martedì 6 febbraio 2018

Roberto Fasoli: Di politica e altro

Anticipazione del n. 245 di Una città Intervista a Roberto Fasoli 1 una città di politica e altro Roberto Fasoli, ex-insegnante, già segretario della Cgil Verona e consigliere regionale fino al 2015, è presidente dell’associazione Sinistra XXI secolo. Sei stato a lungo impegnato nel sindacato e poi nel Pd, che hai lasciato dopo il referendum costituzionale, ora, assieme ad altri, hai fondato un’associazione per riflettere sulla sinistra oggi. Puoi raccontarci? All’origine dell’associazione c’è stata una lunga discussione, anche proprio sulla parola sinistra, perché alcuni rilevavano come nei paesi dell’Est, questa sia oggi associata all’idea della sopraffazione, della mancanza di libertà, ecc. Io, in realtà, penso che sinistra e destra abbiano ancora un senso e che le rispettive risposte ai problemi siano differenti. Ciò che mi muoveva e mi muove è il problema del ventunesimo secolo, cioè la consapevolezza che l’armamentario del diciannovesimo e del ventesimo secolo non sia più sufficiente a fornire risposte alla crisi attuale, perché ciò che è successo, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha cambiato completamente la situazione. La globalizzazione, la cosiddetta “quarta rivoluzione” del Novecento, ha aperto un nuovo scenario, dove purtroppo la sinistra perde. Perde, perché restano in campo le ipotesi dell’ordoliberismo tedesco, e la visione antagonista dell’ordoliberismo e della politica dell’austerità rischia di essere quella del populismo nelle sue più variate declinazioni, che in Italia assumono le vesti del grillismo e nei paesi dell’Est europeo assumono caratteri che vanno fino al populismo conservatore, perfino neonazista. Insomma, mi sembra che i nodi stiano arrivando al pettine e le questioni si ripresentino tutte con durezza assoluta. La globalizzazione nell’economia, mescolata alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione disegna un quadro completamente inedito. In qualche modo quella che era la forza della sinistra, cioè l’idea di avere una classe di riferimento, i lavoratori, e uno strumento, lo stato, a fronte di questo cambiamento si sgretola. Ecco, parlare di XXI secolo significa fare i conti con tutto questo e con una democrazia che entra anch’essa in crisi. Alla fine ho lasciato il Pd proprio perché ho visto che questo partito non aveva interesse ad affrontare tali questioni. Detto questo, Renzi non è arrivato per caso. Renzi è lì perché la politica, come l’acqua, non conosce vuoti, e siccome il Pd non è stato capace di proporre un’ipotesi riformatrice nel senso radicale, cioè che andava alla radice dei problemi, è maturata e si è consolidata una proposta moderata. Tu vedi un pericolo mortale per la sinistra... La sinistra oggi, in Europa, e non solo in Europa, non tocca palla. E rischierà di non toccare palla finché non riconosce le ragioni della sua sconfitta. All’inizio dell’Ottocento, non c’era la sinistra come noi la intendiamo oggi, c’erano partiti dentro la borghesia più o meno aperti alle istanze sociali. La sinistra nasce quando si affermano in termini diffusi la presenza di una classe operaia organizzata e l’idea di darsi una struttura. Ecco, come in passato non c’era storicamente una sinistra organizzata, non è detto che in futuro debba esserci ancora. Io ovviamente penso che debba esserci, ma non è che di diritto abbiamo un ruolo: hai un ruolo se hai una politica, delle proposte. Il problema non è esclusivamente italiano, né solo europeo. Nessuno immaginava che Bernie Sanders potesse avere il consenso che ha avuto con i millenials. Certo è che il popolo ha percepito la candidatura dei Democratici come una candidatura dell’establishment. Come sta succedendo dappertutto. La sinistra viene considerata conservatrice. Allora, dovendo provare a dire cosa manca oggi, a me pare che manchi innanzitutto l’idea della sconfitta e delle sue ragioni, che non sono personali, di inedia o inadeguatezza del singolo, ma sono politiche, culturali, e vanno indagate. Serve un lavoro radicale, che va fatto sul piano della teoria e della lettura strategica. Socialismo oggi cosa vuol dire? Ho in mente il libro di Axel Honneth, sul socialismo come sogno necessario. Cosa vuol dire oggi essere di sinistra? Essere democratici? Io credo poco alle nuove dicotomie, dentro e fuori, nuovo e vecchio, aperto e chiuso... Per tornare alla vecchia definizione di Norberto Bobbio, per me il tema dell’uguaglianza resta discriminante. Detto questo, che idea ha la sinistra sui grandi temi, il lavoro, il clima, l’ambiente, l’acqua, l’immigrazione, le religioni, l’inurbamento, l’uguaglianza, il rapporto uomo-donna, la libertà, la democrazia? Sono in crisi anche i modelli organizzativi, non solo della sinistra... Assistiamo a un’oscillazione tra il partito liquido, dove vota il primo che passa e il suo voto conta quanto quello dell’iscritto attivista, e il vecchio sistema organizzato chiuso, con i militanti e le sezioni. Bisognerebbe riuscire a combinare il sistema della democrazia rappresentativa, che mi pare insostituibile, con forme di consultazione e democrazia partecipativa che sono tutte da sperimentare. Un altro grosso problema è che la sinistra sembra aver divorziato dalla cultura. Negli anni gloriosi, dal dopoguerra a metà degli anni Settanta, la cultura storica, sociologica, psicologica, la letteratura, risultavano essere qualcosa di congeniale, di coerente, di affine alla sinistra. Se non altro c’era una discussione, mi spiego? Oggi abbiamo una divaricazione totale. Chi fa cultura -nelle università, nella scuola, nelle case editrici, nelle riviste o dove la fa- e chi fa politica non si parlano nemmeno. Al massimo viene cooptato qualcuno per mandarlo in Parlamento, ma non c’è l’idea che la politica abbia bisogno dello sguardo della cultura, della conoscenza. Sulla scuola non si è sviluppata in modo adeguato una riflessione sul suo ruolo nella grande trasformazione e, anzi, ci si è piegati a logiche subalterne al modello di sviluppo oggi vincente. Questa situazione produce un disastro. Non ci sono più fondazioni, quali sono le riviste di sinistra oggi? Non c’è quasi più niente. FRA LE CASE DEL POPOLO E L’INPS Una sinistra che, nella globalizzazione economica, rischia di perdersi, incapace di offrire risposte radicali così come di recuperare una vena utopistica; il divorzio dalla cultura e il problema di come riuscire a rappresentare chi oggi, sia un metalmeccanico o un lavoratore di Amazon, non è nella condizione di realizzare in modo autonomo il proprio progetto di vita; la ferma convinzione che le differenze tra destra e sinistra esistano ancora, eccome. Intervista a Roberto Fasoli. nessuno immaginava che Bernie Sanders potesse avere il consenso che ha avuto con i millenials una città 2 Prima c’era un fervore. Le stesse scuole di partito, con tutti i limiti, rappresentavano un luogo di crescita culturale, di stimolo alla lettura, alla conoscenza; oggi al massimo sono luoghi di addestramento professionale, cioè ti spiegano come si fanno le delibere. Ma noi dobbiamo formare persone libere, che hanno la capacità di contraddire, di pensare in proprio, di mettere in discussione, non degli automi che eseguono. Data questa situazione, la sinistra oggi non può che stare in difesa. Quando non hai né una teoria, né un linguaggio, né un’organizzazione, non ti resta che cercare di sopravvivere. Va bene, però nel frattempo ci sarebbe bisogno di qualcuno che si attrezza per il lavoro di medio-lungo periodo, che intanto mette in moto la macchina, che predispone luoghi e occasioni di studio e di riflessione ad ampio respiro... La sinistra esiste se si ripropone l’idea di governare i processi di trasformazione, indirizzarli, non per tenere accesa la fiammella, per fare testimonianza. Non è la vestale del passato. Bisognerebbe resuscitare un po’ di entusiasmo. Io per ora faccio quello che posso, cerco di costruire una rete di persone che provano a restare vive e curiose. Additare in Renzi il traditore è un’altra scorciatoia, un altro modo per non farsi carico dei problemi. Renzi non è un usurpatore, ha vinto secondo le regole interne del Pd, dove ha un consenso indiscutibile, quindi faccia quel che intende fare. Ma dall’altra parte, la sinistra che non è mai stata del Pd o lo ha abbandonato, non può vivere di antirenzismo, come non poteva vivere di antiberlusconismo, perché è una politica effimera. Non c’è una lettura della realtà realmente alternativa, nessuna autocritica e così non riesci a entusiasmare, o a rappresentare i problemi. Bisogna dire per cosa sei. E questo purtroppo diventa più complicato. Anche il rapporto con il sindacato si è fatto difficile... Vogliamo parlare con questi dodici milioni che sono ancora iscritti a Cgil Cisl e Uil o li consideriamo dei deficienti? Io che ho vissuto tutta la vita nel sindacato e ne conosco i ritardi, le pigrizie, le incertezze, anche qualche piccola miseria, chiedo però: come sarebbe questo paese senza il sindacato? Le condizioni dei lavoratori sarebbero migliori o peggiori? Se qualcuno pensa che sarebbero migliori, beh, per quanto mi riguarda, sta tranquillamente a destra. Dopodiché il sindacato è parte del problema, perché le stesse condizioni di difficoltà che vive la sinistra, le vive il sindacato. La lettera di Pierre Carniti, persona intelligente e generosa, rivolta qualche mese fa alle tre organizzazioni sindacali confederali, ha posto interrogativi seri. La sinistra deve dialogare con gli uomini e le donne del sindacato, facendosi carico anche degli errori, che sono errori anche suoi. Qui non siamo al sindacalismo rivoluzionario, o all’idea della rappresentanza diretta della classe in termini politici. Sono due mestieri distinti. Il sindacato fa un’azione di tutela collettiva coi contratti, e di rappresentanza degli interessi sul piano della politica. Se non lo convochi mai per discutere di politica, non gli fai rinnovare i contratti, gli tagli i contributi per le strutture di servizio e poi dici: “Rappresenta poco”, beh, lo credo! A uno che ha la macchina che va male, tu gli fori le ruote. Voglio dire, già fa fatica a rappresentare la realtà del lavoro per i cambiamenti che ci sono stati, se tu neanche lo consideri un interlocutore... A quel punto il sindacato sta chiuso e si difende, ma cosa dovrebbe fare? Io credo che la sinistra, per prima cosa, dovrebbe farsi carico dei problemi del lavoro e dell’uguaglianza. All’inizio il Partito democratico aveva raccolto anche l’adesione, la speranza di lavoratori autonomi, artigiani, atipici, che tradizionalmente la sinistra aveva poco considerato. È vero. I diritti del lavoro in Europa, devono essere diritti di cittadinanza, quindi non possono essere diritti del lavoratore dipendente. Né la maternità piuttosto né la pensione possono essere legati alla natura del tuo rapporto di lavoro: se è pubblico, privato, dipendente, o autonomo. Ci devono essere tutele universali su alcune materie. Questo è un nodo che una sinistra intelligente dovrebbe affrontare. Alcuni cambiamenti, la lotta contro il caporalato, le politiche attive, potevano essere buoni, ma, per esempio, che bisogno c’era di abolire l’art. 18? Quasi nessuno è tornato a lavorare con l’art. 18, si contano sulle dita di due mani, però era significativo del fatto che il lavoro aveva una dignità. Abolirlo, tra l’altro in quel modo lì, per cui alcuni lo mantengono, altri non l’avranno mai, è una roba da matti! Poi le politiche del lavoro, che sono indispensabili, non le puoi fare con investimenti congiunturali, con la politica dei bonus. Siamo tra gli ultimi nella formazione, nel numero di laureati, nell’università e nella ricerca, stiamo perdendo la manifattura, l’agroalimentare se lo stanno comprando le multinazionali europee... Dilapidare miliardi per dare un po’ di soldi contingenti agli imprenditori è come dare un altro giro di ossigeno a un malato terminale. Di nuovo, o tu affronti il problema alla radice, facendo una politica sull’innovazione, sulla banda larga, sul mantenere in Italia le eccellenze o sei perduto; noi formiamo manodopera specializzata di altissimo livello, che se ne va. Oggi non vanno via dall’Italia gli operai o i manovali, se ne vanno le qualifiche alte, e quel che è più grave è che non ne arriva nessuna. Temiamo l’immigrazione ma non ci curiamo dell’esodo crescente di giovani qualificati che abbandonano in nostro Paese. Come si protegge oggi un lavoratore senza tradire l’ideale internazionalista? Oggi per mantenere aperta una fabbrica in Italia ne facciamo chiudere una in Polonia... L’unica via per tenere assieme le due istanze è che gli organismi sovranazionali della sinistra smettano di essere dei simulacri, come è la Federazione dei partiti socialisti europei. Le politiche internazionali devono essere fatte da organismi che accettano una cessione di sovranità. La stessa federazione dei sindacati dovrebbe assumere un ruolo e un significato vero. E poi però con chi contratta? L’Europa da questo punto di vista è il grande malato. Come fai a mettere in atto una politica monetaria senza avere un’entità statuale? Sembra che abbiamo ormai accettato che c’è un’eterodirezione, che non è la sede politica democratica, ma sono le grandi multinazionali o i grandi interessi a guidare le scelte e i processi. O se vuoi, per interposta persona, gli stati nazionali, dove però la regolazione è solo una questione di forza. Non puoi lamentarti o sorprenderti che poi la Germania detti legge o faccia una politica pro domo sua. Bisognerebbe avere il coraggio, a livello europeo, di fare una politica di cerchi concentrici, con seiotto paesi che provano a darsi un livello federale più alto, a fare una politica fiscale comune... Come affronti il problema dei paradisi fiscali senza una politica comune? Bisognerà forse che qualcuno batta la strada, facendo un’unione statuale vera, federale, con politiche fiscali, monetarie, di bilancio, a cui altri poi si assoceranno. Quello che ci ammazza è la rassegnazione all’idea che non si possa cambiare niente. E contemporaneamente l’idea che alle brutte malattie si possa dare risposta con ricette semplificate dell’ultima ora, o affidandosi a chi ha il carisma, o sa bucare il video. Cosa dev’essere un politico? E non rispondetemi onesto. Onesto è -dovrebbe esserela precondizione, ci mancherebbe che uno che fa politica fosse disonesto. Ma quali sono le caratteristiche che deve avere un politico? Torniamo a discutere di cos’è la cifra, la professionalità della persona che si occupa della cosa pubblica o che fa l’amministratore: qual è il tipo di preparazione che di politica e altro noi dobbiamo formare persone libere, con la capacità di pensare in proprio, di contraddire, di non essere automi che eseguono ci vorrebbe il coraggio di darsi, con sei-otto paesi, un livello federale più alto, di fare una politica fiscale comune... 3 una città deve avere? Basta aver fatto l’imprenditore? È quel che diceva Berlusconi: sono stato un bravo imprenditore, sarò anche un bravo capo del governo; peccato non avesse capito che in politica serve la mediazione, il compromesso, la capacità di tenere assieme, non è che puoi comprarti tutti. Bisogna tornare ad avere l’idea che occorre fare fatica. Che non ci sono risposte semplici a problemi complessi Manca forse anche il coraggio di fare scelte impopolari, ma giuste... Hai ragione. Io nella mia vita di sindacalista sono andato a spiegare ai bidelli e agli insegnanti che non si poteva più andare in pensione con diciannove anni, sei mesi e un giorno. Naturalmente questi non è che fossero entusiasti, ma spiegavo loro che il sistema era tale per cui non poteva essere che uno andava in pensione con vent’anni o addirittura quindici, e un altro disgraziato, siccome lavorava in un acciaieria, o faceva i salumi, ci doveva andare con trentacinque anni. Il coraggio di farlo lo trovi se la tua proposta è equa, se serve a tenere assieme. Ma tu adesso fai fatica ad andare a chiedere sacrifici alla gente se mantieni condizioni di privilegio. Penso alle pensioni o alla tassa sulla prima casa: perché toglierla? Perché non puoi introdurre una tassa patrimoniale? Queste robe sono di destra o di sinistra? Io dico che una sinistra che voglia riavere un ruolo deve dire alla gente: hai una casa che ti sei comperato con tutti i sacrifici? Hai quattrocentomila euro di valore di casa? Bene, se hai solo quella non la paghi, se ne hai tre, la prima non la paghi, le altre due sì. Vuoi le prestazioni sanitarie gratuite? Fai l’Isee, dopodiché se ti becco che sei fuori, mi restituisci quello che hai ricevuto. Se sei rigoroso in queste cose, poi puoi anche andare a spiegare alla gente che si deve fare una politica di contenimento delle spese. Ora sono tutti per abbassare le tasse. Ma le tasse sono uno strumento attraverso il quale si finanzia la spesa pubblica. Quando uno dice che le abbassa, mi deve dire dove aumenta le entrate o cosa taglia: la sanità, la scuola, la pubblica sicurezza, la polizia? Cioè non ci sono molte strade: o le diminuisci ad alcuni e le aumenti a qualcun altro, o diminuisci i servizi, o aumenti le entrate. Dopodiché, se lo stato pretende che i cittadini siano corretti, deve comportarsi anche lui in modo corretto per infondere l’idea che rispettare la legge è vantaggioso. È l’insipienza della politica che fa nascere le forme degenerative del populismo più estremistico e vaniloquente. Anche la parola “riforma” è diventata ormai una parola valigia. È stata usata per realizzare tagli pesanti dei diritti dei cittadini. Bisognerà ridare alla parola riforma un senso redistributivo dal punto di vista della equità economica e della distribuzione equa anche dei diritti. Oggi, poi, quando si parla di diritti si parla ormai solo di diritti individuali. I diritti individuali hanno sostituito i diritti sociali, il lavoro, la casa, la pensione, la sicurezza, la tutela personale... Oltretutto fai fatica ad aggregare le persone sui diritti individuali; essendo individuali ogni persona li declina alla sua maniera. Bisognerebbe tornare a mettere insieme diritti individuali e diritti sociali. Allo stesso modo non possiamo negare le novità introdotte dalla tecnologia, dalla comunicazione, dal punto di vista produttivo. Ho in mente il libro di Riccardo Staglianò sui robot, Al posto tuo. Mentre una volta le macchine invadevano solo la fase diciamo produttiva o dei servizi, adesso invadono anche le professioni. In alcuni istituti sanitari americani la farmacologia è fatta da robot. Negli studi legali i robot sono in grado di offrirti tutto quello che dice la giurisprudenza attorno a un caso di tamponamento, mentre tu dovresti pagare dieci ragazzi che ti guardano le sentenze... Ora, nasceranno sicuramente anche altre professioni, però nel frattempo cosa diciamo a gente di 40-50 anni, che non serve più? Anche su questi temi, la visione non può essere né tutta entusiastica, né catastrofista. Bisogna guardarci dentro, facendo le debite distinzioni e provando a formulare una risposta. Cioè va benissimo se si eliminano i lavori da schiavi, però allora bisogna anche avere il coraggio di dire che per fare il lavoro produttivo che serve a giustificare quello stipendio, basterebbero molte meno ore lavorate. Chi è che ha il coraggio di dirlo oggi? Se parli di riduzione dell’orario di lavoro ti guardano come se fossi matto. Quanto pesa il fattore demografico? Il dato generazionale fa sicuramente la differenza, perché comporta un approccio diverso alla realtà, alla propensione al rischio, alla capacità di mettersi in gioco. Il nostro è un paese sostanzialmente di vecchi, dove la politica per i giovani non è mai esistita; un paese che tendenzialmente ha paura o cerca di conservare quello che ha, che è meno disposto al rischio. In fondo questi ragazzi che attraversano il Mediterraneo rischiando di morire, o attraversano il deserto aggrappati a un camion, o rischiando di finire in balia dei banditi, sono certamente mossi dalla disperazione, ma hanno anche una forte disposizione a mettersi in gioco, qualità che, non a caso, quando si presentano le condizioni di possibilità, li porta ad avere risultati straordinari. Sul tema delle migrazioni (termine distinto da immigrazione), come ci ha spiegato Umberto Eco una ventina di anni fa nei suoi Cinque scritti morali, ci giochiamo buona parte del nostro futuro. La demografia ha un impatto notevole anche sulla percezione di sé di un paese. E il nostro è un paese vecchio. Son stati fatti degli studi sull’elettorato, ed è significativo che per esempio il Pd abbia un elettorato tendenzialmente over 60, over 65. Che poi il Pd risulti il terzo partito a intercettare il voto operaio, anche su questo ci si dovrebbe interrogare: come puoi definirti partito di sinistra se non rappresenti chi tendenzialmente sta nella condizione peggiore dal punto di vista delle garanzie? Se però vuoi rappresentare quelli che sono gli ultimi nella scala sociale, devi porti il problema di come lo fai. In fondo, gli operai non hanno mai fatto alcuna rivoluzione; in Russia l‘hanno fatta i contadini e i militari. La classe operaia non esisteva, è nata dopo. L’idea che esista una classe rivoluzionaria che liberandosi dalle proprie catene libera anche l’umanità era una lettura che aveva senso nella fase dell’espansione della manifattura industriale, nella seconda metà dell’Ottocento; oggi serve una visione molto più ampia delle persone che intendi rappresentare, che non può essere ridotta in termini classisti, per cui per esempio il ceto noi dobbiamo rappresentare quelli che non sono in condizione di realizzare in modo autonomo il loro progetto di vita anche la parola “riforma” è ormai una parola valigia. È stata usata per realizzare tagli pesanti dei diritti dei cittadini di politica e altro GiuliaViva medio non è un tuo interlocutore perché è “cripto borghese”. Tanto più che stiamo assistendo a un’inedita proletarizzazione del ceto medio. Prima i working poor non esistevano, perché il lavoro era una delle condizioni per non essere povero. Oggi invece abbiamo lavoratori che sono nella condizione di povertà. Quando dico che bisogna avere una lettura innovativa della società significa che tu, sinistra, puoi rappresentare anche pezzi di lavoro autonomo che sono in condizioni di sfruttamento o comunque di assenza di diritti. Così, il ragazzo del call center, o quello che fa le consegne in bicicletta, o il lavoratore di Amazon e Uber, anche se non sono etichettabili come classe operaia organizzata secondo lo schema antico, hanno bisogno dello stesso tipo di rappresentanza. Chiedo: quanta possibilità hanno queste persone di realizzare il loro progetto di vita con gli strumenti che hanno? Ecco, credo che noi dobbiamo interpretare la rappresentanza di quelli che non sono nella condizione di realizzare in modo autonomo il loro progetto di vita. Insomma, non può essere riproposto il mito della classe operaia, che poi, come diceva Vittorio Foa, bisogna conoscere gli operai, i singoli, capire che anche lì c’è di tutto, anche delle miserie, le ho viste anch’io nel sindacato... Comunque questa può essere una discriminante significativa, che allarga il campo anche a posizioni di lavoro autonomo o di non lavoro. In ogni caso, se vuoi agganciare i ragazzi e le ragazze di oggi bisogna che tu sia in grado di proporre un qualcosa che abbia un carattere anche ideale. Non può essere tutto giocato sull’idea della piccola trasformazione sul presente. Se la sinistra non recupera la sua vena utopistica, nel senso più pregnante del termine, non di sogno, ma di capacità di prefigurare condizioni diverse, è chiaro che è destinata a celebrare il mondo presente. Perché Corbyn e Sanders raccolgono i più giovani? Perché hanno delineato degli scenari che potevano avere una caratteristica anche di prospettiva. Cioè, non è un caso che questi che vengono considerati dei visionari, sono gli unici che parlano ai ragazzi, mentre noi, al massimo, recuperiamo quelli che ti chiedono se possono prendere qualcosa facendo il consigliere di circoscrizione o comunale, se conviene stare con tizio o con caio perché ci sono più prospettive di carriera politica. Se son questi i giovani che recuperiamo, è meglio perderli. E comunque prima di andare a parlare con queste persone, bisognerebbe forse anche iniziare ad ascoltarle. Stanno nascendo esperienze interessanti, nel mondo del lavoro “atipico” che cercano di tenere assieme una certa autonomia, spesso nella precarietà, con tentativi mutualistici, solidali, penso ad Acta, a Smart. Lì non c’è né la sinistra, né il sindacato... Il sindacato è anch’esso vittima della sua demografia. Se tu hai una composizione che vede oggi una prevalenza di pensionati, un’affiliazione tradizionalmente forte nelle sole categorie organizzate, e soprattutto hai un personale politico che è frutto di questa storia, non è facile. Con tutto il bene che voglio ai sindacalisti, sono frutto di una stagione che era prevalentemente quella dei diritti acquisitivi. Di tutta questa vicenda, il sindacato deve ancora farsi pienamente una ragione. La parte più avvertita lo comprende. Ma le politiche di difesa sono ancora quelle tradizionali. Si fatica a rinunciare alle forme più conosciute, più sicure, per inoltrarsi in quelle magari più evanescenti, di autorganizzazione dei giovani, i quali dovrebbero avere l’idea che il sindacato è un posto dove possono andare, anche per sperimentare quelle cose lì. Devono sentirlo come casa propria, come un’opportunità. Una cosa che mi faceva soffrire da segretario della Cgil è il cosiddetto “layout”, la disposizione; la struttura della Cgil è come quella dell’Inps: uffici con le porte, corridoi con le targhette fuori. Non c’è neanche un posto dove ti puoi sedere. Negli anni Sessanta e Settanta il sindacato era un luogo dove tu alle cinque della sera vedevi arrivare l’operaio in tuta, piuttosto che uno dei tuoi delegati: “Sono venuto a fare un giro, per vedere se ci sono novità...”, e una città 4 la Cgil sembra l’Inps: uffici con le porte e le targhette fuori, neanche un posto dove sedersi per fare due chiacchere 5 una città di politica e altro finivi per chiacchierare o fare una briscola o bere un bianco prima di andare a cena. Ora la gente prende il biglietto, l’appuntamento, si annuncia. Recuperare spazi di socialità e di autorganizzazione fa parte anche del pensarsi come un luogo che si propone in un modo diverso dal servizio con l’utente. Non dico di tornare alle case del popolo, ma ci sarà un qualcosa di intermedio tra le case del popolo e l’Inps! Il sindacato oggi sopravvive anche grazie ai servizi... Il sindacato ha senso nella misura in cui è anche un’impresa collettiva. Il sindacato fa tre mestieri: la tutela collettiva con i contratti, la tutela individuale con i servizi, la rappresentanza degli interessi con la negoziazione istituzionale. Ecco, se tu polarizzi una funzione rischi di renderti indispensabile, ma diventi un’istituzione di servizio, in cui la gente viene perché sei quello che gli dà l’indennità di disoccupazione, ma potrebbe andare in qualsiasi altro posto. La storia del sindacalismo italiano è l’insieme di queste tre cose. L’illusione della Cgil di ridurre tutto al contratto e alla politica era sbagliata perché toglieva una gamba importante delle tre, che era quella anche della tutela individuale. D’altra parte, l’idea della Cisl di sostituire la politica con la tutela individuale è parimenti sbagliata, perché ti trasformi in una struttura di servizio, dignitosissima, ma che non ha quella politicità che, almeno per il sindacato italiano, è insopprimibile. Oppure diventi, e questo è un altro modello ancora, un sindacato dei soci, come in America, quindi eserciti il tuo ruolo facendo azione di lobbying. Non so quale sia il modello migliore. Certo per recuperare queste dimensioni serve anche una politica che ti considera interlocutore, in cui tu, a tua volta, stai dentro le regole del gioco, non puoi essere quello che pone i veti. Io dico che se volevi fare una roba di sinistra con gli 80 euro la facevi coi sindacati. Se invece la fai come elargizione del principe, per raccogliere consenso, metti fuori gioco il tuo interlocutore. Ecco, per me uno dei tratti dirimenti della sinistra è avere un rapporto con le organizzazioni del mondo del lavoro. Una delle cose in cui la sinistra è dissimile alla destra è che pensa per esempio che la democrazia in un mondo complesso non possa essere esercitata solo nei luoghi di rappresentanza istituzionale. Esiste la società di mezzo, come ci ha tante volte spiegato Giuseppe De Rita. Oggi si parla dell’epoca del “ritiro della delega”, tutti gli enti intermedi vivono una crisi di legittimità. Ma l’idea della disintermediazione è una idea di destra. Oltretutto non puoi appellarti al popolo delegittimando le organizzazioni e poi cercare di recuperarle quando c’è invece da chiedere sacrifici. Secondo me oggi non esiste una forma democratica che non valorizzi le organizzazioni. Ripeto, la sinistra oggi è in una fase in cui non è detto che debba continuare ad esistere. Per tornare a esistere deve riscoprire il senso della sua proposta, il suo linguaggio e la sua forma organizzativa. Per farlo però deve capire dove l’ha perso, quel senso. Io dico che l’ha perso nell’incapacità di leggere cos’è successo nell’ultimo quarto del secolo scorso, con la grande trasformazione dell’economia e della società frutto di questo salto di qualità della globalizzazione, incrociata con le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Secondo me lì abbiamo proprio perso i riferimenti. Volevi aggiungere qualcosa? Guarda, io non voglio niente per me. Io vorrei dare una mano, essere utile. Mi piacerebbe che tutto quello che mia moglie e io abbiamo fatto della nostra vita, quello che abbiamo messo insieme, i libri, i dischi, i nostri strumenti di lavoro, potessero essere utili a qualcuno. Avendo 65 anni non è che penso di averne altrettanti da vivere. Mi piacerebbe che la parte di vita che ci è concessa fosse utile per altri. Per me essere di sinistra è anche questa roba qua. Ci sono ragazzi e ragazze sveglissimi, a cui bisognerebbe offrire delle occasioni. So che in questo clima non è semplice fare qualcosa perché, spesso, ti viene lo sconforto. Però, ecco, bisognerebbe comunque provarci. È più facile condividendo le scelte con altri. Mai rassegnarsi! (a cura di Barbara Bertoncin) le nostre strutture di governo, sia a livello macro che micro, sono drammaticamente inadatte a gestire i cambiamenti -

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