Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
venerdì 31 luglio 2020
giovedì 30 luglio 2020
mercoledì 29 luglio 2020
martedì 28 luglio 2020
Roberto Biscardini: Lombardia, tutto secondo copione
https://www.jobsnews.it/2020/07/roberto-biscardini-lombardia-tutto-secondo-copione-ma-la-questione-e-cambiare-il-sistema-elettorale/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=roberto-biscardini-lombardia-tutto-secondo-copione-ma-la-questione-e-cambiare-il-sistema-elettorale
domenica 26 luglio 2020
Opinion | Why Can’t Trump’s America Be Like Italy? - The New York Times
Opinion | Why Can’t Trump’s America Be Like Italy? - The New York Times: On the coronavirus, the “sick man of Europe” puts us to shame.
mercoledì 22 luglio 2020
L’Italia rischia di diventare un paese senza ricerca universitaria - Christian Raimo - Internazionale
L’Italia rischia di diventare un paese senza ricerca universitaria - Christian Raimo - Internazionale: La pandemia ha reso più critica una situazione già precaria. Tanti non continueranno il loro percorso, perché pagato poco e male. E tanti altri da mesi fanno i conti con biblioteche chiuse o a ingressi ridotti. Leggi
Recovery Fund, dalla presentazione del piano riforme all'approvazione del Bilancio Ue: tutte le tappe prima di ricevere gli stanziamenti - Il Fatto Quotidiano
lunedì 20 luglio 2020
Franco Astengo: Il ratto d'Europa e il deficit democratico
IL RATTO D’EUROPA E IL DEFICIT DEMOCRATICO di Franco Astengo
Comunque andrà a finire il negoziato brussellese ,oggi ancora in corso sul presunto piano europeo di “Recovery Fund”, si sono dimostrate due cose:
1) lo sfilacciamento dell’idea stessa di Unione Europea;
2) Uno sfilacciamento dovuto non solo e non tanto dal tipo di impostazione che all’UE è stata data (giustamente criticata da più parti anche in senso internazionalista e non certo sovranista) ma all’assenza di un sistema politico europeo: PPE e PSE risultano loro stessi frantumati come entità politiche nei rivoli più diversi.
Per riflettere al meglio su questi punti sarà bene ricordare egualmente due altre questioni:
1) L’idea dell’Europa così come questa fu concretizzata, a partire dalla CECA (1951) e con i passaggi successivi fino al trattato di Roma (1957) non era quella “socialista” nata a Ventotene dalle menti illuminate di Spinelli, Rossi, Colorni e Ursula Hirschmann, ma quella , fuori dalla mitologia del Piano Marshall, difensiva, anti – sovietica, parallela alla NATO, integratrice anche militarmente della Germania nella sua parte occidentale (ricordiamo il fallimento della CED) : questa mia interpretazione sarà giudicata come schematica e richiamante la logica della “guerra fredda”( difatti all’epoca si espresse la forte ostilità dei Partiti Comunisti italiano e francese), ma ritengo si tratti di un dato di cui tener conto sul piano storico per i suoi riflessi che, a lungo, sul terreno dell’impostazione culturale e politica sono stati mantenuti nel prosieguo della costruzione dell’impalcatura europea anche nel momento in cui avvennero passaggi a governi “diversi” nei principali paesi fondatori ( Germania, Francia);
2) Il secondo passaggio è quello riguardante la caduta del Muro e la sindrome da “estensione” di un solo modello: quello della “fine della storia”. In quel momento l’idea dell’allargamento dell’Unione ad Est (avvenuta nel 2004) era vista come la definitiva e agognata apertura al modello del consumismo occidentale di nuovi, grandi mercati. Si sottovalutarono tutte le difficoltà in essere e in itinere come poi si sarebbero ben palesate in una evidente situazione di colossale abbaglio (fu in questo quadro che tra l’altro nacque l’euro, la cui entrata in vigore è costata un duro prezzo di impoverimento generale per le classi medie e lavoratrici italiane, in particolare quelle a reddito fisso).
Nel frattempo falliva l’ipotesi di Costituzione Europea (per la contrarietà di Francia e Olanda). L’approvazione di una Costituzione Europea avrebbe rappresentato il solo fattore possibile per varare comuni politiche pubbliche e fornire al Parlamento Europeo poteri costituenti in un’ottica federalista che, diciamoci la verità, non è mai stata presa in considerazione.
Il sovranismo dunque arriva da lontano.
Al di là dell’evaporazione del disegno europeista, comunque si concluda la spartizione dei miliardi del Recovery Fund, e oltrepassando anche la fase del progressivo inasprimento dell’emergenza sanitaria e dei suoi relativi strascichi economici e sociali, il quadro globale sta registrando una crisi del “ciclo atlantico” (che pure, in Italia, forze molto consistenti desidererebbero riattivare nel suo pieno splendore di rapporto privilegiato con gli USA), un rafforzamento a dimensione egemonica della presenza commerciale della Cina (anche in Italia si sta guardando alla “via della seta”) di fortissimo rafforzamento militare della Russia (rafforzamento che fa crescere la vocazione “imperiale”), della presenza di pericolosissimi teatri di guerra nei quali l’Unione non riesce ad esprimere una propria incisiva presenza (si pensi alla spartizione della Libia tra Turchia e Russia).
L’incapacità di affrontare il tema della guerra inoltre sta alla base della questione, del tutto dirimente, dei migranti, e inoltre è dovuta alla guerra e al progressivo deperimento di ruolo delle organizzazioni internazionali la crescita di aree di sottosviluppo che causa l’assenza in grandi zone del mondo delle condizioni minime di vivibilità: zone del mondo soggette a meccanismi di spartizione del proprio minimo spazio vitale a causa di fondamentali presenze minerarie e di approvvigionamento energetico contese tra le grandi potenze in una evidente visione neo-coloniale.
Il tema rimane quello della possibilità di visione di un diverso modello di sviluppo da quello enormemente vorace di risorse e di territorio che ha caratterizzato il ‘900: secolo dal quale non siamo ancora usciti, nonostante l’illusione di progresso fornitoci dall’esplosione tecnologica.
Ho esposto confusamente ma sta in questo quadro una possibilità di rivisitazione di una identità politica di sinistra progressista e internazionalista sulla quale sarebbe pure necessario cominciare a riflettere.
Nelle conclusioni del suo fondamentale “Capitale e Ideologia” Thomas Piketty propone di affrontare la crisi che la sinistra sta attraversando di fronte all’aumento delle disuguaglianze attraverso un’originale elaborazione.
La proposta dell’economista francese è di partire da un progetto che presenti elementi di visione per un socialismo partecipativo e internazionalista.
Un progetto che prefigura una democrazia transnazionale su scala più ampia di quella europea.
Democrazia transnazionale oggi fondata su alcuni punti distintivi:
1) norme sulla tassazione dei profitti
2) regole per introdurre la libera circolazione delle persone
3) mutualizzazione dei finanziamenti nei servizi pubblici (con introduzione di elementi di fiscalità comune)
Lo scenario complessivo sarebbe quello di carattere cooperativo, in un nuovo quadro giuridico.
Secondo “Capitale e ideologia” andrebbe riformulato il passo del Manifesto del 1848 là dove si recita: “ La storia di ogni società è stata fino a oggi solo la storia della lotta di classe”.
Piketty nel suo testo corregge: “ La storia di ogni società è stata fino ad oggi solo la storia delle ideologie e della ricerca di giustizia”.
Obiettivo dichiarato di “Capitale e ideologia” sul piano politico: “Un movimento per un socialismo democratico di lotta alla disuguaglianza e di profonda trasformazione del sistema legale, sociale, fiscale”.
Appare fin troppo evidente come, pur nell’espressione di queste brevissime note, la ricostruzione di una sinistra (compresa quella socialdemocratica di Bernstein e della seconda internazionale) può essere portata avanti soltanto comprendendo appieno come le contraddizioni emergenti risultino allargate a un insieme di “fratture” (il cui catalogo andrebbe aggiornato rapidamente) a partire dall’ apparentemente insuperabile doppia condizione di sfruttamento nella diversità di genere e l’evidente conflitto tra condizione del territorio e sviluppo tecnico, scientifico, della produzione di merci.
Insieme di “fratture” non riconducibili esaustivamente alla sola “questione ecologica”.
Sotto quest’aspetto va ricordato il tema del rapporto tra politica e tecnica al riguardo del quale correnti filosofiche considerano ormai come avvenuta la riunificazione tra scienze, tecnica e politica all’interno dell’acquisita egemonia della tecnica e relativa delega all’algoritmo.
La sinistra è così chiamata al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia”, della semplificazione delle contraddizioni sociali, della tecnica come espressione diretta dell’azione politica e, nella sostanza, del predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’essere.
Io che si esprime ormai esclusivamente attraverso il web nella convinzione di esercitare il proprio diritto di parola nel quadro dell’idea dell’ “uno vale uno” esercitante la democrazia diretta.
Soltanto attraverso un recupero del rifiuto dell’idea di “fine della storia” che si potrà ricominciare a ragionare anche su temi come forma di governo, rappresentanza istituzionale, struttura dello Stato , sostanza della funzione extra – istituzionale della rappresentanza politica.
Temi sui quali si è accumulato un grande ritardo nella convinzione di una insuperabilità del modello liberaldemocratico.
Una presunzione di insuperabilità elaborata quando invece il sistema stava via via assumendo forme diverse di accentramento, separatezza, recupero di meccanismi di concentrazione del potere per via gerarchica, stabilendo così il formarsi/affermarsi di nuove oligarchie.
Si è trattato di fenomeni di “accentramento del potere” che vanno combattuti apertamente.
E’ necessario quindi ripensare al tema europeo in termini di “deficit democratico”.
Riflettere intorno alle questioni di carattere generale in una dimensione di questo tipo dovrebbe essere il compito di quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere e il tema dell’evidente fallimento europeo dovrebbe rappresentare un punto prioritario di questo lavoro, per il quale occorrerebbe una sede di dimensione collettiva caratterizzata da una precisa dimensione politica.
sabato 18 luglio 2020
venerdì 17 luglio 2020
Franco Astengo: Economia e populismo
ECONOMIA E POPULISMO di Franco Astengo
Mi permetto di riprendere pari pari, come titolo, l’occhiello di un articolo di Dario De Vico apparso il 17 luglio sulle colonne del Corriere della Sera.
Occhiello che sovrasta il titolo “ Se avanza lo Stato Padrone. Così l’Italia sta rottamando l’idea di un mercato aperto” Con il catenaccio: “Dalle privatizzazioni degli anni’90 alla tentazione di riprendersi tutto”.
Un articolo dal quale, lo si può affermare subito quasi come sintesi a priori, emerge una qual nostalgia per il “governo – azienda” emanazione del “partito – azienda” ( e relativo conflitto d’interessi).
A un certo punto dell’articolo De Vico scrive “Consci di aver lasciato passare l’autobus a due piani di Cavazzuti a un certo punto ci siamo illusi di poter supplire a quel progetto (dell’innesto in Italia della cultura d’impresa anglosassone n.d.r) con l’italianissima iniziativa dal basso”.
E’ nato così, scrive De Vico, un “capitalismo leggero” molto aperto alla competizione internazionale con il limite che stava proprio dentro alla ridotta dimensione dei suoi soggetti.
E aggiunge: “Il virus ha rafforzato ovunque il ruolo gli Stati ovvero il “capitalismo politico” (la diversità con il “capitalismo di stato?” n.d.a) e se questa tendenza finisce, come da noi, in dote a governi che diffidano delle imprese, amano esibire i capri espiatori e praticano il populismo delle tariffe. Il cerchio si chiude. E’ quanto sta avvenendo in Italia, dove abolire la povertà e abbattere i Benetton è diventato il programma da esibire in favore di telecamere”.
La situazione è ben descritta anche se l’analisi che si sostiene nell’articolo suscita un interrogativo immediato e ci riporta alla domanda iniziale: lo scopo non sarà forse quello di suscitare nostalgia per il governo del “partito – azienda”?
Le responsabilità della fragilità congenita dell’economia italiana sono dovute ad alcuni fattori concomitanti a cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio del ‘2000: l’assunzione di un modello di sviluppo sbagliato e la dismissione di asset fondamentali come nel caso di un passaggio dall’elettronica all’editoria; la realtà “liquidatoria” esercitata al riguardo del sistema delle PPSS e dello scioglimento dell’IRI; la “falsa” privatizzazione di un settore fondamentalmente strategico come le ferrovie, in realtà abbandonato a sé stesso; la stretta connessione tra interessi privati e ruolo di governo (conflitto d’interessi mai affrontato); la leggerezza nella capacità di affrontare la questione fiscale;l’ acuirsi nella profondità delle divisioni territoriali proprio a causa dell’adozione del modello “capitalismo leggero” (sciur Brambilla e fabrichetta); la subalternità al monetarismo UE; le larghe concessioni verso assistenzialismo e corporativismo; l’obsolescenza delle infrastrutture; i settori economici (e territori) inquinati dalla criminalità organizzata con relativi fenomeni di disgregazione , sfruttamento sociale, relativa precarizzazione del lavoro (precarizzazione assunta quasi a modello del nuovo sviluppo possibile).
Rammentato il quadro generale la fase sembra caratterizzata dalla presenza di un governo che si muove,come ha dimostrato affrontando il lockdown, border line sul piano del rispetto costituzionale delle istituzioni , sul terreno dell’assistenzialismo a pioggia nel tentativo di recupero dell’individualismo consumistico e nel pieno della confusione- ad esempio, ma soltanto per esempio - sia al riguardo della vicenda autostrade, sia di quella Alitalia. Il colmo per Autostrade lo segnala ancora l’articolo di De Vico “la nuova società Autostrade sarà quotata in Borsa ma, al contempo,obbligata a “non essere assoggettata alle logiche di mercato”. Frase piena espressione della filosofia di Conte e del M5S “tutto e il contrario di tutto, uno, nessuno, centomila, né di destra né di sinistra, non ci sono più le mezze stagioni”.
Quindi con una definizione riassuntiva abbiamo davanti un “capitalismo politico populista”, basato sullo scambio “politico – elettorale” .
Appare completamente dimenticato il concetto di programmazione democratica dell’economia, come sarebbe stato, invece, necessario praticare puntando sull’intreccio tra un ritorno ad una idea di “economia mista” e una necessità di stringente adeguamento ai termini imposti dall’innovazione scientifico/tecnologica avanzante in questo secondo ventennio del XXI secolo.
Lo “scambio politico” però arriva da lontano.
La storia dell’IRI, tante volte chiamata in ballo, può essere descritta in tre fasi: dal 1933 l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in vita e non sciolto (com’era stato deciso anche per l’ENI e per il CONI,prima posti in liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche).
Tutto questo avvenne in tempi di contrapposizione sociale molto forte con la polizia che sparava sugli operai e i contadini , il PCI all’opposizione ( ruolo certamente inadeguato sul piano della proposta alternativa) ma capace di far valere , in positivo, il suo peso di rappresentanza degli interessi nazionali della classe operaia oltre a costituire elemento di equilibrio all’interno della pesante logica dei blocchi in un Italia paese di frontiera e di passaggio (anche per il terrorismo e le trame più diverse).
Poi dagli anni’70 iniziò la fase dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione d’ imprese private realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica (non solo IRI, da ricordare sempre EFIM ed EGAM) in coincidenza con l’affermarsi di un sistema di potere bloccato (CAF), dell’evidenziarsi di un modello corruttivo molto esteso nel rapporto politica/amministrazione/imprenditoria, di un sostanziale consociativismo permeato da vistosi fenomeni di trasformismo e di caduta di credibilità di un sistema dei partiti rivelatosi però alla fine insostituibile, di un particolare ruolo sostitutivo interpretato dalla magistratura.
Il sistema dei partiti si è alla fine rivelato insostituibile nonostante il passaggio tumultuoso di un periodo di vera e propria furia iconoclasta che ha lasciato sul campo più morti e feriti di quanto si potesse immaginare in partenza, portando il sistema dalla personalizzazione populista di stampo berlusconiano fino alla democrazia recitativa (come scrive De Vico: “la povertà abolita per legge”).
Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e lo smisurato allargarsi dell’evasione fiscale nel settore privato compensata dalla rapina del welfare , dall’impoverimento delle classi medie a reddito fisso, dalla crescita della disoccupazione e del lavoro nero, dalla fuga dei cervelli.
All’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’UE impose di trasformare l’IRI in s.p.a.
Il governo a quel punto si vantò di aver privatizzato.
Fin qui il Bignami ma l’articolo di De Vico tocca punti di grande interesse al riguardo dei quali proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica.
La fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:
1) L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva, con orgoglio da parte degli operai e dei tecnici “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si è verificato nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la già ricordata conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese;
4) Si segnalano ancora due elementi tra loro intrecciati: la già ricordata progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa e in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia , incidendo così moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
Questo il quadro complessivo di un impoverimento generale, di una crescita delle disuguaglianze, di mancata inclusione dei giovani nel mercato del lavoro, di perdita di diritti, di compressione di ruolo dei corpi intermedi in particolare dei sindacati ma anche delle grandi organizzazioni datoriali in un quadro di declino complessivo delle possibili e necessarie espressioni di dialettica sociale.
Sarebbero stati questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che avrebbero dovuto essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.
Idea di programmazione democratica che dovrebbe rappresentare l’alternativa al ritorno del “governo azienda” e al “capitalismo politico basato sullo scambio elettorale”.
Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare di programmazione e d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending”, salito vertiginosamente nella fase dell’assistenzialismo da lockdown, dovrebbe essere affrontata in questa dimensione ,così come il tema del “Recovery Fund” e del MES.
Mi spiego meglio sulla questione assistenzialismo.
Il perseguimento di una logica assistenzialista, sulla quale pure si resse per un lungo periodo la centralità democristiana, è stato dovuto, sia ben chiaro, al duplice elemento che caratterizza la nostra economia: l’estrema leggerezza e la disuguaglianza territoriale.
Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle prospettive di crescita dell’Italia.
Oggi ci si sta muovendo ancora una volta in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati:a partire dalla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale già arrivato, in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio” attraverso la promessa del reddito di cittadinanza,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” , il solito “milione di posti di lavoro”, gli 80 euro.
Ciò affermato è necessario un progetto alternativo al “tachterismo” di ritorno e all’idea del recupero del “governo azienda” (che ormai richiama alla nostra memoria cose ben diverse dall’antica Assolombarda) : richiami ben insiti nel testo di De Vico.
Un articolo nel quale sembrano auspicarsi anche determinate soluzioni politiche pur esse di ritorno e che sembrano stare particolarmente a cuore ai maggiori organi di stampa.
Una situazione che la sinistra non ha saputo affrontare attraverso un’analisi compiuta: le divisioni politiche hanno sicuramente inciso sull’evidenziarsi di questa incapacità.
L’assenza di un forte soggetto politico di riferimento e di un sindacato in grado di leggere davvero la modernità ha impedito di reperire sedi adeguate nelle quali lo sviluppo d’analisi consentisse un’elaborazione direttamente politica.
Il tutto, come nell’occasione della formazione di questo governo, è sempre stato ridotto alla ricerca della “governabilità” al di fuori dalla possibilità di espressione di un progetto che, si ripete in conclusione, riprendesse l’idea di fondo della programmazione economica e dell’intervento pubblico in economia misurandosi anche con la realtà di un cambiamento nella dimensione di rapporto tra articolazione dei soggetti politici e frantumazione sociale , ormai da tempo verificatasi in verità, quasi sempre in chiave assistenzial/corporativa, personalistica, di mera riduzione allo scambio elettorale.
giovedì 16 luglio 2020
Landini: il mercato ha fallito. Servono più Stato e zero precarietà - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro
mercoledì 15 luglio 2020
martedì 14 luglio 2020
Felice Besostri: Il taglio dei parlamentari è incostituzionale
https://www.jobsnews.it/2020/07/felice-besostri-il-taglio-dei-parlamentari-e-anti-costituzionale-e-il-referendum-non-si-puo-tenere-lo-stesso-giorno-delle-amministrative/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=felice-besostri-il-taglio-dei-parlamentari-e-anti-costituzionale-e-il-referendum-non-si-puo-tenere-lo-stesso-giorno-delle-amministrative
lunedì 13 luglio 2020
domenica 12 luglio 2020
sabato 11 luglio 2020
Comitato per la democrazia costituzionale: No al referendum
https://www.jobsnews.it/2020/07/il-documento-del-comitato-per-la-democrazia-costituzionale-per-la-costituzione-far-vincere-il-no-nel-prossimo-referendum-costituzionale/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=il-documento-del-comitato-per-la-democrazia-costituzionale-per-la-costituzione-far-vincere-il-no-nel-prossimo-referendum-costituzionale
venerdì 10 luglio 2020
giovedì 9 luglio 2020
mercoledì 8 luglio 2020
Lombardia, mozione Pd su sanità privata: maggioranza battuta. Le opposizioni: "Gallera sfiduciato". Segnali per commissione inchiesta - Il Fatto Quotidiano
lunedì 6 luglio 2020
Roberto Biscardini: Caro Sala, così non va
Comunicato dell’Associazione Riaprire i Navigli
CARO SALA COSI’ NON VA.
Leggiamo dalla stampa, testualmente: “Anche “Milano 2020 - Strategia di adattamento” conferma che molti milanesi continuano a desiderare la riapertura dei Navigli, suggestione ormai abbandonata dal Comune per esigenze di cassa” . Speriamo non sia vero.
Ma se è vero, siamo alle solite. Si usa l’argomento delle risorse perché non si ha il coraggio di affrontare un progetto strategico di rigenerazione urbana per una diversa qualità dell’ambiente e dell’intera città. Se fosse vero l’amministrazione di sinistra usa esattamente gli argomenti della destra, per non fare ciò che aveva detto di voler fare. Ciò che volevano i milanesi già dal referendum del 2011. Che il PGT ha previsto nel 2012. Che il progetto di fattibilità voluto da Pisapia aveva confermato. Che molti di noi sosteniamo e per il quale lavoriamo da anni. Nonostante i progetti di fattibilità finanziaria abbiano dimostrato, con l’aiuto di professori della Bocconi, che non è un costo ma un investimento. Nonostante ci risulta che ci siano privati pronti ad investire direttamente per ridurre al minimo, se non azzerare, quelli dell’amministrazione comunale. E poi dopo che Sala, tornato dall’Europa, ci aveva riferito della disponibilità della UE a finanziare l’opera a condizione che riguardasse il progetto integrale e che fosse navigabile. E ancora Milano, con l’Italia, potrebbe utilizzare i fondi del Recovery Fund proprio per le politiche ambientali. Perché il comune non si fa avanti? E poi ancora: Non si doveva completare o almeno iniziare la realizzazione della conca di Viarenna entro il 2021? Con un costo risibile rispetto a quello di molte altre opere assolutamente discutibili.
domenica 5 luglio 2020
sabato 4 luglio 2020
Per il Rapporto annuale Istat, l'Italia post Covid-19 è sempre più diseguale - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
venerdì 3 luglio 2020
Franco Astengo: Categorie politiche e utopia
CATEGORIE POLITICHE E UTOPIA di Franco Astengo
Massimo Cacciari, in un suo articolo dall’alto profilo culturale pubblicato da “Repubblica”, affronta il ricordo di Carlo Rosselli e il tema del “socialismo liberale” .
Un tema che l’autore colloca a fronte della sparizione della borghesia, o meglio della grande tradizione culturale borghese.
Cacciari richiama questa grande tradizione culturale individuandola ancora come fattore fondamentale perché si torni ad esprimere una cultura del lavoro, della responsabilità, dei sacrifici, dei diritti e dei doveri.
E aggiunge “Chi sarà chiamato a funzioni di governo dovrà, secondo il “socialismo liberale” essere essere stato selezionato secondo tali principi. E questi dovranno valere anche per l’imprenditore – innovatore”.
Più avanti il richiamo dell’ex-sindaco di Venezia si sofferma sulla perdita complessiva di status del ceto medio (crollato nella distribuzione del reddito e nelle sue attese di promozione sociale) e sull’impossibilità, in queste condizioni, di superamento delle fase che stiamo attraversando definita (giustamente) “demagogico – protestataria”.
Ancora, Cacciari attribuisce alla scomparsa della borghesia la crisi complessiva della democrazia parlamentare rappresentativa, in Italia come in altri Paesi.
Crisi della democrazia parlamentare rappresentativa che, nel nostro Paese, sarà sottoposta tra poco tempo al giudizio dell’intero corpo elettorale tramite il referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari.
Si tratterà infatti di un giudizio complessivo perché nell’occasione referendaria lo scontro non verterà su 100 deputati in più o in meno ma proprio sull’essenza della democrazia oggi: sulla concezione demagogico – protestaria della democrazia versus una visione costituzionale della rappresentatività parlamentare.
Sarà proprio questo il confronto referendario misurato ben oltre il tema dell’utilizzo delle tecnologie nell’agire politico e della promozione della democrazia del pubblico trasformata in democrazia recitativa.
Il punto sollevato dall’articolo non può però essere risolto invocando un avviato processo di proletarizzazione dei ceti intermedi: questa analisi richiamerebbe l’utilizzo di concetti ormai d’altri tempi.
Il fatto è che non esiste neppure più il proletariato nelle sue varie definizioni più o meno classiche.
Abbiamo registrato, infatti, lo scompaginarsi di tutte le categorie e di ogni individuazione di “frattura sociale”, in un affastellarsi di contraddizioni al riguardo delle quali è mancata una capacità di lettura e di proposta politica.
In Italia, lo scioglimento dei grandi partiti di massa su cui si era appoggiata la fase della ricostruzione post – bellica, ha reso particolarmente accentuato il divario tra esercizio dell’autonomia del politico ed evolversi delle dinamiche sociali.
E’ venuto a mancare lo strumento che permetteva un intreccio tra questi due elementi fondativi dell’agire politico: l’assunzione di responsabilità come presupposto etico portata avanti attraverso i partiti politici.
Ci troviamo, infatti, in una fase in cui si registra una sorta di oblio nell’intreccio tra etica dei principi , etica della responsabilità, agire politico.
In questo senso appare necessario confrontarsi al riguardo dell’emergere della “contraddizione post-moderna” intesa con l’esaurimento dei margini del dominio del genere umano sulla natura .
Un “esaurimento”da considerarsi storico al punto da porre l’interrogativo se esso si presenti come emergenza tale da sostituire la centralità di quella che è stata definita “contraddizione principale” riguardante lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Mai come in questo caso, nella relazione che rimane ancora da stabilire tra dominio del genere umano sulla natura e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ci si propone il dilemma del come coniugare osservanza del principio ed esercizio della responsabilità.
Su questo punto emerge una necessità di riflessione al riguardo dell’esistenza delle scansioni sociali da svilupparsi in maniera affatto diversa rispetto al passato.
Fino ad oggi, infatti, la risoluzione della prima contraddizione sul dominio della natura da parte del genere umano (dando per scontato il superamento del “classico” schema elaborato da Stein Rokkan di cui, come si accennava poc’anzi deve essere reclamato l’aggiornamento) stava dentro alla risoluzione della seconda sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Una risoluzione che doveva avvenire per via storica attraverso il superamento del capitalismo e la trasformazione del modo e delle finalità del produrre.
Insomma: l’ape e l’architetto.
Il punto sul quale si intravedevano le distorsioni impedienti questo tipo di soluzione era del tutto assegnato alla politica fattasi potere e ancora da potere a dominio nella sua forma più evidente: lo Stato.
L’analisi riguardava le varie forme di dominio fattesi Stato attraverso l’azione politica.
Con grande vigore, giudicandone impossibile una qualche riedizione, abbiamo criticato l’ inveramento statuale realizzatosi attraverso alcuni fraintendimenti novecenteschi dell’etica marxiana: per intenderci al meglio quello che è stato definito come “socialismo reale”.
Una critica molto più netta quella verso il “socialismo reale”( è il caso di sottolinearlo) di quella che ha squilibrato, nell’occasione del crollo del sistema raccolto attorno all’Unione Sovietica,quella rivolta verso i cosiddetti regimi liberal-democratici, con le loro deviazioni colonialiste, razziste, totalitarie.
La soluzione però non può essere quella che intende Cacciari nella conclusione del suo intervento: quella di ridare un senso al “socialismo liberale” invertendo la direzione di flusso “dell’impetuosa corrente della proletarizzazione del ceto medio”.
Non può essere questa la soluzione perché, appunto, non siamo di fronte a un processo di proletarizzazione perché tale non si può intendere semplicemente la perdita di status e di reddito all’interno di questo tipo di società caratterizzata, in particolare in Italia, dall’individualismo corporativo, da un pesante assistenzialismo post-democristiano, da un richiamo all’economia corporativa.
Serve, invece, la ricostruzione di una sinistra che superi le logiche novecentesche almeno su di un punto decisivo, fermo restando il richiamo alle grandi tradizioni del movimento operaio.
Ai protagonisti di quei “fraintendimenti dell’etica marxiana” che avevano dato origine agli inveramenti statuali del ‘900 il rimprovero più severo che, probabilmente, è stato loro rivolto è stato quello del “tradimento dell’Utopia”.
Dimenticando che U-topos significa “luogo che non c’è”. Se non c’è, però è soltanto perché non lo si è trovato e, dunque, bisognerebbe continuare a cercarlo, senza far sfoggio di ottimismo ma anche al di fuori dal ripiegamento da un pessimismo passivo.
In esito a questa discussione, preso atto delle grandi difficoltà di espressione delle grandi ideologie che hanno caratterizzato ‘800 e ‘900, forse è il caso di riflettere su alcune categorie probabilmente fin qui non analizzate a sufficienza.
E’ il caso infatti di esaminare la materialità del crollo di molte parti dell’ “involucro politico” dentro al quale abbiamo vissuto le nostre esistenze di militanti.
“L’agire politico”, ben oltre le regole dettate dalla politologia ufficiale,si è infatti trasformato in un confronto ristretto tra l’etica e l’estetica.
Da un lato oggi, almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato, appare, infatti, egemone il rapporto tra l’estetica e la politica.
Un’egemonia che trova le sue fondamenta anche in relazione allo sviluppo di una certa innovazione tecnologica destinata a stravolgere l’utilizzo dei mezzi di comunicazione.
L’estetica intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione pubblica.
Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali portati alla mostra della scena pubblica.
La prospettiva è quella della teatralità della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici.
Si è così valorizzato l’agire comunicativo in luogo di quello strategico.
Una “forma del politico” armoniosa e composta nella cornice da un conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un processo di una gigantesca “rivoluzione passiva” (altri più pratici scriverebbero: le pecore al pascolo).
Un’estetica il cui obiettivo è quello dell’ anestetizzazione del “dolore sociale”, oggi composto da entrambi gli elementi cui si accennava :quello del limite che incontra il dominio umano sulla natura e quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, comprensivo anche dell’ulteriore livello dello sfruttamento di genere (sfruttamento di genere la cui risoluzione avevamo, erroneamente, affidato all’ obiettivo del superamento del capitalismo).
Una “anestetizzazione del dolore sociale” come fenomeno ancora reso più evidente dal frangente dell’emergenza sanitaria che stiamo attraversando.
Un’emergenza che ci ha fatto notare ancora di più la nostra difficoltà di dominio sulla natura e allargato a dismisura il quadro delle disuguaglianze oltre i semplici fattori di reddito.
Il confronto, però, a questo punto non può davvero che avvenire tra l’estetica e l’etica: l’etica intesa come il termine che designa le regole della condotta umana relativamente alla sfera del dovere, di ciò che è giusto/lecito fare, contrapposto a ciò che è ingiusto e/o illecito.
E’ soltanto attraverso il filtro dell’etica che può essere consentito di guardare alla politica attraverso un costante confronto critico.
La nostra tradizione ci dice , però, che i rapporti tra etica e politica non possono essere soltanto necessariamente conflittuali, perché l’etica può ricevere una incarnazione teorica nello Stato (Hegel) o nella classe oggettivamente rivoluzionaria (Marx): nelle forme, cioè, che apparivano mature del divenire storico.
Come abbiamo visto l’esito del ‘900 ha dimostrato che tra Stato e Classe il nodo teorico non è stato risolto.
Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del “governo”cui anche Cacciari si richiama, poiché proprio l’esito del ‘900 ha posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri).
La domanda finale, riguarderebbe il chi espande e tutela i diritti della natura, già così fortemente compromessi da un’antropizzazione esasperata che attraverso la logica del consumo non riconosce più differenze di status e di scansione sociale in una sorta di “omogeneizzazione al ribasso”? Come questi diritti della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali, con quelli della tensione al permanere della diseguaglianza versus la tensione all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano (nell’interrogativo della ricerca di Thomas Piketty in “Capitale e Ideologia”? Come può la politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”?
Le risposte non possono star dentro al vecchio recinto della ricerca sulla priorità delle contraddizioni ma nella ripresa del confronto tra etica ed estetica.
Ricostruire, perché è il caso di ricostruire, l’idea dell’etica pubblica intesa come idea portante dell’esistenza di criteri morali cui dovrebbe ispirarsi l’azione pubblica, l’agire politico,quella “democrazia pubblica” che riguarda la conduzione della vita dei cittadini.
Beninteso una “democrazia pubblica” ispirata non a ideali generici, ma ad un “progetto di società” che riguardi il rinnovato rivolgersi all’Utopia.
L’Utopia può essere ricercata attraverso il conflitto, inteso come solo veicolo per l’avanzamento delle idee sulle quali fondare l’identità dei soggetti destinati a tramutarli in azione, tra i quali stabilire elementi di “etica della collaborazione”.
Una riconnessione , in sostanza, che deve avvenire tra principi ispiratori e pratica corrente: ciò che oggi sembra proprio essere venuto a mancare anche nelle stesse proposizioni di una filosofia politica unicamente legata all’estetica che ci appare non solo egemone ma addirittura dominante in una notte nella quale “tutte le vacche sembrano nere”.
giovedì 2 luglio 2020
mercoledì 1 luglio 2020
Iscriviti a:
Post (Atom)