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mercoledì 24 aprile 2019
Alberto Benzoni-Paolo Borioni: Lo spazio della socialdemocrazia
Da Mondoperaio, aprile 2019
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, Il socialismo democratico poteva, almeno così sembrava, considerare definitivamente e pacificamente chiusa, per abbandono dell’avversario, la sua partita con il comunismo. Mentre era stato accettato dal capitalismo come partner favorito: in un gioco che vedeva il primo libero di crescere secondo le esigenze dell’economia che erano anche quelle delle società e il secondo libero di redistribuire le risorse a vantaggio di tutti e quindi anche dei ceti più deboli.
C’erano, ovviamente, in questo schema una serie di falle ben note e su cui avremo presto l’occasione di tornare. Mentre mancava, invece, qualsiasi riferimento al “popolo”, come parola e come cosa, nella certezza che le classi subalterne dovessero essere automaticamente rappresentate e financo definite da quelle forze politiche abilitate, da sempre, a rappresentarle.
Così è curioso che nei decenni del secondo dopo guerra, la parola “popolo”non compaia quasi mai nel nostro frasario rituale; se non nella veste di “popolo lavoratore” , dove l’aggettivo fa chiaramente premio sul sostantivo. Al suo posto il “Movimento operaio” (meglio con la maiuscola e l’acronimo); “le masse”, oggetto di particolare attenzione se “cattoliche”,affidate a particolari uffici se di nostra competenza; e poi i “ceti medi produttivi”, gli “intellettuali organici”, la “borghesia riflessiva” e via discorrendo; in un rapporto di dare e avere all’insegna dell’”io ti difendo e tu rispondi ai miei appelli”.
In realtà, come illustra un po’ schematicamente il titolo di questa nota, ci saranno voluti circa cento anni, a partire da quello fatidico della rivoluzione francese, perché il socialismo di Marx e di Engels assumesse la guida del popolo; una conquista che non sarà definitiva nel tempo e che non interesserà, per una serie di ragioni oggettive che non è qui il caso di ricordare, che determinate aree del mondo. Mentre il suo successo sarà il frutto di circostanze storiche specifiche e di una scommessa sul futuro tutt’altro che scontata.
Agli inizi dell’età contemporanea c’è il popolo. Quello di Rousseau e di Herder come espressione dell’autentico e del profondo in alternativa alle astrazioni superficiali dell’illuminismo. Quello di Michelet e dei cantori della rivoluzione francese come alternativa morale, politica ma anche fisica ed esistenziale al vecchio mondo della monarchia fondata sul diritto divino e del privilegio. Quello di Mazzini e dei populisti, soprattutto russi come sorgente di verità e luogo di riscatto.
Questo popolo ha anche, come dire, una terribile e meravigliosa “fisicità alternativa”fatta di scontri diretti in cui non si danno mediazioni: dalle “giornate”della rivoluzione francese, alle barricate simbolo della sollevazione periodica contro l’ordine costituito in un arco di tempo che va dalle giornate di luglio fino alla comune di Parigi; dalle grande adunate cartiste alle rivolte dei popoli oppressi; sino al mito dell’azione diretta del proletariato agricolo e industriale che sfocerà nella Grande sera da cui è destinato a nascere il Nuovo mondo.
Un’epoca, un secolo che si chiude, però con una serie di grandiose ma anche dolorose e sanguinose sconfitte( ci riferiamo all’Europa continentale e al suo “occidente”e, in particolare a quella latina). Un’epoca di “eccidi proletari”. E, a coronare il tutto, il sogno della “Grande sera” diventerà l’incubo della Grande guerra.
Sarà, allora, la seconda internazionale, quella di Marx ma soprattutto di Engels, a tenere viva la speranza di un “mondo altro” ma a rimettere ordine nel cammino: la prospettiva di medio-lungo periodo al posto dell’Evento risolutore; leadership e organizzazione al posto della spontaneità spesso irrazionale; gradualità e via parlamentare al posto delle rivolte carsiche; creazione concreta di nuovi strumenti di autogoverno e dei quadri atti a gestirle; ricerca di consensi e degli strumenti multiformi per ricondurre l’Avversario sul terreno del dialogo e del rispetto della legalità; e, nella stessa logica, costruzione di un internazionalismo insieme solidale e pacifista
Al fondo di tutto, il rifiuto della violenza individuale e collettiva e, soprattutto, della guerra. Sarà questo, in tutto l’arco del tempo, a definire la base stessa dell’identità socialista: nel passato rispetto a democrazie fortemente interventiste rispetto agli stati e agli imperi rappresentativi dell’ordine costituito; e, dal 1917 in poi, rispetto al comunismo marxista-leninista.
Un viaggio lungo il suo, lungo e difficile, e con il duplice e sempre incombente rischio di essere travolti e marginalizzati nel caso di crisi violenta del sistema o di perdere la propria identità nel caso di un suo aggiustamento pacifico e in una prospettiva di lungo termine.
In questo quadro, la prima guerra mondiale avrà sulle fortune del nostro progetto un impatto esattamente opposto a quello della seconda. I socialisti non riusciranno ad impedirne lo scoppio (vista retrospettivamente, una “mission impossibile”) ma sapranno, invece, ben presto (cosa che si tende a dimenticare) a separare le loro ragioni e le loro speranze da quelle dei due alleanze in contrasto. E, se non saranno in grado, dal 1916 in poi, di imporre una pace seguendo il modello wilsoniano, non sarà per non averci tentato in ogni modo. Successivamente, la loro lettura dell’antifascismo in chiave pacifista nocquerà non poco alla loro rilevanza e al loro prestigio; ma non sino al punto di annacquarne l’identità o di pregiudicarne il futuro.
Naturalmente, lungo tutto il corso di quei due travagliati decenni, nessuno si sarebbe minimamente sognato di definire il ventesimo secolo come secolo socialdemocratico; a dominare il campo e a prefigurare il futuro essendo semmai lo scontro tra le due grandi ideologie totalitarie mentre, sul piano economico, i messagi di Keynes e di Beveridge cercavano ancora la forza politica in grado di farne una bandiera.
Sarà, allora, la seconda guerra mondiale a collocarci, di nuovo, nel senso della storia e a consolidare, in modo apparentemente definitivo, il nostro mandato di rappresentanti, non solo delle classi subalterne ma di ceti sociali sempre più vasti.
E questi per un insieme di fattori che spingono tutti nella stessa direzione.
C’è, in primo luogo, la doppia rappresentazione della seconda guerra mondiale (guerra ideologica, e quindi giusta, per definizione). Un conflitto della democrazia contro il totalitarismo, il che valorizzava il ruolo della socialdemocrazia come alternativa al comunismo. Ma anche la grande guerra antifascista il che collocava in primo piano il socialismo nella lotta contro gli interessi conservatori. E anche in questo caso dalla parte dei vincitori.
C’è la scoperta della centralità dello stato nazionale come garante della continuità di un processo di inclusione economica, sociale e democratica. Che poi fossero i socialisti a realizzare, in questa prospettiva, le indicazioni di due pensatori liberali come Keynes e Beveridge garantiva al loro disegno un livello di consenso che andava ben al di là dei loro confini confermando così la necessità storica del loro percorso.
E, a supportare il tutto, l’era dei consumi di massa e dell’espansione apparentemente senza limiti della domanda; e un quadro internazionale che, dalla morte di Stalin in poi, vedeva il mondo dei conflitti e dei disordini allontanarsi sempre dal nostro continente.
Gli anni della svolta saranno, allora, quelli a cavallo tra gli anni settanta e ottanta. Agli inizi, il possibile avvento del socialismo; negli anni ottanta l’avvio di un generale disarmo ideologico-intellettuale.
Si comincia con la convinzione, suffragata peraltro dai fatti, che l’avanzata incominciata nei primi anni del dopoguerra (generale espansione del ruolo dello stato e del pubblico alimentata da una fiscalità progressiva) abbia raggiunto limiti invalicabili; e che quindi occorra cominciare a “ritirarsi su posizioni prestabilite”. Riconoscendo, contestualmente, anche se ancora a mezza bocca, le ragioni dei propri avversari: sarà il passaggio di Mitterrand dal “cambiamento della vita” all’ortodossia economico-finanziaria, sarà la denuncia del manifesto elettorale di Foot come “l’annuncio di suicidio più lungo del mondo”, sarà la fine degli anni di Brandt, sarà la rivoluzione craxiana e il corrispettivo passaggio del Pci dal comunismo al moralismo.
Nulla di male nel ritirarsi, naturalmente: purché non si perda di vista il proprio avversario e non ci si privi degli strumenti atti a combatterlo. Mentre è proprio questo che avviene negli ultimi decenni del novecento. Per dirla in sintesi, il capitalismo rompe i confini dello stato nazionale rinnegando, con ciò, i vincoli e le regole che reggevano il “compromesso democratico”con il suo antagonista socialista senza che questo se ne accorga predisponendo le adeguate contromisure. Se c’era una fase della storia in cui, parafrasando Nenni, occorreva “internazionalizzarsi o perire”il socialismo manca totalmente all’appuntamento, chiudendosi ancor di più nei propri ristretti confini nazionali: il grande Evento del 1989 apparterrà, nella sua interpretazione e nella sua successiva gestione, agli altri.
Ultima tappa, la resa. Che nei paesi di antica tradizione socialdemocratica non implicherà il passaggio, armi e bagagli, nel campo dell’avversario; mentre nei partiti iperideologizzati dell’Europa latina (pensiamo, in particolare alla Francia e all’Italia) si configurerà come vera e propria abiura.
La nemesi verrà dopo. Nel secondo decennio del nuovo secolo. Quando il popolo subirà in pieno gli effetti di una crisi tutta interna al nuovo capitalismo finanziario, oramai privo di qualsiasi controllo e non troverà al suo fianco i suoi tradizionali referenti; per essere vittima, nel periodo successivo, di una serie di misure di austerità liberista cui avranno aderito, con entusiasmo, coloro cui aveva affidato i suoi interessi e le sue speranze.
Non è una sconfitta. E’ una perdita di senso e di identità. Tale da rendere il nostro messaggio e le nostre stesse parole vuote e incomprensibili; e da coinvolgere nel nostro disastro anche le formazioni della sinistra radicale e lo stesso populismo di sinistra.
A riempire il vuoto, a rispondere al senso di abbandono di un popolo informe perché formato da una massa di esclusi, sarà allora il populismo di destra: sua l’unica narrazione semplice e convincente del disastro, sua l’invenzione del Nemico, sua la capacità di “essere popolo”, sue le risorse derivanti dall’appoggio dell’”amico americano, sua soprattutto la sua capacità di porsi al centro di un mondo caratterizzato, insieme, dall’ordoliberismo, e dal disordine segnato dalla totale mancanza di regole condivise.
E i socialisti? Più di cento anni fa, i promotori della grande avventura del socialismo democratico avevano bene in mente i pericoli insiti nel loro percorso: da una parte il loro riassorbimento da parte del sistema; dall’altra l’impazzimento del medesimo che li avrebbe trascinati con sé. Nel corso degli ultimi trent’anni abbiamo vissuto, in sequenza, ambedue le vicende.
Che fare allora ?
La prima ineludibile tappa è quella di ridefinire la nostra identità e il nostro ruolo a partire dalla conoscenza del mondo che ci circonda.
E qui, non a caso, abbiamo dedicato, a partire dal titolo di questa nota, grande attenzione al rapporto tra socialismo e popolo. Un popolo che non “ci appartiene”per diritto divino o in virtù del processo storico; e nemmeno per i meriti acquisiti. Ma nella misura in cui sapremo tenere fede al percorso che gli abbiamo indicato per la sua emancipazione. Un percorso basato sulla centralità dello stato democratico e sulla “missione del pubblico”e, nel contempo, sulle organizzazioni collettive garanti dell’autonomia delle classi subalterne . Con, a saldare e garantire il tutto, un internazionalismo attivo a sostegno della pace.
Una strategia oggi più valida che mai: in un mondo e in un’Europa segnati, ad un tempo dai disastri dell’ordoliberismo e da un progetto alternativo sotto il segno di un populismo di destra di carattere propriamente eversivo. Ma anche una strategia che abbiamo abbandonato lungo la strada; e proprio nel momento in cui era più necessaria .
Se è così, il populismo è conseguenza e non causa della nostra uscita dalla scena. Non hanno quindi alcun senso né giustificazione le nostre reazioni paranoiche nei suoi confronti. E men che meno la nostra disponibilità a dire sì senza se e senza agli appelli a serrare i ranghi che vengono da un’Europa collettivamente e politicamente inesistente nei confronti di un nemico ad un tempo terribile ma , insieme, indefinito, in una notte in cui tutte le vacche sono grigie.
E invece il significato di “sovranismo”e di “populismo”va attentamente definito. Nel primo caso, ricordando agli immemori che il “sovranismo”non è una dottrina ma la semplice rivendicazione del diritto di ogni popolo- e aggiungeremmo di ogni collettività- di decidere liberamente del suo destino.
In quanto poi al populismo non si tratta assolutamente di una novità sgorgata dagli abissi. Ma di un fenomeno presente, in modo endemico e/o epidemico in tutto il mondo: diventando, peraltro, cultura egemonica nei momenti di crisi della democrazia liberale e delle sue istituzioni ( e qui l’esempio estremo della Germania degli anni trenta rimane d’obbligo).
E aggiungiamo subito che, in assenza della sinistra- in Europa e altrove- il populismo assume oggi- ancora come negli anni trenta- un carattere di destra. Perché basato sulla caccia permanente contro il nemico esterno e interno: i migranti, i diversi, i difensori dei principi della democrazia liberale, la Russia, l’Islam e quant’altro. Perché volutamente silente sul ruolo dello stato e sul conflitto sociale. E infine perché sempre più nettamente schierato con il “partito americano”nella sua lotta contro i difensori della sovranità nazionale e del ruolo autonomo dell’Europa. E basti, a questo riguardo, pensare alla recenti scelte di Salvini, autonominatosi anello di congiunzione tra Trump e i suoi referenti europei.
Così stando le cose, i socialisti devono rifiutare l’alternativa fasulla tra l’Europa di oggi e i populisti: né con il partito americano che vuole distruggere l’Europa per quello che è stata e per quello che potrebbe essere né con le sue dirigenze attuali “forti con i deboli deboli con i forti”.
Occorre distinguere il populismo come cultura politica dal populismo come fenomeno storico. In comune con il primo il socialismo può avere convergenze, slogan e qualche tecnica comunicativa. Ad esempio il “chi non lavora non mangia” sulle bandiere rosse conteneva un secolo fa elementi di populismo che si avvicinano molto a Podemos, nato per il “pueblo indignado” contro i profittatori di una finanziarizzazione vissuta come predatoria (e in gran parte realmente tale) la cui ricchezza non nasce da “autentico lavoro”. Lo slogan di Corbyn (“for the many not the few”) anche esso è un discendente molto legittimo di questa tradizione. Corbyn riscopre nel socialismo l’unica forza da opporre ad un capitalismo che non intende di per sé mai civilizzarsi una volta per tutte. Perché questa è l’evidenza dei lustri recenti: Dopo decenni di riformismo efficace (la socialdemocrazia rettamente intesa) e dopo anni di tecnicismo evirato ed acquiescente (la terza via) è ben chiaro che il capitalismo non è mai civilizzato e razionalizzato una volta per tutte. Se la cultura socialista deve laicizzarsi, dinamizzarsi e sempre rinnovarsi non è (come alcuni hanno creduto) per divenire social-liberale o ordo-liberale, ma perché il capitalismo è incivile in modi sempre nuovi e va riformato in modi sempre nuovi. E il populismo di ciò è un effetto inevitabile. Ciò riporta al populismo come cultura politica e al populismo come fenomeno storico: il socialismo sa (ho comunque avrebbe gli strumenti per capire) che il fenomeno populista è uno dei modi in cui le comunità reagiscono agli effetti negativi di un capitalismo non riformato (questo ha detto Polany dei fascismi, e lo avrebbe ripetuto oggi, mutatis mutandis).
Insomma, il socialismo deve essere terzo, distinto, rispetto sia al capitalismo, sia alle sue patologie. È il suo compito, oggi come negli anni 1930. Le socialdemocrazie nordiche di quegli anni vinsero anche perché la organizzazione “della classe” (mai negata, nemmeno oggi)avvenne dentro la ricostruzione generale del “popolo”, che la crisi avrebbe potuto condurre pericolosamente lontano. Avvenne rifiutando di abbattere i salari per esportare a tutti i costi (il legno-carta svedese o il bacon danese) e invece proponendo ai ceti agrari di recuperare con la domanda interna la quota esterna che la crisi mondiale decurtava. Così il socialismo divenne “partito della classe” (mai angustamente “di classe) ma anche “partito del popolo”. E lanciò anche obbiettivi e slogan “populisti”: in Svezia si parlò di Folkhem (casa del popolo) strappando lo slogan alla destra e facendone un obbiettivo nazionale, ma non geopoliticamente organicista come avrebbero voluto a destra. Molto simile il ricorso al popolo anche in Danimarca (“la Danimarca per il popolo”) con l’aggiunta della campagna in cui nei manifesti si mostrava il leader Stauning e lo slogan “Stauning o il caos!”. Attuando una profonda riforma del capitalismo, la “ricostruzione del popolo” in un momento di pericolo disgregativo e di nazismo alle frontiere (con numerosi ammiratori interni dei fascismi) non è affatto una pratica aliena al socialismo.
Naturalmente, una strategia di questo tipo può svolgersi solo in un contesto esterno neutro, se non favorevole. Un elemento che è stato ben chiaro a tutti i leader socialisti nell’arco di tempo che separa la formazione della Seconda internazionale dalla caduta del muro di Berlino. Dopo, siamo stati travolti dalla grande illusione occidentalista; il che ci ha portato a chiuderci tranquillamente all’interno lasciando tutto il resto alla superiore saggezza dell’Europa, del capitalismo globalizzato e, in ultima analisi, del suo stato guida; tra l’altro molto più esigente e invasivo di quanto fosse ai tempi ai tempi della guerra fredda.
Una scelta che noi, e assieme a noi l’Europa, abbiamo pagato caramente; perché la nostra assenza ha aperto la strada ad un mondo in cui noi stessi e il nostro continente stiamo pagando i prezzi e di un ordine ingiusto e di un disordine assolutamente distruttivo.
E qui ripartire non significa schierarsi. Ma capire da subito che la difesa di ogni sovranità- per definizione democratica- implica necessariamente il sostegno attivo di un movimento volto a modificare un ordine mondiale insieme ingiusto e basato su conflitti senza limiti e senza regole.
In questo quadro il problema dell’Europa è assolutamente centrale. In negativo perché questa Europa è fondata su regole e su politiche che, bloccando sul nascere qualsiasi strategia di espansione della domanda interna, negano, di riflesso i diritti della democrazia e il valore stesso del suffragio universale; in positivo perché cambiare l’Europa significa ricreare una forza e uno spazio essenziali per la creazione di un ordine mondiale degno di questo nome.
Mission impossibile ? Almeno così ci dicono i sacerdoti dell’ordine attuale e quelli che con una purezza ideologica miope confondono la forma ( i trattati che non possono essere cambiati e così) con la sostanza della politica, ponendoci nell’alternativa del diavolo tra il subire e l’andarsene. Mentre noi proponiamo delle battaglie politiche, a livello locale ed europeo sul merito delle scelte attuali e di quelle possibili. Nella convinzione che lo scontro politico sulle cose sia di per sé fonte di ogni possibile cambiamento.
Siamo, oggi, in una condizione opposta a quella in cui si trovarono i nostri maggiori nel secondo ottocento, Allora si trattava di indirizzare grandi forze già di per sé concretamente in movimento per rovesciare l’ordine costituito. Oggi abbiamo tutte le idee “ a posto”; mentre non riusciamo a vedere le forze disponibili a portarle avanti.
Ma non dobbiamo perderci d’animo per questo. Perché la nostra è esattamente la condizione in cui si trovò la nuova destra – insieme liberista e populista- verso la metà degli anni sessanta, negli Stati uniti dominati dalla cultura rooseveltiana, arricchita da quella dei diritti civili; un ciclo che sembrava auto propulsivo e che invece crollò, dando inizio ad una oscillazione del pendolo che, a sua volta, sembra inarrestabile.
Ma i cicli finiscono, prima o poi. E anche questo, che lo si creda o no, sta finendo; a partire dal mutamento di segno delle reazioni popolari in particolare nel mondo anglosassone. E, in questa fase, si tratterà semplicemente di esserci: perché l’alternativa sarà, puramente e semplicemente, quella tra socialismo e barbarie.
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