è per me certamente impegnativo confrontarmi con la sua posizione, che è propria di chi sostiene che l’attuale orientamento e sostanzialmente guida del Pd derivi da una tradizione di destra “storica” presente nell’ala che fu detta “migliorista” del Pci e che non esita a definire “liberista” piuttosto che “riformista”.
“Si ravvedano e facciano proprio il liberal-socialismo alla Keynes”! E forse, non è che sia proprio qui, mi permetto di controbattere, il punto originario di divisione?!
Innanzitutto, c’è da dire che la crisi attuale di sistema, che secondo molti tale è sembrata già rivelarsi a livello internazionale, non può che ricondursi quale fonte primaria all’abbandono del patto di Bretton Woods (1944) in favore di un sistema monetario di cambi flessibili adottato nel corso degli anni Settanta per far fronte al grosso indebitamento U.S.A. L’accordo di Bretton Woods si reggeva su due principi: a) la convertibilità di ciascuna moneta rispetto al dollaro statunitense (valuta principale), b) il finanziamento dei paesi con saldi negativi da parte dei paesi con saldi positivi, tramite il FMI e ad opera soprattutto degli U.S.A. e della loro economia forte. Rispetto all’ieri, è dunque la situazione internazionale ad essere oggi totalmente cambiata. Fu giusto o anche semplicemente opportuno abbandonare il sistema di Bretton Woods? La politica, più ancora dell’economia statunitense, avrebbe fatto viceversa bene a imporsi e impedire così la nascita di un sistema monetario di cambi flessibili? E, se così fosse stato, a cosa avremmo oggi dovuto “rinunciare”? E, se un sistema è cambiato, ha senso ancora rifarsi alle teorie di prima e, nel caso di specie, cosa ne potrebbe dire oggi lo stesso Keynes, che nel 1944 guidò la delegazione inglese a Bretton Woods?
Nel suo Il midollo del leone, Alfredo Reichlin descrive efficacemente due momenti di svolta che hanno connotato l’esperienza politica dell’ala riformista del Pci-Pd.
Il primo, all’indomani dell’avvento della Costituzione, allorchè il Pci condivise con la Dc la “soluzione democratica”, che ebbe tuttavia un prezzo e “fu quello di un grande compromesso alla cui base c’era, in realtà, la coesistenza di due Costituzioni: l’una, quella scritta ma anche reale (non scherziamo), l’altra, non scritta ma altrettanto reale, consistente nella ‘convenzione’ secondo cui i comunisti non potevano governare”.
Il secondo, quando, con lo sgretolamento dell’ordine economico mondiale di Bretton Woods, il partito stesso non seppe o non volle (?!) accettare la sfida del “fondamentalismo di mercato” e della successiva “finanziarizzazione dell’economia”. Di questa fase, i cui sviluppi sono ancora sotto gli occhi di tutti, Reichlin dice: “La finanziarizzazione è certamente un fenomeno molto complesso. E’ stata anche lo strumento attraverso cui è avvenuta questa forma di mondializzazione dei mercati, ingiusta fin che si vuole ma senza la quale qualcosa come un paio di miliardi di uomini non sarebbero usciti così rapidamente dalla immobilità millenaria del mondo primitivo ed entrati nella società dei consumi. Al tempo stesso, però, sono la stessa legittimità etica del capitalismo e la sua funzione di progresso che sono state messe in discussione”.
Ma, prima di affrontare questo nodo relativo “all’etica del capitalismo e alla sua funzione di progresso”, quale analisi, rispetto all’oggi, potrebbe definirsi keynesiana tout court?
In proposito, Luigi L. Pasinetti così ha definito il nuovo paradigma keynesiano. In breve: “La concezione stessa di un ‘paradigma di produzione’ è di gran lunga più complessa della concezione di un ‘paradigma di scambio’. Per cominciare, richiede un inquadramento dinamico e non statico. In secondo luogo, eluderebbe le proprie problematiche fondamentali se pretendesse di basarsi esclusivamente su un’analisi atomistica della società. L’attività produttiva, sebbene debba far assegnamento sull’iniziativa individuale, è anche un processo tipicamente sociale, e ciò in più di un senso. In terzo luogo, non può più fare astrazione, come normalmente accade nel caso dei modelli di scambio, da specificità storiche, poiché il tipo di istituzioni che danno forma a una società industriale, oltre ad essere molto più complesse, sono intrinsecamente soggette a mutamenti indotti dall’evoluzione degli eventi storici in misura molto maggiore di quella che ha caratterizzato l’era del commercio” (Keynes e i Keynesiani di Cambridge).
Dunque, la realtà o meglio questa realtà o quella realtà, che è poi più o meno la stessa, per la quale Emanuele Macaluso non più di qualche anno fa (2007) ha scritto: “E’ vero, ed è un bene, che nessun dirigente dei Ds ha più parlato di superamento del capitalismo, ma non è mai stato tracciato – questo sarebbe ed è necessario – un quadro di riferimento in cui si riproponesse in termini nuovi ‘il compromesso socialdemocratico’ con il quale i partiti socialisti, con la democrazia, l’azione del governo e lo stato sociale hanno riformato il capitalismo … D’altro canto i mutamenti radicali che sono intervenuti nel capitalismo, con il declino dell’industria e il prevalere nel sistema economico dei servizi, determinano, secondo Colajanni, non più l’accumulazione capitalistica (…) ma una ‘accumulazione sociale’ … Ma le nuove politiche che Blair e i leader socialdemocratici europei in forme diverse inaugurarono negli anni novanta e che Colajanni criticava sono invece, a mio avviso, una risposta concreta alle analisi che egli faceva sulla crisi dell’accumulazione capitalistica e l’avvento della ‘accumulazione sociale’” (Al capolinea – Controstoria del Partito Democratico).
Di recente, durante le convulse fasi di formazione del governo Monti, Bersani ha affermato che “il Pd o è un partito riformista o non è”. E’ il Pd un partito riformista? Il filosofo Benedetto Croce, all’epoca che più o meno fu anche di Keynes, disse che il riformismo è la versione liberale del socialismo.
Potrei anche finirla qui, ma non prima di aver citato un altro personaggio politico a cui lei professore fa riferimento. Enrico Morando, nella quarta di copertina del suo Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I ‘miglioristi’ nella politica italiana, scrive: “se i riformisti del Pds avessero operato più tempestivamente per la sintesi tra socialismo e liberalismo e si fossero candidati alla guida del processo d’innovazione capace di incarnarla, l’Italia si sarebbe dotata già a metà degli anni novanta di un vero partito di ‘centrosinistra’. E oggi sarebbe un’altra Italia …”. E chissà, se anche un’altra Europa, ma questa è un’altra storia.
5 commenti:
Caro Professore,
è per me certamente impegnativo confrontarmi con la sua posizione, che è propria di chi sostiene che l’attuale orientamento e sostanzialmente guida del Pd derivi da una tradizione di destra “storica” presente nell’ala che fu detta “migliorista” del Pci e che non esita a definire “liberista” piuttosto che “riformista”.
“Si ravvedano e facciano proprio il liberal-socialismo alla Keynes”! E forse, non è che sia proprio qui, mi permetto di controbattere, il punto originario di divisione?!
Innanzitutto, c’è da dire che la crisi attuale di sistema, che secondo molti tale è sembrata già rivelarsi a livello internazionale, non può che ricondursi quale fonte primaria all’abbandono del patto di Bretton Woods (1944) in favore di un sistema monetario di cambi flessibili adottato nel corso degli anni Settanta per far fronte al grosso indebitamento U.S.A. L’accordo di Bretton Woods si reggeva su due principi: a) la convertibilità di ciascuna moneta rispetto al dollaro statunitense (valuta principale), b) il finanziamento dei paesi con saldi negativi da parte dei paesi con saldi positivi, tramite il FMI e ad opera soprattutto degli U.S.A. e della loro economia forte. Rispetto all’ieri, è dunque la situazione internazionale ad essere oggi totalmente cambiata. Fu giusto o anche semplicemente opportuno abbandonare il sistema di Bretton Woods? La politica, più ancora dell’economia statunitense, avrebbe fatto viceversa bene a imporsi e impedire così la nascita di un sistema monetario di cambi flessibili? E, se così fosse stato, a cosa avremmo oggi dovuto “rinunciare”? E, se un sistema è cambiato, ha senso ancora rifarsi alle teorie di prima e, nel caso di specie, cosa ne potrebbe dire oggi lo stesso Keynes, che nel 1944 guidò la delegazione inglese a Bretton Woods?
Nel suo Il midollo del leone, Alfredo Reichlin descrive efficacemente due momenti di svolta che hanno connotato l’esperienza politica dell’ala riformista del Pci-Pd.
Il primo, all’indomani dell’avvento della Costituzione, allorchè il Pci condivise con la Dc la “soluzione democratica”, che ebbe tuttavia un prezzo e “fu quello di un grande compromesso alla cui base c’era, in realtà, la coesistenza di due Costituzioni: l’una, quella scritta ma anche reale (non scherziamo), l’altra, non scritta ma altrettanto reale, consistente nella ‘convenzione’ secondo cui i comunisti non potevano governare”.
Il secondo, quando, con lo sgretolamento dell’ordine economico mondiale di Bretton Woods, il partito stesso non seppe o non volle (?!) accettare la sfida del “fondamentalismo di mercato” e della successiva “finanziarizzazione dell’economia”. Di questa fase, i cui sviluppi sono ancora sotto gli occhi di tutti, Reichlin dice: “La finanziarizzazione è certamente un fenomeno molto complesso. E’ stata anche lo strumento attraverso cui è avvenuta questa forma di mondializzazione dei mercati, ingiusta fin che si vuole ma senza la quale qualcosa come un paio di miliardi di uomini non sarebbero usciti così rapidamente dalla immobilità millenaria del mondo primitivo ed entrati nella società dei consumi. Al tempo stesso, però, sono la stessa legittimità etica del capitalismo e la sua funzione di progresso che sono state messe in discussione”.
Ma, prima di affrontare questo nodo relativo “all’etica del capitalismo e alla sua funzione di progresso”, quale analisi, rispetto all’oggi, potrebbe definirsi keynesiana tout court?
In proposito, Luigi L. Pasinetti così ha definito il nuovo paradigma keynesiano. In breve: “La concezione stessa di un ‘paradigma di produzione’ è di gran lunga più complessa della concezione di un ‘paradigma di scambio’. Per cominciare, richiede un inquadramento dinamico e non statico. In secondo luogo, eluderebbe le proprie problematiche fondamentali se pretendesse di basarsi esclusivamente su un’analisi atomistica della società. L’attività produttiva, sebbene debba far assegnamento sull’iniziativa individuale, è anche un processo tipicamente sociale, e ciò in più di un senso. In terzo luogo, non può più fare astrazione, come normalmente accade nel caso dei modelli di scambio, da specificità storiche, poiché il tipo di istituzioni che danno forma a una società industriale, oltre ad essere molto più complesse, sono intrinsecamente soggette a mutamenti indotti dall’evoluzione degli eventi storici in misura molto maggiore di quella che ha caratterizzato l’era del commercio” (Keynes e i Keynesiani di Cambridge).
Dunque, la realtà o meglio questa realtà o quella realtà, che è poi più o meno la stessa, per la quale Emanuele Macaluso non più di qualche anno fa (2007) ha scritto: “E’ vero, ed è un bene, che nessun dirigente dei Ds ha più parlato di superamento del capitalismo, ma non è mai stato tracciato – questo sarebbe ed è necessario – un quadro di riferimento in cui si riproponesse in termini nuovi ‘il compromesso socialdemocratico’ con il quale i partiti socialisti, con la democrazia, l’azione del governo e lo stato sociale hanno riformato il capitalismo … D’altro canto i mutamenti radicali che sono intervenuti nel capitalismo, con il declino dell’industria e il prevalere nel sistema economico dei servizi, determinano, secondo Colajanni, non più l’accumulazione capitalistica (…) ma una ‘accumulazione sociale’ … Ma le nuove politiche che Blair e i leader socialdemocratici europei in forme diverse inaugurarono negli anni novanta e che Colajanni criticava sono invece, a mio avviso, una risposta concreta alle analisi che egli faceva sulla crisi dell’accumulazione capitalistica e l’avvento della ‘accumulazione sociale’” (Al capolinea – Controstoria del Partito Democratico).
Di recente, durante le convulse fasi di formazione del governo Monti, Bersani ha affermato che “il Pd o è un partito riformista o non è”. E’ il Pd un partito riformista? Il filosofo Benedetto Croce, all’epoca che più o meno fu anche di Keynes, disse che il riformismo è la versione liberale del socialismo.
Potrei anche finirla qui, ma non prima di aver citato un altro personaggio politico a cui lei professore fa riferimento. Enrico Morando, nella quarta di copertina del suo Riformisti e comunisti? Dal Pci al Pd. I ‘miglioristi’ nella politica italiana, scrive: “se i riformisti del Pds avessero operato più tempestivamente per la sintesi tra socialismo e liberalismo e si fossero candidati alla guida del processo d’innovazione capace di incarnarla, l’Italia si sarebbe dotata già a metà degli anni novanta di un vero partito di ‘centrosinistra’. E oggi sarebbe un’altra Italia …”. E chissà, se anche un’altra Europa, ma questa è un’altra storia.
Angelo Giubileo
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