Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
giovedì 28 febbraio 2019
mercoledì 27 febbraio 2019
martedì 26 febbraio 2019
Franco Astengo: Numeri Sardegna
SARDEGNA 2019: NUMERI ELETTORALI di Franco Astengo
Non è andata delusa l’attesa di quanti aspettavano l’esito delle regionali sarde di domenica 24 febbraio per verificare l’andamento del “trend” nazionale del voto, dopo il test abruzzese che aveva fornito indicazioni rilevanti.
Prima di tutto va fatto notare come le elezioni regionali mantengano un appeal inferiore a quello delle elezioni politiche facendo registrare, nella generalità dei casi, un calo di partecipazione al voto tra le diverse tornate: segnale importante sotto questo aspetto per quel che riguarda le Europee di maggio. Normalmente le elezioni europee risultano le meno frequentate da elettrici ed elettori, ma nel caso delle prossime consultazioni si verificherà anche la capacità di traino di un turno amministrativo di un certo rilievo e ne constateremo l’effetto.
In Sardegna, a differenza dell’Abruzzo, invece tra i due turni di elezioni regionali (2014 – 2019) si registra un lieve incremento nelle espressioni di voto.
Andando per ordine: nell’occasione delle elezioni politiche del 2018 erano iscritti 1.368.471 elettrici ed elettori e si registrarono 869.000 voti validi; in precedenza nelle elezioni regionali 2014 gli aventi diritto risultavano essere 1.480.322 con 737.305 voti validi per i candidati presidenti e 682.022 voti validi per le liste. Lo scrutinio delle regionali 2019 , sulla base di 1.470.401 iscritte/i nelle liste, ha fatto registrare 759.819 voti validi per i candidati- presidente e 704.943 voti validi per le liste. Nei 5 anni intercorsi fra le due elezioni regionali abbiamo avuto quindi un incremento di 22.514 nell’espressione di suffragi per i candidati – presidenti e di 22.921 per le liste.
Nel 2014 il presidente Pigliaru fu eletto con 312.982 voti pari al 21,14% del totale degli aventi diritto, nel 2019 Solinas è stato eletto presidente con 363.485 voti pari al 24,72%. Un incremento del 3,58%.
Esaminiamo allora l’andamento delle diverse candidature a Presidente.
Come è già stato fatto rilevare Solinas è stato eletto con 363.485 voti: nel 2014 il candidato del centro destra Cappellacci era stato sconfitto con 292.395 voti. L’incremento del candidato di centro destra tra il 2014 e il 2019 è stato dunque di 71.090 voti.
Sul versante del centrosinistra Pigliaru era stato eletto presidente nel 2014 con 312.982 voti: Zedda nel 2019 è stato sconfitto con 250.355 voti, per una flessione di 62.627 voti.
Grande interesse si era dimostrato attorno alla candidatura Desogus presentata dal Movimento 5 stelle, candidatura per la quale non sono possibili raffronti con il 2014 poiché in quell’occasione il Movimento 5 stelle non era presente.
In questo caso il solo confronto possibile diventa allora quello con il voto delle elezioni politiche 2018. Il 4 marzo 2018 il Movimento 5 stelle (Camera dei deputati) ottenne 369.196 voti. Il 24 febbraio 2019 la candidatura Desogus ne ha avuti 85.046, mentre la lista del M5S ne ha ottenuti 68.461. Un calo rispettivamente di 284.123 e di 300.735 unità. Una flessione così rilevante che nel caso specifico non può essere attribuita all’astensione: tra il 2018 e il 2019 il calo dei voti validi è stato (raffrontati i voti dei candidati – presidenti) di 109.181 unità. Ne consegue che la perdita dei voti accusata dal Movimento 5 stelle si è diretta verso altri soggetti: in questo caso l’esito delle elezioni sarde dimostra come la volatilità elettorale abbia colpito il Movimento in dimensioni che si potrebbero definire di “smottamento strutturale”.
Per le altre candidature presentate nell’occasione un raffronto può essere eseguito con quella del candidato Pili, presentatosi nel 2014 sostenuto da 3 liste e nel 2019 dalla sola lista “Sardi Liberi” con un calo di 24.673 unità.
Presenti anche le candidature Maninchedda con 25.474 voti, Murgia 13.331 e Lecis con 4.515.
Esaminiamo allora l’andamento delle diverse liste.
Già scritto del M5S in calo rispetto alle politiche di 300.735 unità. Per fornire un’idea sul piano percentuale, riferendoci al totale degli iscritti nelle liste alle politiche 2018 il M5S aveva ottenuto il 26,97% , percentuale scesa dodici mesi dopo al 4,65%. Un flessione del 22,32%.
L’analisi del campo del centro destra indica per la Lega una flessione tra le politiche 2018 e le regionali 2019 (anche la Lega come il M5S non era presente nelle regionali 2014) da 93.771 voti a 80.068, un meno 13.703 suffragi.
Da considerare però la presenza del Partito Sardo d’Azione (che esprimeva il candidato presidente, poi eletto). Il Psd’az non era presente alle politiche 2018 (le sue candidature erano interne al centro destra) e ha realizzato un notevole incremento tra le regionali 2014 e quelle 2019 passando da 31.886 voti a 69.816 ( più 37.930). Dato che naturalmente altera l’esito delle altre formazioni di centro destra.
Forza Italia registra una rilevante flessione sia rispetto alle Regionali 2014, sia rispetto alle Politiche 2018 passando da 126.327 voti (regionali 2014) a 128.503 ( politiche 2018) fino a 56.450 (regionali 2019), oltre il 50% del proprio elettorato.
Fratelli d’Italia conferma invece la crescita fatta registrare tra le regionali 2014 e le politiche 2018 quando era passato da 19.275 a 34.963 voti sostanzialmente confermati (33.323) il 24 febbraio 2019. Un indice di consolidamento che si evidenzia in tutte le diverse tornate elettorali di questa fase per questa formazione.
L’UDC sarda cala tra le due elezioni regionali ma nel 2019 cresce rispetto alle politiche 2018: da 51.923 (2014) a 12.584 (2018) a 26.049 (2019).
Il centro destra sardo aveva presentato alle regionali 2014 tre liste locali di sostegno, cresciute a 5 nel 2019: complessivamente i voti sono passati da 69.938 a 99.139 fornendo sicuramente un incremento di rilievo alla candidatura rivelatasi vincente.
C’era molta attesa nel campo del centro sinistra per verificare il dato di tenuta del PD e l’apporto che avrebbero fornito le cinque liste di sostegno alla candidatura Zedda, sindaco di Cagliari eletto a suo tempo al di fuori dalle liste del PD.
Nonostante una rilevante flessione il PD si è affermato con il partito di maggioranza relativa nell’isola raccogliendo 94.818 voti. Nel 2014 erano stati 150.492 poi scesi nel 2018 a 128.884. Il calo tra il 2014 e il 2019 è stato quindi di 55.674 suffragi (si ricorda che tra la candidatura Pigliaru e quella Zedda sono mancati 62.627 voti.). Per fornire un’idea più approfondita del valore assoluto della maggioranza relativa nella misura conseguita dal PD è il caso di ricordare che la percentuale rapportata al totale degli iscritti (e non dei voti validi) è stata del 6,44%, con un indice di frammentazione molto elevato a dimostrazione di una fragilità congenita del sistema nel suo insieme.
Tra le liste di appoggio della candidatura Zedda sarebbe necessario distinguere tra quelle dichiaratamente di orientamento a sinistra e quelle che più propriamente potevano essere definite come “civiche”.
A sinistra, infatti, possiamo collocare LeU, Campo Progressista e Progetto Comunista: queste tre liste hanno conseguito complessivamente 52.405 voti. Nel 2014 Sel ne aveva avuto 35.376, PRC e Comunisti Italiani (che in questa occasione hanno sostenuto la candidatura Lecis) 13.982, una lista del PSI 9.518, una lista IDV – Verdi 7.551. Difficile eseguire comparazioni se non fornire l’impressione di un ulteriore calo delle liste di sinistra nell’ambito del centrosinistra. Una lista di Cristiani Popolari Socialisti ha ottenuto 9.542 voti, mentre le liste che possono essere definite come più propriamente civiche hanno avuto in totale 55.778.
Nell’insieme rispetto alle Regionali 2014 dove il centro sinistra aveva avuto (come liste) 289.663 voti con il PD che ne rappresentava il 51,95% nel 2019 lo stesso schieramento ha avuto 212.933 voti dei quali il PD ne ha rappresentato il 44,52%. Si può quindi parlare di una flessione complessiva con un sistema di alleanze articolato ma non in grado di affrontare il calo ma soltanto di contribuire a contenerlo.
Da rimarcare ancora come il Partito dei Sardi abbia ottenuto più voti del suo candidato alla presidenza 26.006 contro 25.474, la lista di Autodeterminazione che alle politiche 2018 aveva ottenuto 19.307 voti è scesa a 13.311 ( la candidatura di Andrea Murgia poco sopra con 13.381).
Rifondazione Comunista – Sinistra Sarda si è fermata a 4267 voti (con la candidatura Lecis a 4.515) mentre Potere al Popolo alle Politiche 2018 aveva ottenuto 7.885 suffragi e, ancora, la lista PRC – Comunisti Italiani presente nelle Regionali 2014 all’intero del centrosinistra di Pigliaru ottenne 13.982 voti. Una discesa evidente nell’espressione di voto della sinistra d’alternativa.
I rilievi più evidenti, alla fine, possono essere così riassunti.
1) Si conferma la minore appetibilità delle elezioni regionali rispetto alle politiche ma in Sardegna tra il 2014 e il 2019 si registra un lievissimo incremento nella partecipazione al voto;
2) Il centro destra si afferma grazie soprattutto alla forza dei suoi soggetti organizzati. La presenza del Partito Sardo d’Azione impedisce di comprendere meglio la forza di sfondamento potenzialmente rappresentata dalla Lega anche in quelle che un tempo erano considerate “parti bus infidelium”. Forza Italia prosegue nel suo regresso mentre si consolidano i Fratelli d’Italia;
3) Il centro sinistra offre segni di vitalità anche se, almeno nello specifico delle regionali sarde, il PD appare meno centrale nello schieramento. Si nota nello schieramento di centro sinistra l’assenza di soggetti organizzati ma su questo punto sarà necessario riflettere in caso di elezioni generali;
4) Come già scritto all’interno del testo quello del M5S può essere definito, a questo punto uno “smottamento strutturale”. Difficile trovare altra definizione per una perdita, in due regioni come Abruzzo e Sardegna (tutto sommato periferiche) di circa mezzo milione di voti in due tornate elettorali svoltesi a distanza ravvicinata.
5) Non si sfugge, come già fatto rilevare, ad una impressione di debolezza complessiva dei soggetti che compongono il sistema, non solo in Sardegna, e di riapertura di una fase di transizione e di ricerca di equilibri non ancora definiti . Il calo del M5S contribuisce molto a costruire questa incerta possibilità. Diventa difficile pensare anche ad un ritorno verso il bipolarismo classico centro destra – centro sinistra. E’ il caso comunque di ricordare che le elezioni sarde sono state elezioni locali destinate ad eleggere Presidente e Consiglio di quella Regione. Non va mia dimenticata, insomma, la specificità di ogni turno elettorale.
lunedì 25 febbraio 2019
domenica 24 febbraio 2019
Franco Astengo: Giustizia
GIUSTIZIA di Franco Astengo
Non può non preoccupare la concezione della giustizia che emerge dalle dichiarazioni rilasciate dal segretario della Lega e Ministro dell’Interno dopo aver visitato in carcere un detenuto condannato in via definitiva, dopo i tre gradi di giudizio, per tentato omicidio dopo aver sparato a un ladro che aveva provato a rubargli del gasolio.
Oggi è in discussione al Parlamento una legge che introduce automatismi all’articolo 52 del codice penale sulla difesa legittima e sull’articolo 55 sull’eccesso colposo.
In pratica si cerca di far prevalere costituzionalmente il diritto di proprietà rispetto a quello riguardante la vita umana, un tema di enorme delicatezza anche perché presenta risvolti molto particolari.
Ad esempio in casi di proteste sindacali con occupazione di proprietà: in quel caso ci sarebbe l’autorizzazione a sparare per difendere – appunto – la proprietà, magari anche da parte di terzi delegati o chiamati a sorvegliarla?
Insomma: la polizia sarebbe autorizzata a sparare su eventuali pacifici occupanti di una qualche azienda che protestano per serrate e/o licenziamenti che magari cercano di utilizzare i macchinari per mandare avanti la produzione?
Il pericolo che si determina, in questo modo, è certamente quello di uno stravolgimento dell’ordinamento giudiziario ma soprattutto di un “rovesciamento etico”: quanto di più significativo come testimonianza dell’“arretramento storico” che si sta verificando non tanto sul piano politico ma su quello – molto più complicato – della convivenza civile e dell’idea stessa di “difesa della proprietà” considerata ormai come un fortino assediato da difendere a colpi di pistola “fai da te”.
venerdì 22 febbraio 2019
giovedì 21 febbraio 2019
mercoledì 20 febbraio 2019
Franco Astengo: Industria
FEBBRAIO 2019 : Drammatico crollo dell’industria italiana di Franco Astengo
Riprendiamo i dati dall’articolo di Claudio Conti apparso su Contropiano.
Ogni qual volta i dati ISTAT segnaleranno il progressivo disastro dell’industria italiana sarà il caso di rammentare ragioni e cause di questa situazione denunciando come da molto tempo non si ravveda volontà di affrontare la questione: errori di impostazione complessiva, pericolosa tendenza all’assistenzialismo propagandistico, deficit tecnologico strutturale, insostenibili squilibri territoriali.
Il peggior crollo produttivo dell’industria italiana dal 2009, quando stramazzò “soltanto” del -5%.
“Il fatturato totale diminuisce infatti “in termini tendenziali” (ossia considerando un anno) del -7,3%, con un calo del -7,5% sul mercato interno e del -7,0% su quello estero. Una conferma, oltretutto di due condizioni strutturali entrambe negative: a) il mercato interno non è in grado di assorbire la produzione per via dei bassi salari e dell’elevata disoccupazione, b) i mercati stranieri non “trainano” più, e quindi paghiamo pesantemente l’aver accettato di trasformare buona parte della nostra attività industriale in “produzione conto terzi” per le filiere tedesche, tutte orientate all’esportazione. Filiere che oggi pagano anche loro l’austerità imposta tramite l’Unione Europea (tutto il mercato interno continentale soffre alla stessa maniera) e i primi danni della guerra commerciale di tutti contro tutti aperta con il passaggio – causato da una crisi ultradecennale – dalla “globalizzazione” alla competizione globale.
I dati Istat pubblicati stamattina dovrebbero costringere tutti a rivedere le proprie idee – pregiudizi indotti, in realtà – su come funziona l’economia sotto il segno dell’ordoliberismo mercantilista di matrice teutonica. Ma non avverrà. Più semplice prendersela con la coglionaggine del governo di turno (che in effetti non ci sta capendo molto) o, come in modo inaudito continua a fare Confindustria, con il “costo del lavoro troppo alto” (siamo già arrivati al lavoro gratuito, che cavolo voglio ancora?).
Più in dettaglio. A dicembre 2018 il fatturato dell’industria è diminuito “in termini congiunturali” (cioè rispetto al mese precedente) del 3,5%. Nel quarto trimestre l’indice complessivo ha registrato un calo dell’1,6% rispetto al trimestre precedente.
Ma la situazione non è affatto passeggera. Se guardiamo infatti agli ordinativi – la produzione dei prossimi mesi – si registra una diminuzione sia rispetto al mese precedente (-1,8%), sia nel complesso del quarto trimestre rispetto al precedente (-2,0%).
Anche qui, il calo mensile del fatturato riguarda sia il mercato interno (-2,7%) sia, in misura più accentuata, quello estero (-4,7%). Peggio ancora per l’immediato futuro: la flessione degli ordinativi è infatti la sintesi di un incremento delle commesse provenienti dal mercato interno (+2,5%) e di una fortissima contrazione di quelle provenienti dall’estero (-7,4%). Chi aveva puntato solo sulle esportazioni (tutto il sistema industriale italiano) si trova oggi sull’orlo dell’abisso.
Non c’è peraltro un solo settore in controtendenza. A dicembre tutti i raggruppamenti principali di industrie segnano una variazione mensile negativa: -1,8% i beni di consumo, -5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e addirittura -9,7% l’energia.
Sempre con riferimento al fatturato annuale, tutti i principali settori di attività economica registrano cali tendenziali drammatici. I più giganteschi riguardano i mezzi di trasporto (-23,6%), l’industria farmaceutica (-13,0%) e l’industria chimica (-8,5%).”
Ecco il seguito per non dimenticare: il nostro moderno “Delenda Carthago”
.
Si è discusso molto in questi mesi d’intervento pubblico in economia e alcuni hanno proprio accennato alla ricostituzione di un soggetto tipo – IRI, all’interno del quale concentrare le risorse di una rinnovata iniziativa pubblica in grado di avviare una ripresa di capacità industriale del Paese.
Rammentato il quadro generale nel quale ci stiamo muovendo caratterizzato dai vincoli europei, dall’enormità del debito pubblico e dalla presenza di un governo che da un lato si muove sul terreno dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza) e di una nuova ondata di privatizzazioni (cioè in pieno regime di confusione) è il caso di riprendere alcuni di questi temi.
La storia dell’IRI nelle sue tre fasi: dal 1933 l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in vita e non sciolto (com’era stato deciso anche all’ENI e al CONI,prima posti in liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e credito (banche).
Poi dagli anni’70 la fase dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione d’imprese private realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.
Negli anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, l’UE imposte di trasformare l’IRI in s.p.a.
Fin qui il Bignami ma è necessario toccare il punto di maggior interesse al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica.
La fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni concomitanti:
1) L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
4) Si segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.
Sono questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi.
Sarà soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe affrontata in questa dimensione.
Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale è avvenuto il tracollo della presenza industriale in Italia.
Come abbiamo ricordato e qui ripetiamo:
Oggi ancora una volta ci si sta muovendo in direzione osticamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro” oltre all’elargizione degli 80 euro.
Forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase artigianale.
Oggi verrebbe da scrivere che siamo ben infilati dentro il tunnel.
martedì 19 febbraio 2019
lunedì 18 febbraio 2019
Franco Astengo: Ancora sulle Regioni
ANCORA SULLE REGIONI di Franco Astengo
Il sistema politico italiano attraversa una fase di vera e propria “crisi verticale”, caratterizzata dall’assenza di rappresentatività complessiva dei soggetti che lo compongono e dalla presenza di fortissime tensioni autoritarie collocate ben oltre il concetto di “democrazia esecutiva e/ o illiberale” oggi in auge in diverse parti d’Europa.
La testimonianza migliore di questa difficoltà è rappresentata dalla presenza italiana come quella della Lega nell’attrezzarsi di un’alleanza di estrema destra in vista delle elezioni di maggio per il Parlamento di Strasburgo.
Nel frattempo è scoppiato il caso della cosiddetta “autonomia differenziata” richiesta da alcune regioni italiane, governate sia dalla stessa Lega sia dal PD.
Un altro segnale di contraddizione stridente e di crisi.
La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un forte dibattito su questo tema: al momento i tre disegni di legge che avrebbero dovuto recepire la bozza d’intesa nel merito sono stati bloccati, a causa di forti divisioni all’interno della compagine di governo.
Nel corso della discussione si è posto però il problema della natura costituzionale del provvedimento. Chi scrive ha cercato nei giorni scorsi di affrontare questo punto delicatissimo attraverso un minimo di ricostruzione storica partendo dall’esplicitazione del concetto di “decentramento amministrativo“ così come elaborato nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente.
Adesso però è il caso di affrontare più direttamente il punto politico, partendo proprio da una valutazione della già richiamata gravissima crisi istituzionale che sta presentandosi all’interno del sistema politico italiano, sia sul fronte – appunto – dell’assetto interno, sia della politica estera.
In questo secondo caso, quello relativo alla politica estera, ci troviamo addirittura in una situazione di “supplenza” esercitata dallo stesso Presidente della Repubblica (tema da affrontare anche perché ci troviamo di fronte all’ennesimo tornante di una trasformazione di ruolo del Presidente della Repubblica rispetto a quello previsto dai dettami della Carta Costituzionale).
All’interno di questo quadro di grandissima difficoltà si distingue un vero e proprio “buco nero” rappresentato dal fallimento dell’ipotesi di decentramento dello Stato imperniato sull’Ente Regione che oggi è affrontato esattamente alla rovescia rispetto a ciò che servirebbe proprio dalle Regioni economicamente e socialmente più forti.
E’ già stato ricordato come la nascita delle Regioni, prevista nella Costituzione e poi fortemente richiesta dalle sinistre, in particolare nella fase del primo centrosinistra negli anni’60, e fortemente ritardata dalla DC per timore che il Partito Comunista dimostrasse, in quel modo, la propria capacità di governo fu realizzata soltanto all’inizio degli anni’70 (diversa ovviamente la storia delle Regioni a Statuto Speciale): le prime elezioni per i Consigli Regionali si svolsero, infatti, il 7 Giugno del 1970.
Gli elementi portanti della crisi attuale sono sorti, principalmente, nel corso della legislatura 1996-2001 con il centrosinistra al governo del Paese, attraverso l’adozione di due provvedimenti rivelatisi del tutto esiziali: l’elezione diretta del Presidente (da allora denominato da una stampa di basso profilo come Governatore) e il cedimento alle istanze “storiche” della Lega Nord attraverso la modifica (tecnicamente sbagliata e approvata dalla sola maggioranza) del titolo V della Costituzione realizzando così una sorta di né carne, né pesce tra decentramento e devolution.
La forte spinta che la Lega Nord aveva portato fin dalla fine degli anni’80 prima sul terreno della “secessione” e dell’indipendenza e poi della “devolution” aveva così portato la sinistra, in particolare quella ex-PCI, a tradire la propria solida tradizione autonomistica che pure, negli anni’70 del XX secolo, alla guida delle più grandi città aveva dato prova di “buon governo”.
Una fase di vero e proprio cedimento e subalternità culturale chiusasi con l’affrettato cambiamento del titolo V della Costituzione (2001), preceduto appunto dalla modifica del sistema elettorale.
L’elezione diretta del Presidente della Regione e la modifica del titolo V della Costituzione hanno rappresentato gli elementi portanti di un fenomeno di tipo degenerativo che oggi si presenta in tutta la sua gravità: quello della trasformazione dell’Ente Regione dalla funzione legislativa e di coordinamento amministrativo a soggetto esclusivamente adibito a compiti di nomina e di spesa.
L’elezione diretta del Presidente di Regione ha, infatti, finalizzato per intero l’attività dell’Ente al progetto di rielezione dell’uscente oppure di un suo delfino favorendo l’elargizione a pioggia delle risorse, distribuendo le nomine per vie neppure partitiche ma di corrente o di “cerchio magico”, esaltando la logica di scambio all’interno stesso dell’Ente.
Hanno poi fatto registrare un fallimento clamoroso quei comparti affidati per intero alla gestione regionale: in particolare la sanità e i trasporti e adesso si starebbe cercando di far passare la competenza esclusiva su di un altro pezzo fondamentale come quello dell’istruzione pubblica.
Si è elevato alla massima potenza il deficit, i servizi sono paurosamente calati di qualità, il clientelismo (in particolare nella sanità) è stato elevato vieppiù a sistema.
Fattori non esclusivamente legati alla conduzione delle Regioni hanno inoltre determinato un ulteriore allargamento delle disuguaglianze sociali in diverse parti del Paese ed è questo un punto d’intervento politico completamente trascurato e che si sta pensando di risolvere, per quanto riguarda la situazione del Sud, con un rilancio in grande stile dell’assistenzialismo.
Le Regioni sono assolutamente da ripensare in quanto Enti. Un ripensamento che non può certo verificarsi sul piano semplicisticamente propagandistico della cosiddetta “autonomia differenziata”.
L’Ente Regione rappresenta un vero e proprio “buco nero” nella crisi del sistema politico italiano ricordando anche che è rimasto in piedi il valore costituzionale delle Province confermato da un largo voto popolare che ne ha bocciata la riforma nell’ambito del (fallito) progetto di revisione costituzionale del PD (R).
domenica 17 febbraio 2019
sabato 16 febbraio 2019
Franco Astengo: Regioni e Costituzione
REGIONI E COSTITUZIONE di Franco Astengo
La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un forte dibattito sul tema dell’autonomia differenziata delle Regioni, così come chiesto da Veneto, Lombardia, Emilia Romagna: al momento i tre disegni di legge che avrebbero dovuto recepire la bozza d’intesa nel merito sono stati bloccati, a causa di forti divisioni all’interno della compagine di governo.
Nel corso della discussione si è posto però il problema della natura costituzionale del provvedimento.
In una sua intervista rilasciata a “Repubblica” l’ex-presidente della Corte Costituzionale Onida ha interpretato il progetto come momento di attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, così come questo era stato modificato con la riforma del titolo V avvenuta nel 2001.
Un punto di grande interesse perché, esaminandolo, ci consente di tornare a verificare quel tipo di riforma eseguita all’epoca dal governo di centro sinistra con il solo scopo di “inseguire”, in una certa misura, la Lega (in allora “Nord”) sul suo terreno: una riforma costituzionale poi giudicata come svolta in maniera affrettata e incompleta.
In quest’occasione però cercheremo di sviluppare un discorso riguardante l’ipotesi che al riguardo dell’istituto regionale fu portata avanti in sede di Assemblea Costituente.
Un punto di premessa: alla Costituente le Regioni erano considerate come soggetti di “decentramento amministrativo”, questo indirizzo è stato poi modificato proprio nell’occasione della già citata riforma del titolo V, dopo una fase nella quale erano apparse forti le spinte alla “devolution”.
Il decentramento amministrativo è stato introdotto nel 1948 con la Costituzione Italiana, in cui viene esplicitamente citato all'articolo 5, come principio alternativo e opposto al principio dell'accentramento amministrativo.
Il più ampio decentramento amministrativo viene realizzato concretamente attraverso l'attribuzione delle relative funzioni a organi diversi da quelli centrali, ovvero gli enti locali. Sebbene costituzionalmente previsto, il decentramento avvenne in maniera graduale e progressivo, in tema si ricordano la legge 16 maggio 1970, n. 281, la legge 22 luglio 1975, n. 382 e il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112. ]
Le istanze regionaliste e federaliste avevano trovato ampia espressione nel Risorgimento italiano: Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari furono i principali sostenitori dello Stato federale.
Si ricorda, nei primi anni dell’Unità d’Italia, un progetto “Minghetti” di «discentramento amministrativo» che prefigurava l'istituzione di un ente intermedio tra Province e Stato, il «consorzio interprovinciale», le cui competenze comprendevano: 1) lavori pubblici; 2) scuole pubbliche superiori; 3) bonifiche fondiarie, caccia e pesca. Per quanto riguarda gli organi direttivi, come la provincia aveva un consiglio ed era guidata da un organo monocratico (il prefetto), così il consorzio interprovinciale sarebbe stato guidato da un «Governatore» con poteri effettivi, concepito come "delegato del ministro dell'Interno".
Nel 1864, quando emerse la necessità di realizzare le prime statistiche nazionali sociali ed economiche, si dovette ovviare alla mancanza delle regioni. Il primo coordinatore della statistica nazionale, Pietro Maestri, superò il problema "ritagliando" delle circoscrizioni territoriali "secondo la loro coesione topografica". Il Maestri, cioè, non eseguì il suo lavoro basandosi su criteri storici, ma effettuò un puro e semplice raggruppamento di province. L'autore, inoltre, sostenne che la propria ripartizione aveva valore provvisorio, nell'attesa che i criteri di ripartizione fossero meglio precisati.
Nel 1870 Alfeo Pozzi pubblicò il manuale L'Italia nelle sue presenti condizioni fisiche, politiche, economiche, monumentali, un libro per le scuole. Le 14 "Circoscrizioni di decentramento statistico-amministrative" elaborate dal Maestri divennero, dopo l'aggiunta del Veneto, 15 "Regioni". Il lavoro di Maestri, che fino ad allora era stato diffuso solamente tra gli specialisti, divenne noto al grande pubblico. Però Maestri non era citato nel libro, quindi i lettori attribuirono a Pozzi anche l'ideazione delle 15 regioni. Il suo manuale incontrò un'enorme fortuna in tutte le scuole del Regno di ogni ordine e grado. In virtù del consenso che circondò l'opera del Pozzi, questa denominazione ebbe un riconoscimento ufficiale nel 1913: nell'Annuario Statistico Italiano 1912 (Roma, 1913) i 15 compartimenti di Pozzi vennero definiti per la prima volta "Regioni".
Con il regio decreto del 13 dicembre 1923 il governo fissò le circoscrizioni elettorali in previsione delle elezioni politiche del 1924. Le regioni individuate furono 16, poi ridotte a 15 per l'inclusione del Sannio nella Campania.
La successiva legge elettorale (15 febbraio 1925, n. 122) abolì la suddivisione del territorio nazionale in circoscrizioni. Il regime fascista arrivò a sopprimere addirittura le autonomie locali, facendo dipendere i comuni e le province direttamente dall'esecutivo centrale.
Nell’assemblea costituente la seconda sottocommissione fu incaricata di elaborare gli articoli relativi all'organizzazione costituzionale dello Stato. Tra i suoi compiti figurò anche la stesura dell'elenco delle regioni. Ne furono eletti Presidente Umberto Terracini (PCI) e segretario Tomaso Perassi (PRI).
Quando la Seconda Sottocommissione iniziò ad affrontare l'argomento, si trovò davanti due opzioni distinte: a) un testo, redatto dal Comitato dei Dieci (un comitato di coordinamento), che riproponeva la ripartizione “tradizionale” (quella in uso dall'inizio del secolo e confermata in occasione del Referendum istituzionale del 1946, appena un anno prima l'inizio dei lavori); b) un insieme di mozioni relative all'istituzione di nuove regioni oltre a quelle “tradizionali”. Quelle più consistenti riguardavano.
al Nord: Friuli (si chiedeva l'autonomia dalla Venezia Euganea); Emilia appenninica (la parte del Ducato di Modena che si affacciava sul mare Tirreno, accorpata alla Toscana dopo l'Unità d'Italia); Romagna (autonoma rispetto all'Emilia);
al Centro: Sabina (si chiedeva l'autonomia dal Lazio);
al Sud: il Sannio (si chiedeva l'autonomia dalla Campania); il Molise (autonomo rispetto all'Abruzzo); il Salento (autonomo dalla Puglia).
Il risultato fu che, all'elenco delle regioni tradizionali, se ne aggiunsero quattro: Friuli, Emilia appenninica, Molise e Salento. Inoltre, “Romagna” fu giustapposto a Emilia per comporre la nuova denominazione “Emilia e Romagna”. Le altre istanze non superarono l'esame del Comitato dei Dieci.
Successivamente si aprì la discussione generale dell'Assemblea sul Titolo V. Tra le prime decisioni dei costituenti vi fu l'attribuzione dell'autonomia regionale alla Sicilia (e, di conseguenza alla Sardegna) e alla Valle d'Aosta.
L'Assemblea fu chiamata a votare il 29 ottobre Quel giorno, inaspettatamente, venne sottoposto ai deputati costituenti non l'elenco approvato il 31 gennaio, ma quello “originale”, cioè la versione precedente Il fatto sollevò una vivace disputa giuridica: una parte dell'Assemblea considerò illegittima la sostituzione operata dal Comitato dei dieci. Furono presentati due ordini del giorno:
Targetti, Cevolotto e Grieco proposero la votazione dell'elenco delle 14 regioni a statuto ordinario;
De Martino, Codacci Pisanelli ed altri proposero invece di non inserire in Costituzione l'elenco delle regioni, ma di demandarlo alla legislazione ordinaria
I regionalisti si schierarono con la prima mozione, individuandola come la più rappresentativa della 'causa' della Regione. Essi posero inoltre una pregiudiziale sull'ordine del giorno opposto. L'Assemblea votò sulla pregiudiziale: i sì prevalsero sui no per un voto.
In pratica, non fu introdotta nessuna innovazione rispetto all'ordinamento già esistente ai tempi della monarchia. Semplicemente, le "Circoscrizioni di decentramento statistico-amministrative" furono promosse a Regioni.
L'elenco delle regioni fu licenziato dalla Seconda sottocommissione il 30 ottobre.
Il 22 dicembre 1947 il testo fu votato dall'Assemblea, diventando così l'articolo 131 della Costituzione, che fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato De Nicola il 27 dicembre seguente, e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 298, edizione straordinaria, dello stesso giorno, entrando in vigore il 1º gennaio 1948.
Le autonomie speciali furono coperte dall'art. 116 della nuova Costituzione italiana. La XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione previde che l'Assemblea Costituente avrebbe dovuto decidere in materia di statuti regionali speciali (oltre che di legge elettorale del Senato della Repubblica e legge sulla stampa) entro il 31 gennaio 1948. In virtù di questa previsione, il 26 febbraio 1948 vennero promulgate le leggi costituzionali contenenti gli statuti in questione, in deroga al procedimento ordinario di approvazione di una legge costituzionale previsto dall'art. 138 della Costituzione stessa: leggi costituzionali 26 febbraio 1948, nn. 2, 3, 4 e 5. La vicenda della Venezia Giulia, essendo parte di un difficile contesto internazionale, troverà soluzione solamente nel decennio successivo.
L'elenco delle regioni a statuto ordinario sarà aggiornato nel 1963, quando verrà aggiunto il Molise, che diventerà così la ventesima regione italiana (Legge Costituzionale 27 dicembre 1963 n. 3).
La scelta di allora fu sicuramente quella del decentramento amministrativo, opposta a quella dell’accentramento ma diversa da quella dell’autogoverno che in una qualche misura oggi si reclama e che, a giudizio, dei contrari porterebbe a rischio addirittura l’unità nazionale o almeno un’Italia (vestita da arlecchino).
Aver riepilogato, anche se in maniera molto schematica, il tipo di dibattito che sull’argomento si era svolto in Assemblea Costituente, può non essere stato inutile in questo momento nel quale appare molto forte (non soltanto su questa materia) il rischio di scelte avventate e ispirate da un’angusta visione politica dettata dalla propaganda.
venerdì 15 febbraio 2019
giovedì 14 febbraio 2019
mercoledì 13 febbraio 2019
martedì 12 febbraio 2019
lunedì 11 febbraio 2019
Franco Astengo: Abruzzo, numeri elettorali
ABRUZZO. NUMERI ELETTORALI di Franco Astengo
Le elezioni regionali svoltesi domenica 10 febbraio in Abruzzo erano molto attese da tutti gli addetti ai lavori con l’obiettivo di misurare i nuovi rapporti di forza tra i partner di governo, così come i vari sondaggi stavano indicando da tempo.
L’attesa non è andata delusa ma, come sempre, è bene procedere a una valutazione più attenta svolta sulla base delle cifre assolute e non semplicemente attraverso le percentuali.
In ogni caso ci troviamo di fronte ad un altro dato di forte volatilità elettorale verificatasi sia all’interno del perimetro della coalizione di centro destra, sia in uscita da parte del Movimento 5 stelle e del PD.
Il risultato della coalizione di centro sinistra deve comunque essere valutato tenendo conto della presenza di un numero considerevole di liste locali.
Iniziamo però dalla partecipazione al voto.
Il numero dei voti validi è risultato, infatti, in netto calo rispetto alle occasioni precedenti.
Le elettrici e gli elettori iscritti nelle liste risultavano 1.211.204 a fronte di 1.211.678 nelle elezioni regionali del 2014 (un dato sostanzialmente stabile). Nelle elezioni politiche il dato degli aventi diritto deve essere depurato dal numero di elettrici ed elettori iscritti all’estero:per questo motivo nelle liste dei comuni abruzzesi, al 4 marzo 2018, risultavano iscritti 1.045.163 unità.
In ogni caso il calo nella partecipazione al voto appare piuttosto evidente.
Nelle urne delle elezioni regionali 2014 furono, infatti, depositati 691.492 voti validi per l’elezione del Presidente e 672.467 destinati alle liste; con le politiche 2018 questo numero risultò in crescita fino a 760.188. Il 10 febbraio 2019 abbiamo avuto 624.482 voti validi per i candidati – presidente e 595.644 per le liste.
Tra le elezioni regionali 2014 e quelle 2019 il calo è stato di 67.010 unità per i presidenti e di 78.623 per le liste. Tra i voti validi espressi nelle elezioni politiche del 2018 e quelli espressi per le liste delle regionali 2019 il calo è di 164.544. Percentualmente nel 2014 i voti validi per i presidenti furono il 57.06% mentre per le liste il 55,49%. La percentuale dei voti validi alle politiche 2018 fu del 72,73%. Regionali 2019: per i presidenti 51,55%, per le liste 49,17%, al di sotto del 50%.
Il primo punto da valutare quindi è quello dell’aumento della disaffezione al voto: si tratterà di stabilire, da questo punto di vista, quanto risultino poco attrattive le elezioni regionali oppure quanto pesi in certi strati di elettorato l’assenza di un’adeguata offerta politica.
Passiamo allora all’esame dei voti espressi, cominciando da quelli per i candidati presidenti.
Il candidato eletto per il centro destra, Marsilio, appoggiato da 5 liste ha ottenuto 299.499 voti. Nelle elezioni 2014 il candidato Chiodi, appoggiato da 4 liste (la Lega, allora Nord, non era presente) registrò 202.346 suffragi. L’incremento è stato dunque di ben 97.603 voti. Percentualmente, esaminando però il dato sul totale degli iscritti e non dei voti validi il candidato del centro destra ha ottenuto: nel 2014 il 16,69%, nel 2019 il 24,76%. In sostanza il presidente della Regione Abruzzo è stato eletto da meno di un quarto degli aventi diritto.
Dato di rilevante flessione per la candidatura a presidente avanzata dal centro-sinistra. Nel 2014 D’Alfonso (appoggiato da 8 liste) fu eletto con 319.887 voti. Nel 2019 il candidato Legnini è stato sconfitto con 195.394 voti, una flessione di 124.493 suffragi. In percentuale, sempre sul totale degli iscritti e non dei voti validi, il candidato del centro sinistra ebbe, nel 2015, il 26,40% mentre nel 2019 la percentuale si è abbassata al 16,13%. Una flessione superiore al 10%.
Il movimento 5 stelle ha candidato sia nel 2014, sia nel 2019 Sara Marcozzi: nel 2015 i voti ottenuti furono 148.035 , quattro anni dopo la quota si è abbassata a 126.165 suffragi, con un meno 14.987. In percentuale: 2015 12,21%, 2019 10,41%
L’attenzione degli osservatori e degli addetti ai lavori era però tutta concentrata sul risultato del Movimento 5 stelle in relazione a quello ottenuto in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo 2018.
Principiamo allora da lì l’analisi dell’andamento delle liste, seguendo i passaggi possibili tra l’esito delle Regionali 2014, le Politiche 2018 e le Regionali 2019.
La lista del Movimento 5 stelle alle Regionali 2014 ottenne 141.152 voti, una cifra impennatasi nelle Politiche 2018 fino a 303.006 unità e ridiscesa bruscamente a 117.386 voti nel 2019. La perdita tra le politiche del 2018 e le Regionali del 2019, in meno di dodici mesi, è stata di 185.620 voti e rimane comunque in flessione anche il dato del rapporto i voti del 2014 e quelli del 2019 con un calo di 23.766 suffragi. In percentuale, sempre riferita al totale degli iscritti, il M5S è passato dal 11,64% al 28,99% e ancora al 9,69%. Si può quindi parlare, almeno per quel che riguarda la Regione Abruzzo, di declino incipiente: resta da stabilire quanto abbia pesato un’eventuale debolezza nelle candidature locali oppure quanto stia incidendo la situazione generale caratterizzata dal ruolo di governo assunto dal Movimento Stesso.
L’altro fenomeno fortemente atteso era quello rappresentato dal sicuro, almeno secondo i sondaggi, incremento realizzato dalla Lega.
Anche in questo caso le attese non sono andate deluse: ovviamente il raffronto riguarda soltanto quanto avvenuto nelle politiche 2018 e nelle Regionali 2019. Nelle Regionali 2014, come è già stato ricordato, la Lega non era presente.
Il 10 febbraio 2019 si è verificato, prima di tutto, il rovesciamento nei rapporti di forza all’interno del centro destra tra la Lega e Forza Italia. Se il 4 marzo 1918 Forza Italia, sia pure a fatica, aveva mantenuto una supremazia, il 10 febbraio 2019 si è delineato un quadro completamente diverso.
Forza Italia che alle Regionali 2014 aveva realizzato 112.316 voti mantenendo, nelle politiche del 2018, un dato sufficientemente stabile con 110.427 voti ha praticamente dimezzato con le regionali 2019 scendendo a 54.068 voti.
Dal canto suo la Lega è salita da 105.449 voti nel 2018 a 164.086 nel 2019. In sostanza tra il 2018 e il 2019 Forza Italia ha perso 56.359 voti, mentre la Lega ha incrementato di 58.637 unità, quasi una partita di giro. Se consideriamo nell’ambito del centro destra come FdI sia cresciuto sia pure di un minimo tra il 2018 e il 2019(da 37.605 a 38.412) così come l’UDC (dal 16.688 a 17.179) con 19.406 al movimento civico Azione Politica,si può ben affermare che il successo del centro destra si sia verificato soprattutto in ragione della stabilità del proprio elettorato, spostatosi in quota molto rilevante dal voto a Forza Italia a quello verso la Lega e non soffrendo dell’aumento dell’astensioni ma neppure ricevendo quote significative da altri schieramenti. Il voto alle liste di centro destra (diverso come abbiamo visto il voto rivolto al candidato Presidente) si può definire un voto di conservazione con uno spostamento di leadership. Quanto il voto abruzzese, sotto quest’aspetto, avrà valore al riguardo del quadro nazionale sarà questione da verificare nei prossimi giorni, ma il segnale sembra proprio inequivocabile.
Discorso diverso per quel che concerne il centro sinistra presentatosi con all’interno anche la sinistra di LeU e un tentativo di ripresa di presenza dell’Italia dei Valori.
La perdita rilevante di voti fatta registrare dalla candidatura a Presidente coincide con un calo molto netto da parte della lista del PD.
Nel 2014 la lista del PD aveva fatto registrare 171.520 voti, scesi alle politiche a 108.549 e ridotti alle regionali del 2019 a 66.344. Un calo tra il 2014 e il 2019 di 105.176 unità. In percentuale sul totale degli aventi diritto il PD scende dal 14,15% al 10,38% sino al 5,47%. Si potrebbe affermare che il PD paga, come del resto il Movimento 5 stelle, l’aumento della non partecipazione.
Il fronte del centro sinistra però fa registrare un altro elemento al quale prestare grande attenzione: quello della presenza di liste civiche al fianco della lista principale.
Nelle elezioni 2014 le due liste “Regione Futura” e “Valore Abruzzo” avevano ottenuto complessivamente 47.830 suffragi (voti rivelatisi completamente di natura locale, perché come abbiamo visto la lista PD era poi calata tra le Regionali e le Politiche). In quest’occasione, 2019, tre liste Abruzzo in Comune, Abruzzo Insieme e la lista Legnini Presidente- Abruzzo Futuro hanno ottenuto complessivamente 72.246 voti colmando però solo parzialmente il deficit del PD.
Si può però affermare che l’abbassamento nel totale dei voti validi abbia colpito maggiormente il Movimento 5 stelle: senza voler anticipare alcuna affermazione riferita al quadro generale emerge quindi la sensazione evidente di un passaggio di elettrici ed elettori dal M5S alla disaffezione al voto in misura che può essere giudicata tendenzialmente rilevante. Nessuna delle liste presenti, almeno in Abruzzo, sembra essersi avvantaggiata più di tanto dal calo del M5S.
Rimane da esaminare l’esito del voto per quel che ha riguardato la sinistra di LeU.
Nel 2014 SeL aveva ottenuto 16.156 voti (senza contare 11.936 voti avuti da una lista socialista alleata del centro sinistra): Leu alle politiche del 2018 aveva toccato quota 19.793 mentre la lista presente alle Regionali 2019 si è fermata a 14.532 voti. Un segnale di ulteriore difficoltà.
Nell’ambito del centro sinistra erano presenti anche una lista del Centro Democratico (13.975 voti rispetto ai 17.031 del 2014 e i 14.419 di più Europa nel 2018), una lista di “Centristi per l’Europa” (7.860 suffragi) e la lista IDV Avanti Abruzzo (5.603).
In conclusione quali tendenze si possono individuare dal voto abruzzese?
1) Cresce ancora la disaffezione al voto pur tenendo conto della minore appetibilità delle elezioni regionali rispetto a quelle politiche (normalmente però sono le elezioni europee quelle meno frequentate). Questo dato consiglia grande cautela nel considerare le percentuali che, da molte parti, sono avventatamente enfatizzate (come accadde nel 2014 al fantomatico 41% del PD(R))
2) Il calo del M5S potrebbe preludere davvero a un “declino incipiente”;
3) Il PD non trova ragioni di pensare a un arresto del suo declino: anzi.
domenica 10 febbraio 2019
venerdì 8 febbraio 2019
mercoledì 6 febbraio 2019
domenica 3 febbraio 2019
sabato 2 febbraio 2019
venerdì 1 febbraio 2019
Maurizio Landini: dalla CGIL una cultura politica alternativa che riparta dal lavoro - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
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