Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 maggio 2020
Franco Astengo: La data del referendum
LA DATA DEL REFERENDUM di Franco Astengo
Sul tema della riduzione del numero dei parlamentari chi ha ancora a cuore la democrazia repubblicana ha il dovere di essere particolarmente chiaro, questa volta senza sfumature: Il Comitato per la Democrazia Costituzionale dovrebbe chiedere udienza al Presidente della Repubblica, naturalmente non per chiedere un suo intervento che sicuramente non può eventualmente oltrepassare il limite di una “moral suasion” .
L’occasione dovrebbe però essere colta per fare in modo che alla più Alta Magistratura della Repubblica possano essere direttamente illustrate le ragioni di chi si oppone a questo sicuramente nefasto provvedimento.
La riduzione nel numero dei parlamentari, nelle condizioni in cui questo provvedimento potrebbe realizzarsi se il voto del Parlamento dovesse essere confermato nel referendum, rappresenterebbe il “vulnus” più grave inferto alla Costituzione dal 1948 in avanti.
Si tratterebbe, infatti, del frutto avvelenato dell’antipolitica accettato dai gruppi parlamentari soltanto per pavidità e opportunismo, al di fuori dai 5 stelle che ne sono stati promotori all’insegna “dell’aprire le Camere come una scatola di tonno” (discorso che echeggiava “l’aula sorda e grigia, bivacco di manipoli”).
Un’ emergenza questa della pavidità e dell’opportunismo che rappresenta un vero problema per il corretto funzionamento delle istituzioni, come abbiamo constatato anche nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria, suggellando così la davvero mediocre qualità politica e di dimensione istituzionale che fin qui è stata espressa dal combinato disposto Governo – Parlamento.
Un Parlamento eletto ancora una volta attraverso una legge elettorale nel cui testo si ravvisano diversi profili di incostituzionalità.
Del resto i Parlamenti della XV, XVI,XVII legislatura erano stati eletti con leggi elettorali dichiarate incostituzionali dall’Alta Corte.
Quello dell’incostituzionalità delle leggi elettorali rappresenta un altro particolare dimenticato quando si cerca di definire un profilo della classe politica che ha agito sul piano istituzionale nel corso degli ultimi anni.
Appare meschino il tentativo di confondere una scadenza come quella referendaria, di massima importanza per il futuro della qualità della democrazia italiana, con la canea di basso profilo che si misurerà con l’elezione diretta dei Presidenti di Regione (si tralascia, in questa occasione, il discorso sulla vera e propria “disgrazia democratica” rappresentata dall’elezione diretta a cariche monocratiche).
E’ necessario far emergere con chiarezza i termini della questione in gioco che ancora una volta, come nell’occasione dei due altri referendum confermativi del 2006 e del 2016, riguarda il cuore stesso dell’impianto previsto dalla Carta fondamentale sui temi delicatissimi della forma di governo, del ruolo delle Camere, della rappresentatività dei soggetti politici in entrambe le direzioni della piena rappresentatività delle più significative sensibilità culturali e dei territori.
Dobbiamo sollevare il tema al massimo livello.
Il voto referendario necessita di una accurata e specifica preparazione, nel corso della quale le diverse ragioni in campo debbono poter disporre dello spazio temporale e fisico per essere esposte all’intero corpo elettorale, senza interferenze varie e senza asimmetrie nel numero di schede da votare da territorio a territorio, come accadrebbe nel caso dell’accorpamento.
Si sta compiendo, in questi giorni, un vero e proprio “sopruso” al riguardo dell’esercizio pieno e legittimo della democrazia nella sua espressione più alta che è quella del diritto di voto dal punto di vista della libertà personale di espressione.
Occorre riprendere da subito la mobilitazione e portare al massimo della visibilità e della presa di coscienza collettiva, i motivi che sostengono la necessità di un regolare svolgimento del voto.
venerdì 29 maggio 2020
Franco Astengo: Una ricostruzione di senso e di indirizzo
UNA RICOSTRUZIONE DI SENSO E DI INDIRIZZO di Franco Astengo
In avvio due punti di assoluta precisazione, perché non è possibile lasciar far tutto soltanto in nome della propaganda:
1) Come era già avvenuto con i vari decreti emanati dal governo nel corso del lockdown Il gran concerto dell’informazione si è precipitato sulla vicenda del “Recovery Fund” dando per scontato un esito che invece è al di là da venire, dai tempi incerti e che sarà determinato dalla conclusione di una durissima trattativa. E’ sbagliato quindi affermare che all’Italia toccheranno 127 miliardi come se fossero già lì pronti sull’unghia. Anche questo è un aspetto della prevalenza dell’apparire al posto dell’essere che finisce con l’assumere un significato quanto mai deleterio rispetto alla costruzione di un corretto “immaginario pubblico”;
2) E’ sbagliato scrivere semplicisticamente di “Ricostruzione”: non ci sono le macerie da portare via e non c’è bisogno di alcun “Piano Fanfani” di edificazione di case popolari. Piuttosto si dovrebbe parlare e scrivere di “Ricostruzione di senso e di indirizzo” prima di tutto nella direzione di una riedificazione di un “patrimonio sociale” e di spostamento verso una nuova dimensione del “collettivo” anche sul piano morale e culturale;
In ogni caso l’obiettivo primario di questa operazione non può essere quello della riduzione indiscriminata delle tasse in piena linea berlusconiana del “risveglio degli spiriti animali del capitalismo” lasciando intatto l’enorme sottobosco del lavoro nero e dell’evasione fiscale correlato con l’avvio di un’altra stagione di elargizione di bonus e di sussidi come appare essere nell’imprinting di questo governo formato sulla base di un coacervo di vecchia democristianità e di eterno populismo.
Non ci si può rivolgere soltanto verso la crescita della domanda interna per alimentare il consumismo come accadde con il “miracolo economico” degli anni’60.
Se vogliamo guardare all’indietro sembra riprodursi un confronto che assomiglia a quello di quegli anni, con l’avvento del centro – sinistra e la necessità di modernizzare il paese: confronto che si chiuse, sul piano del governo, con il “tintinnar di sciabole” e nel PCI con l’XI congresso e l’affermazione della linea che avrebbe portato al “compromesso storico” e, quindi, al topolino della solidarietà nazionale.
Occorre tenere ben conto delle esigenze di sovranazionalità e del pericolo esistente di un ripiegamento sovranista .
Il cosiddetto “sovranismo” non rappresenta soltanto un patrimonio dalla destra più o meno classica ma anche e soprattutto di aree culturali,politiche e di potere economico e nel campo della comunicazione che si potrebbero definire formate da”poteri forti”.
Si tratta allora di riflettere su cinque punti che, almeno a mio giudizio, dovrebbero distinguere la presenza di una moderna sinistra all’interno del debole sistema politico italiano:
1) Programmazione dell’economia rivolta nel senso di recuperare una presenza nei settori strategici e inaugurare una stagione di crescita nella qualità tecnologica del nostro sistema produttivo;
2) Una vera e propria “riprogettazione strutturale” dell’intervento sociale del pubblico ridefinendo anche i termini del rapporto “centro - periferia”
3) Forti investimenti nella modernizzazione complessiva della rete infrastrutturale;
4) Forti investimenti nella formazione con un progetto di riqualificazione dell’Università;
5) Nuovo welfare universalistico dentro al quale trovare forza e capacità per una nuova stagione di diritti del lavoro abbattendo la precarietà, le disuguaglianze economiche e territoriali, il peso della differenze di genere e di generazione, le chiusure razzistiche.
6) Avvio di un piano per la completa digitalizzazione delle transazioni commerciali con l’obiettivo dell’abolizione del contante.
Un programma “riformista” a mio giudizio,a questo punto del tutto rivoluzionario
Questi punti, assieme a una visione della democrazia repubblicana saldamente ancorata ai principi costituzionali nel senso della centralità parlamentare , della rappresentanza politica, del valore dell’intermediazione sociale. dovrebbero rappresentare gli elementi sui quali far poggiare quel progetto di ricostruzione (in questo caso davvero di ricostruzione) di una sinistra unitaria e rappresentativa (come ha scritto sul Manifesto, Tommaso Di Francesco) adeguatamente attrezzata per affrontare la complessità delle contraddizioni evidenti nello stato delle cose presenti e nel futuro.
mercoledì 27 maggio 2020
martedì 26 maggio 2020
lunedì 25 maggio 2020
domenica 24 maggio 2020
Recovery fund, Zingaretti scrive al leader del Pse e chiama in causa Svezia e Danimarca: "I Paesi frugali con leader socialisti sostengano aiuti a fondo perduto e senza rigide condizioni" - Il Fatto Quotidiano
Italia - La politica umiliata dalla finanza | Insight
Italia - La politica umiliata dalla finanza | Insight: Free thinking for global social progress
sabato 23 maggio 2020
Renewal | Lockdown Labour
Renewal | Lockdown Labour: A quarterly journal of politics and ideas, committed to exploring and expanding the progressive potential of social democracy
venerdì 22 maggio 2020
giovedì 21 maggio 2020
Fca, Landini: "Stato entri nell'azienda, come la Francia in Psa". Re David: "Tutti gli operai sono in cassa integrazione, i dividendi aspettino" - Il Fatto Quotidiano
Massimo D'Alema: Dopo la pandemia, i nuovi equilibri internazionali
Dopo la pandemia, i nuovi equilibri internazionali: La bufera del coronavirus ha scosso il mondo. Nulla – si dice – sarà come prima. (…) Anzitutto perché questa crisi ha un’inedita dimensione an...
mercoledì 20 maggio 2020
martedì 19 maggio 2020
Fca, Provenzano parla della "concentrazione dei mezzi d'informazione" (Repubblica e La Stampa): "Conflitto di interessi epidemico. Per troppo tempo anche a sinistra abbiamo visto solo quello di Berlusconi" - Il Fatto Quotidiano
lunedì 18 maggio 2020
L’economia italiana dopo la pandemia - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro
L’economia italiana dopo la pandemia - Sbilanciamoci - L’economia com’è e come può essere. Per un’Italia capace di futuro: Le difficoltà economiche causate della crisi sanitaria del Covid-19 saranno di una dimensione mai vista in precedenza in Italia. Quali saranno i settori e i territori più colpiti? Quali gli effetti sull’occupazione? Soprattutto, quale futuro ci aspetta dopo la pandemia?
domenica 17 maggio 2020
Franco Astengo: Caoslandia
CAOSLANDIA di Franco Astengo
Mi permetto di avanzare una proposta di dibattito rivolta alle gentili interlocutrici e interlocutori cui normalmente mi rivolgo attraverso numerosi interventi.
In particolare il mio riferimento riguarda quelle compagne e quei compagni che, in sede locale e a livello nazionale, stanno impegnandosi in progetto di progetti di nuova acculturazione e di ricostruzione a sinistra.
Lo spunto iniziale per svolgere un tentativo di avvio della discussione mi è stato fornito dalla lettura di alcuni saggi contenuti nel numero appena uscito di Limes (4/2020).
La rivista diretta da Lucio Caracciolo è uscita in questi giorni per la prima volta da quando si è registrato il mutamento di proprietà all’interno del gruppo GEDI: mutamento che ha provocato il cambio di direzione sia a “Repubblica”, sia alla “Stampa”.
Un cambiamento di rotta nel passaggio dal gruppo De Benedetti a quello Agnelli del quale si ravvedono già le tracce nella lettura del volume in esame.
Ciò nonostante i temi che “Limes” solleva sono sul piano strategico quanto mai pregnanti e vale proprio la pena affrontarli.
In questo caso però mi limito a riassumerli, chiosando soltanto qualche passaggio e seguendo le linee tracciate da diversi interventi presenti nella rivista.
Proprio il valore strategico di quanto viene di volta in volta esaminato e avanzato sul piano propositivo richiede, infatti, una valutazione quanto mai approfondita.
Una valutazione che può determinarsi soltanto al termine di una discussione condotta fino all’individuazione dei termini essenziali delle diverse questioni.
Il riferimento complessivo è naturalmente rivolto agli equilibri possibili nel post – emergenza sanitaria.
Un tema riassunto sotto questo titolo: Il vincolo interno “ Mai così in pericolo, mai così contesa. L’Italia deve riscoprire se stessa. Un progetto per non finire in Caoslandia”.
Andando dunque per ordine:
Vincolo esterno.
1) Da Limes si afferma: l’Europa è oggi questione di vita o di morte. Dagli aiuti rapidi, corposi e senza troppe condizioni che dagli europei dovremmo ricevere, nominalmente via Bruxelles, di fatto da Berlino, dipende se avremo un futuro dignitoso. Altrimenti sarà bancarotta e non solo finanziaria (proprio oggi mentre scrivo cominciano ad emergere dalla lettura dei quotidiani forti timori per la tenuta dell’ordine pubblico legati anche alla situazione del settore industriale per il quale l’attuale governo è completamente privo di linea politica).
Sicuramente è necessario guardare oltre il contingente e preparare il salto di qualità.
Da questo punto parte un giudizio sull’Eurozona valutata più problema che risorsa. “Di questa casa era fallita la pianta, mentre prometteva di unire, separava”.
Noi europei siamo troppo orgogliosamente diversi per infilarci tutti lo stesso vestito.
Per di più venendo puniti, anziché aiutati, lo stesso vestito stringe fino a soffocarci: è la legge dell’ Eurozona, il succo del vincolo esterno.
In questo modo si rende impossibile la strada della “democratizzazione”, dello spostare sul Parlamento il fulcro dell’Unione sottraendolo a Commissione e Consiglio: come in certi analisi progressiste si è cercato di definire anche recentemente, rimpiangendo anche la mancata stesura di una Costituzione Europea.
Difatti la strada indicata da Limes è quella di Dahrendorf della “convertibilità”.
Si tratta di promuovere una “diversità attiva” anziché una “pseudo – unificazione passiva” sinonimo di disintegrazione.
Si evoca una modalità cooperativa a viso aperto aprendo spazi di pace e di revocabili intese e sì anche monete sovrane di Stati sovrani, come impongono ragioni e consuetudini.
Per Limes si apre, quindi, alla rottura di un tabù come quello rappresentato dall’euro: da Maastricht (giudicato in altra parte del testo un “autogoal” al pari di Tangentopoli) in avanti l’euro ha accentuato distorsioni funzionali e derive disgregatrici, cui si è risposto con un sovrappiù di retorica. Risultato la distanza fra la parola e la cosa – unione versus disintegrazione – è siderale, al punto da suscitare avversione persino in un paese di antica fede europeista come il nostro.
Appare questo al riguardo dell’euro il primo punto sul quale emerge il peso della nuova proprietà di GEDI, laddove a rafforzare questa mia ipotesi personale si prosegue:
Nell’Europa stretta vocazionalmente occidentale, l’Italia può giocare le sue carte, esprimere i suoi talenti.
Con due riferimenti inaggirabili. Quelli di sempre. Francia e Germania. Nostro interesse è che la stranissima coppia franco – tedesca sia sufficientemente instabile da non imporsi come direttorio ma abbastanza coerente da impedire lo scontro tra le due rive del Reno.
L’Italia o sceglie di svolgere un ruolo di partner inferiore ma essenziale in un triangolo con Francia e Germania o è semplicemente fuori dall’Europa. Star dentro al quadro europeo è l’unica possibilità per evitare di finire dentro a Caoslandia.
2) L’asse di riferimento franco – tedesco che viene indicato sul piano delle dinamiche geopolitiche appare perfettamente coerente con un’impostazione di tipo neo – atlantica nell’intento di superare la crisi del ciclo innestato con il ruolo assunto dagli USA nel post – caduta del bipolarismo.
Si rileva anche una coerenza con la scelta europea dell’asse franco – tedesco con l’Italia partner essenziale che finirebbe con il riportarci alle origini della centralità dell’Europa Occidentale in funzione della presenza USA.
Limes, infatti, sostiene come l’Italia quanto più partecipa con le sue priorità al nucleo della Vecchia Europa, tanto meglio riesce a farsi ascoltare a Washington.
Non possiamo rimanere passivi nello scontro tra Stati Uniti e Cina, cullando fantasie d’equidistanza.
La neutralità è lusso. Si attaglia agli stati soddisfatti. Sicuri. Noi non lo siamo.
Si ribadisce così una rinnovata centralità della NATO.
Il Patto Atlantico non è solidarietà tra pari ma gerarchia hub and spoke, per la soddisfazione del perno che dei raggi.
Solo noi italiani siamo (stati?) capaci di figurarci l’atlantismo, come l’europeismo, ecumenico, egualitario.
Al riguardo dello scontro tra la superpotenza e i suoi due rivali massimi, che grazie al ritorno della Russia e all’arrivo della Cina nell’Euromediterraneo inevitabilmente ci coinvolgerebbe, abbiamo tutto da perdere.
Da qui (secondo Limes) un doppio urgente precetto, sfidando l’intelligenza strategica dell’America e dei suoi associati europei:
a) reintegrare la Russia da potenza autonoma (cortesia che sta per “sola”) negli equilibri continentali da reinventare, emancipandola dalla necessità d’abbracciarsi alla Cina.
b) Vegliare a che le vie della seta non tralignino in nicchie di influenza sinica a tutto tondo, come da Sogno Cinese.
Per quel che riguarda il vincolo esterno in sostanza Limes (mi pare in ossequio alle indicazioni della nuova proprietà del gruppo GEDI) prende atto della chiusura della globalizzazione, di un ritorno della geo politica e propone una rivisitazione del “ciclo atlantico” e dell’Europa imperniata sull’Occidente in un quadro nel quale ci si proponga di evitare la formazione di un nuovo bipolarismo. Si direbbe la NATO senza guerra fredda accantonando però il multipolarismo che pure era stato coltivato per qualche tempo. Ricostituzione delle gerarchie a livello planetario come nel testo è chiaramente evocato in questo passaggio storico. L’Italia, in un quadro di riassunzione di sovranità anche monetaria, lato minore di un triangolo con Francia e Germania e appoggiata agli USA con i quali “rinegoziare non troppo vessatorie intese bilaterali”.
Vincolo Interno
L’obiettivo indicato è quello di attrezzare lo Stato ad un grado di efficienza minimo per sostenere la competizione internazionale nell’era che è definita come “nessuno per tutti”.
Così si ribadisce quanto già previsto nel capitolo riguardante il vincolo esterno: L’Italia deve poter contare su di sé mentre cerca di intendersi con altri.
Nella ristrutturazione degli interni due priorità:
1) La vera emergenza è quella demografica. Pochi Italiani, poca Italia. O facciamo più figli o meno improbabilmente ne importiamo di già nati. Meglio le due cure insieme. Traduzione: politiche per le famiglie e nazionalizzazione di stranieri, in base a criteri per quanto possibile selettivi. Le tendenze indicano che nel 2065 l’Italia avrà 54,1 milioni di abitanti (rispetto agli attuali 60,5) notevolmente anziani, contro gli 81,3 del Regno Unito, i quasi 82 della Germania, i 72 della Francia. Il nostro PIL sia totale che pro capite verrebbe così amputato di un terzo;
2) L’accentramento di poteri e responsabilità, senza di che riduciamo lo Stato a burocrazia.
Di questo obiettivo l’emergenza da virus esplicita l’urgenza: le funzioni strategiche dello Stato, oltre alle canoniche difesa e diplomazia, anche sanità e istruzione, sono efficienti se regolate in prima e ultima istanza dal centro. Esistiamo e vogliamo continuare a esistere da italiani. Senza rinnegare le identità radicate in secolo di formidabili fioriture cittadine, ma coltivandole nell’impianto bimillenario della nazione per giocarle sulla scena del mondo.
Si avanza a questo punto una proposta di ristrutturazione complessiva dell’assetto dello Stato sul fronte centro – periferia.
Da dopodomani questo imperativo configurerebbe uno Stato senza Regioni, organizzato in dipartimenti territorialmente coerenti, di dimensioni intermedie fra la regionale e la provinciale.
Spunti rinvenibili in alcune analisi della Società Geografica Italiana, quando suggerì (2014 se non ricordo male)l’abolizione insieme di Province e Regioni in favore di aree funzionali, d’impronta dipartimentale.
Idee riprese in diverse configurazioni nei disegni di legge di revisione dei poteri e degli assetti territoriali giacenti in Parlamento.
Ne emerge la coscienza del disastro generato dalla riforma del titolo V della Costituzione per inseguire le chimere federaliste.
Limes sostiene che la riforma centralista non ha nulla di ideologico. Serve il principio di efficienza sposato al vincolo di legittimazione. In carenza dei quali ogni struttura scade a bardatura autoreferenziale. Estendendo la frattura scomposta cittadini /istituzioni che il Covid – 19 ha per paradosso cominciato a curare.
Limes conclude questa parte esprimendo consapevolezza dei tempi lunghi e evocando la convenienza di spazzare dal tavolo il cosiddetto regionalismo differenziato, pasticcio destinato a moltiplicare i conflitti fra centro e periferie, oltre che fra le stesse Regioni.
Svuotare il titolo V, anche attraverso l’adozione di una clausola di supremazia, introdurrebbe nella costituzione materiale il principio dell’interesse nazionale, garante dell’unitarietà giuridica, economica, geopolitica della Repubblica.
Questo, in conclusione, è il mio commento finale (si sarà compreso come le mie chiose al riassunto del testo di Limes siano state scritte usando il corsivo).
Considerata l’importanza della testata che ha avanzato questo tipo di analisi e di proposte (importanza già più volte richiamata) si possono dedurre, come elementi di dibattito:
1) La linea che qui è stata esposta,sia sul piano del vincolo esterno, sia al riguardo di quello interno, riprende in linea di massima la linea del PD ( R ), ovverosia la linea espressa dal Partito Democratico durante la segreteria e la presidenza del Consiglio Renzi in precedenza al referendum 2016: dal rinnovo del ciclo atlantico (in quel momento però alla Casa Bianca c’era Obama), alle politiche per la famiglia, alla ristrutturazione istituzionale comprensiva del rapporto centro – periferia (due dei progetti di legge riguardanti la ridefinizione delle Regioni hanno come primo firmatario, non a caso, Ceccanti). Una visione complessiva molto tecnocratica dentro alla quale sta anche il prestito da 6,5 miliardi a FCA con sede ad Amsterdam;
2) Dobbiamo aspettarci, appena conclusa l’emergenza sanitaria una nuova messa in discussione del dettato Costituzionale magari attaccando anche punti particolarmente sensibili anche a sinistra oltre al consueto tentativo di sottrarre ruolo e funzioni al Parlamento (ricordiamo che è pendente anche il referendum sul taglio dei parlamentari, che adesso assume - se vogliamo – ancora maggiore importanza): il titolo V, l’articolo 81, il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Passaggi decisivi se si vuol riaffermare un riaccentramento dello Stato e una nuova “sovranità nazionale” di tipo democratico contrapposta al “sovranismo” di Lega e Fratelli d’Italia.
Questi mi sembrano i due punti sui quali, a mio giudizio, dovrebbe essere incentrato il dibattito: è probabilmente in vista un assalto all’attuale maggioranza in nome dell’apertura di un nuovo ciclo geopolitico sul piano europeo e planetario (in questo caso però sarà decisivo l’esito delle elezioni americane) e di una modifica costituzionale orientata verso una trasformazione radicale nel rapporto centro – periferia e del concetto stesso di sovranità nazionale.
A sinistra è necessario mettere mano a un’elaborazione posta sul piano della “visione” esterna e del “vincolo” interno . Un’elaborazione che si collochi all’altezza della complessità che, in questo caso, ci viene proposta considerata anche l’assoluta assenza di orientamento da parte dell’attuale PD (come rileva Piero Ignazi sulle colonne di Repubblica) e dell’insieme della maggioranza di governo e la forza oggettiva dei proponenti.
Si tratterà di capire, tra l’altro, quando il livello della proposta scenderà dal piano dell’analisi culturale a quello del livello direttamente politico. Il tutto si innesterà in una grave difficoltà per l’Italia nel costruire una classe dirigente all’altezza: anche su questo punto, sparita la funzione pedagogica dei partiti, il rischio è quello di una deriva tecnocratica come auspica, invece, Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera” evocando Raffaele Mattioli e il suo trust di cervelli da “capitalismo illuminato” messo su all’ufficio studi della Banca Commerciale tra gli anni’30 - ‘40.
sabato 16 maggio 2020
Roberto Biscardini. Perché centralizzare, anziché dare più potere ai Comuni? Una battaglia della sinistra Eccoci: Sfida Rosso Verde16 Maggio 2020A+A-EMAILPRINT
Roberto Biscardini. Perché centralizzare, anziché dare più potere ai Comuni? Una battaglia della sinistra
da job news
Eccoci: Sfida Rosso Verde16 Maggio 2020A+A-EMAILPRINT
Roberto Biscardini. Perché centralizzare, anziché dare più potere ai Comuni? Una battaglia della sinistra
Mi è capitato di ascoltare in una diretta Facebook un lungo intervento di Giuseppe Sala, sindaco di Milano, sul coronavirus e sugli errori commessi dalla Regione Lombardia. Errori recenti, ma anche frutto di quel modello introdotto dal centrodestra dopo il 1995, che, per favorire l’aziendalizzazione e la privatizzazione del sistema, aveva depauperato le strutture territoriali, i presidi ospedalieri diffusi, gli ambulatori, i consultori di prevenzione e riabilitazione e persino il ruolo dei medici di base. Sala ha voluto rimarcare le differenze tra la velocità e l’efficienza del Veneto rispetto all’azione confusa e inappropriata della Lombardia. Tuttavia non ha dedicato neppure una parola sul ruolo dei Comuni e sull’assenza pressoché assoluta dei Comuni più grandi, come Milano.
Da tempo abituati a considerare la sanità non un problema loro, nonostante il sindaco in virtù del Testo unico degli enti locali, mai abrogato, sia ancora rappresentante delle comunità locali in caso “di emergenze sanitarie” e pienamente responsabile dell’assistenza sociale (agli anziani per esempio, che tanto hanno sofferto in questi mesi). E sottolineo questo aspetto, non per auspicare ulteriori conflitti istituzionali tra i diversi livelli di governo, ma per affermare che la competenza sostanziale, politica e persino morale dei comuni non dovrebbe considerarsi svanita, quando di mezzo c’è la salute dei cittadini. Infatti, nonostante le competenze delle Regioni, anche prima del famoso Titolo V, e nonostante gli effetti di una legge sciagurata del 1992 (legge De Lorenzo-governo Amato), che ha totalmente esautorato i comuni dalla gestione e dal controllo diretto della sanità pubblica, il ruolo politico dei comuni non è stato cancellato, esiste e deve esistere.
E’ vero che quella legge ha abolito i comitati di gestione delle USL nominati direttamente dai consigli comunali e mortificato la mitica riforma Mariotti del 1968 che obbligava gli ospedali, trasformati in enti pubblici, a fornire assistenza gratuita a tutti i cittadini senza distinzione. Ha colpito al cuore anche la riforma istitutiva del Servizio sanitario nazionale del 1978, che prevedeva appunto un sistema territoriale potente garantito dalle Unità Sanitarie Locali sotto il diretto controllo dei comuni, trasformando le USL in ASL di nomina regionale. Ma non ha abolito i comuni che, nell’interesse generale dei propri cittadini, non avrebbero mai dovuto subire passivamente la logica della rigida separazione delle competenze, o far propria questa logica come alibi per lavarsene le mani.
Questo, per arrivare a due considerazioni.
La prima, per sottolineare come, anche in questa fase, i comuni avrebbero potuto e dovuto fare di più (come per la verità è stato fatto da alcuni piccoli comuni, soprattutto sul terreno dell’assistenza, con capacità e sensibilità, andando incontro alle esigenze delle persone, così come l’hanno fatto giovani volonterosi e comunità religiose). E nello stesso per evidenziare come i comuni dovrebbero, almeno oggi (di fronte al disastro), ammettere la responsabilità di essersi arresi da anni, rinunciando ad esercitare le proprie prerogative e a far sentire la propria voce contro i processi di privatizzazione della sanità pubblica portati avanti dalle Regioni.
La seconda questione è ancora più inquietante.
Essa riguarda il coro di voci, che si sono levate, non solo a destra ma anche a sinistra, a favore di una ricentralizzazione dei poteri verso lo Stato centrale. Proponendo persino l’abolizione delle Regioni e confondendo così la necessità di una diversa organizzazione e ridefinizione del loro ruolo con la voglia esasperata di ridare fiato all’antico centralismo romano. Come se a Roma tutto funzionasse benissimo. E contemporaneamente nessuno e nemmeno i diretti interessati, i comuni delle grandi città, hanno speso una sola parola per un decentramento dei poteri a loro favore, anziché assistere inerti alle proposte di ricentralizzare i poteri verso l’alto.
Una battaglia che in altri tempi si sarebbe fatta sentire alla grande.
Sarebbe stata naturale, e non parlo dei tempi di Carlo Cattaneo, quando i comuni sapevano di essere “l’essenza della libertà”. Ma anche dopo, quando, dagli albori del movimento socialista fino agli anni ’80, i comuni, anche sulla spinta di una cultura socialista entrata nelle vene delle amministrazioni locali, conoscevano bene il significato della loro missione e fecero del riformismo municipale il punto più alto delle loro azione politica. Perché non pensare che la battaglia per il rafforzamento del ruolo dei comuni ritorni ad essere oggi una battaglia fondamentale dei socialisti e di tutta la sinistra democratica?
Concludo con una breve nota. Un’ amica che vive da anni in Germania mi scrive: “Sono soddisfatta dei politici tedeschi sia a livello federale che locale. Il nostro sindaco Peter Tschentscher (SPD) sta gestendo la situazione in maniera molto oculata e competente. Abbiamo la fortuna di avere un sindaco che sta favorendo una riapertura a piccoli passi: nel settore scolastico ad esempio il 27 aprile hanno iniziato con le classi che quest‘ anno devono affrontare gli esami. I primi a rientrare a scuola sono stati i ragazzi che devono affrontare la maturità, seguiti una settimana successiva da quelli di 16 anni che devono fare l‘ esame intermedio (Mittlere Reife) per decidere se continuare ad andare a scuola o apprendere una professione. Questa settimana sono tornati a scuola i bambini della scuola primaria che devono anche loro fare gli esami. Poi l‘Istituto di Patologia della clinica universitaria di Amburgo ad esempio ha esaminato il maggior numero di autopsie su malati morti per COVID per stabilire le cause principali delle morti che sono avvenute o per trombosi (soprattutto nelle gambe) o per emboli polmonari. Questo ha migliorato la terapia e ai malati sono stati somministrati nuovi farmaci”.
Ecco, in Germania, con tutti i suoi limiti, esiste sia lo Stato centrale sia quello autorevole dei comuni, e naturalmente quello dei Lander, e non sembra che siano in conflitto tra loro.
venerdì 15 maggio 2020
Ora serve la transizione verso un’economia postcapitalista. Intervista a Paul Mason - Diritti GlobaliDiritti Globali | il sito di SocietàINformazione Onlus e del Rapporto sui diritti globali
giovedì 14 maggio 2020
mercoledì 13 maggio 2020
martedì 12 maggio 2020
lunedì 11 maggio 2020
domenica 10 maggio 2020
Franco Astengo: Lavorare meno, lavorare tutti
LAVORARE MENO LAVORARE TUTTI di Franco Astengo
La proposta è arrivata dalla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Questa norma temporanea sarebbe allo studio del governo in particolare per dare risposta ai problemi concreti che si verificheranno nelle imprese per le misure si distanziamento interpersonale e per il protocollo di sicurezza anti-Covid: i turni andranno riorganizzati, meno dipendenti potranno lavorare nello stesso momento. Quindi un’alternativa alla cassa integrazione potrebbe essere proprio il taglio dell’orario di lavoro per mantenere gli stessi livelli occupazionali.
Ritorna quindi in campo un tema antico che fin dalla battaglia per le 8 ore del tempo della rivoluzione industriale è periodicamente riaffiorato nel dibattito sulla modifica delle relazioni industriali.
Vale la pena ripercorrere una parte di questo itinerario, partendo dalle proposte emerse subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e l’apertura della fase della ricostruzione.
Una ricostruzione che presentava caratteristiche ben diverse dal tipo di situazione economica in cui ci trova adesso nell’emergenza sanitaria.
In Italia, così come nella maggior parte dei paesi europei, l’obiettivo primario e condiviso dalle parti sociali era la ricostruzione del paese distrutto dal secondo conflitto mondiale.
In occasione del secondo congresso della CGIL, nel 1949, venne rivendicata la settimana di quaranta ore finalizzata al riassorbimento della disoccupazione.
Di tale questione si era occupata anche l’Assemblea Costituente che, nell’articolo 36 della Costituzione della Repubblica Italiana, stabilì una riserva di legge in materia di orario di lavoro.
L’occupazione aumentò con la meccanizzazione e la riorganizzazione dei processi produttivi, con la creazione delle catene di montaggio, con la crescita della domanda estera dapprima ed interna poi .
Nel settore industriale italiano il progresso tecnologico, pur presente e rilevante, non ebbe i ritmi ed i livelli degli altri paesi più industrializzati. Gli industriali italiani puntarono maggiormente sull’aumento dei ritmi di lavoro e sui bassi salari per mantenere bassi i costi per unità di prodotto e quindi alta la competitività; competitività che diversamente non avrebbero avuto nei confronti di altri Paesi dove le imprese adottavano impianti tecnologicamente più avanzati.
Nel frattempo le battaglie per una riduzione dell’orario di lavoro tornarono a prendere vigore: in un documento del 1955 della FIOM di Torino, si richiedeva alle principali imprese piemontesi un orario settimanale di trentasei ore per gli addetti alle lavorazioni più pesanti, e di quaranta ore per tutti gli altri lavoratori, a parità di salario. Il primo risultato ottenuto dai sindacati in materia di orario fu quello del 1956: la FIAT e la Olivetti concessero una riduzione d’orario di due ore settimanali. Alla Olivetti venne costituita una Commissione Paritetica dei Tempi con il compito di prendere in esame i contenziosi sui tempi di lavoro. Nel 1957 venne siglato dalla FIAT, dalla CISL e dalla UIL (ma non dalla FIOM) un accordo sulla riduzione dell’orario settimanale a quarantaquattro ore, che diede all’azienda la facoltà di far variare l’orario settimanale tra le quarantaquattro e le cinquantaquattro ore, a seconda delle esigenze della produzione stabilite dall’azienda stessa.
In occasione del Quinto Congresso della CGIL tenutosi a Milano nel 1960, la confederazione ripropose la richiesta già avanzata in occasione del Secondo Congresso del 1949: la settimana lavorativa di quaranta ore senza decurtazione del salario rispetto a quella di quarantotto ore.
Una legge che stabiliva l’orario settimanale di quaranta ore per i minatori fu approvata nel 1960 ed il medesimo risultato fu ottenuto con il rinnovo contrattuale dai lavoratori del tabacco.
Con i rinnovi dei contratti dell’anno seguente altre categorie ottennero riduzioni: i lavoratori dell’ENI ottennero l’orario di quarantadue ore, mentre i tipografi dei giornali quotidiani contrattarono un orario settimanale di trentasei ore. Nel 1964, le delegazioni delle federazioni dei lavoratori tessili, ottennero che la settimana di quaranta fosse pagata come quella di quarantotto ore con due giorni consecutivi di riposo settimanale. Negli anni successivi vennero inoltre incrementate le pause, considerate ora come componente dell’orario di lavoro effettivo e non più come interruzioni di lavoro.
Durante l’ “Autunno Caldo” del 1969 le lotte del movimento operaio iniziarono a rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro a quaranta ore per tutte le categorie, con il ricorso allo straordinario per un massimo di otto ore settimanali. I risultati conseguiti dalle agitazioni furono molto significativi: tutte le maggiori categorie di lavoro dell’industria conquistarono contratti in cui era prevista la settimana lavorativa di quaranta ore, divise in genere su cinque giorni lavorativi, da attuarsi entro il 1972. Gli anni Sessanta si chiusero, in Italia, con le premesse per la conquista da parte di quasi tutti i lavoratori di contratti collettivi che prevedevano la settimana lavorativa di quaranta ore, anche se, dal punto di vista normativo, era ancora in vigore la legge fascista del 1923 che prevedeva che l’orario di lavoro settimanale non superasse le quarantotto ore. Un tentativo di ridurre l’orario di lavoro per via legislativa venne fatto nel 1967, quando, per iniziativa del Consiglio Nazionale per l’Economia e per il Lavoro, venne presentato al Parlamento un disegno di legge sull’orario di lavoro, il riposo settimanale e le ferie, volto a sistematizzare la materia in modo organico. Tale progetto, però, non venne approvato e si dovette attendere ancora un trentennio perché fosse approvata una legge che decretasse la durata della settimana di lavoro a quaranta ore.
Nel corso degli anni Settanta, grazie ad un lungo e complesso processo negoziale, si andò affermando e diffondendo un modello di organizzazione del tempo di lavoro di tipo fordista, caratterizzato dall’uniformità degli orari di lavoro.
L’orario tipico era di otto ore giornaliere, collocate nel periodo diurno, per cinque giorni la settimana, ed era “rigidamente predeterminato secondo schemi prefissati, che tendono a non subire variazioni significative per tutta la durata del rapporto di lavoro”.
Il modello standard di orario di lavoro entrò in crisi a partire dagli anni Ottanta, quando le imprese, per far fronte alla concorrenza estera attuano una politica di riduzione dei costi per unità di prodotto attraverso l’aumento della durata di funzionamento degli impianti, con il conseguente ricorso a turni di lavoro decisamente più pesanti di quelli sperimentati nel decennio precedente. Il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro si riaprì con l’inizio degli anni Ottanta e viene affrontato sotto una diversa luce. Mentre negli anni Cinquanta e Sessanta i sindacati chiedevano la riduzione dell’orario per migliorare le condizioni di lavoro e per tutelare la salute fisica e psichica dei lavoratori, negli anni Ottanta si poneva l’accento sulla necessità di ridurre gli orari di lavoro per far fronte alla crescente disoccupazione.
Quel periodo fu contrassegnato dallo slogan “Lavorare meno lavorare tutti” teoria sviluppata da pensatori come il francese André Gorz o da noi Pierre Carniti segretario generale della Cisl e da economisti come il premio Nobel Wassily Leontief.
Nell’agosto del 1980 l’Istituto Sindacale Europeo rilevò che in tutti gli Stati della Comunità il tasso di disoccupazione aveva raggiunto livelli preoccupanti, e lanciò un appello per ridurre l’orario settimanale da quaranta a trentasei ore, al fine di far fronte alla perdita dei posti di lavoro. Nei rinnovi contrattuali del 1983, tuttavia, non venivano previste riduzioni d’orario, bensì forme di flessibilità dell’orario stesso a vantaggio dei datori di lavoro e l’ampia possibilità di ricorrere allo straordinario sembra essere la peculiarità di questo decennio.
Nel corso degli anni Ottanta si assiste ad un crescente divario tra orari contrattuali e orari di fatto, dovuto al continuo incremento dell’orario straordinario: mentre l’orario contrattuale è stato ridotto dal 1980 al 1992 di quasi sessanta ore annue, quello effettivo è aumentato nello stesso periodo di novanta ore. Risultava infatti più conveniente per le imprese pagare ore di straordinario piuttosto che assumere nuova manodopera, con notevoli costi per la formazione oltre all’obbligo di sottostare ai vincoli introdotti dallo Statuto dei Lavoratori.
La conseguenza di ciò, aggiunta al sempre più frequente utilizzo da parte degli industriali di innovazioni tecnologiche che sostituivano il lavoro umano, fu un nuovo, forte incremento della disoccupazione. I sindacati riaprirono pertanto il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro: incominciò a farsi strada la proposta della settimana lavorativa di trentacinque ore.
Nel 1992 Fausto Bertinotti, ex -segretario confederale della CGIL poi segretario di Rifondazione Comunista, per la prima volta propone “una legislazione di sostegno ed una generalizzata riduzione degli orari di lavoro”. L’anno successivo anche la CISL si muove nella stessa direzione, per voce del suo segretario generale Sergio D’Antoni.
Le richieste di riduzione dell’orario di lavoro avanzate negli anni Novanta riproponevano alcuni argomenti che furono di sostegno alle analoghe rivendicazioni degli anni Trenta.
Un’ ipotesi individuava una delle determinanti della crisi occupazionale nel corso della metà di quel decennio in una combinazione negativa tra un’insufficiente crescita della domanda aggregata (soprattutto nazionale) e un più elevato aumento della produttività media del lavoro.
La crisi occupazionale degli anni Novanta vedeva però un aumento impetuoso del progresso tecnologico che produceva impianti sempre più mirati a risparmiare lavoro (labour saving), decretando ulteriori innalzamenti del tasso di disoccupazione. L’ipotesi di favorire l’occupazione frenando il progresso tecnologico, seppur a volte lumeggiata, è risultata tanto controproducente quanto vana, mentre ridurre l’orario di lavoro per aumentare l’occupazione appariva un’idea non nuova che ritornava periodicamente all’ordine del giorno in modi, tempi e luoghi diversi, quando si acuiva il problema della disoccupazione.
Già Keynes (1931) aveva profetizzato per la fine del Ventesimo secolo quindici ore settimanali di lavoro in base ai prevedibili aumenti di produttività e, anche se in tali scritti non vi è un esplicito riferimento agli effetti sull’occupazione di un orario così ridotto, è tuttavia difficile pensare che tali effetti non fossero presenti nella mente di un autore tanto attento agli sviluppi futuri dell’organizzazione del lavoro.
A partire dal riconoscimento della settimana lavorativa di otto ore il progresso tecnologico è continuato a crescere, ma questo incremento non ci ha condotti ad una proporzionale riduzione del nostro orario di lavoro; l’energia nucleare, il computer e un numero indefinito di altre invenzioni che parevano un invito aperto ad una vita più comoda e facile ci avrebbero potuti condurre ad un risultato che, all’inizio, appariva quasi scontato: un aumento del nostro tempo libero. Ma oggi ci accorgiamo che la realtà ha invece percorso una strada diversa: la vita moderna è una confusione frenetica fatta di lunghi spostamenti, notti passate a lavorare fino a tardi, famiglie che dipendono da due redditi e ricorrono a terzi per svolgere i lavori domestici e di cura della famiglia. E sembrava che l’intera società avesse deciso di accettare questa situazione come lo stato naturale delle cose.
Oggi la situazione determinata dalla crisi sanitaria ha aperto la possibilità di un discorso diverso che affronti prima di tutto sia i paradigmi concettuali sia le conseguenti politiche economiche che hanno governato l’Italia e l’Europa negli ultimi decenni, moltiplicando i livelli di disuguaglianza.
Fiumi di denaro saranno immessi nell’economia reale, soprassedendo ai dogmi su deficit e debito. Sicuramente però le modalità adottate per affrontare la recessione potranno tradursi in ulteriore svendita del patrimonio pubblico e impoverimento dei lavoratori.
Sarà dunque decisiva la qualità di rivendicazione che sapranno imporre le forze sociali organizzate, innanzitutto il sindacato.
Debbono emergere due condizioni necessarie.
C’è la condizione economica: la possibilità di investire denaro pubblico per avviare la transizione verso una nuova organizzazione del lavoro e consolidarla fino a farla diventare ordinaria, predisponendo fin da ora le opportune leve di incentivo /disincentivo fiscale e contributivo. La mera estensione di congedi, cassa integrazione, bonus reddituali è doverosa nell’emergenza, ma non potrà determinare cambiamenti strutturali.
La seconda condizione sarà quella della ricerca di una nuova cornice di senso: la drammaticità reale e percepita del momento indica che non ci si può affidare a ricette logore o pavide, ma occorre osare qualcosa di nuovo e di ambizioso. Soprattutto, il discorso pubblico è già permeato dai media con messaggi di due tipi, complementari fra loro : paura individuale e speranza collettiva. I sacrifici richiesti oggi e i timori per il futuro che “non sarà più come prima” vengono alleviati dal senso di comunità (i canti dal balcone e le bandiere) e dalla solidarietà come strumento per uscire dalla crisi (la riconoscenza per l’abnegazione dei lavoratori della sanità, stare a casa per non contagiare altri, i volontari che portano la spesa, gli aiuti e gli studi internazionali condivisi).
Poco importa soffermarsi sull’ autenticità e la reale incidenza di tali sentimenti sulla realtà.
Occorrerà allora rielaborare un progetto di “senso del lavoro” sintonizzato a rispondere alla paura di perderlo o di non ritrovarlo.
Ci vuole un progetto collettivo di solidarietà oggi più che mai comprensibile e condivisibile.
E’ necessario allora rendersi conto che la riduzione degli orari non genera una distribuzione aritmetica del lavoro, che molte imprese avevano già una sovra-capacità produttiva, aggravata ora dal calo degli ordini, e non assumeranno nuovo personale nell’immediato. Permarrà la necessità di creare occupazione buona e utile, a partire dal settore pubblico martoriato.
Sappiamo inoltre che le crisi economiche sono anche fasi di rottura che ridisegnano molto velocemente i sistemi e le catene produttive, nazionali e internazionali, addirittura all’interno di una logica di nuovo bipolarismo sul terreno militare.
Non è realistico immaginare di tornare “come prima” dopo una crisi planetaria, ma nemmeno auspicabile, visto che prima c’erano già milioni di persone oppresse dalla povertà o dallo sfruttamento.
Se ne potrà uscire peggio di prima, ma anche meglio di prima, volgendo lo sguardo (la cornice) e i passi (le politiche) verso altri orizzonti.
La proposta della semplice riduzione dell’orario di lavoro appare così come avanzata in questi giorni almeno improvvisata in una logica populista come quasi tutti i provvedimenti fin qui pensati dal Governo.
Un progetto di rielaborazione di senso sul tema del lavoro dovrà misurarsi rispetto alle esigenze di complessiva trasformazione del modello di sviluppo, delle richieste di diversa flessibilità collegata al rapporto da stabilire tra tempi di lavoro e tempi di vita, di espressione di nuova contrattazione richiesta dall’imporsi dell’utilizzo dello smart working, di collegamento con le esigenze di regolarizzazione di cittadinanza necessaria per i lavoratori migranti,del muoversi nella direzione di una effettiva concezione del riconoscimento della diversità di genere.
Il quadro generale dovrà essere fissato dai termini di un recupero di produttività rivolto verso la crescita di un “capitale sociale” considerato come la risorsa per lo sviluppo dell’individuo e del gruppo nell’intento di generare assieme valore e formatività permanente.
Si dovrà disegnare un quadro di vero e proprio mutamento di paradigma richiesto dalla necessità di individuare una “finalità comune” stando dalla parte delle sfruttate e degli sfruttati nell’insieme degli obiettivi del lavoro umano
Il movimento dei lavoratori possiede valori storici e simboli potenti, in cui oggi molti possono tornare a riconoscersi in un momento che ci accomuna nelle paure e nelle attese, ben oltre la frammentazione lavorativa e sociale che ha imposto nel più recente passato pericolose divisioni.
venerdì 8 maggio 2020
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