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martedì 8 ottobre 2019
Franco Astengo: Democrazia
DEMOCRAZIA di Franco Astengo
La riduzione nel numero dei parlamentari accompagnata da vaghe indicazioni su di una nuova legge elettorale (la quarta in 14 anni, compreso l’Italikum mai utilizzato) e da altre modifiche, sia di rango regolamentare sia costituzionale, rappresenta emblematicamente un punto d’arrivo (ancorché probabilmente provvisorio) dell’esplicitazione retorica dell’anticostituzionalismo e dell’antiparlamento.
Quella retorica che ha consentito a soggetti sovranisti e populisti di raccogliere facile consenso fino a insediarsi, pericolosamente sottovalutati, nei gangli del potere.
Ha torto Stefano Ceccanti, inventore del disgraziato slogan sulla “vocazione maggioritaria”, a concordare sul taglio dei parlamentari in nome di una presunta contrarietà a questa espressione di retorica che abbiamo appena descritto, accontentandosi con una buona dose di presunta ingenuità di non meglio precisate “garanzie costituzionali”.
Sul piano teorico non c’è nulla da fare: questo mutamento nella composizione delle Camere in Italia assume assolutamente il significato dell’antiparlamento e, in particolare, del tipo di forma di rappresentanza politica e di rapporto tra questa e il governo come intesa dalla Costituzione Repubblicana.
Un fenomeno che oltrepassa sicuramente il nostro piccolo orticello rappresentato da un Paese sempre più alla periferia dell’Impero.
Anticostituzionalismo, antiparlamento, vocazione maggioritaria, democrazia diretta, uso del web per l’aggregazione e la decisionalità politica: è’ evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente illusori meccanismi sostitutivi della democrazia repubblicana.
Fenomeni che stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S ed è stato parte integrante di quello che fu del PD (R), poi respinto con il referendum del dicembre 2016.
Pare proprio che, alla fine, il confronto sui temi istituzionali e della forma di governo si sia spostato tra una teoria dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che era l’antica visione pluralista.
Attenzione: verticalizzazione del potere, ripetiamo “ad abundantiam” che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo non semplicemente “sociali” (com’era un tempo) ma “personali”.
Sorge forse da qui la crisi della democrazia liberale: sono anche palesi gli interrogativi che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione.
Intendendo beninteso la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il concorso collettivo alla cosa pubblica (e non di più, senza affidare al voto alcunché di salvifico di per sé).
Forse sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede.
Ma quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra epoca.
Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più, come si pensava un tempo, un’ipotesi – limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa.
Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post – modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica /vita e di conseguenza tecnica / politica nella logica del superamento definitivo del confronto delle idee.
Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica.
Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale.
Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento del lavoro, dell’ambiente, di genere.
Si sono così determinate le basi di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.
Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico fondato sulla riduzione drastica della rappresentanza politica.
Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza rispetto all’annunciato declino della democrazia.
Si potrebbe cercare di ripartire analizzando quelle che, parafrasando Rosmini, potremmo definire”le sette piaghe della modernità”: guerre, carestie, malattie, choc climatici, la crisi dell’umanità in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico nell’uso della tecnologia.
Un’analisi che dovrebbe però condurre a una definizione di nuova prospettiva alternativa al presente e rivolta al futuro.
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