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sabato 5 ottobre 2024
Meno studenti e multinazionali (e troppe rendite): così Milano ha perso potere e centralità di Dario Di Vico
Meno studenti e multinazionali (e troppe rendite): così Milano ha perso potere e centralità
editorialista di Dario Di Vico
Corriere della sera
Milano guarda avanti e inquadra se stessa senza più le granitiche certezze di qualche tempo fa. La sensazione che il «modello» — se lo si vuol chiamare così — si sia inceppato è prevalente nell’opinione pubblica, ma ora anche a livello istituzionale. Se ne è avuta un’eco anche alla recente presentazione dello studio «Your Next Milano», predisposto con la solita cura da Assolombarda e da Milano&Partners. L’indagine è costruita con il metodo del benchmark: si confronta la metropoli lombarda con una serie di realtà analoghe europee ed americane (da Amsterdam a Londra, da Berlino a Chicago) e da lì si studiano ranking e posizionamento che ne emergono. «Luci e ombre» è stata la conclusione a cui gli organizzatori sono giunti quest’anno a sottolineare l’ambivalenza dei risultati e a suggerire una riflessione più approfondita sul cammino di Milano.
La sensazione esterna è che implicitamente si ammetta che una pratica dello sviluppo centrata sulle mille Week, sull’eventificio e sulla moltiplicazione di un terziario dell’intrattenimento non sia la strada maestra da percorrere nei prossimi anni. La stella polare è invece l’attrattività nella doppia valenza di capacità di portare a Milano capitali da investire e di trasferire in città talenti capaci di produrre innovazione. Ma come dichiarano Assolombarda e Milano&Partners «rallentano i nuovi investimenti delle multinazionali ed emergono segnali di allarme sui talenti».
I risultati, dicono gli organizzatori dello studio, delineano l’immagine di una città che, pur consolidando alcuni asset distintivi, «vive una fase di transizione e incertezza». Per carità, la metropoli ha saputo reagire alla destabilizzazione portata dal Covid meglio di altre aree (il Pil segna +8,7% dal 2019 al 2023) e la disoccupazione è scesa a livelli che gli esperti chiamano frizionali (4,7%) ma tutto ciò non basta a delineare una prospettiva.
Innanzitutto di perimetro. Non si può continuare a scindere lo sviluppo di Milano da quello dei 133 comuni dell’hinterland che non sono dei meri quartieri-dormitorio ma comprendono al loro interno — è stato detto — piccole città ricche anche di cultura e di storia dell’arte. E se il modello milanese è all’insegna della terziarizzazione, bisogna tener presenti che gli addetti all’industria dell’hinterland sono il doppio di quelli di Milano e generano un valore aggiunto di 31 miliardi, superiore — per avere un’idea — alla somma di due territori genuinamente industriali come Brescia e Bergamo. Le conseguenza dell’adozione di una logica da Grande Milano sui trasporti balza subito in evidenza così come, garantiscono gli addetti ai lavori, la macro-area urbana è di interesse per gli investitori immobiliari. E allora perché non si parla più di Città Metropolitana?
Affrontata la materia del perimetro ottimale del futuro sviluppo di Milano bisogna chiedersi se la città si pone davvero l’obiettivo di diventare una città universitaria di caratura europea. Nell’anno accademico 2022-23 gli iscritti a Milano sono 232 mila in totale, in calo dello 0,4%. La flessione degli studenti negli atenei milanesi è il risultato di una contrazione della componente nazionale (da 217 a 215 mila) e un aumento degli studenti internazionali (da 16 a 17 mila). A Milano la quota di universitari internazionali raggiunge così il 7,4%, supera Barcellona (6,9%) ma l’incidenza rimane meno della metà di quella di Amsterdam, un terzo di Monaco, Berlino e un quinto di Londra per rimanere in ambito europeo. Commentando questi dati il rettore dell’università Bocconi Francesco Billari ha parlato di «segnali negativi». A suo dire si rischia di perdere quella leadership nella formazione delle giovani generazioni italiane che Milano ha finora potuto vantare.
Ma perché la città rischia di non essere attrattiva per i giovani talenti? La risposta — sostengono tutti — non sta nella qualità della didattica e nella credibilità dei singoli atenei, ma nel deficit di accoglienza. Per 100 studenti che arrivano a Milano la città mette a disposizione 6 letti mentre la Gran Bretagna ne assicura 33. In sostanza se vogliamo che Milano sia una vera città universitaria bisogna «generare comunità e campus», dice Billari. E di conseguenza i progetti di Milano dipendono dalla capacità di offrire studentati, esigenza riconosciuta imprescindibile e prioritaria non solo dai rettori ma anche da un’operatrice immobiliare come Barbara Cominelli di Jll.
Ma è proprio la questione degli studenti in cerca di una stanza in cui vivere a illuminare le odierne contraddizioni di Milano. Sappiamo che la realtà ci parla di mercato nero delle abitazioni e soprattutto di affitti stratosferici che non sono alla portata degli studenti. Ci dice che lo sviluppo di Milano, quello odierno e quello futuro, è angustiato dalla prevalenza della rendita.
Nel dibattito organizzato da Assolombarda questa parola non è risuonata, ma è proprio qui il nodo. La verità amara è che la figura-driver della città non è il capitano di industria di una volta o lo scienziato di oggi bensì il proprietario delle mura. Chi ha il più alto potere negoziale è il padrone delle case affittate agli studenti e ancor di più il padrone delle mura degli esercizi commerciali. Come si spiega l’infernale turn over delle insegne della ristorazione e del commercio a Milano se non con un’asticella che il partito della rendita alza di continuo e che alla fine genera una città inospitale e non inclusiva?
La verità è che MilanoMattone si oppone a MilanoSapere, mentre ne dovrebbe essere la prima alleata. Ma per rimanere nel campo dei talenti c’è un’altra considerazione da fare. Non ci sono solo i giovani in entrata sulla città, ma bisognerà cominciare a conteggiare quelli in uscita. Secondo la Fondazione Nord Est, nel 2022 il 43,1% dei giovani che hanno lasciato l’Italia aveva un titolo terziario e le regioni di provenienza sono principalmente le settentrionali, inclusa la Lombardia. L’emorragia dei laureati viene dalla zone dove pure le occasioni di impiego dovrebbero essere maggiori, data la più elevata concentrazione di imprese manifatturiere e di servizi basati sulla concorrenza, ma evidentemente — annota la Fondazione — questo tessuto produttivo non sa valorizzarli. O almeno retribuirli adeguatamente. Non è un caso che chiudendo il convegno il presidente di Assolombarda, Alessandro Spada, abbia proposto una flat tax per i giovani lavoratori dipendenti al 5% nei primi cinque anni di lavoro e al 15% dal sesto anno. Per capirne di più sarebbe interessante sapere il dettaglio su Milano e quanti laureati in città se ne vanno all’estero.
A completare la parte «ombre» dello studio di cui abbiamo parlato c’è un altro dato preoccupante. Nel 2023 Milano ha attratto 49 nuove multinazionali estere, in calo del 31,9% sul 2022, interrompendo così il trend di crescita degli ultimi anni e tornando ai livelli del 2019. La flessione di Milano è interamente legata alla contrazione degli investimenti esteri nell’Europa Occidentale e la minore attrattività verso le altre aree mondiali. Come si spiega tutto ciò? La città non è ancora percepita come un ecosistema dell’innovazione con unica regia — è stata la risposta emersa dal dibattito — e, se nel frattempo non riesce ad attrarre o fidelizzare i talenti, ricadiamo pienamente nella metafora del gatto che si morde la coda.
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