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domenica 13 agosto 2017
Franco Astengo: Privatizzazioni e piano industriale
PRIVATIZZAZIONI E PIANO INDUSTRIALE di Franco Astengo
Calenda: "All'Italia serve un piano industriale. La crisi non è alle spalle".Dice il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda: "La verità, vuol sapere? La verità è che in trent'anni nessuno ha fatto niente per le imprese di questo Paese".
Chi non ha fatto nulla?
"I vari governi della fine della prima e della seconda Repubblica. Se dal 2007 al 2014 l'Italia ha perduto il 25% della propria base manifatturiera, la ragione è proprio questa".
Queste recentissime dichiarazioni del ministro Calenda hanno aperto un forte dibattito all’interno dell’area di governo, con risposta del responsabile economico del PD Nannicini (già consigliere di Renzi a Palazzo Chigi nel ruolo di elaborazione del job act), e si collegano anche con una interessante intervista rilasciata al Corriere della Sera ( pubblicata il 2 Agosto) dal presidente e dall’amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti, Gallia e Costamagna ,pone in rilievo una questione sul quale da tempo dovrebbe essere aperta una discussione di fondo.
In entrambe le occasioni emerge, infatti, con grande chiarezza il deficit di politica industriale che l’Italia accusa ormai da molto tempo e dovuto dal vero e proprio disastro creato nei settori strategici dalle privatizzazioni, a partire dallo scioglimento dell’IRI : Dal ’93 al 2000 l’IRI ha venduto partecipazioni e rami d’azienda i cui proventi andarono al Ministero del Tesoro, suo unico azionista; è uscita completamente da interi settori economici: bancario (cedute le partecipazioni detenute nelle tre banche di interesse nazionale: Comit, Credit e Banca di Roma), siderurgico, impiantistico, alimentare, delle telecomunicazioni (cessione della Stet-Telecom), autostradale, delle costruzioni dell’ingegneria e delle infrastrutture edili. Vende le compagnie di navigazione e di linea. Ultime operazioni sono state l’uscita dal sistema aeroportuale e la cessione della quota ancora posseduta in Finmeccanica. Il 27 giugno del 2000 l’Assemblea Straordinaria dell’IRI spa delibera lo scioglimento dell’IRI mettendolo in liquidazione a partire dalla data del 1 luglio 2000 secondo un processo che si concluderà nel novembre 2002: il suo patrimonio residuo è incorporato nella società Fintecna, che fa parte appunto del Gruppo Cassa Depositi e Prestiti.
Rievocato questo passaggio storico rimane da ricordare, nell’attualità, come il quadro generale sia comunque quello del rapporto tra internazionalizzazione dei processi e ruolo dell’intervento pubblico in economia (come ben dimostrato del resto dall’intervento del governo francese nella vicenda dei cantieri navali).
Da considerare, ancora, il ruolo dell’industria bellica e del suo rinnovamento tecnologico in una fase di fortissima ripresa delle procedure di riarmo da parte delle grandi potenze (pensiamo a navi, aerei, ecc) e all’impegno che questo comporta nei vari bilanci statali e nella pianificazione industriale.
Andiamo allora per ordine nel valutare ciò che è successo con le privatizzazioni seguite alle dismissioni e poi allo scioglimento IRI
1) Inutile ricordare ciò che è accaduto nel settore bancario. Nell’intervista citata i vertici di CdP parlano della partecipazione al fondo Atlante (10%) come di un “toppa” per non far saltare l’intero sistema. Ed è tutto detto, lo si capisce addirittura leggendo l’intervista;
2) L’Italia ha il più alto consumo di acciaio al mondo e dispone di una produzione insufficiente (ad esempio importa laminati piani) ed è ormai costretta, come sostengono gli intervistati, a “tifare” Ilva cioè gli indiani, con tutte le conseguenze del caso.
3) Anche rispetto ad Alitalia non si ritiene di dover riferire e commentare più di tanto: i risultati della privatizzazione sono sotto gli occhi di tutti e anche i ridicoli balletti alla ricerca di partners più o meno probabili;
4) Al riguardo delle telecomunicazioni (settore strategicamente decisivo) appare evidente l’estrema debolezza e ritardo accumulato nel settore (oltre a vicende poco edificanti come quella dei “capitani coraggiosi”) portando Telecom in mano ai francesi e istruendo una finta concorrenza in termini di “cartello”. Un quadro di vero e proprio arretramento.
5) Nella stessa intervista già citata ai vertici di CdP si lamenta il blocco di molti progetti infrastrutturali (si accenna alle carceri e agli impianti di illuminazione pubblica). Esistono sotto questo aspetto quattro punti di vera propria sofferenza che l’intervista ai vertici di CdP non affronta: la rete ferroviaria, quella idrica, l’assetto geologico, le autostrade. Per quel che riguarda le ferrovie pensiamo all’incompetenza dimostrata, nel corso degli anni, dal management sulla vicenda dall’Alta velocità;
6) Nell’insieme l’industria, sul piano occupazionale, è calata negli ultimi 16 anni dal 32% al 28% complessivo ( e si vanta la percentuale dello 0,9% nell’aleatoria prospettiva dei “posti vacanti”, in ogni caso prevalentemente destinati, nell’eventualità, ai servizi). Settore dei servizi dove si esercitano sfruttamento intensivo e lavoro nero, in condizioni complessive di lavoro insopportabili come dimostra l’analisi riguardante l’intero settore della logistica e dell’e-commerce.Dal punto di vista della struttura industriale siamo di fronte non soltanto di una diminuzione di peso specifico ma ad un vero e propri depauperamento dal punto di vista della capacità di know- how, di innovazione, di progettualità.
7) La vantata manifattura italiana si esercita in settori soprattutto- come non ci stancheremol mia di far rilevare - ad alta intensità di sfruttamento della manodopera e scarsa valorizzazione del know – how, con interi comparti dove lo sfruttamento è esercitato direttamente da imprese a capitale e personale straniero (esempio i cinesi a Prato nel tessile).Capitale straniero che esercita appunto un livello di sfruttamento intollerabile, con quote fortissime di lavoro nero. Questa riflessione vale anche per la vantata crescita della produttività industriale contabilizzata nel trimestre scorso. Lo stesso “Sole 24 ore” denuncia il ritardo nell’insieme del quadro di relazioni industriali. Naturalmente governo e opposizioni si occupano prevalentemente di sgravi e decontribuzione ignorando completamente la necessità di creazione di lavoro vivo.
Il giudizio, a questo punto appare scontato e anche la valutazione per il futuro.
E’ certa l’assoluta insufficienza del quadro industriale e infrastrutturale del Paese soprattutto al riguardo del quadro europeo.
In conclusione possono essere evidenziati, come punti di riflessione sulla materia, questi quattro punti:
1) Il primo punto di analisi riguarda l’assoluta fragilità del sistema di cui è indicatore primario il gap tra la crescita media dell’Italia 0,9% rispetto alla media europea 1,9% (fatto salvo tutto le scetticismo rispetto a questi dati che pure debbono essere comunque assunti sul piano dell’analisi)
2) La valutazione di “fragilità sistemica” e avvalorata dal fatto che tutto il quadro è “drogato” dal “quantitative easing” portato avanti dalla BCE;
3) Altro indicatore che desta grande preoccupazione è quello riguardante il fatto che il tasso di crescita più elevato è relativo al Nord Est: ancora una volta “distretti per l’export”. Un punto di debolezza perché modello territoriale inteso esaustivamente senza alternative sul piano industriale;
4) Il nodo di fondo rimane quello della struttura industriale del Paese assolutamente carente nei settori strategici .Si comprende a questo modo la relativa ripresa al Sud e l’ulteriore calo nel Nord Ovest: si arretra ancora proprio negli asset fondamentali della produzione industriale per via dei due elementi di ritardo già poc’anzi richiamati: l’innovazione tecnologica e il deficit infrastrutturale.
In ogni caso rimane il nodo di un piano industriale che non si potrà elaborare e portare avanti (nell’eventualità di si voglia pensare concretamente) senza un riferimento di intervento e gestione pubblica. In questo senso va inteso il richiamo allo scioglimento dell’IRI compreso in questo intervento. Scioglimento dell’ IRI che a distanza di tanti anni può ben essere considerato come fortemente negativo per l’industria italiana.
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