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sabato 16 maggio 2015
Franco Astengo: Europa
IL DIBATTITO SULL’ECONOMIA NON STA AFFRONTANDO I NODI DI FONDO, SOPRATTUTTO RISPETTO ALL’EUROPA di Franco Astengo
Sembra fermo il dibattitto economico a sinistra, dopo aver oscillato per un lungo periodo attorno al nodo “Euro, non Euro” sede di brillanti, ma non particolarmente incisive, analisi accademiche e aver inseguito l’articolato confronto/ scontro tra la Grecia del post-elezioni e l’Europa (o meglio la Commissione dominata dalla Germania).
Un confronto/scontro al riguardo del quale probabilmente ci sfuggono elementi relativi al dibattito interno al quadro politico ellenico, in particolare nell’area di governo, che impediscono un’adeguata valutazione complessiva.
Nell’insieme, però, a dimostrazione della fragilità delle analisi precedenti e del sostanziale provincialismo nella sua impostazione questo dibattito pare essersi arrestato, da un lato, sulla frontiera del Quantitative Easing e sull’altro dei vantati successi del governo Renzi, sia in materia di occupazione, sia relativamente alla crescita del PIL.
Sono così venute fuori dichiarazioni del tipo “Paese in ripresa”; “Cresce l’occupazione”.
Cominciamo, allora, da una valutazione obiettiva dei dati dell’ultima nota mensile redatta dall’ISTAT (Aprile 2015) come riportato anche da un articolo di Luigi Pandolfi apparso su “Sbilanciamoci”.
Nell’insieme si verifica la realtà di un paese ancora in difficoltà, lontano da una prospettiva di crescita a breve termine.
Appare evidente come l’avvenimento più significativo dall’inizio dell’anno, che ha innovato il rapporto tra l’autorità monetaria e il sistema economico, è stato l’avvio proprio del Quantitative Easing considerato dalla BCE l’arma per rianimare il settore del credito e, di conseguenza, quello degli investimenti e dei consumi.
Un’operazione che, a due mesi dal suo lancio, non sembra dare risultati di rilievo se è vero che l’eurozona si presenta ancora come un’area economica in affanno presentando, salvo pochissime eccezioni, magri risultati dal lato della produzione.
Nel primo trimestre di quest’anno il Pil è cresciuto solo dello 0,4%, troppo poco per parlare di ripresa.
Ciò, mentre il tasso di disoccupazione è rimasto inchiodato al di sopra dell’11%.
Si può quindi affermare l’insufficienza (anzi, l’inutilità) di politiche monetarie espansive in assenza di politiche fiscali corrispondenti.
In questa cornice l’Italia ha fatto registrare su base congiunturale (rispetto al mese di marzo) un maggiore dinamismo dell’attività industriale (+ 0,6%) ma a trainarla sono solo i beni strumentali (+1,1%) e il comparto energetico (+3,6%).
Tutta l’industria trasformatrice, vera spina dorsale del sistema Italia, resta praticamente al palo.
Ed è questo il punto sul quale soffermarci, perché il senso di un’alternativa vera alle politiche capitalistiche sul piano europeo e su quello interno è quello proprio della politica industriale.
Come può essere possibile, in questo senso, presentare un’alternativa di fondo uscendo dalle logiche recessive dell’imposizione monetarista?
Il tessuto produttivo nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l'economia del Paese e non si riesce a varare un’efficace programmazione economica, all'interno della quale emerga la capacità di selezionare poche ed efficaci misure, in grado di incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e lungo periodo.
Appaiono, inoltre, in forte difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura produttiva, ideati nel corso degli ultimi vent'anni allo scopo di favorire crescita e sviluppo: il caso dei distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito.
Da più parti si sottolinea, giustamente, il deficit di innovazione e di ricerca.
Ebbene, è proprio su questo punto che appare necessario rivedere il concetto di intervento pubblico in economia: un concetto che, forse, richiama tempi andati, di gestioni disastrose e di operazioni “madri di tutte le tangenti”.
Oggi si tratta di riconsiderare l'idea dell'intervento pubblico in economia e porre questo tema come quello effettivamente alternativo e praticabile al riguardo dell’Europa della Commissione e dei banchieri.
Emerge, infatti, la consapevolezza di dover finanziare l'innovazione produttiva.
Mentre il mercato internazionale si specializzava nei beni di investimento e intermedi, con alti tassi di crescita, l'Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi tassi di crescita.
Nel 1990 (queste le responsabilità politiche vere del pentapartito che si riflettono ancora adesso sulla realtà attuale, assieme al peso dell’aver sottoscritto trattati europei pesantemente vincolanti in assenza di una qualsiasi prospettiva plausibile di tipo politico) i paesi europei erano tutti in condizione di debolezza e tutti, tranne Portogallo, Grecia, e Italia, hanno modificato le proprie capacità tecnico – scientifiche diffuse, al fine di agganciare il mercato internazionale.
Non a caso i Paesi europei hanno una dotazione tecnologica, costruita anche grazie al supporto e all'intervento diretto del settore pubblico, mentre l'Italia ha dovuto importare l'innovazione da altri rinunciando anche allo sviluppo di segmenti alti del mercato del lavoro, dall'informatica, all'elettronica, alla chimica, addirittura all'agroalimentare.
Anzi, cedendo nel frattempo qualche proprio pezzo privilegiato come nel caso Ansaldo.
Siamo, a questo punto, al nodo dell'intervento pubblico in economia, che va rivolto prioritariamente, alla capacità di finanziamento e di regolazione verso i soggetti capaci di generare innovazione: l'Università, in primis, L'Enea, il CNR.
La privatizzazione delle grandi utilities e anzi il loro restringersi a logiche di competizione interna a uso politico come nel caso della costruenda questione tra Telecom (un vero disastro da attribuire in gran parte al centrosinistra) ed Enel sul tema della fibra larga appare emblematica di questa situazione.
Un’alternativa a sinistra passa prima di tutto dall’opposizione a questa Europa e a questo Governo collegata comunque a un’ipotesi alternativa di rilanciare dell’intervento pubblico e d gestione diretta dei settori strategici, incluso quello bancario.
Pensare all’intervento pubblico deve significare non rinchiudersi in un ambito neo-protezionistico ma rilanciare in pieno l’alternativa di un riequilibrio nei meccanismi concreti dello sviluppo, senza nessuna concessione ai feroci meccanismi di gestione del ciclo capitalistico e alla semplice opposizione al neo-liberismo: una definizione questa assolutamente erronea e fuorviante.
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