mercoledì 2 novembre 2011

Peppe Giudice: Crisi del capitalismo e socialismo democratico

CRISI DEL CAPITALISMO E SOCIALISMO DEMOCRATICO



Questa è una crisi strutturale e sistemica del capitalismo. Vale a dire del modello modello economico e sociale che è prevalso a partire dalla II metà degli anni 80 ed ha avuto il suo apogeo nei 90 con gli anni del turbo-capitalismo.

Questo capitalismo neoliberale nasce quale restaurazione di rapporti di forza più favorevoli al capitale e più sfavorevoli al lavoro in contestazione del compromesso socialdemocratico-keynesiano che si è instaurato in alcuni paesi (Belgio, (Scandinavia) a partire dagli anni 30, e nel resto d’Europa dopo la II Guerra Mondiale.

L’altra grande crisi sistemica capitalistica (1929) segnò lo spartiacque tra il capitalismo liberale ed il compromesso socialdemocratico. Essa non si risolse con la rivoluzione proletaria come pensavano Lenin e Trotzky (lì avviene il fallimento del comunismo come ideologia rivoluzionaria) ma con il fascismo ed nazismo in parte importante d’Europa e con la socialdemocrazia in settori, prima limitati, e dopo la guerra ampi. Karl Polanyi ha spiegato bene come alla crisi del capitalismo ed alla contestuale fine della civiltà liberale che esso trascinava con se, erano possibili due risposte, una totalitaria, reazionaria ed intrisa di razzismo (nazismo e fascismo); l’altra democratica che superava ma non rinnegava gli aspetti positivi della civiltà liberale (integrandoli in un contesto superiore di giustizia e coesione sociale) : il socialismo democratico. Il fascismo infatti ha avuto un carattere duplice: è reazione borghese allo sviluppo del movimento operaio e socialista nella democrazia parlamentare; è risposta reazionaria alla crisi della civiltà liberale ed alle paure ed alle profonde insicurezze che essa genera anche in strati popolari. Di qui il carattere di massa del nazifascismo.

Il contesto di oggi è simile per molti versi. Per fortuna non si intravede un Hitler all’orizzonte. Ma il pericolo di una deriva autoritaria e di svuotamento di fatto della democrazia è reale. E da questa crisi se ne può uscire in modo drammatico e regressivo. O in senso progressivo se il socialismo democratico ritrova se stesso e si dà una stabile connotazione sovranazionale.

Che significa ritrovare se stesso? Superare quelle derive neoliberali che sono state il frutto della forte egemonia ideologica e di valori sociali liberisti. Ma questo è un processo già avviato e sulla buona strada se consideriamo i socialismi che “contano” politicamente (Francia, Germania, Inghilterra). Del resto Vendola ha ben messo in evidenza come nel socialismo europeo il dibattito sia enormemente più avanzato di quello che c’è in Italia. Solo gli incartapecoriti settari orfani di Lenin possono sperare in un fallimento del socialismo democratico. Ma se fallisce esso c’è solo la reazione ed un medioevo tecnologico ad accogliere questi imbecilli.

Ma per comprendere quale sia l’anima autentica del socialismo democratico così come è stata definita dal suo pensiero e dalla sua storia reale dobbiamo partire dagli anni 30.

Infatti non dobbiamo confondere il socialismo democratico con la II Internazionale (dove stavano tutti, da Bernstein a Lenin).

Dobbiamo riferirci a quel socialismo ripensato negli anni 30 e ripensato di fronte al chiaro carattere totalitario che il comunismo sovietico mostrava (e di una sua impossibile evoluzione democratica) ed alla crisi del capitalismo del 1929 che modificava radicalmente il quadro delle analisi che socialisti e comunisti avevano fatto fino ad allora.

Grazie soprattutto a teorici come De Man (leader del socialismo belga) Hilferding (uno dei massimo esponenti del socialismo austro-tedesco) si cerca di immaginare un socialismo che agisca nel quadro di un capitalismo profondamente modificato rispetto alle analisi della II Internazionale e tenga conto della profonda torsione totalitaria e da incubo che il comunismo subiva in Russia.

Di qui il rifiuto di identificare il socialismo con il collettivismo burocratico, la messa in soffitta della teoria dell’estinzione dello stato (Kautsky lo considerava un residuo di utopismo alla Saint’ Simon in Marx) e quindi della democrazia politica quale elemento fondante del socialismo. La idea di una economia pluralista e mista, con una forte presenza pubblica nei settori strategici, una area privata sottoposta a democrazia economica e controllo dei lavoratori, lo sviluppo del settore mutualistico e cooperativo dell’economia: tutti coordinati dalla programmazione democratica.

Quindi la idea che la socialdemocrazia si basi esclusivamente sul welfare (che è comunque un elemento essenziale di essa) e che consista in una schematica divisione di compiti tra un capitalismo che ha il compito di produrre ed una politica democratica che ha il compito di redistribuire la ricchezza è limitativa e sbagliata ed è il frutto dei pregiudizi di certo comunismo occidentale (compreso Berlinguer) che di fatto era socialdemocratico nei fatti ma ipocritamente rivendicava la sua diversità.

I Laburisti inglesi nel 1945, ad esempio, hanno nazionalizzato molto più di Allende in Cile. In Scandinavia, Belgio ed Austria c’è una fortissima presenza di economia cooperativa (uno dei fondamenti di quei modelli). Le “riforme di struttura” di Lombardi e Giolitti sono mutuate da De Man ed Hilferding.

Il programma di Bad Godesberg prevede un ruolo importante per una impresa pubblica aperta alla partecipazione dei lavoratori e degli utenti (magari qualcuno pensa che i “beni comuni” o collettivi li abbia inventato Bertinotti!!)

E’ evidente che solo una parte del programma socialdemocratico è stato realizzato. Per consenso o rapporti di forza.

Oggi c’è la possibilità di realizzarlo più a fondo, paradossalmente.

Sappiamo che l’attuale crisi è il frutto di una divario fortissimo tra economia finanziaria ed economia reale. Se l’ammontare della ricchezza finanziaria globale è giunta fino a venti volte il PiL mondiale. Uno squilibrio che nasce (come Giorgio Ruffolo ed altri hanno spiegato) nella economia reale. Negli ultimi venti anni i redditi da lavoro (che sono la base di massa della domanda) hanno subito una forte contrazione, si è cercato di mantenere forte il ritmo dell’accumulazione tramite le bolle speculative (divenute un fatto cumulativo e strutturale) e l’indebitamento privato.

Il riequilibrio tra economia finanziaria ed economia reale non può avvenire senza un forte controllo pubblico sul credito. Non si possono salvare le banche (e far indebitate gli stati) senza che il sistema bancario non venga controllato.

I beni collettivi (acqua, energia, ferrovie) non possono essere gestiti dai privati. In passato non solo i socialisti ma molti governi moderati hanno assicurato al controllo pubblico tali settori. Naturalmente si tratta di definire forme innovative di intervento e gestione pubblica evitando burocrazia e clientele (ed attraverso – vedi Bad Godesberg - partecipazione di cittadini e lavoratori). C’è il problema di un controllo pubblico (anche parziale) di settori industriali di rilevanza strategica che la deriva della finanziarizzazione ha fortemente indebolito. C’è il tema della responsabilità sociale dell’impresa; quello che è successo negli ultimi venti anni deve spingerci ad introdurre la co-determinazione nelle aziende private superiori a certe dimensioni. Co-determinazione che investa sia i lavoratori che le comunità dove l’impresa opera (come accade in Germania ed altri paesi similari). C’è il tema dell’espansione del terzo settore. IN una società dove si sviluppano bisogni che né lo stato, né il mercato sono in grado di soddisfare, l’economia sociale – no profit è la risposta (non a caso essa ha il massimo sviluppo in quei paesi dove più forte è stata l’influenza socialdemocratica).

Insomma grossa parte dei problemi che la crisi ci pone richiedono una risposta nel socialismo democratico. Che oggi deve dare una risposta in più. La crisi attuale del capitalismo si colloca in un più generale contesto di una crisi dell’ideologia della crescita ininterrotta (una ideologia che ha accomunato liberalismo e marxismo ortodosso) dell’economia. Senza voler sposare le tesi fondamentaliste della de-crescita (ma anche Keynes parlava di “stato stazionario”) è evidente che il pianeta non può sopportare questo modo di produrre e consumare, che si basa su una ipertrofia irrazionale del consumismo privato ed un impoverimento dei beni sociali e pubblici. Gia nel 1967 Riccardo Lombardi diceva che i “socialisti vogliono una società più ricca perché diversamente ricca”. Il programma di Bad Godesberg prevedeva di utilizzare quote di incremento patrimoniale delle grandi imprese a favore di fondi gestiti collettivamente per scopi di utilità sociale.

Giustizia sociale ed emancipazione del lavoro, temi del socialismo, sono strettamente connessi ad una diversa qualità della crescita. Come diceva POlanyi il socialismo è il riequilibrio tra economia e società: in questo riequilibrio rientra anche la casa che ospita la società umana: l’ambiente. Una battaglia ecologica seria ha quindi senso solo se integrata dentro un progetto socialista. Al di fuori di esso non può che prendere strade fuorvianti ed irrazionali.

PEPPE GIUDICE

2 commenti:

dario ha detto...

Caro Peppe

come dice da tempo Giorgio Ruffolo "il capitalismo ha i secoli contati", se non partiamo da questa semplice ma chiara constatazione rischiamo di andare fuori strada.

Oggi è in crisi di "legittimità" ( i movimenti noi siamo il 99% ne sono l'evidenza) non il capitalismo in generale, bensì la sua variante finanziaria, la sua pretesa di scaricare, con una nuova forma di socialismo: il "socialismo dei ricchi", i proprii debiti sugli Stati Sovrani, e di conseguenza sui cittadini, ma questa non è una novità, lo fanno da secoli.

La vera novità di questa crisi sistemica è che per la prima volta l'Europa è il coccio debole. Durante la crisi del '29 l'Europa aveva ancora un suo ruolo di potanza economica, ruolo garantiro dal fatto che al tempo molti Stati europei erano ancora in grado di sfruttare le risorse delle colonie e pertanto erano ancora in grado di redistribuire ricchezza, il compromesso socialdemocratico nasce da li, dal fatto che c'erano risorse economiche da redistribuire.

dario ha detto...

É un sistema che è durato sino agli anni sessanta, la denuncia dei trattati di Bretton Woods ha posto fine al periodo d'oro del capitalismo europeo, la potenza del capitalismo produttivo si è spostata, con la prima crisi energetica di inizio anni '70 verso gli Stati Uniti, i quali, giocando sulla liberalizzazione dei cambi tra le monete resa possibile dall denuncia di Bretton Woods del 1971, hanno progressivamente accumulato risorse utili per il loro sviluppo.

Sviluppo che si è basato sulla cosiddetta "terza rivoluzione industriale". Le nuove tecnologie dei computers, sempre più piccoli e potenti hanno reso possibile lo sviluppo dell' Informatica, delle telecomunicazioni, e le nuove tecnologie nei campi biomedicali e militari, è stata una rivoluzione epocale, da cui l'Europa è stata esclusa, basti pensare che negli anni '80 in Europa c'erano due delle maggiori industri di computers (Bull in Francia e Olivetti in Italia) che oggi sono scomparse.

La debolezza dell'Europa sta tutta qui, nel non aver compreso allora (anni '70-'80 che l'Informatica sarebbe stata la "nuova frontiera" e nel non aver difeso i proprii campioni nazionali nel settore, dirottandovi le risorse necessarie. Oggi è tardi, la rivoluzione è compiuta e le nuove potenze economiche si stanno per giunta spostando verso altri territori, più forti in termini di domanda interna, la Cina, l'India, l'America del Sud. Sono le nuove frontiere del capitalismo economico.

Mi pare di ripetere banalità, ma se non partiamo da questi dati di fatto continuiamo a discutere di questioni ideologiche, se è meglio il socialismo democratico o quello liberale o quello riformista, sono tutte discussioni di lana caprina, che non ci portaranno da nessuna parte.

Abbiamo una sola opportunità: attrezzarci come socialisti per diventare i veri fondatori di una nuova entità: la Comunità Europea.

Uso appositamente il termine Comunità, perchè ben descrive un modus operandi di una entità che mette in comune le proprie residue risorse e le propria cultura per poter partecipare a quella grande battaglia che è in atto: la battaglia per l'egemonia mondiale.

Solo se sapremo esportare il nostro modello, l'economia sociale di mercato, verso i nuovi Stati potremo seriamente pensare ad un nuuovo Progresso per l'Umanità, viceversa, se prevarrà ancora il modello americano, sarà la fine di ogni speranza di poter esportare anche la logica conseguenza del modello renano: la socialdemocrazia, la co-decisoone produttiva, la democrazia per come la conosciamo noi europei.

Tertium non datur.

Dario Allamano

PS: siamo tutti ateniesi

stasera sarà postato nuovamente sul sito del GdV un pezzo di Brunazzi della scorsa estate: "siamo tutti ateniesi", perchè quanto sta succedendo oggi ad Atene, la proposta di referendum popolare di Papandreu, può davvero essere la scelta politica che risponde alle domande del movimento del 99% e la zeppa che blocca la pretesa delle tecnocrazie di decidere come salvare le banche a spese dei cittadini.

La propaganda sta già descrivendo il Presidente dell'Internazionale socialista (per l'appunto Papandreu) come un pazzo o quasi, ma in realtà dobbiamo avere la consapevolezza che Atene può essere oggi la linea del PIAVE, che rimanda nel campo avversario la "responsabilità" di trovare una soluzione ai possibili default delle banche tedesche, francesi, statunitensi.

In politica ci sono dei momenti in cui occorre essere un po' pazzi, questo è il momento, e se il PSE non sostiene Papandreu ogni idea che il socialisti europei stanno cambiando politica si confermerà una pia illusione.