Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 28 luglio 2019
sabato 27 luglio 2019
venerdì 26 luglio 2019
Spagna. Sánchez si arrende, non si trova l'accordo Psoe-Podemos - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
mercoledì 24 luglio 2019
martedì 23 luglio 2019
Franco Astengo: Gauche
MODELLI DI LEADERSHIP IN TRASFORMAZIONE: LA GAUCHE POPULISTA DI Franco Astengo
Il numero di Aprile 2019 dei "Quaderni di Scienza politica" contiene un testo di analisi di Marco Damiani e Francesca Piselli con il quale si affronta il tema dei modelli di trasformazione della leadership nell'ambito di un movimento giudicato dagli autori "dalla sinistra al popolo", prendendo a riferimento la figura di Jean Luch Mèlenchon,
Nell'analisi in questione si esaminano i complessi passaggi personali avvenuti nel corso della vicenda politica del leader di France Insoumise, da ministro socialista - appunto - a un movimento dalla "sinistra al popolo" che, nel titolo di questo intervento, abbiamo riassunto come "gauche populista".
In questa sede non si affrontano specificatamente i diversi temi trattati nell'articolo di Damiani e Piselli ma s’intende semplicemente sollevare alcune questioni che dovrebbero interessare coloro i quali ritengono che possa essere ancora affrontato il tema di uno spazio politico per una sinistra sostanzialmente erede della grande tradizione storica del socialismo e del comunismo così come questi si è sviluppata in Occidente in particolare in Italia, con tratti storicamente specifici sia rispetto alle esperienze della socialdemocrazia di governo sia dei sistemi emersi dal ciclo delle cosiddette "rivoluzione avvenute".
La domanda che si pone, in sostanza, è questa: appartiene ancora "France Insoumise" e, in particolare il suo leader Jean Luc Mèlenchon, all'area politica di una "nuova sinistra": può far parte "France Insoumise" di una rinnovata "Union de la gauche" a livello transnazionale?
La risposta probabilmente era già visibile negli schieramenti così come si sono presentati alle recenti elezioni europee del maggio 2019 ,ma è ben approfondire alcuni punti specifici.
Prima di tutto deve essere segnalato come "France Insoumise" risulti strutturata come "partito personale" del tipo moviment - party raccolto attorno alla figura del suo leader: una forma specifica di personalizzazione della politica fondata su di un ben preciso disegno di narrazione.
Un disegno che può ben essere così schematicamente descritto: "France Insoumise" non riconosce più alla classe dei lavoratori la capacità di costruire le premesse egemoniche necessarie al perseguimento di un rinnovato progetto politico.
"Tutto il popolo", e non più una sua parte, viene così individuato come il soggetto protagonista del cambiamento.
Al "popolo", non meglio identificato, è attribuito il ruolo di unico interlocutore di riferimento, cui il leader si rivolge per conseguire i propri obiettivi.
Non emerge insomma molto di diverso dal tanto deprecato "uomo solo al comando".
Il dato che determina più di altri l'elaborazione di questa ipotesi è quello della crescita nell'uso della parola "gente".
Il passaggio da una posizione di sinistra a una posizione di tipo populista si verifica nel momento in cui è dimostrata un'attitudine politica verso la volontà di fare appello a tutto il popolo, non solo alla classe lavoratrice senza elevare la categoria dello sfruttamento a "frattura" interna alla dinamica di classe.
Attraverso questo "appello al popolo" France Insoumise e il suo leader si ergono a difensori dei torti subiti dalla "gens" nel corso degli ultimi decenni. Sotto quest’aspetto i tratti di somiglianza con il M5S dell'era Grillo appaiono senz'altro molto accentuati.
Nella narrazione politica di Mèlenchon emergono così alcuni temi che corroborano il giudizio complessivo che fin qui è stato espresso: prevale l'idea di trasformazione da partito della sinistra a moviment - party di stampo populista. Una trasformazione che si ritiene compiuta proprio nel corso di questi anni da France Insoumise:
1) il passaggio dell'analisi della crisi da crisi "economico - finanziaria" a "crisi della civiltà umana" della quale sarebbe responsabile - semplificando - "la politica" in quanto tale, nell'insieme delle sue espressioni;
2) Il tema della "paura" che diventa centrale in ogni forma di discorso politico, attribuendo al sistema di reggersi proprio sulla "paura" agendo sulla manipolazione delle menti della "gens". Ci troviamo di fronte ad una forte drammatizzazione della situazione in atto utilizzata in forma retorica cui non corrisponde un’adeguata progettualità;
3) Di fronte alla "paura"entra così in gioco la figura del "Salvatore", secondo lo schema proposto da Patrick Charaudeau di interpretazione della retorica dei discorsi populisti. Il "Salvatore" come pedagogo, inteso come colui che salva il "popolo" sia perché decifra e svela le macchinazioni della casta, sia perché si pone come unico attore capace di contrastare il sistema;
4) L'espressione di un sistema di "valori". "France Insoumise" li individua sempre più frequentemente negli ideali patriottici, intesi come amore per la Francia e attenzione per il destino del popolo francese.
In sostanza: "Moviment -Party" a forte personalizzazione; superamento dei riferimenti di classe in favore del rapporto diretto con il popolo mediato da un dialogo diretto con il "Salvatore", "paura" quale sentimento centrale posto al di fuori da qualsiasi ipotesi di progetto di trasformazione; valori nazionalisti.
Pare proprio che a sinistra, nella "krisis" di questi tempi Jean Luc Mèlenchon e la sua "France Insoumise" dovrebbero essere fatti oggetto di attenta analisi e discussione anche all'interno del processo di ricostruzione della sinistra italiana, allo scopo di non generare ulteriori fraintendimenti.
Nell'impostazione del moviment - party di stampo populista emergono rischi di un eccesso di parzialità nella visione storica tali da rendere effimero tutto l'impianto e, di conseguenze, semplicemente declamatori gli atti politici conseguenti in un quadro di sostanziale estraneità con l'idea della storia che dovrebbe appartenere alla sinistra.
lunedì 22 luglio 2019
domenica 21 luglio 2019
venerdì 19 luglio 2019
Franco Astengo: Fabbrica
IL FUTURO DELLA FABBRICA di Franco Astengo
Il massimo ritardo accumulato dalla sinistra nell’uscire dal ‘900 si è verificato sulla capacità di delineare una nuova centralità, diversa da quella della fabbrica fordista.
Attorno alla centralità della fabbrica fordista si era, infatti, incentrata la capacità della sinistra occidentale di definire il possibile modello di sviluppo, l’aggregazione sociale, il rapporto tra idea della trasformazione della società e futuro.
Nel suo numero del mese di luglio “Le monde diplomatique” edizione italiana, dedica un’ampia riflessione su quest’argomento, con il contributo di diversi autori.
L’analisi pubblicata dalla rivista poggia su alcuni presupposti che in questa sede s’intendono semplicemente riprendere con l’obiettivo di estendere il ragionamento per quanto possibile.
Il tentativo è quello di fornire un contributo a un lavoro di ricostruzione di un’identità di sinistra.
Un intervento sull’identità che deve procedere quello di proposta per una soggettività organizzata da costruirsi in modo adeguato per affrontare i profondi cambiamenti avvenuti soprattutto nel primo decennio del XXI secolo sul piano dello scambio comunicativo e di conseguenza politico.
La presunta fine della fabbrica è stata letta da qualcuno come il risultato di un’evoluzione naturale: come una farfalla affiora dalla crisalide così l’economia sarebbe passata spontaneamente dalla fabbrica all’ufficio.
Altri suggeriscono che la deindustrializzazione dell’Occidente si spieghi innanzitutto con una scelta politica di de localizzare gli stabilimenti verso i paesi del sud, meno costosi per il padronato.
L’industria rimane comunque una delle principali fonti di occupazione ma il suo rilancio solleva opposizioni ideologiche, tecniche, ambientali.
L’interrogativo di fondo però rimane uno solo: potrà la sola legge di mercato dare risposte a queste obiezioni?
In Occidente hanno collassato interi rami produttivi, specialmente nel settore tessile, calzaturiero, nella produzione di elettrodomestici, nella chimica, nella lavorazione del legno, della plastica, del caucciù.
A questo proposito abbiamo assistito a trent’anni di inerzia politica: adesso il conto viene presentato con un bilancio assai meno positivo di quanto non fosse mai stato promesso dai fautori della deindustrializzazione.
I governi, forti della loro fede nella libera concorrenza elevata a principio costituzionale dell’Unione Europea, hanno abbandonato dagli anni’80 tutti i propri strumenti di intervento e assistito passivamente all’erosione della base industriale nazionale.
Solo dopo la crisi del 2008, che ha messo in luce l’instabilità finanziaria generata dai gravi deficit strutturali del commercio estero, la necessità di una ripresa produttiva è tornata a preoccupare almeno a parole i poteri pubblici.
La già ricordata inchiesta di “Le Monde diplomatique” cita Schumpeter” : “ Lo stato schiacciato dalla burocrazia e dalla letargia è incapace di stimolare “lo spirito animale dei creatori. Solo il mercato può far emergere menti innovatrici e fornire loro strumenti per realizzarsi”.
In questo senso l’esempio più forte che si può trovare nella storia economica a cavallo tra il XX e il XXI secolo rimane quello della Silicon Valley, che sicuramente non può essere considerata una filiale del governo americano.
Il racconto riguardante lo “spirito del tempo” degli imprenditori californiani omette però un dato di fatto.
Lo ricorda Marianna Mazzucato (Lo stato innovatore . Sfatare il mito del pubblico contro il privato. Laterza 2018).
Mazzuccato ricorda come le maggiori innovazioni tecnologiche degli ultimi decenni sono state raggiunte grazie al finanziamento attivo dello Stato: Internet è stato sovvenzionato da un organismo del dipartimento della difesa statunitense (Defense avances restarci Project agency, Darpa), il GPS (global positioning system) dal programma militare Navstar; la visualizzazione touch screen da due sovvenzioni della CIA (Central intelligence agency) e della fondazione nazionale per la scienza (NSF).
Anche nell’industria farmaceutica, tanto per sviluppare un altro esempio, il 75% delle nuove entità molecolari prioritarie sono finanziate da laboratori pubblici.
Naturalmente le start – up e il capitale di rischio rivestono un ruolo importante ma questo avviene sempre in un secondo momento, ossia quindici o venti anni dopo che i poteri pubblici hanno fornito l’apporto economico maggiore e assunto il maggior rischio.
Dal punto di vista della sinistra si tratta allora di andare a fondo nell’analisi di questo stato di cose.
Si tratta di partire da alcuni dati fatto, riguardanti delocalizzazione e costo del lavoro intesi come fattori della deindustrializzazione dell’Occidente e di conseguenza dell’impoverimento complessivo di una parte fondamentale nell’origine di una prospettiva di sviluppo per il mondo intero.
Nel testo di riferimento per questo intervento si esemplifica attraverso il caso francese, laddove a giocare un ruolo determinante nel fenomeno della deindustrializzazione è stato prevalentemente il costo del capitale e non quello del lavoro, poiché i grandi gruppi hanno distribuito agli azionisti una percentuale sempre più elevata di valore aggiunto a danno dell’investimento e della ricerca.
Trent’anni fa i dividendi rappresentavano meno del 5% della ricchezza creata dall’industria; oggi questa percentuale ha raggiunto il 25%.
A causa delle pressioni degli azionisti, le imprese sono state costrette a rinunciare a progetti di investimento giudicati non sufficientemente redditizi o a realizzare costose operazioni finanziarie interne e a vere e proprie bolle speculative per arrivare alle soglie di redditività richieste.
La causa delle delocalizzazioni e quindi del regredire industriale in Occidente risiederebbe nella voracità dei padroni ormai dedicatisi interamente all’immateriale e alla finanziarizzazione (il caso più clamoroso in Italia rimane quello della FIAT) e non certo alla crescita del costo del lavoro, con i salari praticamente fermi da oltre vent’anni.
Come può essere possibile affrontare questo stato di cose tenendo assieme il quadro di obiezioni presentato all’inizio di questo intervento e tenendo conto che quelle di carattere ambientale stanno assumendo un’urgenza quasi assoluta e appaiono percepite come decisive da parti sempre più consistenti dell’opinione pubblica, in particolare giovanile.
A sinistra si stanno discutendo due opzioni possibili:
a) quella di una proposta di mutamento radicale nei modi di vita, rivendicando la sobrietà contro il consumismo. Una rivendicazione che risulterebbe insufficiente se non si trovasse la capacità di precisare quali categorie sociali sarebbe chiamate a modificare più profondamente il proprio comportamento in nome di un bene comune. Una proposta dalla quale fosse assente un piano di riclassificazione sociale rischierebbe di vanificare gli sforzi legati alla protezione dell’ambiente ma anche all’imposizione fiscale. Se gli ultraricchi emettono dalle trenta alle quaranta volte più gas effetto serra rispetto al 10% dei più poveri, l’attuale tassa sul carbonio pesa quattro volte meno sul reddito dei primi: questa palese ingiustizia provoca il rifiuto generalizzato delle misure imposte. La riduzione delle diseguaglianze diventa quindi la prima condizione di accettazione di una proposta di sobrietà energetica e materiale intesa come condizione essenziale per una modificazione del ciclo di produzione e, di conseguenza, del suo rilancio;
2) A sinistra si collocano anche i sostenitori del “protezionismo solidale” che propongono per esempio delle barriere doganali europee che penalizzino le importazioni dai paesi che non rispettano alcune norme salariali, fiscali ed ecologiche. L’obiettivo sarebbe quello di proteggere le industrie nascenti indispensabili alla transizione ecologica e, soprattutto, al di là della questione industriale, di instaurare un ordine commerciale più giusto ed equilibrato, partendo dal presupposto che – al contrario di ciò che afferma il presidente francese Macron – non è il protezionismo che conduce alla guerra.
I proponenti di queste due opzioni (decrescita per una società sobria, protezionismo solidale) rispondono così alle due domande che ci vengono poste direttamente dalla lettura di queste proposte: quale sarà il peso economico di una industria finalizzata alla sobrietà dei consumi e vincolata da un “protezionismo solidale”? E come reagirà la società nel suo insieme a questa nuova sobrietà materiale ed energetica, e alla trasformazione della produzione e dell’occupazione?
I presupposti per elaborare una risposta a questi interrogativi dovrebbero essere rappresentati dal completamento della proposta attorno a due punti: quello riguardante la protezione dei percorsi professionali dei lavoratori il cui attuale posto è minacciato nel bacino di occupazione o nelle aree circostanti e quello della fine delle forme vigenti di esasperazione del produttivismo e del tecnologismo.
Si tratta di proposte appena abbozzate all’interno di un quadro non ancora completato da una necessaria rielaborazione di una “teoria delle fratture” che intrecci materialismo e post – materialismo.
A questo proposito manca un’analisi compiuta sul valore di “modernità” del capitalismo occidentale, di fronte ai fenomeni di dimensione globale ai quali stiamo assistendo almeno da vent’anni a questa parte con l’entrata in scena di nuovi attori protagonisti a pieno titolo.
Si era scritto di “fine della storia” e di egemonia incontrastata del “neo liberismo”: oggi quella fase sembra conclusa per lasciar posto a una transizione confusa nella quale si ripresentano elementi di pericolosa arretratezza.
Dal nostro punto di vista sul piano del dibattito, se si resta stretti tra “decrescita” e “protezionismo solidale” non si può che non registrare un complessivo arretramento rispetto al livello che sarebbe necessario per poter puntare alla ricostruzione di una sinistra capace di incidere dentro la crisi dei sistemi liberali dell’Occidente.
Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo, infatti, che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”.
Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle prospettive di un nuovo sviluppo industriale.
In Italia, tanto per restare dalle nostre parti, ancora una volta ci si sta muovendo in direzione ostinatamente contraria, recuperando il “peggio” dell’assistenzialismo, e della subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”.
Difficile pensare a una ripresa industriale in queste condizioni.
mercoledì 17 luglio 2019
martedì 16 luglio 2019
lunedì 15 luglio 2019
domenica 14 luglio 2019
sabato 13 luglio 2019
venerdì 12 luglio 2019
giovedì 11 luglio 2019
mercoledì 10 luglio 2019
Franco Astengo: Numero dei parlamentari
NUMERO DEI PARLAMENTARI: UN TEMA DELICATO di Franco Astengo
Seguendo l’iter previsto dall’articolo 138 della Costituzione il Parlamento sta lavorando, su precipuo impulso del M5S, alla riduzione del numero dei membri delle due assemblee legislative: la Camera dovrebbe scendere da 630 a 400 deputati, il Senato da 315 a 200 senatori, complessivamente 600 parlamentari in luogo di 915.
Scopo dichiarato: ridurre i costi.
Una riduzione che farebbe, appunto, leva su di un minor numero di persone presenti nelle aule anziché sulla riduzione dei loro emolumenti.
Non è semplice, e all’apparenza sicuramente impopolare, sottoporre a critica questo provvedimento.
Pur tuttavia è necessario farlo precisando da subito alcuni dati che ignorati potrebbero far passare per verità dei semplici luoghi comuni.
Prima di tutto con questa riforma l’Italia passerebbe, infatti, a uno degli ultimi posti in Europa sul piano della rappresentanza politica in rapporto alla popolazione.
La riduzione del numero dei parlamentari prevista in questo momento porterebbe, infatti, il rapporto tra il singolo parlamentare e la popolazione di riferimento a 1: 151.000. Nel Regno Unito il rapporto è 1: 101.000; in Olanda 1:114.000; in Francia 1:116.000; Germania 1: 116.000; Spagna 1:133.000.
Sono stati citati Paesi di consolidato assetto democratico con una presenza abbastanza ampia sul piano del pluralismo parlamentare (ormai neppure quello del Regno Unito può essere considerato un sistema bipartitico). Paesi che utilizzano diverse formule elettorali, dalla proporzionale pura dell’Olanda, alla proporzionale con sbarramento al 5% in Germania, ai relativamente piccoli collegi della Spagna dove non si recuperano i resti utilizzando il d’Hondt, al doppio turno francese.
Del resto. Seguendo le vicende del sistema politico italiano, al numero dei 630 deputati e 315 senatori non si era arrivati . Dal 1918, infatti, con la crescita della popolazione e l’acquisizione di nuove province (sia dopo la prima, sia dopo la seconda guerra mondiale),il numero dei parlamentari eletti è sempre salito salvo che nell’occasione dei due plebisciti indetti dal regime fascista: in quei due casi (1929 e 1934) il numero dei parlamentari (il Senato era di nomina regia) fu fissato in 400: esattamente il numero previsto dalla riforma caldeggiata dal M5S, come ricorda anche Andrea Fabozzi in suo articolo pubblicato dal “Manifesto”.
In realtà la questione del numero dei parlamentari non dovrebbe riguardare il tema dei costi della politica, come invece agitato dalle mode propagandistiche di questi tempi.
Vale la pena ricordare alcune banalità: il numero dei parlamentari dovrebbe, infatti, essere legato a due questioni assolutamente decisive per il funzionamento di una democrazia complessa come dovrebbe essere quella italiana .Al riguardo della quale, è bene ricordarlo, sono in essere tendenze fortemente semplificatorie al punto da far pensare una situazione già collocata pericolosamente“oltre” quelle tensioni presidenzialiste che pure erano affiorate nel recente passato con l’inasprirsi del peso della personalizzazione della politica, fenomeno veicolato da un uso esasperato della comunicazione mediatica in maniera del tutto distorcente il messaggio generale del dibattito pubblico.
Occorre allora chiarire che affrontare il tema del numero dei parlamentari non dovrebbe essere possibile in assenza di una valutazione complessiva circa il rapporto di popolazione esistente all’interno del collegio e/o circoscrizione; del metodo di elezione (lista bloccata “corta”, uninominale, lista lunga con preferenze, esprimibili in vario modo) e la realtà del sistema politico dal punto di vista della sua capacità di rappresentanza delle diverse “sensibilità politiche” (usando un termine togliattiano) presenti in una dimensione consistente nel territorio nazionale, garantendo anche la presenza delle minoranze linguistiche ed etniche.
La questione deve essere intesa come afferente il sistema elettorale nel suo complesso e non soltanto vista sotto l’aspetto della formula di traduzione dei voti in seggi.
In questo senso appare dunque fondamentale il disegno dei collegi: un punto sul quale, in passato, si erano già sviluppate criticità che portarono a rappresentare elementi dirimenti per il giudizio negativo espresso dalla Corte Costituzionale al riguardo dei ben due leggi elettorali, entrambe bocciate dalla stessa Alta Corte.
Ricordando, infine, come la Costituzione preveda un sistema politico fondato sulla “centralità” del Parlamento, cui il governo è obbligato da un voto di fiducia espresso da entrambi i rami (come confermato dall’esito del referendum del 2016) mentre tocca al Presidente della Repubblica incaricare il Presidente del Consiglio e a controfirmare la lista dei ministri.
Una composizione delle Camere insufficiente dal punto di vista dei riferimenti sia sotto l’aspetto espressione geografica, sia di presenza politica, magari con l’adozione di una formula elettorale maggioritaria che finirebbe con lo schiacciare ancor di più nel senso di una forzatura governativista il lavoro dell’aula (senza dimenticare che esiste anche un problema di regolamenti d’aula e di soglie di garanzia per la presenza delle minoranze) finirebbe con l’inficiare la stessa validità costituzionale di un provvedimento di riduzione numerica sviluppate in maniera meramente semplificatoria.
La questione quindi non è quella dei costi ma di ordinamento delle massime istituzioni rappresentative dello Stato nell’ambito del dettato della Costituzione Repubblicana: e sarà questo il punto da analizzare con il massimo dell’attenzione nello svilupparsi dell’iter parlamentare del provvedimento di riduzione e, nell’eventualità, di una richiesta di referendum al momento dell’approvazione definitiva.
martedì 9 luglio 2019
lunedì 8 luglio 2019
Nikòlas Voulèlis: «La sinistra greca non ha avuto il tempo di fare la sua politica» - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
domenica 7 luglio 2019
Rapporto ILO. I ricchi guadagnano in un anno quanto i più poveri in tre secoli - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
venerdì 5 luglio 2019
Franco Astengo: Migranti
PER LA SINISTRA LA QUESTIONE DEI MIGRANTI E’ QUESTIONE DI IDENTITA’ E DI EGEMONIA di Franco Astengo
Una sola brevissima annotazione sul tema delicato dei migranti.
Su di esso, infatti, si sta misurando per intero la vera e propria estraneità del PD dalla storia della sinistra italiana e l’incapacità di quelli che si ritengono eredi di quella storia di uscire dalla semplice logica della “buona volontà umanitaria” e di saper, invece, proporre una visione strategica.
Nel definire la questione mancano, prima di tutto, una definizione d’identità e una proposta di egemonia misurata nella prospettiva.
Il tema, infatti, non riguarda semplicemente l’accoglienza che si può e si deve realizzare anche attraverso ben diverse modalità organizzative poste in essere dallo Stato e dagli Enti Locali.
La prima definizione d’identità necessaria, a questo proposito, è quella legata alla politica estera: materia totalmente assente da una riflessione di carattere generale – appunto – d’impostazione strategica posta al di fuori della semplice ricerca di protezione dei nostri interessi in campo energetico sullo scacchiere del Medio Oriente.
L’Italia è priva da molto tempo di una politica estera adeguata, oscilla sui punti più delicati della necessaria visione geopolitica globale, pietisce mediazioni esterne su tutti i piani, non riesce a definire un proprio ruolo (se non mediocremente spartitorio) sul punto decisivo dell’appartenenza all’Unione Europea e alle sue prospettive.
Nel frattempo non si è riusciti a sviluppare sulla materia un’adeguata politica interna.
Un’assenza sulla quale si riflette pesantemente l’impostazione data da questo governo di negazione del tema dello sviluppo industriale e di conseguenza del tema del lavoro.
Negazione che si sta realizzando attraverso la proposizione di meccanismi sul cui giudizio non si può prescindere da una valutazione di tendenza all’assistenzialismo in una visione distorta di scambio politico e di “decrescita felice”. “Decrescita felice” in realtà considerata in dimensione opposta da parte della Lega che intende favorire, invece, come in passato visioni di sviluppo produttivo interessanti settori economici ben precisi.
La Lega intende continuare a favorire (partendo dal tema della tassazione) soggetti che operano incentrati sul lavoro nero e l’ipersfruttamento in funzione dell’esportazione di beni di consumo.
In questo quadro i migranti funzionano splendidamente da “esercito di riserva”, senza contare sul loro di oggetto quotidiano di propaganda come dimostrano benissimo le diverse vicende riguardanti le navi delle ONG.
Per una sinistra da ricostruire siamo di dunque di fronte a una questione di identità e di espressione di egemonia non tanto e non solo sul tema specifico delle migrazioni, ma del quadro complessivo che va delineato su uno dei punti fondamenti di una linea: quello riguardante proprio la politica estera.
Serve definire una proposta di politica estera inserita in una visione che tenga finalmente conto del passaggio in corso da anni dal globalismo alla geopolitica con il ritorno di soggetti, come quello dello Stato –Nazione, che si ritenevano in via di assoluta obsolescenza.
mercoledì 3 luglio 2019
martedì 2 luglio 2019
lunedì 1 luglio 2019
Franco Astengo: Democrazia liberale
DEMOCRAZIA LIBERALE di Franco Astengo
La crisi della democrazia liberale, nell’epoca dei sovranismi e dei populismi, è saltata in questi giorni alla ribalta del dibattito internazionale tramite un’intervista rilasciata dall’autocrate russo Putin al “Financial Times” nella quale, l’ex-agente del KGB, ne dichiara la fine a favore delle cosiddette (semplifichiamo per economia del discorso) “democrazie illiberali” del tipo di quella praticata in Ungheria e ipotizzata in Italia, attraverso l’assunzione di un ruolo centrale all’interno del sistema politico da parte della Lega.
Commenta il politologo Yascha Mounk autore di “Il popolo vs. la democrazia” (Feltrinelli) “Il liberalismo inteso come libertà dell’individuo e di scegliere come essere governato va difeso a oltranza. C’è invece una battaglia da fare contro il falso capitalismo mascherato da liberalismo economico che produce ineguaglianza e ingiustizia”.
Sembra quasi di rintracciare, nella replica di Mounk, accenni nell’idea di passaggio dalla “democrazia repubblicana” (dalla Costituzione intesa come punto di non ritorno all’antico stato amministrativo liberale) alla “democrazia progressiva” che fu al centro della proposta della sinistra italiana negli anni difficili del consolidamento democratico post- fascismo.
Esporre le cose in questo modo però finirebbe con il rischiare un eccesso di semplificazione e allora si rende necessario andare meglio nel merito rispetto a ciò che è accaduto nel determinare questa vera e propria crisi della democrazia occidentale.
Siamo entrati, infatti, in una terza fase della democrazia: la prima fase era quella della democrazia dei partiti, capaci di ottenere un consenso di massa intorno alla propria ideologia; la seconda fase è stata quella della “democrazia del pubblico” con i leader che prevalgono sui partiti e il rapporto di fiducia personale tra il Capo e il pubblico della TV generalista scalza le ideologie. La terza fase è quella (definizione di Ilvo Diamanti) “ibrida” realizzata attraverso l’ingresso sulla scena di Internet che ha finito con il miscelare democrazia diretta e democrazia rappresentativa. La semplificazione “tranchant” imposta dall’uso di Internet nel dibattito politico ha poi fatto prevalere la semplicità delle “impressioni diritte” fra le quali la logica della paura, quella che determina nazionalismo e razzismo, ha finito con l’assumere una dimensione addirittura egemonica.
In base all’analisi di questi cambiamenti può prefigurarsi una deformazione della democrazia, nel senso di uno smarrimento dei tratti identitari, pur conservando intatte le forme della democrazia novecentesca configuratesi attraverso il rito elettorale.
Il risultato è quello di uno svuotamento di senso progressivo e di depotenziamento.
Si aprirebbero (anzi si sono già aperti) varchi per avventure autoritarie e per lo strapotere delle lobbie in quadro di tecnocrazia dominante retta attraverso l’idea (fagocitante) dell’uomo solo al comando.
Si verificherebbe, in sostanza, l’affermarsi di tre negative condizioni: quella tecnocratica, quella populista, quella plebiscitaria, riducendo la cittadinanza ad audience passiva del capo carismatico.
Si otterrebbe così il risultato di una sorta di riunificazione tra rappresentanza e governabilità in una sorta di “simbiosi” del potere con l’estinzione dei corpi intermedi tra la società e la politica.
Da dove partire, allora, per modificare questo tipo di pericolosa prospettiva?
Prima di tutto sarà necessario stabilire i punti sui quali attestare una vera e propria “resistenza”partendo dalla diffusione del dibattito culturale sul tema della democrazia.
I soggetti politici residui devono attrezzarsi per riprendere quella funzione pedagogica abbandonata il tempo della trasformazione del partito di massa.
In secondo luogo va recuperato il concetto pieno di “partito”, quale “parte” che si occupa presentemente dell’interesse di ceti sociali ben precisi e, nello stesso tempo, offre al dibattito collettivo un’idea di una società alternativa, fondata sul recupero dei principi andati smarriti nel percorso tra democrazia del pubblico e democrazia ibrida.
Non si deve avere timore, a questo proposito. di rialzare anche qualche bandiera lasciata cadere nel fango dalla borghesia, purché si abbia saldo l’orizzonte che abbiamo davanti: in questo senso dovrà verificarsi anche il recupero di un’ideologia che si contrapponga all’ideologia dominante dell’individualismo, del corporativismo, del governo separato completamente dalle istanza sociali.
Agire in questo modo all’interno della società attuale potrebbe apparire uno sforzo inutile, circondati come siamo da un dominante “pensiero unico”.
Il nostro motto deve essere per davvero “Resistenza” avendo consapevolezza delle grandi difficoltà nelle quali ci troviamo: allora se “Resistenza” deve essere, vale la pena di rimettere assieme una visione del futuro del mondo, una capacità di cogliere l’emergenza delle contraddizioni sociali, la strutturazione di una forma d’intervento politico fondato essenzialmente sulla partecipazione e la militanza.
Da questi punti di principio risaltano poi gli elementi concreti di contrasto alla deriva in atto; il rifiuto della personalizzazione esasperata partendo da una capacità complessiva di governo nell’insieme del delicato sistema dei media; la difesa della centralità del Parlamento; la fondatezza di un pluralismo politico basato sulla capacità di lettura e d’interpretazione della complessità delle fratture sociali: una legge elettorale fondata sulla proporzionale nell’idea del privilegio della rappresentanza sulla governabilità.
Iscriviti a:
Post (Atom)