La crescita non si taglia
Mercoledì, 4 luglio 2012 - 13:28:00
di Franco D’Alfonso,
assessore al Commercio del Comune di Milano
Più passano i giorni più si capisce che il suono trionfale che ha accompagnato il ritorno di Mario Monti da Bruxelles non viene dal tamburo di Cheronea che annuncia al mondo l’avvvento di un nuovo Alessandro Magno, ma da percussioni inserite in quantità industriale per sfumare l’esibizione di un cantante di bell’aspetto e voce di buon timbro, ma non così dotato di potenza.
Al di là di importanti e non tutte positive impostazioni di marcia verso l’integrazione europea, dal panel di decisori, vedi l’ennesima esclusione di qualsiasi organismo a parvenza democratico come il Parlamento Europeo, in pratica si sono assunte tre concrete decisioni, ancora una volta non tutte positive e soprattutto tutt’altro che definite nei dettagli.
La prima è stato lo strombazzato Fondo per la crescita, che resta comunque sottoposto all’assioma che “la stabilità finanziaria è un prerequisito includibile” (col che ti saluto possibilità di accesso portoghesi e irlandesi, senza nemmeno considerare i greci), ha una dimensione infinitesimale (1% del PIL della UE) ed ha un valore meramente enunciativo.
Il meccanismo adottato per la stabilità primaria prevede invece un intervento tutt’altro che illimitato da parte dei nuovi fondi, l’Efsf e l’Esm – retti da un sistema di governance esemplare per mancanza di trasparenza democratica – che potranno finanziare direttamente le banche. Ma, per quanto sia evitato l’intervento della temuta troika (formata dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale) l’intervento non sarà automatico: se gli stati vorranno stabilizzare il mercato dei loro titoli, si troveranno di fronte nuovamente la Bce, decisa, come ha già affermato il suo presidente Mario Draghi, a imporre una “stretta condizionalità” nel concederli. Inoltre la quantità di risorse mobilitabile dai fondi sarà determinata dalla quantità di soldi messi a disposizione dagli stati membri, fra i quali gli stessi che sono bisognosi d’aiuto. Anche se la Bce potrà acquistare titoli di stato sia sul mercato secondario che su quello primario, aggirando così il divieto posto a Maastricht di finanziare gli stati aderenti alla Unione monetaria, siamo molto lontani da una illimitata capacità di creazione di credito come si converrebbe ad una vera banca federale.
A ben vedere si tratta delle stesse decisioni prese nell’aprile 2010 per fronteggiare la crisi greca ed irlandese ed impedirne il fallimento, che avvenne regolarmente nel mese di ottobre, a seguito di una interpretazione autentica da parte del duo “Merkozy” del “successo” ottenuto dagli altri partner pochi mesi prima.
In realtà il risultato ottenuto da Monti e Rajoy è quasi tutto sul fronte interno.
Il primo ministro spagnolo riesce a mantenere la fanfaronata elettorale del “non abbiamo bisogno dell’Europa”, perché il debito di Stato formalmente non sale, al prezzo di finanziare con soldi pubblici dei banchieri privati: nemmeno Mussolini negli anni ’30 lo fece, perché seguendo i consigli di Beneduce, nazionalizzò le banche e poi le ricapitalizzò, non diede benzina in mano ai piromani che avevano già bruciato parecchio.
Il nostro primo ministro si è presentato nella capitale europea come il generale Montgomery durante l’offensiva tedesca nelle Ardenne, paventando gravi pericoli ottenuto per nuove truppe del riluttante comandante Eisenhower. Fuor di metafora, il sen. Monti ha agitato agli occhi dei partner la sua instabilità parlamentare italiana, non arginata dalla propria indispensabilità intercontinentale, riportando sul tavolo continentale la tremenda prospettiva di doversi rioccupare del processo Ruby.
Il risultato ottenuto - mediaticamente perfino troppo positivo, soprattutto perché eccessivamente penalizzante per la signora Merkel - permette al primo ministro italiano di sbloccare il nuovo capitolo di “salvaitalia” come medicina amara e necessaria, ma che ridà benessere.
E la medicina del professore è quella di sempre, “taglio” della spesa pubblica da operarsi sulle fonti di spesa più a portata di mano, vale a dire quella dei Comuni e delle Regioni (sanità), del resto unico strumento in mano ad un governo che non ha molto tempo davanti a sé e non ha un progetto di riforma politica complessiva da dichiarare esplicitamente e sul quale andare a raccogliere verifiche di consumo.
La riproposizione di un liberismo temperato quel poco per permettere a Piero Ostellino di lamentarsi perennemente per il troppo statalismo, evidenzia ancora una volta i ritardi culturali e politici della sinistra italiana, sempre pronto ad applaudire o fischiare il personaggio, mai ad affrontare il tema politico.
Non avendo una chiara ed esplicita proposta politica, non avendo il coraggio di affermare che la priorità non è il taglio della spesa pubblica, ma l’incremento degli investimenti pubblici finisce per limitarsi a imbastire trattative di tipo sindacale il cui successo è calcolato con la unità di misura della minimizzazione del danno.
Riusciremo ad avere un leader politico che con chiarezza dica che la crescita si fa investendo e non deprivando le casse pubbliche di risorse spendibili, che il debito pubblico diventa un problema se non è a servizio di investimenti produttivi, che l’equità e la ceosione sociale non sopportano eccessi di “spread” esattamente come i tassi di interesse?
Alle primarie del centrosinistra l’ardua sentenza.
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