sua rivoluzione teorica ed è appunto per la visione della necessità storica di una socializzazione dei rapporti moderni che Marx riesce non solo a vedere ma a prevedere l'irruzione popolare nella vita moderna. Lo “sbocco comunistico” di Marx segnalato poco sopra rappresentò così il riferimento saliente di un passaggio all'idea del comunismo come recinto dell' appartenenza politica, quale salto in avanti rispetto all'idea stessa della “appartenenza di classe”. Oggi si sta tentando di tornare indietro: non lo scrivo per nostalgia di quelli che tutti noi consideriamo i “vecchi tempi” cui fare sempre e comunque riferimento. Lo scrivo perché sono convinto che la lettura neo-liberista che ha egemonizzato il pensiero e l'azione politica a partire dagli anni'80 sembra aver dimenticato il fallimento storico della lettura liberale “classica”. Il mondo, nel corso del '900, ha imboccato strade del tutto impreviste dai teorici della civiltà liberale: associazionismo, conflitti di lavoro, sindacalismo, la vicenda bruciante dei tentativi di inveramento statuale dell'ipotesi marxiana, emancipazione coloniale, l'idea degli uomini non più individui separati ma membri sociali. E' caduta definitivamente l'ipotesi centrale della vecchia cultura liberale: che l'indipendenza dell'individuo dalla società fosse il fulcro della libertà moderna. L'individualismo arrivato alla forma della competizione personale fino a tramutarsi adesso nel veicolo della paura, si è rivelato esso stesso una specifica e storica forma sociale: si tende a non far riconoscere più la società come una ramificazione storica dell'individuo e non si rivendica più quella partecipazione consapevole (pensiamo al passaggio nella struttura dei partiti dall'integrazione di massa, al “pigliatutti”, fino al partito “elettorale – personale” di stampo populistico che oggi appare del tutto vincente, sia pure nel microcosmo della vicenda politica italiana) che rimane l'unica arma per evitare l'inconsapevole e gelida dominazione delle cose sugli uomini e quindi il privilegio di alcuni su altri. A mio giudizio il superamento di questo vero e proprio “blocco” nell'agire politico e sociale fortemente ri-determinatosi nel corso degli ultimi anni può ritornare ad essere d'attualità soltanto affrontando nuovamente quello che rimane un vero e proprio sbarramento sul piano teorico: l'idea che l'economia di mercato sia la sola efficiente forma di ordinare le forme di produzione. La brusca chiusura della storia del '900 non può esimerci, nell'analizzare i due aspetti fondamentali appena citati, dal parafrasare Claudio Napoleoni: “Cercate ancora!”. Cercare però significa puntare proprio a quell’idea di “ricostruzione” ispiratrice di questo lavoro. Un’idea di ricostruzione che non può che partire d un’espressione di necessità: quella della riconoscibilità della propria condizione sociale spezzando appunto, in un’ipotesi di prospettiva unitaria, quel meccanismo di disarticolazione del consenso e del dissenso ormai arrivata al punto di formare un intreccio di contraddizioni dalle quali origina l’impossibilità di stabilire un approccio concreto all’agire politico. La nostra è ormai una “disarticolazione soggettiva” che, nonostante generosi sforzi in atto, appare il presupposto insuperabile dello svilupparsi apparentemente inarrestabile dell’egemonia individualistica. In questo senso come può servire il ritorno a Marx? Pervengo quindi alla determinazione di alcune altre opzioni di fondo che sono rimaste, comunque nel mio orizzonte di ricerca rappresentando altrettanti fermi “paletti. Rimangono intatte le contraddizioni relative alla necessità inderogabile che le “garanzie” dell'individuo siano affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e al sistema della “libera impresa”. Riprendiamo allora il punto dello “Stato sociale”. Ho sempre considerato il passaggio dello “Stato sociale” quale fase di transizione necessaria in un’idea di inestinguibile sviluppo storico. Oggi quel giudizio può essere riveduto? Apparentemente sì, visto che il moto della storia pare aver girato all'indietro la propria ruota (ribadisco qui quella che è ormai maturata come una convinzione profonda). Allora, dal nostro punto di vista, si tratta di lavorare per invertire la tendenza. Perché lo Stato sociale (il “welfare state” dei socialdemocratici e laburisti, il “compromesso” italiano, ad esempio) poteva a suo tempo ben essere considerato come “soggetto di transizione” ? Proprio rispetto a questo punto, fondamentale nella mia personale visione politica di lungo periodo, ritengo debba essere realizzata, anche in questa sede, una riflessione, tracciando contemporaneamente una fondamentale “linea di confine”. La nostra generazione ha assistito, nel corso degli anni, al maturare di contraddizioni che hanno seminato il dubbio circa la necessità inderogabile che le “garanzie” dell'individuo fossero affidate in eterno alla gestione rappresentativa dello Stato e il sistema della “libera impresa”. Queste contraddizioni sono state affrontate, sia nell'ottica socialdemocratica sia in quella del “socialismo reale” (alcuni hanno usato la definizione “capitalismo di Stato”) con l'allargamento delle dimensioni nell'attività dello Stato rappresentativo, in nome della necessità di stabilire rapporti sociali “moderni”. In questo modo si è cercato di colmare il solco divisorio fra politica e società con una progressiva espansione dell'economia pubblica e dell'intervento sociale in ogni campo (dall'istruzione, all'assistenza, dai lavori pubblici, alla previdenza sociale, dal commercio estero agli enti autarchici). Si confermava, in questo modo, la sostanziale unità tra Stato e società, la loro necessaria unificazione: ma tale conferma è stata data attraverso una subordinazione delle attività sociali alla gestione politico-burocratica che ha per un verso minato, attraverso il formarsi di “ceti separati” e di un’enorme “questione morale” l'originaria struttura dello Stato rappresentativo e per un altro ha sovrapposto alle competenze sociali il formalismo burocratico. In particolare sul piano economico, l'adesione alla programmazione dell'economia ha cozzato fatalmente a suo tempo, non essendo stata inserita in un progetto di socializzazione dei mezzi di produzione e scambio, nei suoi progetti di “armonizzazione” contro le imponenti risorse private delle grandi formazioni monopolistiche. La reazione da destra è stata quella, nel quadro del velocizzarsi dei rapporti economici a livello globale dovuti all'innovazione tecnologica, di provocare una fortissima torsione autoritaria al riguardo della realtà dello Stato rappresentativo moderno (mentre le strutture sovranazionali che pure sorgevano, come nel caso dell'Unione Europea, erano contraddistinte da un fortissimo “deficit democratico”). Da qui il diffondersi del predomino delle èlite economiche, la loro identificazione con le élite politiche e l'idea di una programmazione dell'economia risolta quale marginale coordinazione di sfere private fondamentalmente irriducibili, in un quadro di inedito intreccio tra struttura e sovrastruttura. La reazione a questo stato di cose ha assunto oggi una pericolosa visione di ritiro particolaristico fondato su principi che frettolosamente erano stati considerati ormai desueti nella modernità e che si sono avvalsi per la loro affermazione di una capacità di interpretazione apparentemente vincenti della modificazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura costruendo, su quella base, una vera e propria mitologia. Gli eredi della “sinistra storica”, sciolti i grandi soggetti ad integrazione di massa, hanno così operato una scissione sul piano teorico, allineandosi ad una forma di politica liberale, non riuscendo a farsi interpreti dell'eredità teorica dell’espansione sociale della democrazia. Per questo motivo ritengo, oggi come oggi, il ritorno a Marx può essere ben compreso nell’idea di un ritorno al programma dello Stato sociale, aggiornato alle novità dovute ai grandi processi in atto da tempo sul piano globale e alle nuove realtà sovranazionali, come quella sulla quale attestarsi in modo da contrastare efficacemente la crisi provocata dall'offensiva di destra. Può essere questo il punto di saldatura di una riflessione che si sta sviluppando, nel pieno di un imponente processo di “rivoluzione passiva” di conseguente guerra di posizione, utile all’avvio di un progetto di riconoscibilità della condizione sociale per le masse espropriate prima di tutta dalla possibilità concreto di esercitare l’agire politico in un quadro di forte crisi della democrazia liberale e del rinnovarsi di tensioni autoritarie tali da presupporre possibili scenari di guerra imperialista? Una conclusione con l’interrogativo nell’idea che appunto la discussione si possa riaprire su di un piano diverso da quello della mera conservazione di una sinistra del “residuo esistente”. Un compito di “ricostruzione”, appunto CAPITOLO SECONDO RITORNO ALLA POLITICA? L’INDIVIDUALISMO DIFENSIVO “Più fiducia nello Stato e nella Politica, L’Italia preferisce la democrazia”. Titola così “Repubblica” a proposito del rapporto Demos sugli italiani e le istituzioni pubblicato il 24 dicembre. Nell’incipit l’articolo di presentazione dei dati recita: “ Per anni, e da anni, in Italia ha soffiato un vento anti – politico. Partiti, leader, istituzioni e amministrazioni nazionali e locali nessuno è stato risparmiato dal sentimento di sfiducia largo e generalizzato. Oggi comunque sembrerebbe finito, comunque sospeso. Così almeno emerge dal XXI rapporto “Gli italiani e lo Stato” curato da Demos per la “Repubblica”. Pur tuttavia la lettura dei dati induce a un qualche minor ottimismo rispetto alla segnalata inversione di tendenza, soprattutto se si analizzano alcuni aspetti particolari che pure risultano segnalati e approfonditi nell’analisi di Demos. E’ il caso però di compiere un passo indietro e gettare uno sguardo sulle profonde modificazioni che il rapporto tra l’opinione pubblica e la politica ha subito nel corso degli anni e – ancora – quanto queste modificazioni abbiano inciso all’interno della stesso sistema politico italiano. Modificazioni, sia ben chiaro, verificatasi anche sulla base dei mutamenti di scenario avvenuti sul piano internazionale prima di tutto con lo svilupparsi del processo europeo, a partire dalla stipula dei trattati, in specie fondamentale quello di Maastricht. In sostanza servirebbe un bilancio dei trent’anni della lunga “transizione italiana” principiata dalla fine del sistema basato sui grandi partiti di massa che raccoglievano, all’incirca, quattro milioni di scritti complessivamente ai quali andavano aggiunti i milioni di iscritti al sindacato (all’interno dei quali iscritti non prevalevano numericamente i pensionati) e alle associazioni categoriali intermedie. Un bilancio che naturalmente dovrebbe comprendere la valutazione riguardante l’abbassamento della percentuale dei votanti, mantenutasi costante per un lungo periodo attorno al 90% e poi scesa, pur con qualche recupero, di decine di punti fino a toccare, nell’occasione ad esempio, dei ballottaggi cifre al di sotto del 50%. Intanto mutavano completamente i termini del dibattito politico, prima sempre più determinato dal video e in seguito reso ancora più complesso dall’entrata in scena dei nuovi strumenti di comunicazione che fanno sì come l’iniziativa politica si fonda con il racconto personale portando la personalizzazione a un livello esasperato fino alla confusione tra pubblico e privato. Questo sarebbe un punto non secondario da dirimere circa la valutazione del rapporto con la politica da parte dell’opinione pubblica in gran parte impegnata proprio nell’utilizzo di questi mezzi. Questi elementi di assoluta novità sul piano culturale hanno costruito un vero e proprio spostamento d’asse che ben si può rilevare nella documentazione analitica che accompagna le percentuali del sondaggio di Demos sui diversi argomenti. Non si dispone qui dello spazio necessario per un approfondimento come pure sarebbe necessario. E’ il caso però di rilevare le contraddizioni che si rilevano in questo presunto/possibile riavvicinamento alla politica. Prima di tutto i dati, come segnalano anche Giordani e Porcellato nel loro commento, rivelano un mix di individualismo, familismo e insoddisfazione al punto che riceve il massimo consenso la possibilità di autodifesa usando le armi: proprio il cavallo di battaglia della Lega. Si rivela così l’esistenza di una sorta di “individualismo difensivo” che sembra prendere il posto dell’aggressivo “individualismo competitivo” che aveva caratterizzato la fase centrale dell’emergere della crisi del 2008 e anni seguenti. Un “individualismo difensivo” che si pone, quale elemento diffuso di percezione sociale, in relazione proprio all’agire politico e al ruolo delle istituzioni. La linea di demarcazione tra il difensivo e il corporativo, infatti, è molto sottile: una combinazione che ha portato appunto allo scomposizione del dissenso e del consenso che ormai si esercitano su “single issue” in contraddizione tra loro; scelte appunto che vengono effettuate da singoli in funzione della propria conservazione di ruolo e di status, chiedendo proprio alle istituzioni di operare in funzione conservativa. E’ nata così quella particolare forma di populismo che oggi verifichiamo porsi in atto nella nostra realtà nazionale e che – a sinistra – sconfina addirittura in idee di tipo sovranista nel richiamo a una mal digerita “identità nazionale” pur esercitata nei tempi passati in funzione però di legittimazione della classe sul piano della presenza politica. Nasce così quello che, sempre in commento al rapporto di Demos, è definito da Ceccarini e Pierdomenico come “voglia di impegno ma disperso in mille rivoli”. Senza cioè che si possa definire un quadro di “interesse generale” o di prospettiva politica. Si giustifica in questo modo il voto, da un lato al M5S ben caratterizzato socialmente e geograficamente si direbbe in termini etnico – corporativi e dall’altro alla Lega. I due soggetti, attualmente al governo, hanno trovato la soluzione del “contratto” quale strumento per conciliare le rispettive divergenti basi di consenso. Si verificherà adesso, quando la manovra finanziaria dovrà essere posta con i piedi per terra dei provvedimenti concreti l’esito di questa vicenda. Le avvisaglie sono quelle di una “assenza d’anima” e di una piattaforma elaborato non tanto al ribasso ma estranea (nella trattativa con l’Europa) all’essenza delle due proposte politiche sulla base delle quali si era raccolto il consenso necessario per consentire proprio la stipula del contratto. Ma si tratta di una valutazione per forza provvisoria. L’altro punto sul quale si sviluppano le contraddizioni operanti nella società italiana, almeno secondo di dati elaborati da Demos, riguarda il concetto di democrazia e il tema della rappresentanza politica. Nell’analisi di Bordignon e Securo si rileva, infatti, come la democrazia sia stata definita come: ” l’unico orizzonte possibile per la maggioranza degli italiani”. Mentre rimane sullo sfondo un 19% che pensa accettabile, in determinate circostanze, un regime autoritario (percentuale non trascurabile) il tema della democrazia è affrontato da una percentuale molto rilevante di intervistate/i (40%) in un quadro di ridimensionamento delle funzioni del Parlamento. Si tratta di un dato frutto essenzialmente della scomparsa nel dibattito politico del concetto di “rappresentanza” e dello spostamento verso il “decisionismo” verificatosi proprio al momento della scomparsa dei grandi partiti di massa e alimentato, non solo dal cambiamento dei sistemi elettorali, ma soprattutto dalla crescita – a tutti i livelli-. dal peso della personalizzazione (a questo punto tornerebbe in ballo il discorso sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa in funzione della costruzione dell’élite). Il tema della rappresentanza politica e del fatto che la conclamata “centralità” del Parlamento (poi puntualmente disattesa nei fatti attraverso l’intreccio tra decretazione e voto di fiducia) deriva essenzialmente dall’incapacità di sintesi dovuta alla crisi verticale della soggettività coincidente con la sparizione della funzione di integrazione sociale svolta a suo tempo dai partiti. E’ emerso così un intreccio fra tecnocrazia decisionista e spinta al potere personale che sta realizzando forme inedite rispetto a quelle classiche della democrazia liberale (circola addirittura una tesi di “democrazia illiberale) soprattutto a livello internazionale, facendo registrare così anche forti difficoltà di tutti gli organismi sovranazionali compresi trattati di vario tipo incluso quello di non proliferazione nucleare con il ritorno di una fase geopolitica nella quale s’intravvedono nuove tensioni imperialiste. In questo senso la situazione italiana non è certo provinciale, ma soffre particolarmente del derivare da particolari condizioni di partenza quelle che erano state definite come “caso italiano”. “Caso Italiano” che era riassumibile nella particolare conformazione data alla democrazia parlamentare da una Costituzione che aveva mantenuto per decenni un forte influsso, anche morale, sulla dinamica politica. Adesso che il “caso italiano” può essere considerato all’opposto di come lo si poteva valutare anni addietro si riapre un dibattito di fondo sulla qualità della democrazia. I segnali del rapporto di Demos sono timidi ma sembrano andare nel senso del recupero di una dimensione di riflessione collettiva sul tema: toccherebbe a chi pensa di potersi impegnare in questa direzione ad affrontare la questione in termini non generico partendo proprio dal recupero di una espressione di sintesi da parte di rinnovate soggettività politiche. E’ il tema del partito che ritorna alla ribalta della riflessione politica. CAPITOLO TERZO DISARTICOLAZIONE DEL CONSENSO E DEL DISSENSO Non è vero quello che ha scritto Giovanni Belardelli in un commento apparso sul “Corriere della Sera”: “Rappresentanza in crisi. La classe dirigente tende sempre più a seguire passivamente le opinioni della maggioranza (forse soltanto quelle di chi urla di più).”. Intendiamoci bene: non c’è nessuna maggioranza che urla, bensì un esercizio anche piuttosto rozzo ma favorito dalle circostanze storiche dell’autonomia del politico estesa fino a non contemplare più il meccanismo di adesione o di rifiuto da parte del pubblico. Tutto questo avviene in tempi di sbandierata “democrazia diretta”, del resto principio mai disatteso come in questo momento. Anzi negato completamente proprio da chi la sta proponendo. In realtà attorno alla vicenda, non ancora conclusa, della manovra finanziaria abbiamo fin qui visto l’emergere di due fenomeni: 1) La miglior rappresentazione della “democrazia recitativa” da quando questa forma di agire politico si è imposta sulla scena per il tramite dei fenomeni emersi nel corso degli ultimi 30 anni: dalla fine cioè di quella che Scoppola aveva definito “Repubblica dei Partiti”; 2) Ci troviamo di fronte ad una vera e propria disarticolazione nelle espressioni sia di consenso, sia di dissenso portate avanti da minoranze in un quadro di complessiva passivizzazione sociale. La passivizzazione sociale, il presentarsi di un’enorme “zona grigia” pare rappresentare il fenomeno saliente di questa fase: masse indistinte che attendono provvedimenti calati dall’alto. Questo, ad esempio, il senso del rapporto tra voto al Movimento 5 stelle e proposta del reddito di cittadinanza che ha rappresentato la vera novità in atto trasformando addirittura in un fenomeno di massa il “voto di scambio”. Per converso gli elementi di attivizzazione sociale hanno assunto appunto la caratteristica di una reciproca disarticolazione tra il consenso e il dissenso, senza assumere mai la dimensione di un’iniziativa politica. Ne è prova di quest’affermazione la tipologia delle diverse manifestazioni organizzate su vari fronti ma tutte destinate a una “single issue”, (“madamine” e NO TAV, artigiani, Confindustria, pro migranti, anti migranti) nessuna in grado di esprimere una qualche ipotesi d’interesse generale. Fa fede di questo stato di cose la totale assenza dall’agone del Sindacato. La maggiore delle tre sigle confederali– la CGIL – appare impegnata quasi esclusivamente sul fronte delle proprie dinamiche interne al riguardo dell’elezione del nuovo segretario generale. Il Sindacato, un tempo il soggetto principalmente portatore di quell’interesse generale cui si è fatto cenno, è stato presente alle cronache soltanto per iniziative riguardanti momenti di sacrosanta difesa del posto di lavoro in diverse situazioni di difficoltà evidenziatesi in tutto il Paese. A questo punto diventerebbe stucchevole rimarcare l’assenza della soggettività politiche e sottolineare ancora come il luogo del massimo di passivizzazione espressa sia stato il Parlamento. Anche in questo caso, all’interno del Parlamento, la maggior forza di opposizione al governo appare del tutto ripiegata nella ricerca di nuovi equilibri interni e di conseguenza in una lotta che appare caratterizzata dalla pura dimensione del potere fine a se stesso. Ci sarebbe da rispolverare un discorso riguardante l’estensione delle contraddizioni sociali e la necessità di rivolgersi a esse per il tramite di una capacità di sintesi e proposta politica, ma anche muoversi in questa direzione apparirebbe anacronistico. Forse il nocciolo vero della questione sociale e politica di questa fase è stato colto dal filosofo Maurizio Iacono sulle colonne del “Tirreno”: si è scollato il rapporto fra conoscenza, critica e politica”. Insomma è prioritario il nodo tanto evocato e mai affrontato della cultura politica che non si esprime in un Paese in evidente crisi.

lunedì 24 dicembre 2018

Franco Astengo: Ritorno alla politica?

RITORNO ALLA POLITICA? L’INDIVIDUALISMO DIFENSIVO di Franco Astengo “Più fiducia nello Stato e nella Politica, L’Italia preferisce la democrazia”. Titola così “Repubblica” a proposito del rapporto Demos sugli italiani e le istituzioni pubblicato oggi, 24 dicembre. Nell’incipit l’articolo di presentazione dei dati recita: “ Per anni, e da anni, in Italia ha soffiato un vento anti – politico. Partiti, leader, istituzioni e amministrazioni nazionali e locali nessuno è stato risparmiato dal sentimento di sfiducia largo e generalizzato. Oggi comunque sembrerebbe finito, comunque sospeso. Così almeno emerge dal XXI rapporto “Gli italiani e lo Stato” curato da Demos per la “Repubblica”. Pur tuttavia la lettura dei dati induce a un qualche minor ottimismo rispetto alla segnalata inversione di tendenza, soprattutto se si analizzano alcuni aspetti particolari che pure risultano segnalati e approfonditi nell’analisi di Demos. E’ il caso però di compiere un passo indietro e gettare uno sguardo sulle profonde modificazioni che il rapporto tra l’opinione pubblica e la politica ha subito nel corso degli anni e – ancora – quanto queste modificazioni abbiano inciso all’interno della stesso sistema politico italiano. Modificazioni, sia ben chiaro, verificatasi anche sulla base dei mutamenti di scenario avvenuti sul piano internazionale prima di tutto con lo svilupparsi del processo europeo, a partire dalla stipula dei trattati, in specie fondamentale quello di Maastricht. In sostanza servirebbe un bilancio dei trent’anni della lunga “transizione italiana” principiata dalla fine del sistema basato sui grandi partiti di massa che raccoglievano, all’incirca, quattro milioni di scritti complessivamente ai quali andavano aggiunti i milioni di iscritti al sindacato (all’interno dei quali iscritti non prevalevano numericamente i pensionati) e alle associazioni categoriali intermedie. Un bilancio che naturalmente dovrebbe comprendere la valutazione riguardante l’abbassamento della percentuale dei votanti, mantenutasi costante per un lungo periodo attorno al 90% e poi scesa, pur con qualche recupero, di decine di punti fino a toccare, nell’occasione ad esempio, dei ballottaggi cifre al di sotto del 50%. Intanto mutavano completamente i termini del dibattito politico, prima sempre più determinato dal video e in seguito reso ancora più complesso dall’entrata in scena dei nuovi strumenti di comunicazione che fanno sì come l’iniziativa politica si fonda con il racconto personale portando la personalizzazione a un livello esasperato fino alla confusione tra pubblico e privato. Questo sarebbe un punto non secondario da dirimere circa la valutazione del rapporto con la politica da parte dell’opinione pubblica in gran parte impegnata proprio nell’utilizzo di questi mezzi. Questi elementi di assoluta novità sul piano culturale hanno costruito un vero e proprio spostamento d’asse che ben si può rilevare nella documentazione analitica che accompagna le percentuali del sondaggio di Demos sui diversi argomenti. Non si dispone qui dello spazio necessario per una approfondimento come pure sarebbe necessario. E’ il caso però di rilevare le contraddizioni che si rilevano in questo presunto/possibile riavvicinamento alla politica. Prima di tutto i dati, come segnalano anche Giordani e Porcellato nel loro commento, rivelano un mix di individualismo, familismo e insoddisfazione al punto che riceve il massimo consenso la possibilità di autodifesa usando le armi: proprio il cavallo di battaglia della Lega. Si rivela così l’esistenza di una sorta di “individualismo difensivo” che sembra prendere il posto dell’aggressivo “individualismo competitivo” che aveva caratterizzato la fase centrale dell’emergere della crisi del 2008 e anni seguenti. Un “individualismo difensivo” che si pone, quale elemento diffuso di percezione sociale, in relazione proprio all’agire politico e al ruolo delle istituzioni. La linea di demarcazione tra il difensivo e il corporativo, infatti, è molto sottile: una combinazione che ha portato appunto allo scomposizione del dissenso e del consenso che ormai si esercitano su “single issue” in contraddizione tra loro; scelte appunto che vengono effettuate da singoli in funzione della propria conservazione di ruolo e di status, chiedendo proprio alle istituzioni di operare in funzione conservativa. E’ nata così quella particolare forma di populismo che oggi verifichiamo porsi in atto nella nostra realtà nazionale e che – a sinistra – sconfina addirittura in idee di tipo sovranista nel richiamo a una mal digerita “identità nazionale” pur esercitata nei tempi passati in funzione però di legittimazione della classe sul piano della presenza politica. Nasce così quello che, sempre in commento al rapporto di Demos, è definito da Ceccarini e Pierdomenico come “voglia di impegno ma disperso in mille rivoli”. Senza cioè che si possa definire un quadro di “interesse generale” o di prospettiva politica. Si giustifica in questo modo il voto, da un lato al M5S ben caratterizzato socialmente e geograficamente si direbbe in termini etnico – corporativi e dall’altro alla Lega. I due soggetti, attualmente al governo, hanno trovato la soluzione del “contratto” quale strumento per conciliare le rispettive divergenti basi di consenso. Si verificherà adesso, quando la manovra finanziaria dovrà essere posta con i piedi per terra dei provvedimenti concreti l’esito di questa vicenda. Le avvisaglie sono quelle di una “assenza d’anima” e di una piattaforma elaborato non tanto al ribasso ma estranea (nella trattativa con l’Europa) all’essenza delle due proposte politiche sulla base delle quali si era raccolto il consenso necessario per consentire proprio la stipula del contratto. Ma si tratta di una valutazione per forza provvisoria. L’altro punto sul quale si sviluppano le contraddizioni operanti nella società italiana, almeno secondo di dati elaborati da Demos, riguarda il concetto di democrazia e il tema della rappresentanza politica. Nell’analisi di Bordignon e Securo si rileva, infatti, come la democrazia sia stata definita come: ” l’unico orizzonte possibile per la maggioranza degli italiani”. Mentre rimane sullo sfondo un 19% che pensa accettabile, in determinate circostanze, un regime autoritario (percentuale non trascurabile) il tema della democrazia è affrontato da una percentuale molto rilevante di intervistate/i (40%) in un quadro di ridimensionamento delle funzioni del Parlamento. Si tratta di un dato frutto essenzialmente della scomparsa nel dibattito politico del concetto di “rappresentanza” e dello spostamento verso il “decisionismo” verificatosi proprio al momento della scomparsa dei grandi partiti di massa e alimentato, non solo dal cambiamento dei sistemi elettorali, ma soprattutto dalla crescita – a tutti i livelli-. dal peso della personalizzazione (a questo punto tornerebbe in ballo il discorso sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa in funzione della costruzione dell’élite). Il tema della rappresentanza politica e del fatto che la conclamata “centralità” del Parlamento (poi puntualmente disattesa nei fatti attraverso l’intreccio tra decretazione e voto di fiducia) deriva essenzialmente dall’incapacità di sintesi dovuta alla crisi verticale della soggettività coincidente con la sparizione della funzione di integrazione sociale svolta a suo tempo dai partiti. E’ emerso così un intreccio fra tecnocrazia decisionista e spinta al potere personale che sta realizzando forme inedite rispetto a quelle classiche della democrazia liberale (circola addirittura una tesi di “democrazia illiberale) soprattutto a livello internazionale, facendo registrare così anche forti difficoltà di tutti gli organismi sovranazionali compresi trattati di vario tipo incluso quello di non proliferazione nucleare con il ritorno di una fase geopolitica nella quale s’intravvedono nuove tensioni imperialiste. In questo senso la situazione italiana non è certo provinciale, ma soffre particolarmente del derivare da particolari condizioni di partenza quelle che erano state definite come “caso italiano”. “Caso Italiano” che era riassumibile nella particolare conformazione data alla democrazia parlamentare da una Costituzione che aveva mantenuto per decenni un forte influsso, anche morale, sulla dinamica politica. Adesso che il “caso italiano” può essere considerato all’opposto di come lo si poteva valutare anni addietro si riapre un dibattito di fondo sulla qualità della democrazia. I segnali del rapporto di Demos sono timidi ma sembrano andare nel senso del recupero di una dimensione di riflessione collettiva sul tema: toccherebbe a chi pensa di potersi impegnare in questa direzione ad affrontare la questione in termini non generico partendo proprio dal recupero di una espressione di sintesi da parte di rinnovate soggettività politiche. E’ il tema del partito che ritorna alla ribalta della riflessione politica.

Il PD e la questione socialista » Pensalibero.it, Informazione laica on line

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I curdi traditi da Trump e dall’Occidente di Alberto Negri

I curdi traditi da Trump e dall’Occidente di Alberto Negri

domenica 23 dicembre 2018

Franco Astengo: Degrado

NIHIL (O QUASI) SUB SOLE NOVUM: MA ULTERIORE DEGRADO DELLA DEMOCRAZIA di Franco Astengo Prescindendo da una valutazione sui contenuti della manovra economica 2019 (pessimi) e allo scopo soltanto di rinfrescare la memoria si ricordano di seguito le modalità di approvazione del provvedimento negli ultimi anni. Lo scenario, quest’anno particolarmente inquietante, si presenta però da molti anni analogo: voto di fiducia, maximendamento e tutto il resto. Questa sommaria ricostruzione serve soltanto a dimostrare come il ruolo del Parlamento sia ormai da molti anni messo in discussione e le Camere considerate soltanto la sede di ratifica di decisioni prese in altra sede. E’ la prosecuzione della linea del “decisionismo”, della “vocazione maggioritaria”, dei tentativi presidenzialisti ma arrivati in porto ma che hanno inquinato la correttezza del rapporto tra Governo e Parlamento, così come questo era stato delineato dalla Costituzione (poi ci sarebbe il tema dei regolamenti parlamentari che dovrebbe essere affrontato con serietà). Il primo punto all’ordine del giorno di chi intendesse ribadire la centralità della Costituzione Repubblicana nel nostro ordinamento dovrebbe essere rappresentato dal ristabilimento delle piene funzioni del Parlamento. La responsabilità di questa profonda deviazione è di attribuzione molteplice: dalla bicamerale 1997, al referendum fallito dal centro destra nel 2006, all’analoga operazione fallita clamorosamente dal PD nel 2016, all’idea del superamento del parlamentarismo attraverso il web propugnata dal movimento 5 stelle, all’autoritarismo con punte di sapore nostalgico messe in campo dalla Lega dopo aver abbandonato il Nord considerato come appendice. L’opposizione dovrebbe ripartire da valutazioni di questo tipo che del resto sorressero proprio il “NO” al referendum 2016 da parte di settori consistenti di elettrici ed elettori di sinistra e conseguentemente democratici, al di fuori dalle strumentalizzazioni politiciste che pure in quell’occasione si sommarono. A quelle elettrici e a quegli elettori non fu data risposta in termini politici e adesso ci ritroviamo in una situazione che, dal punto di vista della qualità della democrazia, non possiamo che giudicare come ulteriormente degradata. 2019 CONTESTATA FIDUCIA AL SENATO 22 DICEMBRE 2018: Una giornata lunghissima con colpi di scena e furiose polemiche. Poco dopo le 2,30 del mattino il Senato conferma la fiducia al Governo sulla Manovra economica. I voti a favore sono stati 167, 78 i contrari, 3 gli astenuti, tra cui il senatore a vita Mario Monti e il parlamentare pentastellato Gregorio De Falco, ex ufficiale di Marina diventato celebre nella vicenda del naufragio della Costa Concordia. Il Pd, nel corso delle dichiarazioni di voto, aveva annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale. Il testo approvato al Senato torna alla Camera. 2018 FIDUCIA Nella seduta del 23 dicembre 2017 il Senato ha approvato definitivamente la Legge di Bilancio 2018 contenente il Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020 non ancora pubblicato.) Con 140 sì e 97 no, l'Aula ha rinnovato la fiducia al Governo, che aveva posto la questione di fiducia sull'approvazione dell'articolo 1 del testo trasmesso dalla Camera. 2017 FIDUCIA CONTESTATA DALLE OPPOSIZIONI La decisione del governo di porre la fiducia è stata invece duramente contestata dalle opposizioni. Solo il Movimento Cinque Stelle era disposto a evitare le barricate. La capogruppo di Sinistra italiana Loredana De Petris, presidente del Gruppo Misto al Senato ha attaccato in particolare «l’assurda e ingiustificata decisione di imporre la fiducia», scelta « in linea con tutta la politica del governo: truffaldina sin dalla manovra con cui Renzi è arrivato a Palazzo Chigi, cinica e del tutto disinteressata ai problemi e alle sofferenze reali del popolo italiano». A spiegare il no del M5S è stato Luigi Gaetti, che ha puntato l'indice sull’«arroganza della ministra Boschi» venuta in Aula a chiedere la fiducia. Paolo Romani ha spiegato che il giudizio di Forza Italia «non può che essere di netto dissenso per metodo e contenuti della legge» di bilancio e ha sottolineato che «il popolo ha detto no a un governo ricco di diapositiva e povero di idee». 2016 FIDUCIA TECNICA La prima legge di Bilancio, valida per il triennio 2017-2019 e chiamata a sostituire da quest’anno la legge di Stabilità, può vantare più di un record: il più rapido iter parlamentare di approvazione (discussione effettiva sul testo in soli 10 giorni); un via libera con una “fiducia tecnica” con esame “monocamerale”, solo quello della Camera. Il Senato, ieri, si è limitato a ratificare il testo licenziato da Montecitorio prima del referendum costituzionale. Un passaggio che ha regalato al Governo Renzi dimissionario la sua ultima fiducia, con 173 voti favorevoli e 108 contrari, seguita dal «sì» definitivo sull’intero provvedimento (tabelle incluse) con una maggioranza che si è ridotta a 166 voti inclusi quelli dei 13 senatori “verdiniani” contro 70 no e un astenuto. 2015 FIDUCIA DOPO ESTENUANTE MARATONA Il governo ha incassato la fiducia al termine di una lunga maratona notturna: il maxiemendamento alla legge di Stabilità ottiene poco prima delle cinque di mattina il via libera del Senato con 162 sì e 37 no. La discussione è stata estenuante e si è protratta ben oltre il termine inizialmente previsto (le 2): il Senato ha ora incardinato in aula la riforma elettorale, la cui discussione generale inizierà mercoledì 7 gennaio, decisione che è stata presa dopo l'approvazione della legge di stabilità. La discussione è stata tesa e febbrile: M5S ha chiesto il rinvio in commissione del provvedimento e alla fine non ha partecipato al voto protestando contro la maggioranza e i banchi del governo, mentre Forza Italia ha abbandonato l’aula. 2014 FIDUCIA E MAXI EMENDAMENTO Ieri sera il Senato, con 171 voti favorevoli, 135 contrari e nessun astenuto, il Senato ha votato la fiducia al Governo, approvando il maxiemendamento interamente sostitutivo del disegno di legge di stabilità n. 1120 AS. Il voto contrario di Forza Italia ha ufficializzato la creazione di una nuova maggioranza parlamentare. Il giorno prima non si saranno finiti in tempo utile i lavori della Commissione bilancio, per cui in Aula erano approdati per l’esame il ddl n. 1120 (legge di stabilità 2014) e il ddl n. 1121 (bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2014 e bilancio pluriennale per il triennio 2014-2016) nel testo originario e senza relazione della Commissione Bilancio. Il Ministro per i rapporti con il Parlamento Franceschini ha quindi depositato il maxiemendamento 1.900, interamente sostitutivo del ddl di stabilità, sul quale ha posto la questione di fiducia al fine di accelerare l’esame della manovra e di verificare la maggioranza di Governo. Il maxiemendamento comprende le proposte approvate in Commissione e gli emendamenti non posti in votazione dei relatori e del Governo.

Giorgio Lunghini: “La prospettiva Keynes” | Keynes blog

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Giorgio Lunghini: lo spessore di un intellettuale - Economia e Politica

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The Revolt Against Orbán

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sabato 22 dicembre 2018

Deficit pubblico e crescita: numeri a caso? | Walter Tortorella

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Gli Usa via dalla Siria: un altro tradimento nei confronti dei curdi – Left

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Building Socialism From Below

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Selahattin Demirtaş Is Not a Terrorist

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Franco Astengo: 5 stelle alla prova

5 STELLE ALLA PROVA di Franco Astengo I contenuti della manovra finanziaria 2019 rappresenteranno senz’altro un banco di prova per la tenuta della popolarità e della raccolta di consenso da parte del Movimento 5 stelle. Affermare adesso questa previsione appare soltanto come la sottolineatura di una banalità. Cerchiamo però di approfondire alcuni aspetti che senz’altro possono rappresentare elementi di grande interesse per comprendere meglio non solo ciò che sta accadendo o potrà accadere attorno al Movimento, ma anche nell’insieme delle dinamiche in atto nel sistema politico italiano. Partiamo cercando di sfatare un presupposto corrente circa la dimensione “effimera” del Movimento: la posta in gioco che il Movimento stesso ha messo sul tappeto in Italia va molto al di là della contingenza e delle esigenze immediate dello scontro politico. Analizziamo soltanto alcuni punti. Il primo riguarda la trasversalità e il superamento del concetto di destra/sinistra. 5 stelle hanno teorizzato questo punto da tempo e stanno cercando di porlo con i piedi per terra anche attraverso il dispiegamento di “sensibilità” (alcuni accennano già all’ipotesi di “correnti) all’interno dei gruppi parlamentari. Un dato questo che possiamo ben considerare come “naturale” per un partito che ha superato la soglia degli 11 milioni di voti in una situazione nella quale, come si è già cercato di segnalare, la “trasversalità” politica si deve raffrontare con uno sfrangiamento sociale da cui deriva una vera e propria disarticolazione presente sia sul fronte del consenso, sia su quello del dissenso. Una società che non riesce più a esprimere una domanda politica strutturata attraverso espressioni di riferimento sociale, culturale, ideologico, religioso (ad esempio è completamente saltata una visione di riferimento almeno maggioritaria da parte del mondo cattolico anche sui temi etici). Il secondo riguarda l’impegno espresso e ribadito da parte dei 5 stelle nella ridefinizione del concetto di democrazia. Intendiamoci bene a questo proposito. Non è in discussione quanto è avvenuto in Parlamento nelle procedure di approvazione della manovra finanziaria: più o meno siamo alle solite tra “canguri”, “ghigliottine”, voti di fiducia. La questione centrale è però riferita alla sostanziale inattività delle Camere sul piano del dibattito politico: inattività che si prolunga ormai dall’inizio della XVIII legislatura ben accettata dal Movimento 5 stelle e condivisa dall’alleato di governo in un quadro di spostamento progressivo dei poteri legislativo ed esecutivo (spostamento comunque già teorizzato in passato sia dal centro destra sia dal centro sinistra). La novità, a questo proposito, riguarda il fatto che all’inattività delle Camere appena registrata, non corrisponde assolutamente una costruzione di meccanismo di democrazia diretta attraverso l’uso delle tecnologie digitali tale da far pensare all’eliminazione progressiva di qualsiasi tipo di intermediazione e di rappresentanza. In realtà pare, invece, costruirsi, al contrario della democrazia diretta, una nuova oligarchia composta dai soggetti di governo in intreccio con le rappresentanze corporative dei poteri economici e di alcune lobbie di Stato all’interno delle quali è stato eseguito un accurato spoil – system, a partire dall’epicentro del sistema informativo pubblico. In realtà la critica alla corruzione e alla “casta” si sta rivelando foriera di un nuovo accentramento di potere e di sostituzione della democrazia parlamentare con forme mutuate da quelle della destra radicale del XX secolo. Il terzo punto risulta essere quello, probabilmente, più delicato. A chi ha seguito l’estenuante rimpallo tra Commissione Europea (nelle sue diverse articolazioni) e Governo Italiano intorno ai termini della manovra finanziaria deve essere rammentato come la nascita e la crescita del Movimento 5 stelle si siano verificate nel contesto della crisi dell’Unione Europea, come questa si era ben delineata tra il 2008 e il 2009 in seguito al crollo del sistema bancario statunitense. In poco tempo, quella che era nata come una crisi del sistema bancario si era trasformata in una crisi del debito sovrano, con tutte le conseguenze politiche che si sono prodotte nelle nazioni in cui i debiti pubblici ammontavano al più del doppio dell’economia reale. Gli effetti che ne sono scaturiti sono ben noti: aumento della povertà e delle disuguaglianze sociali, impoverimento dei ceti medi, blocco dei consumi, degli investimenti e della produzione, mentre crescevano – fino a determinare la Brexit e la formazione del gruppo di Visegrad – le tensioni e le divisioni tra i diversi membri dell’Unione. In Italia il costo della crisi è stato pesantissimo avendo come contraccolpo l’affermazione di un antieuropeismo viscerale. Nell’assenza della possibilità di poter contrastare i processi innestati dalla crisi attraverso una mobilitazione basata sul principio di classe e sull’estensione delle contraddizioni sociali vista da sinistra: posizioni ormai ridotte a poco più della mera testimonianza per cause risalenti almeno allo scioglimento del PCI nell’89, si è formato il cuneo sociale all’interno del quale ha trovato spazio proprio il Movimento 5 stelle (soltanto in un secondo tempo la Lega capace di afferrare il nodo della lunga sedimentazione sovranista). L’antieuropeismo ha dunque connotato con particolare intensità, fin dal 2011, il Movimento divenendo apparentemente un tratto distintivo della sua identità. Sotto questo aspetto si arrivò a teorizzare una divisione manichea dello scontro, additando al pubblico ludibrio i partiti europeisti come i responsabili della crisi. Poi via via questa posizione si è sfumata fino a defluire prima in posizioni euro – scettiche (si ricorda la scelta avvenuta nel 2014 di formare il gruppo al Parlamento Europeo con l’UKIP di Farage e il tentativo respinto di passare all’ALDE) e successivamente su posizioni di “europeismo alternativo” a quello sostenuto ufficialmente dalle istituzioni comunitarie (un processo condiviso anche dalla Lega) facendo sparire dal dibattito anche la stessa questione del superamento dell’euro. Adesso l’interrogativo si pone appieno: come reagirà alla manovra finanziaria concordata con Bruxelles, quella parte di opinione pubblica che si è schierata con i 5 stelle ed ha avuto, nel quadro della frammentarietà sociale già qui descritta, il tema dell’Anti – Europa quasi come punto unificante? Una domanda che richiede anche un punto ulteriore di considerazione valutando come, proprio l’accoglimento delle richieste avanzate dalla Commissione Europea, porteranno provvedimenti dall’impatto sociale molto ridotto proprio attorno ai temi sui quali maggiormente si era sviluppata la propaganda elettorale: reddito di cittadinanza e legge Fornero, considerati i punti emblematici del “contro – austerità” imposta dall’UE. Emerge però un interrogativo ancora più pesante al riguardo della tenuta dell’intero sistema politico italiano, già complessivamente carente sul piano di un adeguato dibattito pubblico e in crisi totale nel rapporto istituzioni/società. Dallo stato di cose in atto e che qui si è cercato sommariamente di descrivere emerge una possibilità di crisi rilevante per il Movimento 5 stelle e l’avviarsi di una fase di forte concentrazione di potere attorno ad un soggetto come quello della Lega retto, in apparenza, da un potere mediatico quasi assoluto. Rimane tutta da valutare la possibilità di apertura di spazi su altri fronti dello schieramento politico diversi dal coagulo a destra. Ci troviamo di fronte, quindi, a una possibilità non remota di ulteriore grave involuzione del sistema politico italiano sulla cui eventualità chi ha interesse a un innesto di dinamica alternativa nella definizione del quadro esistente toccherebbe l’onere di riflettere.

mercoledì 19 dicembre 2018

Roberto Biscardini: ALLE AMMINISTRATIVE LISTE UNITARIE D’ISPIRAZIONE SOCIALISTA, ALLE EUROPEE SI VEDRÀ

ALLE AMMINISTRATIVE LISTE UNITARIE D’ISPIRAZIONE SOCIALISTA, ALLE EUROPEE SI VEDRÀ di Roberto Biscardini Il documento “Socialismo o Barbarie” diffuso nei giorni scorsi per iniziativa di alcuni compagni è stato accolto con molto interesse. Tanti sono stati gli attestati di adesione, molti i suggerimenti per una sua possibile integrazione. Ma non è questo il punto. Il punto non è il suo perfezionamento, ma il suo utilizzo. Per andare oltre la semplice discussione o confronto politico tra chi socialista lo è già. Per allargare il campo. Per essere utilizzato come punto di riferimento, anche ideologico, per nuove iniziative politiche concrete. O meglio per avviare politiche concrete su più versanti. Per reagire alle tante “barbarie” che ogni giorno ammorbano la nostra aria a livello nazionale e internazionale. Contro il tentativo ormai dichiarato da più parti di fare del socialismo il vero nemico, per annientare la sua cultura e le sue possibili politiche in Italia come in Europa. Contro ogni tentativo di dar vita al alleanze antisocialiste, anche con il sostegno cosciente o incosciente di aree vicine e che ancora si gabellano di centrosinistra. Socialismo o barbarie, per salvare il salvabile, contro ogni tentativo di infettare con culture di destra il corpo vivo di ciò che un tempo era il popolo socialista e di sinistra. Ma questo processo, che sembrerebbe inarrestabile, può essere arrestato, avendo chiaro l’orizzonte: il socialismo rimane un’assoluta necessità. Quello che, per essere tale, deve esprimersi con azioni e con politiche che si ispirano ai suoi valori fondanti, di giustizia, libertà e fraternità, “per ridare dignità al lavoro e alle persone, per combattere lo sfruttamento”, come argine per “contenere le politiche liberiste di questo capitalismo”. Come espressione di politiche di profondo cambiamento, operativamente, facendo cose, muovendo e aggregando nuove energie. Si tratta di lavorare in modo largo, di parlare con tutti per una prospettiva capace di coinvolgere associazioni, movimenti e persino partiti che fuori dal socialismo non hanno più ragione di esistere in Italia e in Europa. Dice il documento. “Unendo attraverso un patto federativo (come alle origini del socialismo italiano) associazioni e formazioni politiche, in rapporti stretto con i corpi sociali, con i sindacati, con il mondo del lavoro, della cultura e della conoscenza per ricostruire una comunità che si impegna a promuovere una politica socialista coerente a questi principi”. Già i sindacati! Può nascere una nuova e grande forza socialista senza un sindacato di riferimento unitario? Non credo. Abbiamo ricevuto nei giorni scorsi un documento di area ambientalista che dice: “Oggi l’istanza socialista, ovvero l’istanza di uguaglianza sociale, ma anche di organizzare in maniera diversa sistemi produttivi e istituzioni, si propone con la forza dell’evidenza come la necessità fondante tra quelle istanze, diciamo così, “interne” alla società umana, ovvero inerenti ai rapporti tra gli appartenenti alla nostra specie….. Ma mai come oggi è evidente che essa va coniugata con la ricerca di un equilibrio tra la presenza del complesso della specie umana su questo pianeta e la preservazione degli equilibri ecologici, per garantire anche alle generazioni future questa stessa presenza. Eco-socialismo o barbarie…” Ci sta anche questo, sicuramente, insieme alla necessità di intervenire per frenare la barbarie dell’imbarbarimento democratico, istituzionale, sociale e dell’attuale approssimazione e confusione dell’azione politica, non dimenticandoci, così come ci ha ricordato recentemente un grande compagno, che il socialismo italiano “è nato riformista come lotta alla miseria e per la libertà”. Contemporaneamente non potremo mai, sottolineiamo mai, imprimere alcun cambiamento di tipo socialista al paese, se si continua a lasciare ai margini dell’azione politica la questione meridionale, senza un efficace intervento pubblico finalizzato agli investimenti e al lavoro, senza il sostegno all’iniziativa privata, per uscire da quello stato di abbandono e rassegnazione che accompagna il deficit infrastrutturale, territoriale e ambientale del sud. Di fronte ad una situazione in cui la politica della destra si muove alla velocità di una barbarie al giorno si può e si deve reagire. Anche perché tutto sembra muoversi a favore della destra, fino alle estreme conseguenze, e presto potremmo trovarci di fronte non ad elezioni anticipate, ma a un nuovo e ancor più solido governo delle destre. In sintonia con il resto dell’Europa. Certo c’è da preoccuparsi, ma una cosa pratica intanto si può fare. Per tutti coloro che vogliono imboccare la strada del “nuovo corso socialista” contro la barbarie, un primo banco di prova concreto saranno le imminenti elezioni amministrative, in alcune regioni e in moltissimi comuni nella prossima primavera. Per quella occasione dobbiamo farci promotori di liste larghe di “ispirazione socialista” in ogni comune dove sarà possibile. Liste capaci di invertire una tendenza, riscoprendo il valore fondamentale delle politiche socialiste a livello locale, e insieme riscoprendo il valore costituzionale delle istituzioni comunali stesse. Comuni in questi anni trascurati, bistrattati e indeboliti dagli stessi governi di centrosinistra (legge Delrio docet). Partiamo da lì, banco di prova di unità e di concretezza. Per le europee si vedrà.

Social Democrats Must Say Another Globalisation Is Possible • Social Europe

Social Democrats Must Say Another Globalisation Is Possible • Social Europe

Perché il premier del Belgio Charles Michel si è dimesso - Lettera43

Perché il premier del Belgio Charles Michel si è dimesso - Lettera43

martedì 18 dicembre 2018

Anche la cittadinanza diventa precaria - Menabò di Etica ed Economia

Anche la cittadinanza diventa precaria - Menabò di Etica ed Economia

Franco Astengo: Parlamento, com'è cominciata la XVIII legislatura

PARLAMENTO: COM’E’ COMINCIATA LA XVIII LEGISLATURA di Franco Astengo In questo momento l’attività parlamentare è bloccata in attesa dell’esito della trattativa a Bruxelles circa la manovra finanziaria (esempio ben calzante di una condizione istituzionale davvero preoccupante da tutti i punti di vista; sia del rapporto a livello UE, sia al riguardo dello stato di una presunta sovranità nazionale). L’occasione può allora risultare utile per analizzare questo complesso avvio di legislatura. Occorre far notare, in primo luogo, come risalti l’insufficienza di rappresentatività all’interno della maggioranza di governo. In principio è necessario ricordare che, alle elezioni del 4 marzo, sul territorio nazionale erano iscritti 46.505.350 tra elettrici ed elettori e che i voti validi depositi nelle urne furono 32.841.705 , quindi i suffragi inespressi sono stati 13.663.645, largamente il partito di maggioranza relativa. Inoltre il sistema elettorale ha ancora una volta impedito la scelta diretta dei parlamentari attraverso l’espressione di un voto di preferenza: questo elemento risulta particolarmente importante per quel che riguarda la forza di minoranza relativa, il Movimento 5 stelle, che ha scelto i propri candidati per via riservata attraverso il web . Sulle candidature presentate in quella seda si sono concentrati, in media, poche centinaia di voti espressi on line e non verificati pubblicamente. Un elemento questo che sicuramente ha inficiato il grado di rappresentatività degli eletti: fenomeno comunque comune a tutti i partiti fin dalle elezioni del 1994 e che ha rappresentato via via uno degli elementi di progressivo indebolimento del sistema assieme alla crescita del fenomeno di personalizzazione della politica e del mutamento di ruolo dei partiti e dei corpi intermedi. Ancora:la Lega che sta rappresentando il soggetto “forte” e trainante della compagine governativa ha ottenuto nelle ultime elezioni il 17,35% sul totale dei voti validi corrispondente al 12,25% sul totale degli aventi diritto. Il riferimento a questa presunta egemonia della Lega è dunque del tutto virtuale, riferita a sondaggi che dovranno pur essere verificati nelle urne a cominciare dalle prossime elezioni europee (alle elezioni regionali di Lombardia e Lazio il divario di consenso alla Lega tra le due Regioni si è comunque mantenuto molto forte ovviamente a vantaggio della Lombardia). Andiamo per ordine ed esaminiamo l’andamento dei lavori parlamentari da Marzo a oggi: Sulle fiducie il governo Conte già può vantare un risultato forse non auspicato. In tutto, dall'inizio della legislatura, è stata chiesta 6 volte. Oltre il 31 per cento delle leggi è stato approvato con la fiducia, secondo una ricerca di Openpolis. Dal 2008 a oggi, avevano fatto peggio solo un governo tecnico - quello di Monti (45 per cento) - e quello di Gentiloni (35,9 per cento). L'esecutivo gialloverde ha dunque superato il governo Letta (27,7 per cento delle leggi approvate con la fiducia) e quello di Renzi (26,7). Per l'ultimo governo Berlusconi la percentuale era invece appena del 16 per cento. All'inizio della XVIII Legislatura (23 marzo 2018) sono state approvate 19 leggi (12 leggi di conversione di decreti-legge e 7 leggi ordinarie, 3 di iniziativa governativa - Rendiconto, Assestamento e una legge di ratifica - e 4 di iniziativa parlamentare, tra cui 2 leggi istitutive di Commissioni d'inchiesta parlamentari. Appare evidente come si proceda, sulla scia delle esperienze precedenti accumulate almeno fin dalla XIII legislatura, a un tentativo di spostamento dell’asse di riferimento sul piano legislativo dal Parlamento al Governo in una visione di strisciante “decisionismo” che si è tentato anche di suffragare costituzionalmente con esiti comunque negativi (Bicamerale 1998, Referendum 2006, Referendum 2016). La funzione costituzionale assegnata al Parlamento dall’Assemblea Costituente è dunque rimasta inalterata sul piano costituzionale e vale dunque la pena rammentarla nel dettaglio ancora una volta. Il punto di vero deperimento, però, nel ruolo dell’istituzione parlamentare è stato riscontrato, almeno dal punto di vista di chi tende a privilegiare la funzione di rappresentanza, nella capacità di espressione del dibattito politico in relazione alle diverse “sensibilità” (per usare un termine “togliattiano”) culturali, politiche, sociali presenti nella società italiana. Si è così pensato di riprendere i “fondamentali” di questa delicata materia, tentando di ricostruire – prima di tutto - sul piano teorico ruolo e funzioni del Parlamento, anche in relazione proprio a quanto disposto dal dettato costituzionale vigente, tenendo anche conto dell’incidenza che hanno avuto le diverse modifiche dei regolamenti. Sia l’eco del principio della tripartizione dei poteri, interpretata in modo forse eccessivamente meccanico come l’equivalenza tra Parlamento e potere legislativo, sia l’architettura del testo costituzionale italiano che dedica grande attenzione alla formazione delle leggi (com’è definita la sezione II del titolo I della seconda parte), sia, infine, l’evoluzione specifica del nostro sistema istituzionale nell’arco della seconda metà del ‘900 che aveva visto le due Camere (e le loro commissioni) essere sedi effettive dell’elaborazione di gran parte dell’attività legislativa, hanno a lungo spinto per un’identificazione pressoché completa delle funzioni parlamentari con la funzione legislativa. Il Parlamento italiano, però, come del resto tutti i Parlamenti degli Stati Democratici, resta titolare anche di altre funzioni, alcune delle quali altrettanto importanti rispetto a quella legislativa. Prima fra queste la funzione rappresentativa: a ben vedere, infatti, quella rappresentativa non è “una delle funzioni” ma la natura stessa che contraddistingue il Parlamento: tant’è che in sua assenza lo stesso Parlamento non potrebbe definirsi tale ed è proprio in nome della rappresentanza, di questa sua natura rappresentativa, che è chiamato a svolgere tutte le funzioni che gli sono attribuite. Al fine di cogliere la ricchezza delle funzioni svolte dal Parlamento, ancora oggi ci si richiama frequentemente all’antica classificazione delle funzioni parlamentari proposta da Walter Bagehot con riferimento alla Camera dei Comuni di metà ‘800. Secondo tale classificazione (Bagehot 1867) il Parlamento deve: eleggere un buon governo, fare buone leggi, educare bene la nazione, farsi correttamente interprete dei desideri della nazione, portare compiutamente i problemi all’attenzione del Paese. Certo, oggi la classificazione di Bagehot non può più essere riproposta tale e quale, se non altro perché il rapporto tra Parlamento e opinione pubblica si è profondamente trasformato, essendo ormai condizionato in forma decisiva dai mezzi di comunicazione di massa e dal processo d’innovazione tecnologica che questi hanno incontrato, in maniera vorticosa, in particolare durante l’ultimo decennio. Dell’antica classificazione di Bagehot debbono però essere mantenuti gli aspetti senza dubbio più acuti e innovativi consistenti, da un lato, nella consapevolezza che le funzioni del Parlamento si muovono lungo uno spettro ampio e debbono, perciò, articolarsi secondo tipologie complesse e non semplicemente secondo l’asse governo/parlamento, come intendono i corifei della “governabilità” ad ogni costo. Riassumendo possiamo così reinterpretare le cinque funzioni fondamentali del Parlamento: 1) La funzione d’indirizzo politico, inteso come determinazione dei grandi obiettivi della politica nazionale e alla scelta degli strumenti per conseguirli, in specificazione dell’attualizzazione e dell’opposizione – dai diversi punti di vista – del programma di governo; 2) La funzione legislativa, comprensiva dei procedimenti legislativi cosiddetti “duali” che richiedono cioè la compartecipazione necessaria del Governo o di altri soggetti dotati di potestà normativa; 3) La funzione di controllo, definita come una verifica dell’attività di un soggetto politico in grado di attivare una possibile attività sanzionatoria; 4) La funzione di garanzia costituzionale, da interpretarsi come concorso delle Camere alla salvaguardia della legittimità costituzionale nella vita politica del Paese; 5) La funzione di coordinamento delle Autonomie, sempre più complessa da attuare in un sistema che, nelle sedi di raccordo esistenti sia a livello internazionale che infranazionale tende a privilegiare il dialogo tra esecutivi. In conclusione si può affermare che è chiamata in causa l’attività del Parlamento come organo dello Stato – ordinamento: cioè la Repubblica e di conseguenza la priorità dell’assolvimento del compito della più elevata capacità rappresentativa della molteplicità di articolazioni politiche, sociali, culturali, esistenti nella realtà nazionale. Al fine di realizzare al meglio questo compito entra in scena, quale fattore fondamentale, la legge elettorale: un tema di grande delicatezza al quale va prestata grande attenzione in un’ottica “sistemica” e non certo d’interesse contingente di questa o quell’altra forza politica. Il tema della legge elettorale, per la quale in questa sede si ritorna a esprimere una preferenza per il sistema proporzionale, è stato abbandonato anche da chi coerentemente si era opposto alle modificazioni costituzionali cui si è già fatto cenno. Al proposito si ricorda ancora una volta che ben due leggi elettorali di seguito siano state clamorosamente bocciate dalla Corte Costituzionale: la seconda, quella denominata “Italicum” addirittura prima ancora di essere sperimentata sul campo. Si tratta di un argomento da porre nuovamente all’ordine del giorno del dibattito politico ricordando anche che l’attuale meccanismo legislativa presenta evidenti profili di incostituzionalità.

Roberto Biscardini: Al Ministro dei Beni culturali (Sic!)….si documenti | | lavocemetropolitana

Al Ministro dei Beni culturali (Sic!)….si documenti | | lavocemetropolitana

domenica 16 dicembre 2018

Il Global Compact e l'Italia | Risorgimento Socialista

Il Global Compact e l'Italia | Risorgimento Socialista

“Bolsonaro è fascista, la sinistra mondiale ha il compito di difendere la democrazia” - micromega-online - micromega

“Bolsonaro è fascista, la sinistra mondiale ha il compito di difendere la democrazia” - micromega-online - micromega

Franco Astengo: Diritti umani e guerra

DIRITTI UMANI E GUERRA di Franco Astengo In un momento di grande smarrimento generale sul piano etico, culturale e politico può valer la pena cercare di suscitare attenzione verso il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. In questi giorni si sono moltiplicate le celebrazioni e gli interventi su questo tema ma pare essere stato posto in secondo piano il senso critico con il quale ci si dovrebbe confrontare con questa ricorrenza notando che: 1) Appare in sicuro ribasso (proprio per dirla con un eufemismo) proprio il ruolo delle Nazioni Unite, ormai ridotte a pallida comparsa in una fase in cui le idee universalistiche appaiono dimenticate e si sta ricomponendo con violenza il primato della geopolitica con tutti i rischi che ben si possono prevedere e ricordando come la guerra sia rimasta comunque presente ininterrottamente sulla scena della storia ; 2) Si rileva una evidente discrasia tra alcune delle proposizioni che sono espresse nella dichiarazione e la mancata applicazione di norme adeguate sul piano legislativo nei vari Paesi . Non pensiamo soltanto a quelli giudicati come governati da regimi illiberali senza dimenticare che siamo giunti al punto di teorizzare la “democrazia illiberale”. Non solo gli USA stanno tenendo atteggiamenti ostili, ma anche Cina e Russia, alcuni membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, l’Arabia Saudita, alcuni paesi dell’Unione africana e nell’Unione Europea a Polonia, Austria, Ungheria si sta aggiungendo anche l’Italia dopo l’approvazione della cosiddetta “legge sicurezza”. Nel nostro Paese si è anche riaperto, in negativo, il dibattito sul reato di tortura la cui regolamentazione legislativa era arrivata a compimento soltanto nel 2017. L’Italia, ricordiamolo è anche il paese di Genova G8 2001; 3) Emergono, nel quadro generale, le limitazioni nel campo delle libertà pubbliche dalle norme antiterrorismo e il totale mancato rispetto dei diritti dei migranti; 4) Si mantengono ancora in quasi tutti i campi evidenti disparità nel rapporto tra donna e uomo nonostante che il preambolo della dichiarazione sancisca definitivamente l’uguaglianza tra i sessi. 5) A questo va aggiunto che l’incipiente crescita economica nei cosiddetti paesi del terzo mondo ha dissodato le società contadine portando a 244 milioni i migranti internazionali nel 2018. Il 3,3% della popolazione mondiale risiede in un paese diverso da quello in cui è nata, per la maggior parte priva dei diritti elementari. Tornando alla Dichiarazione appaiono di particolare interesse gli articoli dal 4 al 21, dedicati ai diritti civili e politici, divieto della schiavitù (vedi migranti raccoglitori nel Sud Italia ad esempio), della tortura (caso Cucchi), di ogni trattamento inumano e degradante (Abu Grahib, Guantanamo), diritto di ciascuno ad avere una personalità giuridica e una cittadinanza, a non essere detenuto arbitrariamente (Cile, Argentina, Grecia, Turchia, Spagna come esempi nel corso del tempo), a un processo equo davanti a un tribunale indipendente e imparziale. Questa parte della dichiarazione stabilisce anche il diritto di cercare asilo fuori dal proprio Paese: l’Italia recepì questo punto attraverso l’articolo 10 della Costituzione, oggi violato dal già citato “decreto sicurezza”. Gli articoli dal 22 al 27 sono dedicati, invece, ai diritti economici, sociali e culturali: se pensiamo, sotto quest’aspetto, alle condizioni materiali di vita e di lavoro nella quale versa la maggior parte della popolazione mondiale non possiamo che constatare il clamoroso fallimento della Dichiarazione. Soprattutto però sono mancati i due presupposti fondamentali per poter sviluppare una strategia di adempimento del quadro di diritti enunciato nella Dichiarazione: 1) Il primo punto si colloca attorno al tema dell’uguaglianza posto sul piano delle dinamiche economico- sociali. Se si scindono le due questioni, dei diritti e dell’eguaglianza, si rischia di cadere, come spesso accade, in un’astrattezza indeterminata che finisce con il giustificare il perpetuarsi dell’ingiustizia e dello sfruttamento. 2) Il tema della guerra è rimasto all’ordine del giorno dell’agenda internazionale nel corso di questi anni e adesso si presente come punto dirimenti di una situazione quanto mai delicata a livello planetario. La spesa militare mondiale nel 2017 ha raggiunto il nuovo record di 1.739 miliardi di dollari, il 2,3% del PIL mondiale. Le grandi potenze sono in prima fila a mostrare i muscoli con parate e proclami che vent’anni fa sarebbero sembrati parte di un romanzo su di un futuro distopico. In questo 2018 la Russia ha schierato 300.000 uomini in una esercitazione militare che è risultata la più imponente dal 1981,dai tempi cioè della “dottrina Breznev”, ed era l’URSS. XI Jinping chiede alle forze armate cinesi di “essere in grado di vincere qualsiasi guerra”. Attraverso la PESCO l’Unione Europea chiede di “aumentare periodicamente e in termini reali i bilanci per la difesa”. Gli USA stanno ragionando su testate nucleari a basso potenziale: un’arma della potenza pari alla metà di quella sganciata su Nagasaki che fece 70 mila morti. Non tira proprio una bella aria, insomma, se la prima economia del mondo s’interroga sul come dotarsi di un’arma “estrema ma credibile” com’è stato definito un ordigno capace da solo di massacrare 35.000 persone. E’ quello della guerra il vero nodo scorsoio al quale è impiccata qualsiasi possibilità di strategia dei diritti. In conclusione l’elenco dei teatri di guerra presenti nel pianeta: (Aggiornato dall’autore rispetto a quello pubblicato da warnews.it e da hiik.de) Aceh Aceh è una provincia autonoma dell'Indonesia, situata nell'estremità settentrionale dell'isola di Sumatra. Dal 1976 è teatro di una guerra tra i ribelli del Movimento Aceh Libero (GAM) e l'esercito indonesiano. I morti, secondo le fonti più accreditate, sono almeno 12mila ma altre fonti parlano di 50mila, o addirittura 90mila. Afghanistan Osama Bin Laden è stato giudicato il responsabile degli attentati dell'11 settembre 2001 contro le Twin Towers e il Pentagono. La reazione degli USA e dei loro alleati è stata di abbattere il regime del Mullah Omar e dei Talebani, accusati di nascondere Bin Laden. Nonostante la morte del leader talebano, il conflitto procede da 17 anni, e i morti sono più di 110.000, la maggior parte dei quali civili. A oggi metà della popolazione afghana vive sotto il controllo dei talebani oppure in un’area contesa al governo di Kabul dagli estremisti islamici. Gli stessi americani ammettono che l’espansione territoriale dei talebani è la più estesa dal 2001, quando l’Emirato islamico crollò sotto i bombardamenti Usa dopo l’11 settembre Algeria Intorno alla seconda metà degli anni '90 sanguinose stragi commesse dagli estremisti islamici, si contrapponevano a violente controffensive da parte dell'esercito governativo. Dopo 100.000 morti (150.000 secondo bilanci indipendenti) la guerra non è ancora conclusa, sebbene attualmente stia attraversando una fase di relativa tranquillità. Birmania Nella Birmania di Aung San Suu Kyi non sono perseguitati solo i musulmani Rohingya. Kachin e Karen, infatti, subiscono violenze da decenni dalle truppe di Rangoon. Una violazione continua dei diritti umani già confermata dall'Onu. E che ha provocato mezzo milione di sfollati interni. L’attenzione mediatica è ferma sulla delicata questione dei Rohingya, la minoranza musulmana che, secondo le Nazioni Unite, sarebbe la popolazione più perseguitata al mondo. Uomini e donne costrette a scappare dalla loro terra a causa delle violenze dell’esercito regolare e dei radicali buddisti. Ma in Birmania – ribattezzata Myanmar dalla giunta militare nel 1989 – si consumano altri genocidi, meno pubblicizzati, quelli contro le diverse etnie che compongono il complesso mosaico del Paese. In particolare contro i popoli Kachin e Karen, perseguitati da decenni dalle truppe di Rangoon. Burundi L'ultimo decennio di guerra tra le due maggiori componenti etniche del Burundi, i Tutsi e gli Hutu, iniziato nel 1993, ha provocato almeno 300.000 morti e un milione di sfollati. Dopo un'interruzione nel 2004, sono ricominciate le guerre civili etniche. Colombia Da quasi quarant'anni la Colombia è sconvolta da una sanguinosa guerra civile tra governo, paramilitari e gruppi ribelli di estrema sinistra. All'origine di questo conflitto (300.000 morti) vi è un’enorme disparità sociale tra classi dirigenti e popolazione. Congo R.D. Una "Guerra Mondiale Africana", com’è stata definita, che vede combattersi sul territorio congolese gli eserciti regolari di ben sei Paesi per una ragione molto semplice: il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale. Almeno 350mila le vittime dirette di questo conflitto, 2 milioni e mezzo contando anche i morti per carestie e malattie causate dal conflitto. Costa d'Avorio La Costa d'Avorio, ex colonia francese, conquistò l'indipendenza il 7 agosto 1960 e il 27 novembre dello stesso anno venne eletto presidente Felix Huophouet-Boigny, che governò lo stato africano per sette mandati consecutivi rimanendo in carica sino alla sua morte nel dicembre 1993. Dopo un decennio di guerra civile nel 2003 sono stati firmati accordi di pace, ma la situazione è rimasta instabile, nonostante le prime elezioni libere del 2010. Egitto Nella penisola del Sinai, da alcuni anni a questa parte il governo egiziano si è spesso scontrato con gruppi di fondamentalisti islamici armati. Eritrea -Etiopia Dopo una guerra trentennale (1962-1991), l’Eritrea ottiene finalmente la propria indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Senza però stabilire confini chiari e definitivi. Dopo un rapido deterioramento dei rapporti tra i due Paesi, nel 1998 le truppe di Asmara decidono di varcare il confine, dando inizio a una guerra a tutto campo (1998-2000). Dopo 2 anni di conflitto e decine di migliaia di vittime (più di 70.000), Etiopia ed Eritrea cessano le ostilità e si affidano all’Onu firmando finalmente il 17 settembre scorso a Gedda un accordo di pace del quale andrà verificata l’applicazione. Filippine Dal 1971 i musulmani di Mindanao hanno iniziato una lotta armata per l'indipendenza dell'isola. La guerra tra l'esercito di Manila e i militanti del Fronte di Liberazione Islamico dei Moro (MILF) ha causato fino ad oggi 150mila morti. Yemen La situazione politica dello Yemen, attualmente il Paese più povero del mondo, è molto complessa. Da una parte, vi è un conflitto tra i ribelli sciiti Houthi e il governo di Abed Rabbo Mansour Hadi, appoggiato dall’Occidente. Ciò ha prodotto l'intervento nel Paese dell'Arabia Saudita (sunnita) che una vittoria dei ribelli possa portare a un rafforzamento della minoranza sciita nel territorio saudita. Vi è poi un secondo conflitto, quello tra i terroristi di al-Quaeda, che nello Yemen hanno la cellula più potente (AQAP), e il governo yemenita, sostenuto dagli Stati Uniti. Israele -Palestina Un lungo conflitto, che affonda le sue radici nel dopoguerra, il 14 maggio del 1948, quando Ben Gurion dichiarò l'indipendenza di Israele, dopo la decisione delle Nazioni Unite di dividere la Palestina di uno Stato arabo e in uno Stato ebraico. Dopo oltre mezzo secolo di guerre e di patti storici, di atti terroristici e di speranze di pace andate in fumo, il sogno di "due popoli due Stati" resta purtroppo ancora un'utopia. Libia Nel 2014 è scoppiata una seconda guerra civile tra due coalizioni. Poco dopo è intervenuto anche lo Stato Islamico, con la conquista di Sirte. I morti sono più di tremila, e la guerra civile non sembra fermarsi nonostante tentativi di pacificazione falliti come quello recente verificatosi nella conferenza di Palermo. Kashmir La rivolta del Kashmir, ancora in pieno svolgimento nonostante le incoraggianti iniziative di pace, è iniziata nel 1989 ed ha sempre rappresentato una guerra per procura tra i due colossi asiatici Pakistan e India (che dispongono anche di testate atomiche). Kurdistan È più di mezzo secolo che i Curdi distribuiti tra Turchia, Iraq e Iran auspicano la nascita di uno stato curdo. Nemmeno l’arresto di Ocalan, leader del PKK Partito dei lavoratori curdi fondato nel 1973 su forte ispirazione marxista, ha interrotto i conflitti ulteriormente aggravati dal conflitto in Iraq. Nepal I guerriglieri maoisti del Nepal sono in lotta contro la monarchia costituzionale del re Gyanendra (creduto l’incarnazione del dio Visnhu) dal 1996. 8000 le vittime in tutto l’arco del conflitto. Scontri a fuoco, rapimenti, attentati ed estorsioni avvengono quotidianamente. Nigeria La Nigeria è divisa in oltre 250 gruppi etnici -linguistici diversi. Le religioni principali sono il Cattolicesimo e l'Islam, ma anche molte religioni tradizionali dell'Africa. Queste differenze religiose sono alla base dei conflitti sviluppatisi in questo paese. Negli ultimi anni le violenze più grandi provengono dal gruppo terroristico Boko Haram. Repubblica Centrafricana Dal 25 ottobre 2002 la Repubblica Centrafricana è stata dilaniata da una guerra civile che oppone i ribelli di François Bozizé, ex- capo delle forze armate, al presidente Félix Patassé, morto nel 2011. La guerra civile continua anche dopo la morte del leader. Siria Dal 2011 la Siria è dilaniata da una guerra civile, iniziata con l'obiettivo di ottenere le dimissioni del presidente Bashar al-Assad. A questo conflitto si è aggiunta la presenza e l'attività dello Stato Islamico. Secondo alcune stime, i morti finora sarebbero più di 300.000. Somalia Dopo l'uscita di scena del presidente Siad Barre nel 1991, è iniziata una violentissima guerra di potere tra i vari clan del Paese, guidati dai cosiddetti "signori della guerra”. Una spirale di violenze che, fino ad oggi, ha provocato quasi mezzo milione di morti Sudan La guerra civile in Sudan è in corso ormai da 20 anni. Nel Darfur, un'area grande quasi due volte l'Italia, è in corso un violentissimo conflitto fra gruppi armati locali e milizie filo-governative. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità dal marzo 2003 sono morte circa 70.000 persone. Attualmente nel Darfur muoiono circa 10.000 persone il mese. Sud – Sudan Nel suo rapporto del 7 dicembre scorso, Amnesty International ha espresso preoccupazione per l’escalation delle esecuzioni capitali nel Sud Sudan, il più giovane Stato della Terra. Secondo la ONG con base a Londra, nel 2018 sarebbero state giustiziate un maggior numero di persone da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 2011. Dall’indipendenza i tribunali sud sudanesi avrebbero emesso almeno centoquaranta sentenze capitali, trentadue delle quali sarebbero già state eseguite. Nel 2018 sono già state giustiziate sette persone, tra loro anche un minore. Centotrentacinque persone, detenute nel braccio della morte, sono state trasferite recentemente in altre due prigioni, tristemente note perché eseguono materialmente la pena di morte. Altri trecentoquarantadue prigionieri si troverebbero attualmente nel braccio della morte, tra loro anche una mamma con un bimbo piccolo e un minore Uganda Una guerra civile che prosegue da più di 20 anni e che ha provocato una grave crisi economica. L'LRA è la forza ribelle che terrorizza le province del nord dell'Uganda fin dal 1987, abitate dagli Acholi, ai confini con il Sudan. Ed è proprio in Sudan che gli Olum ("erba" così vengono chiamati in lingua Acholi) hanno le loro basi e da lì partono molti dei loro attacchi. Ucraina Dal 2014 la situazione ucraina è sempre più complicata, a causa di una rivoluzione violenta che vede contrapposti alcuni gruppi separatisti al governo. La Russia è uno degli attori principali del conflitto.

giovedì 13 dicembre 2018

Emanuele Macaluso: Viva il socialismo italiano!

EM.MA in corsivo 7 h · ED IO DICO: VIVA IL SOCIALISMO ITALIANO! Su “La Repubblica” s’è potuta leggere ieri una lettera del signor Gianfranco Giannetto il quale ricorda che, in “tempi di nazionalismi ed egoismi”, nell’inverno ‘19-‘20, Vienna “era in miseria, lunghe file davanti ai dormitori pubblici e alle mense benefiche…i bambini denutriti vittime di malattie. I sindaci socialisti di Milano e Bologna organizzarono dei treni carichi di viveri. Tornarono con centinaia di bambini viennesi. Furono sei mila ospitati in Italia”. Corrado Augias, rispondendo alla lettera, ha pubblicato quel che, in quella occasione, scrisse la rivista “Il Comune di Bologna”. Ecco: “La delegazione bolognese lasciò Vienna il 29 dicembre e la mattina di giovedì 1 gennaio 1920 giunse nella nostra stazione il treno speciale recando 640 bambini viennesi ospiti dei Comuni di Bologna, Reggio Emilia e Ravenna e delle locali organizzazioni operaie. Erano alla stazione, per ricevere i piccoli viennesi, i dirigenti della Camera del Lavoro. Erano pure intervenute, con bandiere, le rappresentanze delle organizzazioni operaie, alcune fanfare e bande municipali. I presenti hanno salutato con fragorosi evviva i piccoli viennesi, i quali accompagnati da apposito personale di assistenza furono fatti salire in diversi camion e condotti a fare il bagno nello stabilimento di Porta Galliera e nelle scuole di via Zamboni. A mezzogiorno tutti i bambini viennesi hanno gustato insieme una calda refezione. I piccoli ospiti si mostrarono contenti di essere venuti in Italia e grati della generosa e affettuosa accoglienza ricevuta”. Joseph Roth, scrittore da me amato e giornalista mitteleuropeo, in quella occasione scrisse un articolo – “Bambini a Milano” – raccontando la loro partenza da Vienna e come vissero la vicenda i loro genitori che alla stazione li salutarono. Un articolo commovente che lessi nel suo libro “Bolle di sapone”. L’ultimo rigo dell’articolo dice: “Il treno parte per Milano, la città mera-meravigliosa”. Questa è anche la storia del socialismo italiano. Negli Anni Cinquanta i bambini dei “bassi” di Napoli, anche loro denutriti, furono ospitati dai mezzadri emiliani e nelle colonie estive di quella Regione su iniziativa del Pci e sulla scia della storia del socialismo. Oggi si vuole cancellare proprio quella storia. Ed io dico: Viva il Socialismo italiano! (13 dicembre 2018)

Il Franchismo dal volto umano e l'Europa | Risorgimento Socialista

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The left’s Stockholm syndrome | International Politics and Society - IPS

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La rivista il Mulino: La sinistra ingolfata

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Brexit: gli effetti del "no deal" sull'Italia | ISPI

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venerdì 7 dicembre 2018

Franco Astengo: Censis

RAPPORTO CENSIS: IL FRUTTO DELLE DISUGUAGLIANZE dì Franco Astengo Questo è il sunto del rapporto CENSIS sull’Italia 2018 reso pubblico oggi: “Un'Italia sempre più disgregata, impaurita, incattivita, impoverita, e anagraficamente vecchia. Il 52° Rapporto Censis parla di "sovranismo psichico" e delinea il ritratto di un Paese in declino, in cerca di sicurezze che non trova, sempre più diviso tra un Sud che si spopola e un Centro-Nord che fa sempre più fatica a mantenere le promesse in materia di lavoro, stabilità, crescita, soprattutto futuro. "Il processo strutturale chiave dell'attuale situazione è l'assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive", sintetizza il Censis”. Quale risposta, quale spiegazione? Si può accennare a un avvio di riflessione senza ritornare su di una –pur necessaria – elaborazione riguardante la storia d’Italia (e d’Europa e del Mondo) di questi ultimi vent’anni. Secondo i dati diffusi dall’Ocse alla fine del 2014, l’1% della popolazione italiana possedeva il 14,3% della ricchezza nazionale, praticamente il triplo del 40% più povero che ne possiede solo il 4,9%. Il 20% più ricco possedeva il 61,6% della ricchezza, dunque al restante 80% della società ne rimane solo il 38,4%. Quale significato si poteva attribuire a questi dati allora e ancora oggi con la situazione ulteriormente aggravata come denuncia il rapporto del CENSIS? In primo luogo quei dati significavano e significano che lo sfruttamento capitalistico cresce continuamente e l’abisso tra la classe lavoratrice e l’area sempre più ristretta delle élite economiche diviene sempre più profondo. La legge generale dell’accumulazione capitalistica genera costantemente concentrazione della ricchezza nelle mani di una minoranza sfruttatrice e accrescimento della miseria, sia relativa sia assoluta, dei lavoratori che sono la stragrande maggioranza della società. L’ampliamento del fossato fra le classi è cresciuto senza soste e in questo fossato sono inghiottiti un’articolazione di settori sociali dalla composizione complessa e si afferma l’idea della disintermediazione da parte della rappresentanza sociale e della rappresentanza politica. Fino a questo punto siamo alla classica fotografia dell’esistente, ma è necessario scavare più a fondo e interrogarci su alcuni punti assolutamente fondamentali per cercare di capire la realtà dentro la quale ci troviamo e trovare la capacità e la forza di avanzare una proposta che prima di tutto è necessario si collochi sul piano culturale. La crescita delle disuguaglianze, così vistosa ed evidente, come si riflette sulla composizione e sulla stratificazione sociale? Si tratta, prima di tutto, di capire come possa essere possibile ricostruire una coscienza di questo stato di cose a livello di massa, in una società così articolata e scomposta come l’attuale, in una sede di capitalismo avanzato. Una società che si misura in maniera disordinata con “fratture” collocate ben diversamente da quelle tradizionali, attorno alle quali si erano mossi i partiti politici al momento dei successivi cicli di rivoluzione industriale tra ‘800 e ‘900. Serve forse, sul piano teorico, uno sforzo pari a quello che fu compiuto negli anni’60 con la lettura critica del secondo libro del Capitale di Marx, consentendo un’elaborazione più avanzata da quella derivante dall’analisi del solo libro primo della stessa opera. E’ necessario riflettere, infatti, sull’esigenza di ripartire non semplicemente dal solo antagonismo sociale, ma da una ricostruzione di forma teorica che contempli una proposta di egemonia per una visione di alternativa nella società e nella politica. Ci troviamo in una fase di arretramento storico e d’isolamento dell’autonomia del politico: una fase sulla quale pesa ancora l’esito fallimentare dei tentativi d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del ‘900 e la realtà di una pesantissima controffensiva reazionaria vincente fin dagli anni’80 del XX secolo e che oggi, secondo analisi elaborate all’interno degli stessi ambienti della politologia americana, punta a una secca riduzione del rapporto tra politica e società in senso schiettamente autoritario facendo prevalere la cosiddetta “democrazia esecutiva” su quella cosiddetta “deliberativa”. Una “democrazia esecutiva” che assume la maschera e il volto di una desolante “democrazia recitativa” del tipo di quella delle cui pantomime assistiamo da molto tempo in Italia. L’applicazione concreta, insomma, del programma elaborato da Huntington nel 1973 per la Trilateral che, rispetto al “caso italiano”, ha avuto ampio riflesso nel documento di Rinascita Nazionale elaborato nel 1975 dalla P2 e oggi in fase di avanzata realizzazione. La sola risposta possibile, per quanto possa apparire difficile da realizzare in questo momento di vero e proprio “vuoto del pensiero politico”, com’è dimostrato molto bene dalla nuova qualità di governo emersa dal voto del 4 marzo scorso, è quella di un’espressione di soggettività che recuperi e riprenda un piano di cultura politica che non lascia alla sola spontaneità della reazione sociale il compito del contrasto, limitandosi ad agire nelle pieghe di una relazione marginale al riguardo del sistema. E’ necessario che il terreno del conflitto sia occupato a pieno titolo dalla visione del cambiamento e dall’organizzazione operativa nell’immediato partendo dalla piena comprensione dell’estensione piena delle contraddizioni su di una società che ha bisogno di contrastare collettivamente il durissimo attacco cui è sottoposta nelle sue fondamenta di convivenza civile.