martedì 3 luglio 2012

Andrea Ermano: Come governarli tutti

Come governarli tutti?


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Intervento al convegno genovese del Gruppo di Volpedo

nel 120° dalla fondazione del Partito dei Lavoratori.


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di Andrea Ermano


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Ringrazio gli organizzatori del Gruppo di Volpedo, e in particolare Felice Besostri, per questa giornata in questa città: Genova, dove Anna Kuliscioff, Turati e gli altri fondatori convennero all’atto di nascita del nostro partito.

In quanto esponente della federazione estera penso di portarmi addosso una sensibilità vagamente estranea rispetto al sistema d’interessi e progetti, legittimi, che animano la sinistra dentro i confini di un certo paese, sia quello di provenienza, sia quello d’emigrazione. E quindi farò un discorso un pochino eccentrico.


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Anna Kuliscioff (a Firenze nel 1908)

Comizio di Angelica Balabanoff (Genova Voltri, 1907)


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Ciò che ci unisce sono cinque generazioni di socialismo italiano organizzato, una lunga storia gloriosa. Che sembrò dover finire tuttavia proprio sul culmine del centenario.

Io ricordo il 12 settembre 1992, giorno in cui a circa un chilometro da qui si tenne un importante convegno socialista dedicato al tema Cent’anni di futuro, un convegno su come il futuro di allora – che, in parte, è il passato di oggi – avrebbe potuto essere, e non è stato.

Cent’anni di futuro, ormai consumati per un quinto. E noi di nuovo a Genova. Ancora qui. Il che a ben pensarci rappresenta per noi una piccola vittoria, molto sudata, che segue a una sconfitta, molto seria, rendendocela così un po’ meno irrimediabile. Ma non penso che potremo ripartire veramente senza rispondere alla domanda essenziale di allora, che è il nostro enigma di oggi.

Che cos’è quella cosa che compiva cent’anni allora e ora centoventi e che noi intendiamo rilanciare nella sua dimensione europea in raccordo con la sinistra italiana?

Ovvio. È il socialismo. Il nostro caro vecchio socialismo – democratico, liberale, europeo, laico, libertario, gradualista, progressista e soprattutto riformista. Senonché, l’enigma, care compagne e cari compagni, non si cela nelle aggettivazioni possibili, ma nella possibilità di ancorare le aggettivazioni a una comprensione definita, almeno una, del sostantivo “socialismo”.

Tempo fa, forse, non percepivamo l’esigenza di poter dire che cos’è questo “socialismo”. Primum vivere, deinde philosophari. Anything goes. In fondo, il “postmoderno”, il relativismo, il pragmatismo, sono stati cultura dominante nell’ultimo quarto di Novecento. Nulla di male, per carità, se non avessimo assistito e non stessimo tuttora assistendo a una tracimazione finanziaria, ma non solo finanziaria, di gusto decisamente weimariano.


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Quando il prototipo weimariano si stava avvicinando, Turati a Livorno nel 1921, in polemica con la “rivoluzione politica” dei bolscevichi, disse che il socialismo è una “rivoluzione sociale”. Richiamò l’amicizia personale con Engels e l’ascendenza marxiana – “Siamo figli del Manifesto del 1848. Tutti!”, disse. E illustrò il suo concetto di “rivoluzione sociale” seguendo una logica completamente estranea allo stato d’eccezione.

La rivoluzione sociale in senso turatiano non si compie armi in pugno, dopo la presa del Palazzo d’Inverno – no, essa ha luogo senza spargimenti di sangue, con il coraggio della costanza, avanzando di un millimetro al giorno nei cuori e nelle coscienze, negli affetti e nelle civiche virtù, nella cultura, nel lavoro, nel tessuto delle relazioni interpersonali e produttive.

Utopia? Non direi. Nel secondo Dopoguerra abbiamo assistito in Italia ad almeno tre rivoluzioni sociali.

Una rivoluzione investì la società gerarchica durante il boom economico negli anni Cinquanta, culminando qui a Genova nelle mobilitazioni iniziate il 30 giugno del 1960, quando gli operai stabilirono l’agenda politica del Paese.

Un’altra rivoluzione investì la società gerontocratica con i movimenti giovanili negli anni Sessanta culminando nel 1968 e nell’autunno caldo; peccato che noi, sessantottini geronto-critici di ieri, siamo diventati i gerontocrati di oggi.

Una terza rivoluzione investì la società patriarcale con i movimenti delle donne e per i diritti civili negli anni Settanta, che prepararono e accompagnarono le grandi vittorie referendarie.

Dunque, la maggior parte dei progressi compiuti dalla nuova Italia repubblicana è frutto di queste tre rivoluzioni sociali, che costituiscono il lascito più prezioso della grande politica di due grandi successori di Turati, Nenni e Saragat.

Con la “Grande Riforma” Craxi tentò di consolidare quel lascito dentro le istituzioni repubblicane, ma rapporti di forza sfavorevoli, interni e internazionali, posero fine in modo sostanzialmente violento a quel disegno, come abbiamo dovuto amaramente constatare e non senza dover riconoscere anche qualche responsabilità pesante da parte nostra.


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Vengo al “dunque”. La domanda suona così: c’è bisogno oggi e, se sì, che bisogno c’è di una rivoluzione sociale? Soprattutto, in quale rapporto starebbe questo “bisogno” con l’altro grande caposaldo della nostra tradizione politica, il criterio della governabilità?


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Saragat tra Nenni e Pertini al Quirinale (1966)


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Rivoluzione sociale e governabilità: sembra la giustapposizione di due termini inconciliabili. Ma proviamo un momento ad approfondire la nozione di governabilità. Considerate, care compagne e cari compagni, il comune rustico, quello cantato dal Carducci, con i cittadini-valligiani che si riunivano nella piazza del paesetto di montagna e deliberavano per alzata di mano intorno alle questioni che li riguardavano. Ebbene: non è che oggi i rustici cittadini-valligiani possano deliberare in piazza per alzata di mano la tenuta o meno dei ghiacciai. Oppure, poniamo mente ai capitani del popolo di una Repubblica marinara presa a caso: non è che stabiliscano loro il livello del mare. Né ci può essere, su oggetti siffatti, una potestà del Parlamento o del Governo nazionali. E neanche l’Europa accede direttamente a quest’ordine di grandezza. Tutta insieme l’UE fa il 7% della popolazione mondiale. Ma, per la governabilità dell’acqua, occorre anche il restante 93% dell’umanità. Che non è del tutto trascurabile. Né è del tutto trascurabile che la maggioranza dell’umanità sia composta da lavoratrici e lavoratori.

Orbene, se si sciolgono i ghiacciai e sale il livello degli oceani, innumerevoli città rischiano di ritrovarsi mal messe sia in termini di abitabilità sia in termini di approvvigionamento idrico ed energetico. Senza contare la vicina Africa, che incuberebbe spallate migratorie misurabili, pensate, in centinaia di milioni di persone. Non stiamo parlando di una prospettiva remota. E vorrei vedere allora i nostri governanti parlarci di “governabilità”.

Care compagne e cari compagni, la “governabilità” o è globale o non è. E qui tramonta ciò che Silone chiamava la “Statolatria”. E dunque? Da dove ci verrà la governabilità se non potrà più scaturire dallo stato nazionale? Certo, non ci verrà da un Superstato mondiale, che era un’idea superata già ai tempi della Torre di Babele.

Secondo la vulgata corrente (Walzer, Nicolaïdis, Amato), una governance cosmopolitica presupporrebbe che l’ONU assuma fattezze bruxellesi, cioè si riorganizzi non intorno a centottanta stati nazionali, non coordinabili, ma sulla base di una dozzina di confederazioni continentali; e tra queste speriamo ci sia l’Unione Europea, che dovrebbe trasformarsi in una cosa tipo Stati Uniti d’Europa.

A proposito, vorrei ostendere questa ristampa dell’Avvenire dei lavoratori. Fu Craxi, nel centenario del PSI, che incaricò Merli e Polotti di pubblicare la raccolta dell’ADL 1944-'45, quand'era organo del Centro estero di Zurigo, guidato da Silone. Guidato di concerto con il Centro interno di Eugenio Colorni, che a sua volta era stato coautore del Manifesto di Ventotene. Infatti vedete la titolazione d’apertura dell’11 febbraio 1944: “Per gli Stati Uniti d’Europa!”. Oppure quella del 15 maggio 1944: “L’Europa e la pace mondiale”. Quando si dice: freschi di stampa...


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Ignazio Silone (ad Ascona nel 1937)

Eugenio Colorni (a Ventotene nel 1939)


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Nondimeno, dobbiamo ammettere che queste idee cosmopolite – gli Stati Uniti d’Europa, la governance democratica mondiale ecc. – restano come sospese in un empireo piuttosto astratto. È come se ancor sempre ci muovessimo dietro la campana di vetro di una governabilità intesa in modo meramente istituzionale-formale. Mentre occorrerebbe invece – e con quanta urgenza! – poter entrare nel merito di una governabilità reale. Bisognerebbe realmente riuscire a governare. Aria, acqua, terra, popolazione, pace – questo è il genere di problemi dalla cui soluzione dipendono “la vita e i beni” che la governabilità si propone di salvaguardare!

Ed eccoci giunti al punto decisivo. Come sarà mai possibile governare sette miliardi d’individui senza la collaborazione, il lavoro, la partecipazione attiva di questi miliardi d’individui stessi medesimi? Sì, come sarà possibile governarli tutti? Minacciandoli? Ipnotizzandoli? Girandogli una triliardata di derivati finanziari? Attendiamo proposte.

In realtà, non potremo diventare capaci di autogovernarci, non potremo cioè costituirci a soggetto “in quanto genere umano” (per usare un'espressione cara ad Al Gore), non potremo fare questo se non mettendoci in movimento tutti insieme e sia pure di un millimetro al giorno, ma in miliardi di persone, sulla road map di una rivoluzione sociale mondiale.

Una rivoluzione sociale è necessaria, se molti miliardi di persone devono attivarsi, mobilitarsi, partecipare. O pensiamo che una cooperazione di quest'ordine di grandezza possa avvenire senz’alcun mutamento nei rapporti di potere vigenti?

Ma, posto che una pacifica mobilitazione di massa sia, per così dire, la tariffa minima in funzione della governabilità, ecco ancora un'ultima domanda: come potrebbero volersi mobilitare tutti questi esseri umani se non nel desiderio di progredire verso una società di liberi ed eguali, “nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”?

Senza l’utopia di una pacifica rivoluzione sociale globale, non vedo che cosa significhino termini come “governabilità” o “politica”. E allora rivoluzione sociale mondiale della governabilità – è un’ipotesi di significato della parola “socialismo” nel XXI secolo. Parliamone.

Si diceva: “fare l’Italia” e “fare l’Europa”. Sì, ma occorre fare anche l’umanità. Per avere la governabilità.

Perché è in questa luce si evidenzia anche il senso futuro del nostro passato, del nostro essere socialisti italiani, e cioè parte di una vasta organizzazione internazionale. Che va salvaguardata, essendo un ingrediente comunque indispensabile, e quindi ineludibile, nella prospettiva di una governance democratica globale. Che serve a tutti.

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