Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 6 febbraio 2018
Roberto Fasoli: Di politica e altro
Anticipazione
del n. 245
di Una città
Intervista a
Roberto Fasoli
1 una città
di politica e altro
Roberto Fasoli, ex-insegnante, già segretario
della Cgil Verona e consigliere regionale fino
al 2015, è presidente dell’associazione Sinistra
XXI secolo.
Sei stato a lungo impegnato nel sindacato
e poi nel Pd, che hai lasciato dopo
il referendum costituzionale, ora, assieme
ad altri, hai fondato un’associazione
per riflettere sulla sinistra oggi.
Puoi raccontarci?
All’origine dell’associazione c’è stata una
lunga discussione, anche proprio sulla parola
sinistra, perché alcuni rilevavano come
nei paesi dell’Est, questa sia oggi associata
all’idea della sopraffazione, della mancanza
di libertà, ecc. Io, in realtà, penso che sinistra
e destra abbiano ancora un senso e che
le rispettive risposte ai problemi siano differenti.
Ciò che mi muoveva e mi muove è
il problema del ventunesimo secolo, cioè la
consapevolezza che l’armamentario del diciannovesimo
e del ventesimo secolo non
sia più sufficiente a fornire risposte alla
crisi attuale, perché ciò che è successo, soprattutto
a partire dagli anni Settanta del
secolo scorso, ha cambiato completamente
la situazione. La globalizzazione, la cosiddetta
“quarta rivoluzione” del Novecento,
ha aperto un nuovo scenario, dove purtroppo
la sinistra perde. Perde, perché restano
in campo le ipotesi dell’ordoliberismo tedesco,
e la visione antagonista dell’ordoliberismo
e della politica dell’austerità rischia di
essere quella del populismo nelle sue più
variate declinazioni, che in Italia assumono
le vesti del grillismo e nei paesi dell’Est
europeo assumono caratteri che vanno fino
al populismo conservatore, perfino neonazista.
Insomma, mi sembra che i nodi stiano arrivando
al pettine e le questioni si ripresentino
tutte con durezza assoluta.
La globalizzazione nell’economia, mescolata
alle nuove tecnologie della comunicazione
e dell’informazione disegna un quadro
completamente inedito. In qualche modo
quella che era la forza della sinistra, cioè
l’idea di avere una classe di riferimento, i
lavoratori, e uno strumento, lo stato, a fronte
di questo cambiamento si sgretola.
Ecco, parlare di XXI secolo significa fare i
conti con tutto questo e con una democrazia
che entra anch’essa in crisi. Alla fine ho lasciato
il Pd proprio perché ho visto che questo
partito non aveva interesse ad affrontare
tali questioni. Detto questo, Renzi non è
arrivato per caso. Renzi è lì perché la politica,
come l’acqua, non conosce vuoti, e siccome
il Pd non è stato capace di proporre
un’ipotesi riformatrice nel senso radicale,
cioè che andava alla radice dei problemi, è
maturata e si è consolidata una proposta
moderata.
Tu vedi un pericolo mortale per la sinistra...
La sinistra oggi, in Europa, e non solo in
Europa, non tocca palla. E rischierà di non
toccare palla finché non riconosce le ragioni
della sua sconfitta. All’inizio dell’Ottocento,
non c’era la sinistra come noi la intendiamo
oggi, c’erano partiti dentro la borghesia più
o meno aperti alle istanze sociali. La sinistra
nasce quando si affermano in termini
diffusi la presenza di una classe operaia organizzata
e l’idea di darsi una struttura.
Ecco, come in passato non c’era storicamente
una sinistra organizzata, non è detto che
in futuro debba esserci ancora. Io ovviamente
penso che debba esserci, ma non è
che di diritto abbiamo un ruolo: hai un ruolo
se hai una politica, delle proposte.
Il problema non è esclusivamente italiano,
né solo europeo. Nessuno immaginava che
Bernie Sanders potesse avere il consenso
che ha avuto con i millenials. Certo è che il
popolo ha percepito la candidatura dei Democratici
come una candidatura dell’establishment.
Come sta succedendo dappertutto.
La sinistra viene considerata conservatrice.
Allora, dovendo provare a dire cosa manca
oggi, a me pare che manchi innanzitutto
l’idea della sconfitta e delle sue ragioni, che
non sono personali, di inedia o inadeguatezza
del singolo, ma sono politiche, culturali,
e vanno indagate. Serve un lavoro radicale,
che va fatto sul piano della teoria e della
lettura strategica. Socialismo oggi cosa vuol
dire? Ho in mente il libro di Axel Honneth,
sul socialismo come sogno necessario. Cosa
vuol dire oggi essere di sinistra? Essere democratici?
Io credo poco alle nuove dicotomie, dentro e
fuori, nuovo e vecchio, aperto e chiuso... Per
tornare alla vecchia definizione di Norberto
Bobbio, per me il tema dell’uguaglianza resta
discriminante. Detto questo, che idea
ha la sinistra sui grandi temi, il lavoro, il
clima, l’ambiente, l’acqua, l’immigrazione,
le religioni, l’inurbamento, l’uguaglianza, il
rapporto uomo-donna, la libertà, la democrazia?
Sono in crisi anche i modelli organizzativi,
non solo della sinistra...
Assistiamo a un’oscillazione tra il partito liquido,
dove vota il primo che passa e il suo
voto conta quanto quello dell’iscritto attivista,
e il vecchio sistema organizzato chiuso,
con i militanti e le sezioni. Bisognerebbe
riuscire a combinare il sistema della democrazia
rappresentativa, che mi pare insostituibile,
con forme di consultazione e democrazia
partecipativa che sono tutte da sperimentare.
Un altro grosso problema è che la sinistra
sembra aver divorziato dalla cultura. Negli
anni gloriosi, dal dopoguerra a metà degli
anni Settanta, la cultura storica, sociologica,
psicologica, la letteratura, risultavano
essere qualcosa di congeniale, di coerente,
di affine alla sinistra. Se non altro c’era una
discussione, mi spiego? Oggi abbiamo una
divaricazione totale. Chi fa cultura -nelle
università, nella scuola, nelle case editrici,
nelle riviste o dove la fa- e chi fa politica
non si parlano nemmeno. Al massimo viene
cooptato qualcuno per mandarlo in Parlamento,
ma non c’è l’idea che la politica abbia
bisogno dello sguardo della cultura, della
conoscenza. Sulla scuola non si è sviluppata
in modo adeguato una riflessione sul
suo ruolo nella grande trasformazione e,
anzi, ci si è piegati a logiche subalterne al
modello di sviluppo oggi vincente. Questa
situazione produce un disastro. Non ci sono
più fondazioni, quali sono le riviste di sinistra
oggi? Non c’è quasi più niente.
FRA LE CASE
DEL POPOLO E L’INPS
Una sinistra che, nella globalizzazione economica, rischia di perdersi, incapace di offrire risposte
radicali così come di recuperare una vena utopistica; il divorzio dalla cultura e il problema di come
riuscire a rappresentare chi oggi, sia un metalmeccanico o un lavoratore di Amazon, non è nella
condizione di realizzare in modo autonomo il proprio progetto di vita; la ferma convinzione
che le differenze tra destra e sinistra esistano ancora, eccome. Intervista a Roberto Fasoli.
nessuno immaginava che
Bernie Sanders potesse
avere il consenso che ha avuto
con i millenials
una città 2
Prima c’era un fervore. Le stesse scuole di
partito, con tutti i limiti, rappresentavano
un luogo di crescita culturale, di stimolo alla
lettura, alla conoscenza; oggi al massimo
sono luoghi di addestramento professionale,
cioè ti spiegano come si fanno le delibere.
Ma noi dobbiamo formare persone libere,
che hanno la capacità di contraddire, di
pensare in proprio, di mettere in discussione,
non degli automi che eseguono.
Data questa situazione, la sinistra oggi non
può che stare in difesa. Quando non hai né
una teoria, né un linguaggio, né un’organizzazione,
non ti resta che cercare di sopravvivere.
Va bene, però nel frattempo ci sarebbe bisogno
di qualcuno che si attrezza per il lavoro
di medio-lungo periodo, che intanto
mette in moto la macchina, che predispone
luoghi e occasioni di studio e di riflessione
ad ampio respiro...
La sinistra esiste se si ripropone l’idea di
governare i processi di trasformazione, indirizzarli,
non per tenere accesa la fiammella,
per fare testimonianza. Non è la vestale
del passato. Bisognerebbe resuscitare
un po’ di entusiasmo. Io per ora faccio quello
che posso, cerco di costruire una rete di
persone che provano a restare vive e curiose.
Additare in Renzi il traditore è un’altra
scorciatoia, un altro modo per non farsi carico
dei problemi. Renzi non è un usurpatore,
ha vinto secondo le regole interne del
Pd, dove ha un consenso indiscutibile, quindi
faccia quel che intende fare. Ma dall’altra
parte, la sinistra che non è mai stata del Pd
o lo ha abbandonato, non può vivere di antirenzismo,
come non poteva vivere di antiberlusconismo,
perché è una politica effimera.
Non c’è una lettura della realtà realmente
alternativa, nessuna autocritica e così
non riesci a entusiasmare, o a rappresentare
i problemi. Bisogna dire per cosa sei. E
questo purtroppo diventa più complicato.
Anche il rapporto con il sindacato si è
fatto difficile...
Vogliamo parlare con questi dodici milioni
che sono ancora iscritti a Cgil Cisl e Uil o li
consideriamo dei deficienti? Io che ho vissuto
tutta la vita nel sindacato e ne conosco i
ritardi, le pigrizie, le incertezze, anche
qualche piccola miseria, chiedo però: come
sarebbe questo paese senza il sindacato? Le
condizioni dei lavoratori sarebbero migliori
o peggiori? Se qualcuno pensa che sarebbero
migliori, beh, per quanto mi riguarda,
sta tranquillamente a destra. Dopodiché il
sindacato è parte del problema, perché le
stesse condizioni di difficoltà che vive la sinistra,
le vive il sindacato.
La lettera di Pierre Carniti, persona intelligente
e generosa, rivolta qualche mese fa
alle tre organizzazioni sindacali confederali,
ha posto interrogativi seri. La sinistra
deve dialogare con gli uomini e le donne
del sindacato, facendosi carico anche degli
errori, che sono errori anche suoi.
Qui non siamo al sindacalismo rivoluzionario,
o all’idea della rappresentanza diretta
della classe in termini politici. Sono due
mestieri distinti. Il sindacato fa un’azione
di tutela collettiva coi contratti, e di rappresentanza
degli interessi sul piano della politica.
Se non lo convochi mai per discutere
di politica, non gli fai rinnovare i contratti,
gli tagli i contributi per le strutture di servizio
e poi dici: “Rappresenta poco”, beh, lo
credo! A uno che ha la macchina che va male,
tu gli fori le ruote. Voglio dire, già fa fatica
a rappresentare la realtà del lavoro per
i cambiamenti che ci sono stati, se tu neanche
lo consideri un interlocutore... A quel
punto il sindacato sta chiuso e si difende,
ma cosa dovrebbe fare?
Io credo che la sinistra, per prima cosa, dovrebbe
farsi carico dei problemi del lavoro
e dell’uguaglianza.
All’inizio il Partito democratico aveva
raccolto anche l’adesione, la speranza
di lavoratori autonomi, artigiani, atipici,
che tradizionalmente la sinistra
aveva poco considerato.
È vero. I diritti del lavoro in Europa, devono
essere diritti di cittadinanza, quindi non
possono essere diritti del lavoratore dipendente.
Né la maternità piuttosto né la pensione
possono essere legati alla natura del
tuo rapporto di lavoro: se è pubblico, privato,
dipendente, o autonomo. Ci devono essere
tutele universali su alcune materie. Questo
è un nodo che una sinistra intelligente
dovrebbe affrontare.
Alcuni cambiamenti, la lotta contro il caporalato,
le politiche attive, potevano essere
buoni, ma, per esempio, che bisogno c’era di
abolire l’art. 18? Quasi nessuno è tornato a
lavorare con l’art. 18, si contano sulle dita
di due mani, però era significativo del fatto
che il lavoro aveva una dignità. Abolirlo,
tra l’altro in quel modo lì, per cui alcuni lo
mantengono, altri non l’avranno mai, è una
roba da matti!
Poi le politiche del lavoro, che sono indispensabili,
non le puoi fare con investimenti
congiunturali, con la politica dei bonus.
Siamo tra gli ultimi nella formazione, nel
numero di laureati, nell’università e nella
ricerca, stiamo perdendo la manifattura,
l’agroalimentare se lo stanno comprando le
multinazionali europee... Dilapidare miliardi
per dare un po’ di soldi contingenti agli
imprenditori è come dare un altro giro di
ossigeno a un malato terminale.
Di nuovo, o tu affronti il problema alla radice,
facendo una politica sull’innovazione,
sulla banda larga, sul mantenere in Italia
le eccellenze o sei perduto; noi formiamo
manodopera specializzata di altissimo livello,
che se ne va. Oggi non vanno via dall’Italia
gli operai o i manovali, se ne vanno
le qualifiche alte, e quel che è più grave è
che non ne arriva nessuna. Temiamo l’immigrazione
ma non ci curiamo dell’esodo
crescente di giovani qualificati che abbandonano
in nostro Paese.
Come si protegge oggi un lavoratore
senza tradire l’ideale internazionalista?
Oggi per mantenere aperta una
fabbrica in Italia ne facciamo chiudere
una in Polonia...
L’unica via per tenere assieme le due istanze
è che gli organismi sovranazionali della
sinistra smettano di essere dei simulacri,
come è la Federazione dei partiti socialisti
europei.
Le politiche internazionali devono essere
fatte da organismi che accettano una cessione
di sovranità. La stessa federazione
dei sindacati dovrebbe assumere un ruolo e
un significato vero. E poi però con chi contratta?
L’Europa da questo punto di vista è
il grande malato. Come fai a mettere in atto
una politica monetaria senza avere
un’entità statuale? Sembra che abbiamo ormai
accettato che c’è un’eterodirezione, che
non è la sede politica democratica, ma sono
le grandi multinazionali o i grandi interessi
a guidare le scelte e i processi. O se vuoi,
per interposta persona, gli stati nazionali,
dove però la regolazione è solo una questione
di forza. Non puoi lamentarti o sorprenderti
che poi la Germania detti legge o faccia
una politica pro domo sua. Bisognerebbe
avere il coraggio, a livello europeo, di fare
una politica di cerchi concentrici, con seiotto
paesi che provano a darsi un livello federale
più alto, a fare una politica fiscale
comune... Come affronti il problema dei paradisi
fiscali senza una politica comune?
Bisognerà forse che qualcuno batta la strada,
facendo un’unione statuale vera, federale,
con politiche fiscali, monetarie, di bilancio,
a cui altri poi si assoceranno.
Quello che ci ammazza è la rassegnazione
all’idea che non si possa cambiare niente. E
contemporaneamente l’idea che alle brutte
malattie si possa dare risposta con ricette
semplificate dell’ultima ora, o affidandosi a
chi ha il carisma, o sa bucare il video.
Cosa dev’essere un politico? E non rispondetemi
onesto. Onesto è -dovrebbe esserela
precondizione, ci mancherebbe che uno
che fa politica fosse disonesto. Ma quali sono
le caratteristiche che deve avere un politico?
Torniamo a discutere di cos’è la cifra,
la professionalità della persona che si occupa
della cosa pubblica o che fa l’amministratore:
qual è il tipo di preparazione che
di politica e altro
noi dobbiamo formare persone
libere, con la capacità di pensare
in proprio, di contraddire, di non
essere automi che eseguono
ci vorrebbe il coraggio di darsi,
con sei-otto paesi, un livello
federale più alto, di fare una
politica fiscale comune...
3 una città
deve avere? Basta aver fatto l’imprenditore?
È quel che diceva Berlusconi: sono stato
un bravo imprenditore, sarò anche un
bravo capo del governo; peccato non avesse
capito che in politica serve la mediazione, il
compromesso, la capacità di tenere assieme,
non è che puoi comprarti tutti.
Bisogna tornare ad avere l’idea che occorre
fare fatica. Che non ci sono risposte semplici
a problemi complessi
Manca forse anche il coraggio di fare
scelte impopolari, ma giuste...
Hai ragione. Io nella mia vita di sindacalista
sono andato a spiegare ai bidelli e agli
insegnanti che non si poteva più andare in
pensione con diciannove anni, sei mesi e un
giorno. Naturalmente questi non è che fossero
entusiasti, ma spiegavo loro che il sistema
era tale per cui non poteva essere
che uno andava in pensione con vent’anni o
addirittura quindici, e un altro disgraziato,
siccome lavorava in un acciaieria, o faceva
i salumi, ci doveva andare con trentacinque
anni. Il coraggio di farlo lo trovi se la tua
proposta è equa, se serve a tenere assieme.
Ma tu adesso fai fatica ad andare a chiedere
sacrifici alla gente se mantieni condizioni
di privilegio.
Penso alle pensioni o alla tassa sulla prima
casa: perché toglierla? Perché non puoi introdurre
una tassa patrimoniale? Queste
robe sono di destra o di sinistra? Io dico che
una sinistra che voglia riavere un ruolo deve
dire alla gente: hai una casa che ti sei
comperato con tutti i sacrifici? Hai quattrocentomila
euro di valore di casa? Bene, se
hai solo quella non la paghi, se ne hai tre,
la prima non la paghi, le altre due sì.
Vuoi le prestazioni sanitarie gratuite? Fai
l’Isee, dopodiché se ti becco che sei fuori, mi
restituisci quello che hai ricevuto. Se sei rigoroso
in queste cose, poi puoi anche andare
a spiegare alla gente che si deve fare una
politica di contenimento delle spese.
Ora sono tutti per abbassare le tasse. Ma le
tasse sono uno strumento attraverso il quale
si finanzia la spesa pubblica. Quando
uno dice che le abbassa, mi deve dire dove
aumenta le entrate o cosa taglia: la sanità,
la scuola, la pubblica sicurezza, la polizia?
Cioè non ci sono molte strade: o le diminuisci
ad alcuni e le aumenti a qualcun altro,
o diminuisci i servizi, o aumenti le entrate.
Dopodiché, se lo stato pretende che i cittadini
siano corretti, deve comportarsi anche
lui in modo corretto per infondere l’idea che
rispettare la legge è vantaggioso.
È l’insipienza della politica che fa nascere
le forme degenerative del populismo più
estremistico e vaniloquente. Anche la parola
“riforma” è diventata ormai una parola
valigia. È stata usata per realizzare tagli
pesanti dei diritti dei cittadini. Bisognerà
ridare alla parola riforma un senso redistributivo
dal punto di vista della equità economica
e della distribuzione equa anche dei
diritti.
Oggi, poi, quando si parla di diritti si parla
ormai solo di diritti individuali. I diritti individuali
hanno sostituito i diritti sociali, il
lavoro, la casa, la pensione, la sicurezza, la
tutela personale... Oltretutto fai fatica ad
aggregare le persone sui diritti individuali;
essendo individuali ogni persona li declina
alla sua maniera. Bisognerebbe tornare a
mettere insieme diritti individuali e diritti
sociali.
Allo stesso modo non possiamo negare le
novità introdotte dalla tecnologia, dalla comunicazione,
dal punto di vista produttivo.
Ho in mente il libro di Riccardo Staglianò
sui robot, Al posto tuo.
Mentre una volta le macchine invadevano
solo la fase diciamo produttiva o dei servizi,
adesso invadono anche le professioni. In alcuni
istituti sanitari americani la farmacologia
è fatta da robot. Negli studi legali i robot
sono in grado di offrirti tutto quello che
dice la giurisprudenza attorno a un caso di
tamponamento, mentre tu dovresti pagare
dieci ragazzi che ti guardano le sentenze...
Ora, nasceranno sicuramente anche altre
professioni, però nel frattempo cosa diciamo
a gente di 40-50 anni, che non serve
più?
Anche su questi temi, la visione non può essere
né tutta entusiastica, né catastrofista.
Bisogna guardarci dentro, facendo le debite
distinzioni e provando a formulare una risposta.
Cioè va benissimo se si eliminano i
lavori da schiavi, però allora bisogna anche
avere il coraggio di dire che per fare il lavoro
produttivo che serve a giustificare quello
stipendio, basterebbero molte meno ore lavorate.
Chi è che ha il coraggio di dirlo oggi?
Se parli di riduzione dell’orario di lavoro
ti guardano come se fossi matto.
Quanto pesa il fattore demografico?
Il dato generazionale fa sicuramente la differenza,
perché comporta un approccio diverso
alla realtà, alla propensione al rischio,
alla capacità di mettersi in gioco. Il
nostro è un paese sostanzialmente di vecchi,
dove la politica per i giovani non è mai
esistita; un paese che tendenzialmente ha
paura o cerca di conservare quello che ha,
che è meno disposto al rischio. In fondo
questi ragazzi che attraversano il Mediterraneo
rischiando di morire, o attraversano
il deserto aggrappati a un camion, o rischiando
di finire in balia dei banditi, sono
certamente mossi dalla disperazione, ma
hanno anche una forte disposizione a mettersi
in gioco, qualità che, non a caso, quando
si presentano le condizioni di possibilità,
li porta ad avere risultati straordinari. Sul
tema delle migrazioni (termine distinto da
immigrazione), come ci ha spiegato Umberto
Eco una ventina di anni fa nei suoi Cinque
scritti morali, ci giochiamo buona parte
del nostro futuro.
La demografia ha un impatto notevole anche
sulla percezione di sé di un paese. E il
nostro è un paese vecchio. Son stati fatti
degli studi sull’elettorato, ed è significativo
che per esempio il Pd abbia un elettorato
tendenzialmente over 60, over 65. Che poi
il Pd risulti il terzo partito a intercettare il
voto operaio, anche su questo ci si dovrebbe
interrogare: come puoi definirti partito di
sinistra se non rappresenti chi tendenzialmente
sta nella condizione peggiore dal
punto di vista delle garanzie? Se però vuoi
rappresentare quelli che sono gli ultimi nella
scala sociale, devi porti il problema di come
lo fai. In fondo, gli operai non hanno
mai fatto alcuna rivoluzione; in Russia
l‘hanno fatta i contadini e i militari.
La classe operaia non esisteva, è nata dopo.
L’idea che esista una classe rivoluzionaria
che liberandosi dalle proprie catene libera
anche l’umanità era una lettura che aveva
senso nella fase dell’espansione della manifattura
industriale, nella seconda metà
dell’Ottocento; oggi serve una visione molto
più ampia delle persone che intendi rappresentare,
che non può essere ridotta in termini
classisti, per cui per esempio il ceto
noi dobbiamo rappresentare
quelli che non sono in condizione
di realizzare in modo autonomo
il loro progetto di vita
anche la parola “riforma” è
ormai una parola valigia. È stata
usata per realizzare tagli pesanti
dei diritti dei cittadini
di politica e altro
GiuliaViva
medio non è un tuo interlocutore perché è
“cripto borghese”. Tanto più che stiamo assistendo
a un’inedita proletarizzazione del
ceto medio. Prima i working poor non esistevano,
perché il lavoro era una delle condizioni
per non essere povero. Oggi invece
abbiamo lavoratori che sono nella condizione
di povertà.
Quando dico che bisogna avere una lettura
innovativa della società significa che tu, sinistra,
puoi rappresentare anche pezzi di
lavoro autonomo che sono in condizioni di
sfruttamento o comunque di assenza di diritti.
Così, il ragazzo del call center, o quello
che fa le consegne in bicicletta, o il lavoratore
di Amazon e Uber, anche se non sono
etichettabili come classe operaia organizzata
secondo lo schema antico, hanno bisogno
dello stesso tipo di rappresentanza.
Chiedo: quanta possibilità hanno queste
persone di realizzare il loro progetto di vita
con gli strumenti che hanno? Ecco, credo
che noi dobbiamo interpretare la rappresentanza
di quelli che non sono nella condizione
di realizzare in modo autonomo il loro
progetto di vita.
Insomma, non può essere riproposto il mito
della classe operaia, che poi, come diceva
Vittorio Foa, bisogna conoscere gli operai, i
singoli, capire che anche lì c’è di tutto, anche
delle miserie, le ho viste anch’io nel sindacato...
Comunque questa può essere una discriminante
significativa, che allarga il campo anche
a posizioni di lavoro autonomo o di non
lavoro.
In ogni caso, se vuoi agganciare i ragazzi e
le ragazze di oggi bisogna che tu sia in grado
di proporre un qualcosa che abbia un carattere
anche ideale. Non può essere tutto
giocato sull’idea della piccola trasformazione
sul presente. Se la sinistra non recupera
la sua vena utopistica, nel senso più pregnante
del termine, non di sogno, ma di capacità
di prefigurare condizioni diverse, è
chiaro che è destinata a celebrare il mondo
presente.
Perché Corbyn e Sanders raccolgono i più
giovani? Perché hanno delineato degli scenari
che potevano avere una caratteristica
anche di prospettiva. Cioè, non è un caso
che questi che vengono considerati dei visionari,
sono gli unici che parlano ai ragazzi,
mentre noi, al massimo, recuperiamo
quelli che ti chiedono se possono prendere
qualcosa facendo il consigliere di circoscrizione
o comunale, se conviene stare con tizio
o con caio perché ci sono più prospettive
di carriera politica. Se son questi i giovani
che recuperiamo, è meglio perderli. E comunque
prima di andare a parlare con queste
persone, bisognerebbe forse anche iniziare
ad ascoltarle.
Stanno nascendo esperienze interessanti,
nel mondo del lavoro “atipico”
che cercano di tenere assieme una certa
autonomia, spesso nella precarietà,
con tentativi mutualistici, solidali,
penso ad Acta, a Smart. Lì non c’è né la
sinistra, né il sindacato...
Il sindacato è anch’esso vittima della sua
demografia. Se tu hai una composizione che
vede oggi una prevalenza di pensionati,
un’affiliazione tradizionalmente forte nelle
sole categorie organizzate, e soprattutto hai
un personale politico che è frutto di questa
storia, non è facile. Con tutto il bene che voglio
ai sindacalisti, sono frutto di una stagione
che era prevalentemente quella dei
diritti acquisitivi. Di tutta questa vicenda,
il sindacato deve ancora farsi pienamente
una ragione. La parte più avvertita lo comprende.
Ma le politiche di difesa sono ancora
quelle tradizionali.
Si fatica a rinunciare alle forme più conosciute,
più sicure, per inoltrarsi in quelle
magari più evanescenti, di autorganizzazione
dei giovani, i quali dovrebbero avere
l’idea che il sindacato è un posto dove possono
andare, anche per sperimentare quelle
cose lì. Devono sentirlo come casa propria,
come un’opportunità.
Una cosa che mi faceva soffrire da segretario
della Cgil è il cosiddetto “layout”, la disposizione;
la struttura della Cgil è come
quella dell’Inps: uffici con le porte, corridoi
con le targhette fuori. Non c’è neanche un
posto dove ti puoi sedere.
Negli anni Sessanta e Settanta il sindacato
era un luogo dove tu alle cinque della sera
vedevi arrivare l’operaio in tuta, piuttosto
che uno dei tuoi delegati: “Sono venuto a fare
un giro, per vedere se ci sono novità...”, e
una città 4
la Cgil sembra l’Inps: uffici
con le porte e le targhette
fuori, neanche un posto dove
sedersi per fare due chiacchere
5 una città
di politica e altro
finivi per chiacchierare o fare una briscola
o bere un bianco prima di andare a cena.
Ora la gente prende il biglietto, l’appuntamento,
si annuncia. Recuperare spazi di socialità
e di autorganizzazione fa parte anche
del pensarsi come un luogo che si propone
in un modo diverso dal servizio con
l’utente. Non dico di tornare alle case del
popolo, ma ci sarà un qualcosa di intermedio
tra le case del popolo e l’Inps!
Il sindacato oggi sopravvive anche
grazie ai servizi...
Il sindacato ha senso nella misura in cui è
anche un’impresa collettiva. Il sindacato fa
tre mestieri: la tutela collettiva con i contratti,
la tutela individuale con i servizi, la
rappresentanza degli interessi con la negoziazione
istituzionale. Ecco, se tu polarizzi
una funzione rischi di renderti indispensabile,
ma diventi un’istituzione di servizio, in
cui la gente viene perché sei quello che gli
dà l’indennità di disoccupazione, ma potrebbe
andare in qualsiasi altro posto.
La storia del sindacalismo italiano è l’insieme
di queste tre cose. L’illusione della Cgil
di ridurre tutto al contratto e alla politica
era sbagliata perché toglieva una gamba
importante delle tre, che era quella anche
della tutela individuale. D’altra parte,
l’idea della Cisl di sostituire la politica con
la tutela individuale è parimenti sbagliata,
perché ti trasformi in una struttura di servizio,
dignitosissima, ma che non ha quella
politicità che, almeno per il sindacato italiano,
è insopprimibile. Oppure diventi, e
questo è un altro modello ancora, un sindacato
dei soci, come in America, quindi eserciti
il tuo ruolo facendo azione di lobbying.
Non so quale sia il modello migliore.
Certo per recuperare queste dimensioni
serve anche una politica che ti considera interlocutore,
in cui tu, a tua volta, stai dentro
le regole del gioco, non puoi essere quello
che pone i veti. Io dico che se volevi fare
una roba di sinistra con gli 80 euro la facevi
coi sindacati. Se invece la fai come elargizione
del principe, per raccogliere consenso,
metti fuori gioco il tuo interlocutore.
Ecco, per me uno dei tratti dirimenti della
sinistra è avere un rapporto con le organizzazioni
del mondo del lavoro.
Una delle cose in cui la sinistra è dissimile
alla destra è che pensa per esempio che la
democrazia in un mondo complesso non
possa essere esercitata solo nei luoghi di
rappresentanza istituzionale. Esiste la società
di mezzo, come ci ha tante volte spiegato
Giuseppe De Rita.
Oggi si parla dell’epoca del “ritiro della
delega”, tutti gli enti intermedi vivono
una crisi di legittimità.
Ma l’idea della disintermediazione è una
idea di destra. Oltretutto non puoi appellarti
al popolo delegittimando le organizzazioni
e poi cercare di recuperarle quando c’è
invece da chiedere sacrifici. Secondo me oggi
non esiste una forma democratica che
non valorizzi le organizzazioni.
Ripeto, la sinistra oggi è in una fase in cui
non è detto che debba continuare ad esistere.
Per tornare a esistere deve riscoprire il
senso della sua proposta, il suo linguaggio
e la sua forma organizzativa. Per farlo però
deve capire dove l’ha perso, quel senso. Io
dico che l’ha perso nell’incapacità di leggere
cos’è successo nell’ultimo quarto del secolo
scorso, con la grande trasformazione dell’economia
e della società frutto di questo
salto di qualità della globalizzazione, incrociata
con le nuove tecnologie della comunicazione
e dell’informazione. Secondo me lì
abbiamo proprio perso i riferimenti.
Volevi aggiungere qualcosa?
Guarda, io non voglio niente per me. Io vorrei
dare una mano, essere utile. Mi piacerebbe
che tutto quello che mia moglie e io
abbiamo fatto della nostra vita, quello che
abbiamo messo insieme, i libri, i dischi, i
nostri strumenti di lavoro, potessero essere
utili a qualcuno. Avendo 65 anni non è che
penso di averne altrettanti da vivere. Mi
piacerebbe che la parte di vita che ci è concessa
fosse utile per altri. Per me essere di
sinistra è anche questa roba qua. Ci sono
ragazzi e ragazze sveglissimi, a cui bisognerebbe
offrire delle occasioni. So che in questo
clima non è semplice fare qualcosa perché,
spesso, ti viene lo sconforto. Però, ecco,
bisognerebbe comunque provarci. È più facile
condividendo le scelte con altri. Mai
rassegnarsi!
(a cura di Barbara Bertoncin)
le nostre strutture di governo, sia
a livello macro che micro,
sono drammaticamente inadatte
a gestire i cambiamenti
-
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