Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 novembre 2013
Aldo Penna: Ottomila circoli
Silvio Berlusconi è fuori del Parlamento e teme l'arresto. Le Procure italiane sono sulle sue tracce ma lui non demorde e rilancia. Il suo intervento davanti al ritrovato popolo forzista è suonato come come una voce fuori dal tempo. Le stesse canzoni, le stesse simbologie e lo stesso appello contro la sinistra brutta sporca e cattiva. Solo i circoli di Forza Italia sono cambiati, si chiameranno Forza Silvio, mostrando con la scelta del nome tutto il sapore nostalgico di un uomo battuto ma
ancora non sconfitto. Si, perchè chi pensa di essersi liberato di Berlusconi senza cambiare nulla delle ragioni che ne hanno sancito in questo ventennio le tante rinascite, rischia di ritrovarsi alle prossime elezioni delle brutte sorprese. L'obiettivo 8000 circoli sarà raggiunto come le otto milioni di firme esibite e mai dimostrate ai gazebi al momento della nascita del Popolo della Libertà. Adesso si cambia nome, si cambia orizzonte, si lancia la campagna del tutto per tutto. Gli ottomila
circoli saranno esibiti in giro per l'Italia alla maniera delle baionette di Mussolini. Il Nuovo Centro Destra, la costola perduta sull'altare del governo, somiglia tanto a Democrazia Nazionale e senza un leader nuovo e carismatico evaporerà come le truppe di De Marzio, forti e compatte in Parlamento, inesistenti alle elezioni celebrate due anni dopo (1979) la spaccatura.
Il modello scelto dal capo di sempre per lanciare la rivincita, mutua modelli che hanno fatto la fortuna degli Hezbollah in Libano, dei Fratelli musulmani in Egitto, dei Salafiti nelle terre della primavera araba e di Alba Dorata in Grecia: l'attenzione agli ultimi, ai diseredati, ai poveri. Non con interventi legislativi, ma con l'assistenza diretta, soldi elargiti a chi nulla ha più, a chi frequenta le mense dei poveri, a chi si aggira nei mercati alla ricerca di cibo, a chi non può comprare
i libri ai propri figli. Sono pochi? Ieri forse. Nell'Italia della crisi senza sbocchi, del tunnel senza uscite, sono tanti e in aumento. Così uno degli artefici principali della crisi italiana si propone di attirare a sè con mance ed elemosine milioni di bisognosi. Le nuove azioni previste, rilanciate dalla formidabile macchina della propaganda, intatta e anzi rafforzata in questi lunghi venti anni, aiuteranno a creare nuovi miti e mitologie. Falsi e ingannatori come tutti quelli creati in
questi decenni. Il centrosinistra arroccato dentro palazzi e cittadelle ha smesso di parlare al cuore della gente e la sua distanza renderà credibile anche l'incredibile.
Mentre il Pd si arrabbatta nelle solite primarie, sempre frutto di alchimie di vertice, il seme del populismo di rabbia e di governo metterà solide radici in una italica commistione tra ricchissimi e poverissimi (modello Lauro e le plebi napoletane) che sembrava seppellita da uno stato sociale creduto europeo ed adulto mentre con crudezza scopriamo che è stato soppresso.
Aldo Penna
venerdì 29 novembre 2013
giovedì 28 novembre 2013
mercoledì 27 novembre 2013
martedì 26 novembre 2013
Daniele Bonifati: Essere o non essere liberalsocialisti?
Buon giorno a tutti, sono abbastanza nuovo della mailing list. E non ho origine socialista, bensì repubblicana anzi direi azionista. Vorrei “da esterno” dare il mio contributo al dibattito su futuro dei socialisti. Sono state espresse due posizioni ne manca una terza.
- La prima e’ quella di chi vede il PD come la casa o quantomeno come un luogo in cui essere rappresentati. Posizione ovviamente legittima, personalmente penso tutto il male possibile del PD.
- La seconda, un po’ nostalgica, che ipotizza la ricreazione di una forza socialista significativa. (Besostri, Veltri e molti altri)
- La terza invece è quella di contribuire a costruire una componente “liberalsocialsta”. Cioè provare a ridare vita alla terza componente storicamente sempre presente nella sinistra Italiana. Quest’area è sempre stata fortemente minoritaria, me che è stato il pezzo migliore della sinistra Italiana. Questo pezzo di sinistra ha creato un ponte tra la socialdemocrazia e il liberalismo. E’ stata un’area che è stata rappresentata dal partito d’Azione, dal Partito Repubblicano, dai Socialisti Liberali e dai Liberali di Sinistra. Un’area che ha avuto tra le sue fila Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli, Ferruccio Parri, Guido Calogero, Piero Calamandrei, Ugo La Malfa, Leo Valiani, Norberto Bobbio…. La terza ipotesi è dunque non che tutti i socialisti, ma solo i liberalsocialisti, contribuiscano a creare una nuova casa.
Perché la terza opzione e non la seconda. (Della prima opzione non parlo neanche perché quando parlo di PD solitamente scado nella volgarità…) 3 argomenti principali.
- Ci sono già componenti definibili come socialisti. C’è il PSI ma anche Sel e pezzi del PD. E poi c’è la CIGL. Si puo’ dire che il PSI, Sel e socialisti piddini non vi rappresentano, ma il punto centrale è un altro. Nuovo soggetto socialista che abbia al suo interna una componente piu’ di sinistra/sindacale e una piu’ liberale, direbbe cose diverse da quelle che dicono PSI, SEL PD socialisti? Credo proprio di no si creerebbe semplicemente un altro soggetto elettoralmente insignificante e politicamente indifferente insomma una nuova componente socialista sarebbe un doppione di cose che funzionano poco.
- L’Italia è un paese con una pressione fiscale reale superiore al 60% (includendo Iva e accise). Non esiste meritocrazia, la burocrazia è elefantiaca e uccide l’economia…. Allo stesso tempo è un paese in cui lo stato sociale fa schifo, non esiste politica industriale, il “pubblico” è umiliato. E’ necessaria una nuova visione “liberalsocialista”, che si ponga alcuni obiettivi liberali (meno tasse, burocrazia, corporativismo + meritocrazia,) e neokeynesiane (politica industriale, ruolo del pubblico in economia, rafforzare lo stato sociale…). Queste due obiettivi DEVONO stare assieme in una visione. Il PD non ha una piattaforma liberalsocialista, ma ha al suo interno liberisti e “socialisti”, insomma un budino (cit Fassino) avariato. Il Liberalsocialismo non è una somma (o sottrazione) tra liberisti e socialisti ma è semplicemente qualche cosa di diverso. Una nuova componente liberalsocialista anche se minoritaria sarebbe il sale del centrosinistra, e potrebbe addirittura riuscire in un obiettivo apparentemente impossibile: stimolare il PD ad un partito decente.
- Un tema centrale in Italia non puo’ che essere il recupero di legalità e moralità pubblica. Questp è il vero spread dell’Italia. Questo puo’ essere un punto centrale, direi fondante di una componente liberalsocialista.
Finisco dicendo che dopo anni di non militanza personalmente mi sto impegnando, nel progetto attualmente molto embrionale e su di un piano cultural-politico di Italia Spazio Libero promosso da critica liberale.
http://www.criticaliberale.it/taccuino/134645
http://www.criticaliberale.it/settimanale/153459
Come dicevo all’inizio credo che questa sia un’opzione di cui discutere in particolare per chi si riconosce in un circolo intitolato ai Fratelli Rosselli.
Saluti
Daniele
lunedì 25 novembre 2013
domenica 24 novembre 2013
venerdì 22 novembre 2013
Luciano Belli Paci: La sinistra che non c'è
Se già esistesse la forza della sinistra che servirebbe all'Italia (e che
servirebbe anche per vincere e governare), avrei la sua tessera in tasca.
Però mi pare che sul fatto che i partiti esistenti siano largamente al di
sotto delle necessità vi sia tra noi l'unanimità dei consensi.
Gli iscritti al PD, divisi tra loro un po' su tutto, concordano in genere
solo su un giudizio durissimo sulla realtà attuale (o permanente ?) del loro
partito e sulla necessità di rifarlo da capo a piedi.
Gli iscritti a SEL ammettono tutti i limiti di un "non partito" che non è
riuscito ad emanciparsi dall'identificazione col leader e che oscilla
costantemente tra antagonismo e "sinistra di governo".
Gli iscritti al PSI riconoscono che la posizione nenciniana che tenta di
conciliare il ruolo di orgogliosa testimonianza con la totale simbiosi col
PD (per giunta sul versante di destra, già più che saturo) determina una
contraddizione insostenibile.
Quindi si tratta di costruire una forza politica all'altezza del compito.
Non mi pare utile polemizzare tra chi pensa di farlo partendo
dall'esistente, ristrutturando case più o meno vecchie, e chi - come me -
pensa che senza demolire/scomporre/ricomporre non si possa ricostruire.
Diamoci da fare e ... chi ha più filo tesserà più tela.
Una sola cosa mi sentirei di raccomandare a tutti, ed in particolare a
quelli che stanno nel PD visto che la partita decisiva si svolge lì: sarebbe
salutare politicamente ma anche intellettualmente che ciascuno stabilisse un
punto di non ritorno, una prova del budino, un limite di resistenza ...
vedete un po' voi.
Perché altrimenti, se c'è sempre un alibi per stare attaccati a prescindere
ad un partito che non ne fa una giusta (perché i compagni del mio paese sono
tanto brave persone, perché arriverà superpippo che cambierà tutto ...),
allora l'unica sarebbe davvero creare una comunità di recupero per
"democratici anonimi":
http://www.polisblog.it/post/4677/democratici-anonimi-per-chi-e-stanco-di-vo
tare-pd
Luciano Belli Paci
giovedì 21 novembre 2013
mercoledì 20 novembre 2013
Paolo Bagnoli: Attenzione all'Europa!
Dall'ADL
Attenzione all’Europa!
di Paolo Bagnoli
Dalla fine della seconda guerra mondiale il vecchio continente si trova di fronte a una prova che non può essere sbagliata, a meno di conseguenze nefaste di grande portata. L’Europa, infatti, piaccia o non piaccia, rimane ancora oggi il teatro strategico della civiltà occidentale e, quindi, campo privilegiato nello scontro tra la ragione e l’oscurantismo fideistico. E l’Europa non sembra rendersi conto di ciò di cui è gravata: smarrimento di ideali, burocrazia ragionieristica, interessi egoistici e mancanza di una classe dirigente all’altezza del momento. Prima che degli interessi, una classe dirigente parla degli ideali su cui costruire una politica che dia comune identità.
Avviene, invece, tutto il contrario. Ci s'illude che una sequela di trattati fuori della realtà possano fare Europa, nel paradosso di una moneta che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi e non ad accrescerli. Ma dove è andata la speranza legata alla nascita dell’Euro se, stando al presente, essa, non funziona né con i Paesi deboli né con i forti?
Crediamo che ogni europeista abbia sentito un brivido quando le autorità comunitarie hanno invitato la Germania, su cui pure pesano non poche responsabilità, a essere economicamente più debole poiché vi sono Paesi che sono fortemente deboli. Una seria politica e, quindi, una classe dirigente degna di questo nome, avrebbe ragionato sull’Euro e sulla sua funzione non come può farlo un banchiere o un istituto di emissione, bensì vedendo nell’Euro un pilastro su cui poggiarsi per andare avanti contro il burocratismo soffocante e aiutare i più deboli a crescere non a sentirsi più forti perché è più debole la Germania.
Fatto si è che oggi l’Europa viene vista, da tanti suoi cittadini, come un fattore negativo socialmente; un soggetto da smontare partendo proprio dal punto più alto cui è giunta ossia l’Euro. Su ciò s'incardina non solo una ripresa di nazionalismo o di riaffermazione delle funzioni tradizionali dei singoli Stati, ma un qualcosa di più e di più pericoloso; vale a dire, la legittimità stessa dell’idea di Europa; il tentativo di trovare un modo per stare insieme che, certo, non è quello di questa assurda, farraginosa e antidemocratica costruzione comunitaria.
Ancora. La ripresa di un prevalente sentimento a favore del ripristino di legittimità piena degli Stati nazionali nasconde qualcosa di più insidioso e pericoloso che mira alla decozione stessa dell’idea politica di Europa, nell’incoscienza delle conseguenze in un frangente nel quale lo scontro con i fondamentalismi religiosi e gli integralismi territoriali sembra lievitare giorno dopo giorno.
Bisogna ragionare. Una cosa è sviluppare il disaccordo con questo modo di essere comunitario, ma bisogna farlo da europeisti e, quindi, da democratici. Tutta altra cosa è farlo da antieuropeisti. La qualità del problema, e di quanto da esso consegue, è diversa. Infatti, mentre le forze dell’antidemocrazia, quelle della destra europea, si stanno organizzando, quelle della democrazia sembrano in tutt’altro affaccendate, non consapevoli che questa volta non sono all’attacco, bensì in difesa.
Marine Le Pen ha lanciato la crociata: le destre di tutti i Paesi che fanno parte dell’Unione si uniscano nell’Europarlamento in una “Alleanza per la libertà”. Al progetto stanno già arrivando le prime adesioni: quelle degli olandesi e degli austriaci – il nome delle rispettive formazioni è identico: "Partito della Libertà” – e si fa sapere che si attende all’appuntamento pure la Lega e forse non mancherà nemmeno Forza Italia, a sentire il tenore del discorso rifondativo tenuto da uno spento e patetico Silvio Berlusconi qualche giorno fa.
Dicono no all’Europa – fatta diventare "quella della Bce e della Merkel" – anche il movimento di Beppe Grillo e i post-fascisti della Meloni. Molte, poi, sono le contrarietà presenti nella sinistra estrema, ma non sono certo queste che preoccupano. Preoccupa la destra, che già appare in grande crescita nei vari Paesi del continente. In Ungheria essa governa tranquillamente in spregio alla libertà che l’essere europei implicherebbe. In Grecia Alba Dorata – forza politica chiaramente neonazista – è, secondo alcuni sondaggi, il primo partito con il 26,6% dei consensi.
Ecco perché le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 2014 hanno una rilevanza particolare e non possono essere affrontate alla maniera solita. Sempre che si assuma consapevolezza di quanto è in gioco.
martedì 19 novembre 2013
lunedì 18 novembre 2013
MILANO, BILANCIO, BISCARDINI (PSI), L’HO VOTATO SOLO PER L’IMPEGNO A RIDURRE GLI AUMENTI DELL’ATM
MILANO, BILANCIO, BISCARDINI (PSI), L’HO VOTATO SOLO PER L’IMPEGNO A RIDURRE GLI AUMENTI DELL’ATM
Roberto Biscardini, a conclusione del dibattito sul bilancio, ha dichiarato: “Non c’è piena soddisfazione sui risultati di questo bilancio. L’ho votato solo in ragione di un emendamento anche da noi proposto che prevede risorse aggiuntive per consentire la riduzione degli abbonamenti dell’ATM soprattutto per anziani e studenti. Avevamo contestato il provvedimento della Giunta ed in particolare l’aumento degli abbonamenti per gli over 65, ritenendo inoltre insufficienti le agevolazioni per le fasce più deboli”. Biscardini ha inoltre sottolineato: “Altro punto debole del bilancio è la lotta all’evasione fiscale. Chiederemo a breve alla Giunta di conoscere l’attività di contrasto riguardante l’anno 2013, dopo la denuncia che abbiamo fatto sulla debolezza degli interventi di segnalazione nel 2012. Una debolezza grave che non ha consentito di portare nelle ca sse del Comune nuove risorse per l’anno in corso.”
domenica 17 novembre 2013
Elio Veltri: Una forza socialista autonoma ed europea
Il problema del paese è innanzitutto quello della redistribuzione della ricchezza. Concordo con Borla. A conferma fornisco alcuni dati contenuti nel Supplemento Statistico di Bankitalia( Dicembre 2012) sulla ricchezza delle famiglie italiane. La Banca Centrale scrive:” Alla fine del 2011 la ricchezza netta( reale come case , terreni ecc e finanziaria come titoli e depositi bancari, meno i debiti, i più bassi d'Europa) delle famiglie italiane era pari a circa 8619 miliardi di euro, corrispondenti a poco più di 140 mila euro pro capite e 350 mila euro in media per famiglia. Le attività reali rappresentavano il 62,8% del totale, le attività finanziarie il 37,2%. Le passività finanziarie( i debiti) pari a 900 miliardi rappresentavano il 9,5% delle attività complessive”. E ancora:” Nel confronto internazionale le famiglie italiane mostrano un'elevata ricchezza netta , pari, nel 2010 a 8 volte il reddito disponibile, contro l'8,2% del Regno Unito , l'8,1 % della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5% del Canada, e il 5,3% degli Stati Uniti. Esse risultano inoltre poco indebitate”. La componente finanziaria dell'intera ricchezza supera i 3500 miliardi di euro ed è la terza al mondo, superiore a quella di Francia e Germania. Quindi, un paese ricco, anzi ricchissimo, ma diversamente ricco perchè la metà più povera della famiglie italiane deteneva il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 45,9% della ricchezza complessiva. Certamente l'economia sommersa e criminale vi concorrono. Mediamente il dato di Bankitalia, Eurispes, Istat( il più contenuto) e di Sole 24 ore indica una quantità di economia sommersa pari a 400-450 miliardi di pil con una evasione fiscale di oltre 200 miliardi. La componente di esportazione di capitali pro capite è superiore ai 500 mila euro. Quindi non riguarda piccoli commercianti, artigiani e piccole imprese. Al sommerso va aggiunta la quota di economia criminale pari a 200 miliardi di Pil. Sommerso, evasione fiscale esportazione di capitali, ma anche riciclaggio, apertura di società e imboscamento di centinaia di miliardi di euro nei paradisi fiscali, riguardano i ricchi. La politica di tutti i governi è stata fallimentare perchè ha contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri.
Infine, nel mese di Giugno il Governo, alla Camera, ha risposto a due Question Time ed ha comunicato che negli anni 2000-2012 lo Stato ha emesso ruoli di tasse accertate per 806 miliardi e, ne ha incassato 69: 9 euro per ogni cento che avrebbe dovuto incassare. Mediamente lo Stato incassa anche di meno. Giustamente, nel dibattito milanese sulla “fedeltà fiscale” organizzato dal gruppo di Volpedo, Francesco Greco ha ricordato che tutti i commissari alla spending revue hanno fallito e sarebbe invece utile un Commissario alla riscossione con il compito di collaborare con i comuni. In Parlamento, in seguito alle dichiarazioni del governo, non è successo niente. Non mi risulta che qualche gruppo abbia chiesto al Presidente del consiglio o al Ministro dell'economia di presentarsi in Aula e spiegare quali e quanti erano stati gli intoppi per incassare il dovuto e di proporre una soluzione per portare da 9 a 40-50 euro su cento, l'incasso dello Stato in tre anni. A nessuno è venuto in mente perchè il teatrino istituzionale e televisivo è entrato talmente nelle abitudini, direi nei cromosomi, da impedire ai nostri rappresentanti nelle istituzioni di occuparsi delle cose serie. Nemmeno di fronte all'affanno del governo alla ricerca di una manciata di miliardi per far fronte alle urgenze che si è impegnato a risolvere: IVA, IMU seconda rata, Esodati, Tasse sul lavoro. E così, mentre di fatto si perdono 550 miliardi, al netto delle tasse riguardanti i fallimenti delle aziende e le prescrizioni, senza fare una piega, Parlamento e informazione si occupano di altro. Provate a immaginare cosa succederebbe a Obama, Cameron, Merkel, Hollande se nel loro paese capitasse quello che in Italia è la regola.
Io penso che ai “ nobissimi intendimenti” è necessario far seguire una iniziativa concreta per la ri-costruzione di una forza socialista autonoma e composta di persone inattaccabili. Di fronte alla politica in frantumi, parafrasi del titolo del libro di Gallino “ il paese in frantumi” si apre uno spazio enorme. Stra a noi tutti cercare di riempirlo, anche nel nome di una storia, errori e anche porcherie degli anni 80 e 90, non possono cancellare.
Elio Veltri
Antonio Caputo: Legge elettorale e giudice
Legge elettorale: non confondere Giudice e Parlamento!
Alcune considerazioni disperanti , matte e disperatissime, a margine della prossima pronuncia della Corte Costituzionale sulla legge porcata
La migliore dottrina costituzionale e’ scettica sulla possibilita’ di riformare il “porcellum” per via giudiziaria.
Come avverrebbe se, il 3 dicembre 2013, la Corte Costituzionale in qualche modo accogliesse. , dichiarandone l’ammissibilita’, l’incidente di incostituzionalita’ sollevato dalla I sezione civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza 12060/2013.
Anche se la Cassazione sottolinea con forza che i dubbi di incostituzionalita’ sono stati gia’ sollevati nell’ambito di alcuni obiter dicta contenuti in tre sentenze della Corte Costituzionale , nn.15 e 16/2008, n.13/2012 , che si occuparono dell’ammissibilita’ di due referendum abrogativi concernenti la “porcata” (da ultimo il c.d. referendum Guzzetta che avrebbe introdotto un superporcellum con premio di maggioranza senza soglia minima per il primo partito e non per la coalizione); va detto che le considerazioni contenute in quelle decisioni si arrestarono ad un generico e comunque preoccupato riconoscimento di “alcuni aspetti problematici della legge elettorale” , ne’ i giudici della Corte ritennero di spingersi oltre, in nessun modo.
Obiter dicta , ovvero considerazioni generali e non specifiche, a contenuto esortativo di buone pratiche parlamentari intese a rimuovere l’aborto, prive di qualunque effetto precettivo.
Siamo insomma di fronte all’ennesima disfatta della politica dei politici di professione autodefinitisi parlamentari della repubblica , incapace di autoriformarsi ..
Ne’, purtroppo possiamo sperare piu’ di tanto nel giudizio salvifico della Corte Costituzionale, per le regole che governano lo stato di diritto e la separazione dei poteri, pure a fronte di un tentativo generoso, e della Cassazione e dei valorosi ricorrenti e dei loro bravissimi difensori, di far valere l’incostituzionalita’ della legge elettorale per via giudiziaria, che e’ tuttavia improprio.
Non e’ infatti ammissibile un’azione di fronte ad un Giudice comune (nella specie la Cassazione) che abbia come pretesa la sola dichiarazione di incostituzionalita’ della legge , mediante proposizione della questione alla Corte costituzionale , per difetto di incidentalita’ della stessa questione:
Si e’ difatti sostanzialmente in presenza di una falsa lite, lis ficta o inesistente, in quanto l’azione di accertamento della lesione del diritto (di voto libero ed eguale e segreto dell’elettore) e’ identica in ragione dell’ assoluta coincidenza con l’azione di accertamento della pretesa illegittimita’ costituzionale di quella legge che disciplina quel voto.
In altre parole, il sistema vigente non consente il ricorso diretto alla Corte Costituzionale per la declaratoria “astratta” di illegittimita’ costituzionale di una norma di legge, avendo il giudizio dinanzi alla Corte sempre natura incidentale
.
In altri Paesi e contesti e’ ammesso il ricorso diretto alla Corte, come in Spagna per il Defensor del Pueblo, ammesso ad impugnare dinanzi alla Corte costituzionale, in via preventiva, atti aventi forza di legge, che egli assuma in ipotesi lesivi di diritti costituzionali fondamentali
Dalla sentenza dichiarativa dell’illegittimita’ emessa dalla Corte Costituzionale , secondo il sistema, deve necessariamente derivare un provvedimento ulteriore e diverso del Giudice remittente, il Giudice ordinario, nella specie la Corte di Cassazione, con lo scopo di definire il proprio giudizio e di realizzare in tal modo la tutela in concreto, e non in astratto, del diritto rivendicato dai ricorrenti.
L’obiezione di inammissibilita’ della questione pare a questo punto davvero insuperabile.
Ma se anche, con una vera acrobazia giuridica, venisse superata, come del tutto improbabile, ne scaturirebbero quattro scenari, tutti inverosimili e comunque estremamente problematici al limite della rottura costituzionale:
Ovvero:
1) L’illegittimita’ ipoteticamente dichiarata del premio di maggioranza in quanto privo di una soglia minima, con l’annullamento della vigente disciplina, introdurrebbe un proporzionale sostanzialmente puro, comunque completamente diverso da quello voluto dal legislatore bypassato per via giudiziaria : con tutti i connessi problemi relativi al rispetto del principio della separazione tra poteri dello Stato, non competendo alla Corte la funzione del legislatore, sia pure del disgraziatissimo legislatore italico;
2) L’annullamento dell’intera legge elettorale per effetto di dichiarazione integrale di incostituzionalita’: esito questo ancor piu’ improbabile se non impossibile, anche per il valore di precedente della sentenza n.13/2012 che boccio’ il referendum abrogativo promosso da Parisi-Di Pietro e compagnia cantante in quanto ritenne inammissibile la possibile o meglio illogica e irragionevole “reviviscenza” della normativa che il porcellum aveva a sua volta abrogato (il mattarellum);
3) L’ ancora una volta sommamente improbabile e forse abnorme soluzione derivante dal fatto che la Corte , dichiarando l’illegittimita’ del porcellum nella parte in cui non prevede una soglia minima per fare scattare il premio di maggioranza, decida e indichi quale debba essere tale soglia: soluzione impraticabile giacche’ la legge costituzionale 87/1953 vieta categoricamente alla Corte costituzionale “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”;
4) Che la Corte emetta una sentenza “additiva di principio” e, valutata l’incostituzionalita’ dell’attribuzione del premio di maggioranza in assenza di una soglia minima, ne rimetta la fissazione al Parlamento: facendo precipitare in tal modo la situazione in un limbo assoluto, come e’ peraltro l’attuale stato di cose, che vede tutti pacifici nel riconoscere a parole l’arbitrarieta’ e antidemoctaticita’ dell’incostituzionale e immodificato, in secula seculorium , porcellum..
Davvero una soluzione peggiore del male.
In conclusione, la questione sottoposta all’esame della Corte Costituzionale appare come tale inammissibile per rispetto della discrezionalita’ legislativa, e la considerazione vale anche per le liste bloccate, la cui abolizione per via giurisdizionale creerebbe certamente una lacuna normativa .
Dovendo necessariamente a quel punto intervenire un altro meccanismo sostitutivo, tale da consentire agli elettori di manifestare la propria preferenza, ovvero una futuribile normativa, ancora una volta rimessa al Parlamento che , nelle more – campa cavallo che l’erba cresce - priverebbe allo stato i cittadini di una normativa di risulta di diretta e immediata applicazione conseguente alla pronuncia costituzionale, rendendo incerta la stessa vicenda democratica.
Torneremo allora a votare col porcellum o dovremo sorbirci ,come e’ altamente improbabile, la legge elettorale che il Parlamento dei nominati, a maggioranza. relativa e dunque ancor meno rappresentativa, ci propinera’
Certo e’ che nel paese il sistema della rappresentanza e della legittimazione della classe di governo e’ in una crisi disperante che rischia di far tracollare la democrazia.
Oltre la disperazione, che ci resta da fare?
Avv.Antonio Caputo
.
Felice Besostri: La legge per il Parlamento europeo
C'è una cartina di tornasole per le prossime europee: il cambiamento della legge elettorale. Quella vigente nasce da un accordo diretto al Senato tra i due correlatori Ceccanti del PD e Malan del PdL con l'obiettivo messo a verbale, che bisognava impedire che rientriassero in gioco le forze escluse dal Parlaento nel 2008 con la soglia del 4% ed infatti la sinistra rosso-verde è rimasta fuori. La Commissione Europea all'unanimità e Il Parlamento Europeo a grandissima maggioranza hanno adottato rispettivamente una raccomandazione nel Marzo e una risoluzione nel giugno di quest'anno chiedendo agli stati membri di introdurre modifiche nelle loro leggi elettorali europee, sono ancora 28, mentre fin dall'art. 190 TUE ce ne doveva essere una sola uniforme, il riferimento al Partito Europeo di affiliazione da parte delle liste di candidati. L'Italia dopo la sentenza della Corte Costituzionale Federale tedesca del Novembre 2011, che ha dichiarato incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza la soglia di accesso per le europee, è l'unico grande paese Europeo con una soglia di accesso nazionale. La Francia ha una soglia di accesso, ma circoscrizionale ( tanto per capire la differenza con questa regola SeL avrebbe avuto 2 eurodeputati e 1 PRC e PdCI nelle Europee del 2009), ma il problema di discriminazione è che con soglia del 4% nazionale in molti stati che eleggono almeno 27 eurodeputati restano privati della rappresentanza al massimo qualche decina di migliaia di elettori, mentre nel 2009 ben 4 milioni di italiani votanti non hanno avuto nessun parlamentare eletto ma sono stati contati 5 euro a testa come contributo ai partiti che hanno avuto un eletto, tra cui un parlamentare altoatesino con 150.000 voti mentre SeL(allora con il PSI)e la lista unitaria comunista con 2 milioni di voti complessivi non hanno eletto nessuno. Se il PD non concorre a cambiare la legge elettorale dicevo prima fa una scelta politica, ma non bisogna dargli alibi: dove è un progetto unitario popolare e/o parlamentare che porti modifiche alla legge elettorale? Non c'è. In assenza di iniziativa politica, come è avvenuto con il porcellum e con la legge elettorale regionale lombarda, un gruppo di avvocati ha attaccato in giudizio la legge elettorale e avete la notizia in anteprima: oggi è stato notificato il ricorso per la circoscrizione 4 Italia Meridionale. Nei Prossimi giorni si notificheranno i ricorsi per Nord Ovest Circoscrizione 1, Nord- Est Circoscizione 2 e Italia Insulare Circoscrizione 5, manca ancora ma non è un caso Roma per Italia Centrale Circoscrizione 3. Lo so perché sono uno degli estensori dell'atto di citazione di cui vi allego lo schema generale( penultima versione). Nel gruppo di avvocati ci sono socialisti iscritti al PSI, un iscritto a SEL e un paio di sinistra generica. Speriamo che non succeda come per il Porcellum che dei ricorsi si è parlato soltanto dopo che la Cassazione aveva emesso l'ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale, partiti e mezzi di comunicazione alleati nel non parlarne nei 5 anni precedenti. Ci sono state eccezioni la mailinglist del Rosselli, L'Avvenire dei Lavoratori di Zurigo, il Riformista di Macaluso e Mondo Operaio di Covatta: troppo poco per rompere il muro del silenzio e di omertà. Non consentiamo che succeda ancora. Solo con la modifica dela legge elettorale sara possibile avere una lista o una coalizone di liste che faccia riferimento al PSE e alla candidatura di Martin Schulz, che è stato molto chiaro se il dibattito sarà Europa SI' o Europa No consegneremo la scena ai populisti antieuropei e agli europeisti conservatori. Come Sinistra dobbiamo porre il tema di quale Europa, quella della coesione sociale o quella del taglio del welfare, l'Europa della competizione esasperata con tagli al costo del lavoro o quella della solidarietà, quella delle diseguaglinza crescenti o quella dell'uguaglianza come fattore di progresso economico e rafforzamento della democrazia, l'Europa che privatizza tutto o quella che da spazio all'intervento pubblico dove necessario, un Europa fortezza che si difende dai poveri del mondo o un'Europa fattore di pace e cooperazione internazionale. Queste alternative sono infinite, ma dobbiamo farle nostre in maniera decisa.
Felice Besostri
sabato 16 novembre 2013
venerdì 15 novembre 2013
Lorenzo Borla: I numeri dell'economia
I numeri dell’economia
(lb) E’ molto difficile estrarre dai giornali cifre affidabili riguardanti l’economia, perché ne girano in tutte le salse. Un po’ meglio va con l’Istat (diceva Luigi Einaudi: bisogna credere ai numeri ufficiali). Comunque, con un po’ di pazienza sono riuscito ad aggiornare alcuni dati. Pare assodato che il debito pubblico in Italia abbia raggiunto il 134% del Prodotto interno lordo. Questo significa (essendo il debito pubblico all’ultima conta di 2075 miliardi) che il Pil è per il 2013 di 1550 miliardi. A fronte di questo dato, la previsione di spesa pubblica nel 2013 risulta essere di 808 miliardi, ovvero il 52% del Pil. La composizione di questa spesa è la seguente: pensioni, 255 miliardi; personale dipendente (che si calcola all’incirca in 3.200.000 unità) 164 miliardi (il che significa un costo medio unitario di 51.000 euro); consumi intermedi, 130 miliardi; spesa sanitaria, 111 miliardi. La differenza per arrivare a 808 sono gli interessi sul debito pari a 84 miliardi, e infine spese varie per 50 miliardi. A fronte della spesa totale di 808 miliardi, le entrate previste per il 2013, sono di 759 miliardi. La differenza fra questa cifra e il totale delle spese è di 49 miliardi, ovvero circa il 3% di deficit rispetto al Pil. Per completare il quadro parliamo di occupazione (con i numeri Istat). Gli occupati a settembre 2013 erano 22.349.000, ovvero il 55,4% della popolazione in età di lavoro. I disoccupati, a settembre 2013 erano 3.194.000, in crescita di 490.000 sull’anno precedente. I disoccupati in età 15/24 anni erano 654.000, pari al 10,9% di quella fascia di età (e non il 40% come si afferma erroneamente nei media). Infine, di recente, è saltata fuori una nuova categoria (non Istat) quella degli “inoccupati”: che non sono disoccupati, in quanto non lavorano e il lavoro non lo cercano (scoraggiati?). A questi si aggiungono quelli che non sono disoccupati ma che potrebbero cercare lavoro a breve termine. In queste due categorie ci sono altri 3 milioni di persone. In tutto, quindi, 6 milioni. Insomma, in questo Paese potrebbero lavorare 28,5 milioni di persone … se ci fosse lavoro.
Una riflessione sui numeri
(lb) Quando si dice che lo Stato centrale (includendo Regioni, Province, Comuni) spende 808 miliardi di euro all’anno, bisogna chiarire un punto, forse non del tutto scontato: lo Stato preleva i soldi attraverso le tasse e li ridistribuisce all’interno della nostra economia per fornire servizi: pensioni, scuola, sanità, esercito, polizia, burocrazia, magistratura, eccetera. Poi lo Stato spende 130 mld per consumi intermedi (es. carta, computers, armamenti). E’ necessario chiarire che tutti questi denari spesi dallo Stato non escono dalla nostra economia; contribuiscono invece ad alimentare il ciclo economico; per esempio con stipendi e pensioni che verranno destinati a consumi, a beni durevoli, a risparmio; oppure con l’acquisto di beni intermedi che andranno a beneficio dei fornitori (pagati però con enorme ritardo). Allora, quando si
dice che lo Stato deve tagliare le spese per poter diminuire le tasse, in realtà si sta parlando di una diversa destinazione del denaro. Per esempio, c’è chi suppone che lasciando più denaro nelle tasche dei cittadini, questi sapranno spenderli meglio, in maniera più gratificante per loro e più produttiva per l’economia. Particolare non trascurabile, questa è una tesi tipica della destra liberale. Mentre invece la sinistra sostiene che il denaro ridistribuito attraverso la spesa pubblica protegga meglio i più deboli: se lo Stato non provvedesse alla scuola o alle spese sanitarie, potrebbero studiare solo i ricchi oppure essi soli curarsi, mentre i poveri verrebbero lasciati a se stessi. Allora, dove è il problema? Il problema è che viene messo sotto accusa il modo di spendere dello Stato (dalla destra, ma anche da una parte della sinistra): cioè un modo improduttivo, inefficiente, parassitario, che non alimenta la crescita dell’economia ma la deprime. Per fare un esempio su mille: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, consigliere economico di Renzi, sostiene che Israele, con la metà degli uomini nell’esercito rispetto a noi, ha il doppio della potenza di fuoco delle forze armate italiane. Io sono per la ridistribuzione effettuata dallo Stato a favore dei più deboli. Oggi ce n‘è infinitamente bisogno. Tuttavia è innegabile che i servizi forniti dal nostro sistema pubblico siano in buona parte poco efficienti: se vogliamo fare un altro esempio macroscopico, basti pensare alla scuola, dove l’Italia si trova in coda (Ocse ecc.) in tutte le classifiche di performance dei nostri studenti rispetto a quelli di altri Paesi avanzati. Qui non si tratta di spesa. A meno di credere che la nostra intelligenza media nazionale sia più bassa della media europea, è chiaro che il nodo sta nel manico: organizzazione, materie di insegnamento, metodo di insegnamento, capacità di insegnare: in una parola, è necessaria più efficienza.
giovedì 14 novembre 2013
Franco Astengo: Bipolarismo all'italiana
BIPOLARISMO ALL’ITALIANA: IL PD DEL POST-PRIMARIE REGGERA’ IL CONFRONTO INTERNO /ESTERNO? dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
Il tentativo di ridurre al bipolarismo il sistema politico italiano appare ormai quasi definitivamente tramontato.
Il colpo più serio a questa ipotesi, pur perseguita per un ventennio dai gruppi dirigenti dei principali raggruppamenti di centrodestra e centrosinistra (con l’attuale legge elettorale usata, addirittura nel 2008 quale veicolo per forzare un “bipartitismo” poi miseramente fallito) è stato inferto dal successo del Movimento 5 Stelle alle elezioni dello scorso Febbraio.
Un successo di tali dimensioni da rendere prevedibile l’esistenza di un “terzo polo” abbastanza duraturo nel tempo: senza contare il peso del “quarto polo”, quello della crescente astensione, giunta ormai a livelli tali (circa il 30% nell’occasione delle elezioni politiche) da esercitare un forte condizionamento sull’intero sistema che soffre così di un alto tasso di sfiducia complessiva.
Oggi, però, l’incertezza più evidente regna all’interno dei maggiori partiti: se il PDL, attorno al nodo della decadenza parlamentare di Berlusconi e del conseguente possibile ritiro dell’appoggio al governo sta vivendo giornate di vera e propria fibrillazione, la situazione più complicata appare essere quella del PD.
Il Partito Democratico, infatti, sta svolgendo la propria fase congressuale che dovrebbe essere conclusa dalle “primarie aperte” previste per il prossimo 8 Dicembre, in uno stato di vera e propria confusione: beninteso non tanto e non solo per le pur gravissime vicende relative al tesseramento e allo smaccato inquinamento dell’esito congressuale dovuto, in molte situazioni, dalla presenza di pittoresche carovane di “truppe cammellate”.
Il dato più significativo e inquietante risiede, invece, proprio nella prospettiva politica che si sta aprendo nel partito, sulla base del possibile esito delle primarie.
Prima di tutto, però, un dato certo: mai come in quest’occasione le primarie non appaiono costituire elemento di volano per la crescita di consensi e di aggregazione, come invece erano state intese in passato.
Non pare proprio che l’evento funzioni da particolare elemento di attrazione nell’elettorato “largo” mentre cresce il partito del cosiddetto “non voto”, dopo il “no” pronunciato da Romano Prodi. Dichiarazioni in questo senso cominciano a emergere in misura e qualità molto significative: dalla CGIL, da ex-presidenti di Regione, da esponenti di primo piano di quella che fu la stagione dell’Ulivo.
Il punto però è quello di una effettiva difficoltà che il PD si troverà ad affrontare nel corso dei prossimi mesi risiede nella discrasia che potrebbe realizzarsi tra struttura e apparato del partito e l’indirizzo politico della nuova segreteria.
Cercando di spiegare con ordine si rileva come, nell’occasione delle primarie per i segretari dei circoli e delle federazioni, l’esito tra i principali contendenti, Renzi e Cuperlo, appare piuttosto in equilibrio e in molte situazioni territoriali si è avuto un interscambio di posizioni se non addirittura candidature comuni (quando non, come a Roma, candidature contrapposte della stessa area).
L’8 Dicembre, però questo scenario potrebbe essere completamente ribaltato dall’entrata in scena del “popolo dei 2 euro”.
Sicuramente l’affluenza alle urne di quell’occasione costituirà il primo elemento per una valutazione obiettiva dello stato di salute del PD.
Stando, però, ai sondaggi in circolazione la candidatura di Renzi dovrebbe ottenere un consenso notevolmente superiore a quello dei suoi concorrenti: si è scritto, da parte dei più qualificati operatori nel settore dei sondaggi, di percentuali tra il 70 e il 75%.
Se così fosse il PD si troverebbe di fronte ad un complicato confronto tra interno ed esterno.
Con l’interno del Partito rigidamente suddiviso in correnti e con una gestione spartita più o meno “a metà” tra le diverse componenti; e un segretario eletto quasi plebiscitariamente da un corpo elettorale molto diverso da quello composto solamente dai militanti e dagli iscritti.
Se questo fenomeno (perché veramente di fenomeno si tratta, uscito fuori dal cappello a cilindro degli azzeccagarbugli che hanno inventato questo metodo) dovesse verificarsi l’effetto più immediato sarebbe quello di una diversità se non di una vera propria “alternativa” nella proposta politica, pur rimanendo beninteso entrambe le opzioni all’interno dello stesso recinto: il segretario eletto direttamente risponderebbe dal punto di vista dei contenuti da proporre alla platea che lo ha eletto; l’apparato, invece, alle logiche compromissorie che lo hanno generato.
A questo punto facile prevedere uno scontro diretto fra queste componenti: uno scontro posto, soprattutto, sul tema della concezione del partito.
L’esito di questo scontro risulta alla luce dello stato di cose in atto del tutto imprevedibile, ma la sua concreta possibilità deve essere segnalata e analizzata per tempo soprattutto al riguardo dei suoi possibili effetti sistemici.
Intanto si stanno aspettando giudizi importanti: primo fra tutti, ben più pregnante della decadenza o non decadenza di Berlusconi dal Senato, quello previsto per il 3 Dicembre quando la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi al riguardo della legge elettorale.
Se da quella seduta della Consulta dovesse emergere un giudizio negativo per la costituzionalità della legge elettorale si avrebbe, prima di tutto, al di là degli specifici punti presi in esame, una valutazione complessiva di sfiducia per l’intero sistema anche avrebbe riflessi molto forti anche sul piano dell’opinione pubblica.
In secondo luogo messo mano obbligatoriamente, da parte del Parlamento, ai punti di criticità che saranno indicati dalla Corte, sarà difficile evitare l’immediato ricorso alle urne.
In questo senso si dovrà lavorare dall’esterno perché si formi un forte movimento per far sì che l’eventuale sentenza della Corte sia applicata attraverso una modifica in senso davvero proporzionale.
Il bipolarismo all’italiana a quel punto potrebbe anche essersi trasformato in “multipartitismo temperato” non riducibile a una forzatura “governista” come quella del doppio turno alla francese e con una rimessa in discussione del complesso degli equilibri politici, in una situazione di forte difficoltà sul piano economico e sociale e in un quadro Europeo dove pare spirare proprio il vento delle “larghe intese” e sempre più necessaria la presenza, a partire dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo del prossimo 25 maggio, una coerente opposizione politica di classe, comunista, per l’alternativa.
Dalla crisi di PDL e PD emergono, dunque, rilevanti questioni sistemiche: sarebbe il caso, anche da sinistra, riflettere al meglio.
Franco Astengo
Renato Fioretti: Meglio morire democristiani che renziani
Meglio morire democristiani che renziani
(di Renato Fioretti)
Passano gli anni e più mi convinco di essere stato preveggente nel ritenere che l’operazione realizzatasi nel 2007 con la costituzione del Pd fosse da considerare tutt’altro che una sorta di “fusione fredda” tra ex comunisti ed ex democristiani.
Con tale definizione alcuni commentatori - anche tra i più autorevoli - intendevano evidenziare il realizzarsi di un’anomala sommatoria di sensibilità politiche che in passato si erano (frequentemente) ritrovate a divergere su questioni di rilevante spessore. Un’alleanza “stonata” quindi, inevitabilmente destinata a non sopravvivere alla forza degli eventi. O anche un cartello elettorale che - stante le profonde e (talvolta) inconciliabili posizioni di provenienza - avrebbe prodotto ulteriori lacerazioni tra gli eredi dei maggiori partiti espressi dalla prima Repubblica.
Si trattava, invece dell’ennesima dimostrazione dell’ineguagliabile capacità del vecchio gruppo dirigente del Pci di sapersi “adeguare” ai tempi e alle esigenze del momento storico. In effetti, con sostanziale (consapevole) brutalità, ritengo di poter affermare che ai Democratici di sinistra (già Pds) - per i quali il “riformismo” era stato, in passato, addirittura, equiparabile al “socialfascismo” - cominciava ad apparire sin troppo chiara l’impossibilità di continuare a speculare a fini politici sullo status symbol della “diversità”.
In questo senso, erano (già) lontani i “bei tempi andati”, quando ancora sarebbe apparsa fantascientifica qualsiasi ipotesi di “caduta del muro” e - nella strumentale contrapposizione tra il Capitalismo dell’Ovest e la (falsa e opprimente) Dittatura del proletariato dell’Est - quello che era arrivato a essere il più grande partito comunista d’Europa aveva potuto contare su una grande rendita di posizione. L’essere riuscito, in sostanza, a convincere alcuni milioni di sostenitori e simpatizzanti della fatidica possibilità di una ”svolta a sinistra”. Tra questi, non pochi “duri e puri” che, rivelatisi poi più realisti del re, meriterebbero un capitolo a parte per glorificarne le camaleontiche doti.
Quindi, ai “soliti” dirigenti, dopo: a. la mancata realizzazione del compromesso storico (che al Pci produsse quale massimo risultato, la breve parentesi di appoggio esterno al governo Andreotti del 1978); b. la svolta della Bolognina - con la nascita del Pds - che, ad appena tre giorni dalla caduta del muro di Berlino, annunciava grandi cambiamenti e il superamento del Pci a favore di “una nuova formazione politica aperta alle componenti laiche e cattoliche”; c. la creazione di un movimento unitario di sinistra (Ds), che, per la prima volta, aveva - addirittura - sancito l’eliminazione della dicitura “partito” dal nome della nuova formazione; era ormai chiaro di essere “giunti al capolinea”!
A quel punto era evidentemente necessario - e, soprattutto, politicamente opportuno - non avere più nulla a che fare, nemmeno nominalmente, con la “sinistra”. Tra l’altro, a ulteriore sostegno della tesi secondo la quale - per gli “storici” responsabili delle precedenti formazioni politiche, in particolare del Pci - si rendeva indispensabile un maquillage completo, la responsabilità politica del Pd fu affidata, attraverso il voto dei 2.858 componenti l’Assemblea Costituente, al “giovane” Veltroni (Walter l’amerikano).
Quello, per intenderci, che aveva già dichiarato urbi et orbi di non essere “mai stato ideologicamente comunista”, e successivamente avrebbe concorso a realizzare - attraverso lo scellerato appello al “voto utile” nelle politiche 2008 - la sostanziale espulsione della sinistra dal Parlamento italiano. Salvo ritrovarsi, quali sponsor della nuova formazione, gran parte di quegli stessi dirigenti ed “eminenze grigie” che - appena qualche anno prima (Napolitano docet) - ancora definivano (pudicamente) “Fatti d’Ungheria” la rivolta popolare che - a Budapest, nel 1956 - i paesi del Patto di Varsavia avevano stroncato nel sangue degli “insorti”.
Tornando ai “costituenti” del 2007, si trattava degli stessi ex che: 1) nell’agosto del 1968 - al pari di un semplice (ingenuo e inconsapevole) lettore dell’ Unità o di Rinascita - avevano avuto la spudoratezza di sostenere di avere appreso “con sgomento” dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Urss e dei suoi satelliti; 2) durante gli anni dei primi governi di centro-sinistra in Italia, pur di dissociarsi dal riformismo di matrice socialista, avevano mancato alcune incredibili occasioni per partecipare (concretamente) all’affermazione dei diritti civili nel nostro paese (in particolare con le astensioni sulla riforma delle pensioni e la nascita della Previdenza sociale - legge 153/69 - e sullo Statuto dei lavoratori - legge 300/70 - nonché il voto contrario, insieme al Msi, alla riforma della scuola media - legge 1073/63); 3) nel marzo del 1976 - con una comunità internazionale che fremeva di sdegno per il “golpe” - fedeli alle indicazioni del Pcus, che premeva affinché i “partiti fratelli” lasciassero cadere ogni critica ai rispettivi governi per la politica seguita nei confronti del regime argentino, preferivano non inasprire il rapporto con l’Urss e si “adeguavano” a un imbarazzante silenzio.
D’altronde c’è poco da meravigliarsi; come già anticipavo, sembra far parte del Dna della stragrande maggioranza dei sostenitori “storici” dell’ex Pci - ex Pds, ex Ds, attuali Pd - la (non invidiabile) capacità di assorbire con estrema disinvoltura “svolte” e “abiure” di quelli che, in altra epoca, gli erano stati indicati come veri e propri dogmi.
Al riguardo, chi, come me, ha trascorso tanti anni della propria vita da dirigente (regionale) della Cgil, (iscritto dal 1976) sarebbe in grado di indicare, con prove circostanziali e senza tema di smentite, innumerevoli casi di compagni del Pci (tantissimi, tra i più “duri e puri”) che, se ancora negli anni settanta/ottanta amavano esercitarsi nella denigrazione del “socialdemocratico” di turno, si sarebbero poi convertiti alle esigenze del “mercato” e (improvvisamente) arruolati tra i più solerti sostenitori del “riformismo”. Quasi che esso avesse sempre fatto parte del proprio bagaglio culturale e rappresentato un’opzione politica cui, in passato, avessero dedicato quegli sforzi e quelle energie che, invece - nello scontro Est/Ovest - avevano esclusivamente votato, con ineguagliabile determinazione, all’affermazione del “Socialismo reale”.
A questo aggiungo che - a mio parere - una delle ragioni che avevano spinto il Pci, già nella seconda metà degli anni settanta, a tentare la strada dell’alleanza organica con l’allora Dc, era rappresentata dal (profondo) convincimento dei suoi dirigenti che, per avere la garanzia di un governo tanto solido da poter operare con autorevolezza nel nostro paese, non sarebbe mai stata sufficiente - per la sinistra dell’epoca - neanche la maggioranza dal 50 per cento più uno dei voti. Per la storia, i costumi, le tradizioni e le condizioni socio/culturali dell’Itala - non ininfluente, in questo senso, l’ingombrante presenza del Vaticano - la condizione sine qua non era rappresentata dalla necessità di raccogliere consensi “al centro”.
Ne è ben consapevole il “giovin signore fiorentino”, quando si dichiara fermo sostenitore del “bipartitismo”. Ed è proprio questo il punto. L’esperienza degli ultimi anni è, al riguardo, molto significativa.
I risultati - politici e sociali - del Pd, quale espressione del fantomatico centrosinistra (senza più neanche la non insignificante presenza del “trattino”) sono noti a tutti. Nei fatti, quel minimo di politica “di sinistra” che sarebbe stato lecito aspettarsi da quegli stessi dirigenti di un partito che, solo fino a pochi anni prima, si definiva - ancora e addirittura - “rivoluzionario” e misticamente votato alla realizzazione del “Sol dell’avvenire”, si è (miseramente) infranta di fronte all’esigenza di un inafferrabile “senso di responsabilità”. Lo stesso che, da alcuni mesi a questa parte, funge - secondo alcuni - da vero e proprio alibi a un’anomala alleanza di governo.
Personalmente sono invece convinto che oggi assistiamo alla fase successiva di un’azione in progress: l’ulteriore passo in avanti di una strategia sostanzialmente (già) delineata. Il naturale approdo di una “politica delle alleanze” rispetto alla quale - per gli ex Pci - la costituzione del Partito democratico ha (evidentemente) rappresentato un’efficace “sperimentazione”. Verrebbe da dire: “Niente di nuovo sotto il cielo”. Cosicché, come nel 2007 fu indispensabile “puntare” su Veltroni, oggi si ripresenta la necessità di ricorrere al “nuovo”.
Lo pseudo “Rottamatore” (di chi, visto che Veltroni, Bassolino, De Luca sono tutti con lui?) - da perfetto “comunicatore senza contenuti”, in particolare “di sinistra” - rappresenta il massimo possibile. Non a caso il Matteo nazionale - come egregiamente rilevato da Carlo Freccero - “attua una comunicazione semplice e accessibile a tutti e un programma ‘di consenso’ che non hanno bisogno di indicare soluzioni (e prospettare obiettivi), ma piuttosto di allargare il potenziale elettorato, coagulare maggioranze di destra e di sinistra, vincere le elezioni”.
In definitiva Renzi - che resta un finto innovatore - è stato scelto perché dovrebbe riuscire in quello che il Pd ha fallito. Mettere insieme “centro” e destra “moderna” - sperando, ma non necessariamente, di “assorbire” una parte del M5S - con ai margini la Lega e quella destra non presentabile in Europa. Senza tralasciare (ovviamente) di lasciare fuori dal Parlamento quel po’ di sinistra, senza più l’esigenza dell’aggettivazione “radicale”, che ancora (strenuamente) cerca di resistere.
Questo perché solo chi finge di non vedere né sentire può (realisticamente) sostenere e/o dare a intendere che da personaggi quali D’Alema, Violante, De Luca, Fassino, Veltroni, Bersani, Bassolino (e chi più ne ha, più ne metta) - senza neanche prendere in considerazione i vari Cuperlo, Civati e gli altri “emergenti” - ci si possa, ancora e finalmente, aspettare “qualcosa di sinistra”.
14 novembre 2013
Marc Saxer: Utopia, tecnocrazia e lotta: come uscire dalla crisi della Socialdemocrazia
Marc Saxer
Utopia, tecnocrazia e lotta: come uscire dalla crisi della Socialdemocrazia
(Da "Social Europe Journal”, 4 novembre 2013. Traduzione dall’inglese di Fabio Vander; Marc Saxer è borsista presso la Fondazione Ebert)
La crisi della Socialdemocrazia è strettamente connessa allo squilibrio determinatosi fra capitalismo e democrazia. Si sono deteriorate sia le opportunità legate ad un approccio di tipo tecnocratico, sia quelle legate alla tradizione più combattiva del movimento operaio. Per recuperare il suo peso politico la Socialdemocrazia deve riscoprire il suo progetto utopico, con l’obiettivo di un giusto equilibrio fra le istanze universali della democrazia e gli interessi particolari del capitalismo. L’utopia della Buona Società con piene possibilità per tutti è una risorsa chiave per la ripresa politica della Socialdemocrazia.
La crisi della Socialdemocrazia ha ragioni più profonde di quelle legate agli alti e bassi del ciclo elettorale. Prima di tutto si tratta di una crisi di sostanza politica. Una crisi che ha riguardato le radici stesse del progetto socialdemocratico, teso a promuovere un diverso equilibrio fra valore universale della democrazia e interessi particolari del capitale. Nel periodo d’oro successivo alla seconda guerra mondiale la Socialdemocrazia riuscì effettivamente ad addomesticare gli istinti animali del capitalismo. Oggi in molti ritengono che non ne sia più capace. Se vuole promuovere pari opportunità per tutti, un progetto di emancipazione deve riuscire a cambiare le strutture di potere dell’economia politica. E questo inevitabilmente provoca la reazione di quanti sono invece interessati alla conservazione dello stato di cose esistente. Ma proprio per battere le resistenze di quanti difendono risorse, ideologie e rendite di posizione, ogni progetto di emancipazione deve essere capace di esprimere forza, potere. Storicamente questo potere dipende dalla capacità del movimento dei lavoratori di mobilitare le masse. Le vittorie elettorali hanno legittimato le socialdemocrazie a utilizzare lo Stato per garantire pari opportunità a tutti. Scioperi e proteste di massa hanno dato il potere ai sindacati di contrattare da posizioni di forza con la controparte capitalista. E invece i due pilastri del movimento operaio, partiti e sindacati, sono oggi molto meno capaci di mobilitare quelle fonti di potere. Le cause profonde del calo di influenza risiedono nel cambiamento di quadro che ha infirmato proprio la forza sia dei partiti sia dei sindacati del movimento operaio. Questo senza nascondere che la Socialdemocrazia è stata anche capace di auto-infliggersi colpi, abbandonando il suo progetto utopico.
Cause esteriori dell’indebolimento della Socialdemocrazia
La chiave dei processi in corso è nel sopravenuto squilibrio di potere fra Socialdemocrazia e capitalismo. Nel segno di una ideologia che demonizza lo Stato e glorifica il mercato, tutti i paesi occidentali hanno visto procedere la demolizione dello Stato sociale. Quarant’anni di politiche neoliberiste hanno drammaticamente sconvolto gli equilibri redistributivi, hanno diviso le società e indebolito gli Stati. Allorché l’instabilità strutturale del capitalismo finanziario è stata scoperta, era ormai troppo tardi per invertire la marcia. Le multinazionali e le grandi banche non solo hanno distorto i mercati, ma i flussi della finanza globale non sono più controllabili dai sistemi democratici. Il matrimonio fra capitalismo e democrazia è giunto alla fine. I neoliberisti ritengono che i mercati debbano avere il sopravvento sugli Stati se si vuole creare ricchezza; di conseguenza lo Stato è relegato a funzioni ancillari rispetto al mercato. La “democrazia compiacente con il mercato” di Angela Merkel questo è: la riduzione della politica a ‘ufficio riparazioni’ del mercato. E se la democrazia osa disturbare questo rapporto di sudditanza (ad esempio con il rifiuto irlandese di ratificare il Trattato UE o con il rifiuto del Congresso americano di salvare le banche), la decisione “sbagliata” viene subito rimediata o cancellata senz’altro (si pensi al referendum greco sull’austerity). Di conseguenza la nefasta assunzione al governo, in Grecia e in Italia, di élites di tecnocrati, corrode la legittimità della rappresentanza democratica. Per la Socialdemocrazia uno sviluppo del genere ha conseguenze drammatiche. In primo luogo perché lo strumento chiave del potere socialdemocratico e cioè lo stato nazione, è stato eroso. Abbandonati a se stessi gli Stati nazionali, non possono più fronteggiare adeguatamente le sfide globali, che spaziano dai cambiamenti climatici, al terrorismo, allo scatenamento dei mercati finanziari. Ma neanche la governance globale è senza problemi, con una struttura di tecnocrati come quella di Bruxelles naturalmente votata alla causa liberista e con la delegazione di poteri a livello intergovernativo che vieppiù indebolisce le capacità di decisione dei singoli parlamenti democratici. In secondo luogo lo squilibrio di poteri determinatosi fra capitalismo e democrazia approfondisce le asimmetrie sociali. Chi controlla i mezzi di produzione e di repressione è un attore politico di pieno diritto; i più deboli invece debbono prima organizzarsi se vogliono far sentire la loro voce sul piano politico, il che implica che il capitale politico necessario per portare avanti le proprie istanze deve essere generato e rinnovato sempre di nuovo. In altre parole, per implementare le politiche di progresso un governo socialdemocratico deve essere capace di mobilitare le masse non solo il giorno delle elezioni, ma sempre e continuativamente. Certo il deteriorarsi di tutti i presupposti di una politica socialdemocratica rende quella mobilitazione tanto più difficile. Per un momento ci si può illudere che il potere declinante della vecchia socialdemocrazia possa essere surrogato da una “Terza Via” che promette di essere una variante più equa del capitalismo. Ragioni di tattica politica possono suggerire di abbandonare la lotta per i fondamentali, per la distribuzione primaria. Resta il fatto che le politiche di svalutazione guidate dai mercati hanno infirmato le risorse politiche della socialdemocrazia, mentre la grande massa degli elettori centristi la considera solo come un’opzione elettorale fra le altre, da votarsi o meno a seconda di come mutano gli umori. I Cristiano Democratici della Merkel hanno alimentato questo tipo di borghesia corriva con certe istanze apolitiche e sono riusciti ad ottenere una vittoria notevole in termini di “de-mobilitazione asimmetrica”.Gli strumenti classici della politica hanno obiettivamente una minore incidenza nelle società post-industriali.
L’erosione degli strumenti classici nelle società post-industriali
Le società post-industriali sono atomizzate in una vasta gamma di classi e subculture che coesistono in orizzonti di significato paralleli. I cosiddetti “precari”, cioè quelli che sono permanentemente esclusi dalla vita sociale, economica e culturale, ormai non sono più adatti a fungere da attori politici. Come dire che i soggetti di classe più combattivi (“Class Warriors”) sono ormai deprivati di ogni protagonismo politico. I classici strumenti della lotta di classe -partiti politici e sindacati- hanno in faccia il gelido vento delle cose che cambiano. E in effetti le lotte di massa per imporre i diritti universali sono figlie dell’era industriale. Mentre gli apparati burocratici e i modi di lavorare di quelle organizzazioni suonano come un anatema di fronte alla logica individualista delle società post-industriali. Lo stesso dicasi per la governance tecnocratica. Le regole astratte ed universali sembrano aliene di fronte alla realtà di individui isolati e autonomi. Per altro verso le decisioni riservate a ristrette élite di “esperti” sono quanto di meno accettabile per una opinione pubblica politicamente avvertita, che effettivamente soffre di una sempre minore partecipazione ai processi di decisione politica. Tanto che per gli “Indignados”, per “Occupy” e simili movimenti di protesta, le elezioni sono viste sempre meno come autentica fonte di legittimazione. Ma l’emergenza di una destra xenofoba e populista deve far riflettere sul fatto che la mancanza di autentiche alternative democratiche rende attrattive le alternative estremiste. Per questo dobbiamo avere il coraggio di optare per una democrazia radicale. E proprio adesso che democrazia diretta e partecipazione dei cittadini sono anatemi per i potentati tecnocratici. È comunque chiaro come società plurali e frammentate organizzano i loro processi di decisione politica. Rispetto a questo l’esperienza suggerisce alcune soluzioni: occorre puntare su processi locali, partecipati, riflessivi e diretti. Tuttavia i nuovi movimenti per lo più rifiutano di convergere su una piattaforma politica comune, finendo però per esprimere solo una generica protesta che non riesce ad organizzarsi in esplicita proposta politica. Approcci affascinanti come la “moltitudine” di Hardt e Negri o la “resistenza del non fare niente” di Zizek non fanno che surrogare chiare politiche di cambiamento con una sorta di “voodoo” o fede nel deus ex machina. Quello che è andato perduto sono i legami di solidarietà che sarebbero in grado di tenere insieme movimenti di protesta dentro e fuori i confini nazionali, dando luogo così ad una potente “agente di cambiamento”. Altrimenti i movimenti di protesta tendono a svaporare in breve tempo senza lasciare particolare traccia in ambito politico.
La crisi delle premesse teoriche del discorso critico
La Socialdemocrazia si trova di fronte una sfida sempre più decisiva: l’erosione dei suoi fondamenti filosofici. Affascinata ancora dalle illusioni di un Illuminismo razionalista, la Socialdemocrazia crede di poter modellare le relazioni sociali sulla base di meri interventi razionali. Tutte le istituzioni moderne -mercato, Stato e democrazia- sono costruite a partire dal soggetto cartesiano, dall’homo oeconomicus all’elettore razionale. E invece la scienza ha messo in discussione questo concetto di essere umano. La psicologia ad esempio ricorda che ci sono altri aspetti che determinano il nostro comportamento, la linguistica insiste sulla limitatezza del nostro linguaggio, il costruttivismo sugli errori cui ci inducono le ideologie. Guerre e catastrofi ci ricordano che le previsioni razionali sono spesso illusioni e che il progresso tecnico ha i suoi costi. Presi nel loro insieme questi sviluppi minano la fiducia nell’approccio tecnocratico in quanto davvero capace di determinare un mondo migliore. Quindi non sorprende che sempre più gente non veda più nella tecnica la soluzione, ma il problema.
Gli errori della Socialdemocrazia
Dati i nuovi rapporti di forza determinatisi in questi anni la formula tradizionale: “mercato quanto possibile, Stato quanto necessario” non è più spendibile. Un approfondito dibattito per trovare risposte nuove ai nuovi problemi è per la verità già cominciato. Da una parte lo scatenamento del capitalismo è tale che i suoi spiriti animali sono ormai indomabili; dall’altra non si sa più con quale tipo di società sostituire il capitalismo. Altri poi ritengono che al punto in cui siamo convenga arrivare ad un accordo onde evitare che possa succedere anche di peggio. Le domande a questo punto sono due: che tipo di società vuole costruire la Socialdemocrazia? E poi, data la condizione dei rapporti di forza: una tale società potrà mai essere realizzata? Ora nel dibattito socialdemocratico questo doppio ordine di problemi è ignorato. Il dibattito si regola ancora secondo la vecchia alternativa fra chi intende la politica come conflitto e chi come semplice serie di mutazioni. Il paradigma della politica come conflitto prende le mosse dalla tradizione marxista della lotta di classe. Che però da una parte non ha mai registrato la promessa vittoria finale del proletariato, dall’altra ha addirittura dovuto soffrire la scomparsa del proletariato stesso. Tuttavia i teorici del conflitto hanno assunto il paradigma gramsciano della politica come conflitto di egemonie. E per questo accusano i sostenitori del compromesso di aver tradito la causa socialdemocratica e puntano ancora su di un programma di emancipazione centrato sulla alternativa di egemonie. C’è anche chi preferisce opporsi al sistema dal di fuori, pur di non compromettersi con il governo. Di fronte al retroterra che sottende alle asimmetrie di potere, un approccio come questo pare però sovrastimare la effettiva capacità di piccoli gruppi di vincere sul piano dell’egemonia e di implementare le politiche progressiste. Le politiche tecnocratiche cercano invece di ovviare al conflitto con l’utilizzo dello Stato come volano del cambiamento. E così ricorrono a strumenti quali le previsioni di scenario, i Libri Bianchi, i Piani Quinquennali tutti coloro che intendono la politica come un processo burocratico di pianificazione, di eterodirezione della società, di controllo e valutazione. Il sobrio tecnocrate si rivolge solo a quanti desiderano vivere indisturbati dalle passioni politiche. Perché effettivamente la base sociale della tecnocrazia è costituita da quel ceto medio che si illude di risolvere i problemi con una politica di semplice buonsenso. Per strano che possa sembrare infatti la tecnocrazia è radicata in una visione utopistica, segnatamente nell’ideale illuminista della modernità: “si può raggiungere il progresso tramite la sola ragione”. Secondo i tecnocrati chi teorizza ancora il conflitto è solo un romantico nostalgico dello Stato-nazione che non ha capito quanto la bilancia dei poteri sia stata squilibrata dal capitalismo finanziario globale. Dopo di che i tecnocrati non fanno che promuovere ampie coalizioni con liberali e conservatori per sostenere le politiche di riforma. Sicché anch’essi alla fine cadono nell’errore di sopravvalutare le capacità politiche di intervento dei governi nazionali. Quando invece sotto il giogo del capitalismo finanziario ogni governo eletto dovrebbe riuscire a mobilitare un intero tesoro di risorse politiche per cercare di sostenere le politiche di riforma di contro alla coalizione degli interesse conservatori. Come però una tale continua pressione dal basso possa essere mobilitata senza esser sostenuta da una cultura dell’alternativa è una questione lasciata ancora senza soluzione. Ora questa frattura strategica è stata evidenziata nella discussione che ha visto contrapposti Jürgen Habermas e Wolfgang Streeck. Partiti da una comune critica salace delle relazioni fra capitalismo e democrazia, poi però Habermas ha spinto in direzione di una ingegneria istituzionale di livello sopranazionale, mentre Streeck accetta di combattere fra le rovine dello Stato nazionale. Ma è significativo che mentre entrambi si dilungano nella descrizione delle asimmetrie determinate dal capitalismo globale, ben poco dicono su dove trovare le risorse politiche per contrastare questo stato di cose. Invece di restare paralizzati dalla asserita supremazia del capitale, bisognerebbe far ripartire la rifondazione delle condizioni politiche delle politiche di progresso. Dato il potere finanziario, repressivo e ideologico della coalizione di interessi oggi vincente, la domanda capitale deve essere: quali sono le risorse politiche indispensabili per un progetto di emancipazione?
Ricostruire un progetto politico centrato sull’utopia
A dispetto o forse in ragione proprio delle loro differenze, teorici del conflitto e tecnocrati stanno sulla stessa barca. Anche se -ed è un grosso “se”- fosse possibile tornare a vincere le elezioni, un mandato elettorale non sarebbe comunque tale da garantire una legittimazione sufficiente a dare forza ad autentiche politiche progressiste. I tecnocrati riformatori debbono capire che solo la capacità di mobilitazione può assicurare un capitale politico in grado di renderli attori politici autenticamente legittimati. E che solo innestando un vero discorso egemonico si può pensare di prevalere sulle forze conservatrici. Dove discorso egemonico significa inserire la politica entro una più generale narrazione intorno alla “Good Society”. La comunicazione politica diventa inefficace se si limita ai dettagli tecnici. I progressisti si sono troppo spesso concentrati su dettagli tecnici, abbandonando il campo dei sentimenti, delle immagini, dei sogni alla destra. E invece gli esseri umani sono soliti avvolgere i loro pensieri nelle narrazioni. Ossessionati dalla razionalità del logos, ci siamo dimenticati che abbiamo bisogno di miti per trovare una bussola morale e metafisica. Perché invece si riesce a dare un senso ad un mondo caotico solo inserendo i fenomeni in un quadro di emozioni, esperienze ed intuizioni. In altre parole le narrazioni mitiche sono il modo normale con il quale dotare il mondo di un senso. Proprio questo deve dunque intendersi per potere di persuasione: la capacità di porsi in sintonia con ciò che la gente pensa, dice e fa, offrendo a tutti un ordine di significato in forma di narrazione. I teorici del conflitto, dal canto loro, devono riconoscere che dato lo squilibrio nella bilancia dei poteri, un’ampia coalizione sociale è pur necessaria per realizzare una mobilitazione tale da implementare le politiche riformatrici. Se le elezioni non sono la sola forma di lotta, certo un mandato elettorale forte può permettere alle battaglie progressiste di avere successo. In questo senso scavarsi una semplice nicchia di resistenza a sinistra è controproducente. Dunque barcamenandosi fra sfide sempre più ardue e ristrette capacità di risposta, la Socialdemocrazia deve mostrarsi capace di ripensare la sua storia. Potrà tornare ad agire con successo se la mobilitazione del capitale sociale sarà combinata ad un adeguato progetto politico. Una combinazione che divenga obiettivo condiviso. Ma non v’è dubbio che per tenere insieme queste due anime è necessaria l’utopia. L’utopia tratteggia un domani migliore, una Buona Società con piene possibilità per tutti. Le utopie non sono descrizioni dettagliate di un futuro realistico, ma una stella polare, qualcosa che dà fiducia, che molti possono condividere. L’utopia garantisce una bussola normativa, che torna utile sia alla classe politica sia ai cittadini. Solo la prefigurazione di una Buona Società rende i cittadini capaci di valutare se un certo processo politico va nella direzione giusta o meno. La bussola utopistica porta le istanze progressiste a valere ben oltre il solo momento elettorale. Questo è vero in particolare per le politiche progressiste, perché permette di rispondere adeguatamente alla domanda dirimente: “progresso verso quale obiettivo?”Certo l’utopia è qualcosa di più di una bussola. È una sorgente di energia di cui i progressisti non possono fare a meno, dato che solo la visione di un mondo migliore consente di rompere le barriere della paura, dando forza alla battaglia per il cambiamento. Solo intorno ad una piattaforma condivisa attori con interessi diversi possono unire le loro forze. Per questo non è importante che una utopia si realizzi o meno. Utopia consente di immaginare un mondo diverso rispetto ad una realtà che pare pietrificata. Solo fidando in una visione comune del futuro si possono mettere insieme persone che altrimenti hanno interessi diversi. La promessa di un cambiamento possibile dà al popolo il senso di una missione, permette di unire battaglie anche diverse, travalicando i confini sociali e nazionali e accendendo la speranza in una rifondazione del mondo dalle fondamenta. Si capisce che i discorsi attualmente egemonici puntano a spegnere queste fonti di speranza, negando la possibilità del cambiamento e ridicolizzando la fiducia nelle visioni alternative del futuro. Dopo il collasso dei regimi comunisti, la “fine della storia” ha tentato di scoraggiare ogni speranza in una utopia socialista. E senza utopia i socialdemocratici perdono una fonte di energia vitale insieme alla capacità di contrattare le stesse politiche “pragmatiche”. La Socialdemocrazia perde se si arrende all’idea che non ci sia alternativa alla società di mercato; viceversa per recuperare spazio politico deve dotarsi di una positiva visione di un mondo post-capitalista. Del resto la costruzione di una nuova utopia socialdemocratica è già avviata. La Fondazione Ebert sta contribuendo ad un progetto europeo intorno alla “Buona Società” ed, in Asia, al progetto “Economia del Futuro”. Per garantire però a tutti pari opportunità e realizzare le condizioni per la Buona Società si devono cambiare i sistemi economici e politici. È necessario avviare un processo verso una dinamica di sviluppo socialmente giusto, sostenibile e verde. L’Economia di Domani dovrà essere fondata sulla inclusione di tutti i talenti, su salari giusti, mercati finanziari stabili, conti correnti bilanciati, un ambiente protetto socialmente e naturalisticamente, innovazione verde e scorporo di produttività e risorse. Certo un tale modello, che suona effettivamente accademico, è necessario, ma non sufficiente. Come detto esso va inserito in un contesto di immagini e narrazioni indispensabili a integrare un discorso di tipo egemonico. Bisogna incontrarsi intorno a certi valori per combattere insieme per cambiare le prospettive di sviluppo. I progetti politici servono proprio a rendere possibili questi incontri fra diversi ambiti di discorso a loro volta indispensabili ad avvicinare comunità a tutta prima diverse. Proviamoci! L’autenticità favorisce la fiducia reciproca. Naturalmente tutto questo presuppone sempre la diversità e la critica. La domanda di fondo rimane inalterata: un progetto riformatore deve affrontare le questioni della redistribuzione primaria dei redditi e del benessere o può limitarsi ad una qualche forma di regolamentazione e redistribuzione? In altre parole: provare a muoversi nella direzione di un Eco-Keynesismo è in grado di produrre piene opportunità per tutti? Oppure il potere dei movimenti di emancipazione è insufficiente a sostenere il sia pur minimo spostamento in fatto di politica economica? Solo un appassionato dibattito su queste questioni può costruire nuova fiducia verso i soggetti del cambiamento. E solo la fiducia nella sincerità di questi soggetti può dare credibilità all’utopia. Senza una realistica utopia, non sarà possibile combinare forme di lotta disparate in un’ampia coalizione sociale. E solo una ampia coalizione sociale può mobilitare forze tali da spostare il corso delle cose, indirizzandolo verso una Buona Società con piene opportunità per tutti.
mercoledì 13 novembre 2013
Paolo Bagnoli: Pasticci
Dall'Avvenire dei lavoratori
Che il Pd fosse, geneticamente, impossibilitato a divenire un partito lo abbiamo sostenuto più volte. I fatti ci stanno dando ancora una volta ragione, ma che si arrivasse a questo punto, era difficilmente immaginabile. E, anche solo raccontare il caos imperante, è impresa ardua.
di Paolo Bagnoli
Ciò che si può dire è, a situazione data, che il Pd non dà garanzia alcuna di essere la soluzione né per la crisi politica aspra che investe la Repubblica né per il governo del Paese.
Questa situazione rappresenta per qualcuno la fine di una speranza, per altri la conferma che i pasticci generano solo pasticci. Oramai non ci crede più nemmeno Prodi, padre nobile e tradito che ha confermato la veridicità del detto secondo cui la vendetta si consuma a freddo. Nemmeno Prodi, tuttavia, è esente da responsabilità; ma facciamogli almeno l’onore delle armi, come dignità richiede.
Nel Pd il momento della scissione tra le due anime questa volta sembra aver fatto qualcosa di più che un semplice capolino sulla ribalta. A cancellare ogni equivoco su cosa il partito non deve assolutamente essere ci ha pensato Giuseppe Fioroni il quale, alla notizia che Epifani avrebbe organizzato per il prossimo febbraio a Roma il congresso del Pse, ha detto con chiarezza: "Sarebbe una mutazione genetica che trasformerebbe i democratici in un soggetto di sinistra e annullerebbe di fatto lo scioglimento della Margherita. Nelle clausole risolutive del patto fondativo del Pd era espressamente indicata la condizione di non iscriversi al Pse" (Corriere della Sera,10.11.2013). Tra tante altre interessanti cose, Fioroni ha aggiunto che il fine del soggetto era quello “di superare le vecchie famiglie europee, mettendo insieme moderati e riformisti”. Vaste programme, cher monsieur.
Vediamo, allora. In primo luogo: che senso avrebbe per un partito non aderente al Pse organizzarne il congresso? Di riscontro: secondo quali presupposti il Pse potrebbe dare in appalto a una forza estranea un simile evento, e per di più alle soglie delle elezioni europee? Forse perché spera che il Pd entri nel Pse o forse perché il Pd vuole entrarvi. Tutto può essere. Ma, se così fosse, non ci sembra questa la prassi più seria.
Il Pd non appartiene a nessuna delle strutture internazionali del socialismo. E ciò in coerenza con se stesso, poiché, come ricorda Fioroni, il suo fine era il "superamento" di cui sopra. D’altronde Veltroni – ricordate? – aveva declamato che “il socialismo è morto e la sinistra è finita.” Da qui la conferma certificata del fatto, anche questo da noi sostenuto, che il Pd non può essere una forza della “sinistra” intendendo se stesso appunto come "superamento delle vecchie famiglie".
Ritenere il socialismo morto significa porsi oltre. Dove? In un altrove che è rimasto a tutt'oggi sconosciuto, eccezion fatta per la sua distanza dalla storia, la funzione, i valori e la cultura del movimento operaio, cioè dal motivo conduttore del socialismo europeo e della sinistra in generale. Essere posizionati alla sinistra di Berlusconi non vuol dire essere la “sinistra”.
Che al Parlamento europeo vi sia un gruppo “dei socialisti e dei democratici” riflette una necessità parlamentare, non un indirizzo strategico: necessità che è stata equivocamente usata per mere esigenze tattiche creando confusione e, talora, pure inganno. Dunque, il Pd non riesce a essere un partito. Ma, se vi riuscisse, sarebbe quello indicato da Fioroni. E a corollario di ciò domandiamo ancora una volta che cosa rappresenti il Psi (partito membro del PSE) se non riesce nemmeno a mugolare come il coro muto della Madame Butterfly!
Tutto ci conferma nel convincimento che, nel quadro ricostruttivo della democrazia italiana, la questione della ripresa socialista, cui è strettamente collegata quella della sinistra, è assolutamente tra quelle centrali. Occorre un socialismo di sinistra, un pensiero politico autonomo, compiuto e marcatamente europeista.
La verità, anche in questo caso, è semplice: per il socialismo occorrono i socialisti, fieri e consapevoli di esserlo e di volerlo essere; occorre una ripresa dell’elaborazione culturale, a partire dalla concretezza delle questioni sociali drammatiche che sono sul tappeto. Occorre uscire dal sonnecchiamento in cui tanti luoghi socialisti sono stati fino ad oggi, per tentare un’impresa assai difficile, come lo sono quelle che si pongono quali scommesse sulla storia: quella del presente e del futuro, s’intende, nel solco di un’identità ideale che viene dal passato.
Le scommesse sulla storia non hanno mai certezze. E tuttavia la loro assenza non è nemmeno rassegnazione, ma solo correa negativa responsabilità.
Noi crediamo che le battaglie si danno perché si ritiene sia giusto e doveroso farlo. Quali saranno i loro esiti mai nessuno può dire.
lunedì 11 novembre 2013
domenica 10 novembre 2013
Enrique Baron Crespo: The European Union
The European Union, weaver of peace.
Costa Rica
17/10/13
Enrique Barón Crespo
This conference comes as the result of a conversation with your Rector, my good friend Francisco Rojas Aravena. The main topic was the situation of Europe in 1914, the year of the beginning of the 1st World War, a conflict that most Europeans still call the Great War, la “Grande Guerre”. A continental civil war that unleashed destruction and havoc until 1945 with the 2nd World War. As a consequence of this inhuman conflict, almost 100 million human beings died all over the world. Most of them were civilians.
For Europe, it represented a human, political and economic suicide. Since then, History has shifted in a radical way. The Nobel Peace Prize 2012 was awarded to the European Union (EU) "for having over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe".
My purpose is to explain that this change was possible thanks to a patient and lasting work of political weaving of the peace banner. As you surely know, weaving and cultivating were two founding activities that triggered the creation of settled human societies. Both of them require skills and perseverance.
Europe has lived most of its History fighting internal wars, while its successive leaders have claimed their right to be worshipped as peacemakers of their respective time. The ruling Emperor, King, or Dictator sacralized it as the Pax Romana, Pax Imperialis, Pax Hispanica, Pax Gallica, Pax Britannica, Pax Germanica, the Reich of Thousand years…and so on.
The only form of peace from ancient times that has survived through the ages is the invention of the Olympic Games that took place during regular periods of peace, the Sacred Truces among Classical Greeks. Greek Mythology is useful to demonstrate the importance of weaving for peace. In the great narrative of Homer, poet among poets, the goddess of wisdom Palas Athena incarnates the art of weaving and the right to a just warfare by holding a spear in her right hand and a spindle in the left. Her main contender was Ares, the god of cruel war.
This might explain why, besides her appearance of justice, Athena punished the mortal Arachné because her work of tapestry mainly depicted how the Gods mistreated and abused mortals. The theme was Zeus' rape of the nymph Europe. This story inspired Velázquez to paint “Las hilanderas” (“the philanderers”), where he depicted the moment in which Palas Athenea became aware that Arachne’s crafting had become much better than hers. Growing jealous about her weaving skills, the goddess’s rage pushed her to destroy her artwork, beating her with the shuttle of the loom she would use to weave. Arachne couldn’t take such a humiliation, and hanged herself . Athena felt merciful, biding her life by using Hecate's potion, which turned Arachné into a spider, and cursed all her descendents to weave until the end of time. Today, Latin languages use Aracne’s name for the spider: araña, aranha, araignée, and ragno.
Athena also protected Ulysses and Penelope, the queen that weaved and undated a burial shroud.
But now, let me come back to my first words, in order to exemplify how walking on this tightrope has been the most common situation for European leaders through history, as it happened after the World War I.
As did the Greeks, the founding fathers of the European Union also shared the experience of carefully threading between the spider-web of war and the tapestry of peace. This was the case of Jean Monnet, prominent founding father of the EU and first President of the High Authority of the European Community for Coal and Steel (ECSC). A young seller of cognac in 1914, he convinced, the Prime Minister of France, Rene Viviani, of the necessity of launching a great logistic operation of overseas mass transportation of weapons and means from the United States to Europe. He repeated it in the Second World War.
In 1918, the Victory of the Allies was symbolically enforced through the Treaty of Versailles, in which Woodrow Wilson, Clemenceau and Lloyd George (the peacemakers, as Margaret McMillan called them in her brilliant essay) sketched out on paper the new world order that would emerge after the war. The 14 points proposed by the American president Wilson subsequently led to the creation of the Society of Nations, although without the participation of the US. The principle of self-determination also changed the whole map of Europe, triggering the implosion of the German, Austro-Hungarian and Ottoman empires. This Treaty was signed in the same palace in which the victorious Kanzler Bismarck crowned the Kaiser of the unified Reich in 1870, after a Franco-German war whose pretext was the succession to throne of Spain – a continental rant that highlights the undeniable interdependencies that shape Europe from the inside, now and them.
The then-defeated Germany was condemned to pay “impossible war reparations”, as John Maynard Keynes rightly defined them when he resigned from the Committee and wrote “The economic consequences of Peace”.
Jean Monnet was Deputy Secretary General of the League of Nations after the war. He fully understood the necessity of multilateral institutions and the need to unify a continent to sustain growth and pave the way for European economic and social prosperity. As he wrote in Algiers, in 1943: “There will be no peace in Europe, if the states are reconstituted on the basis of national sovereignty... The countries of Europe are too small to guarantee their peoples the necessary prosperity and social development. The European states must constitute themselves into a federation”.
In the aftermath of the War, on the global stage, both the creation of the United Nations in San Francisco in 1945 and the adoption Universal Declaration of Human Rights in 1948 represented a major change. The great violinist and humanist Yehudi Menuhin played in both events. He said that ”Peace comes from being able to contribute the best that we have, and all that we are, toward creating a new set of values and attitudes to replace the culture of war which, for centuries. As Chairman of the International Yehudi Menuhin Foundation, www.menuhin-foundation.com I follow his mission with a dedicated team, bringing Art to the schools.
In 1948, the Congress of the European Movement was hold in the half devastated city of The Hague with the attendance and participation of political, business and social leaders of the whole continent. Present at the meeting were Konrad Adenauer, Winston Churchill, Harold Macmillan, François Mitterrand, Paul-Henri Spaak, Salvador de Madariaga and Altiero Spinelli. They took an active role in the congress, whose major outcome on the eyes of History was the call for a political, economic and monetary Union of Europe. Sir Winston Churchill shortly briefed it in the following terms: “The Movement for European Unity must be a positive force, deriving its strength from our sense of common spiritual values. It is a dynamic expression of democratic faith based upon moral conceptions and inspired by a sense of mission. In the centre of our movement stands the idea of a Charter of Human Rights, guarded by freedom and sustained by law. It is impossible to separate economics and defence from the general political structure. Mutual aid in the economic field and joint military defence must inevitably be accompanied step by step with a parallel policy of closer political unity”.
But the process did not generate peacemeal progress through drafting a political constitution. The next step proved to be the reading of the Declaration of the 9th of May 1950 by the French Foreign Minister, Robert Schuman, which led to the creation of what is now the European Union:”World peace cannot be safeguarded without the making of creative efforts proportionate to the dangers which threaten it. The contribution which an organised and living Europe can bring to civilisation is indispensable to the maintenance of peaceful relations. In taking upon herself for more than 20 years the role of champion of a united Europe, France has always had as her essential aim the service of peace. A united Europe was not achieved and we had war. Europe will not be made all at once, or according to a single plan. It will be built through concrete achievements which first create a de facto solidarity. The coming together of the nations of Europe requires the elimination of the age-old opposition of France and Germany. Any action taken must in the first place concern these two countries. With this aim in view, the French Government proposes that action be taken immediately on one limited but decisive point: It proposes that Franco-German production of coal and steel as a whole be placed under a common High Authority, within the framework of an organisation open to the participation of the other countries of Europe.”
Robert Schuman himself was a living incarnation of Europe’s complexity. A secular monk of ascetic character. Born in Luxembourg, he became lawyer in Germany and was enrolled by force as german soldier in the 1st World War, becoming French after the liberation of Lorraine. Other fathers were also living examples of how borders and factions are blurry concepts in Europe. The Italian Alcide de Gasperi held a seat in the Austro-Hungarian Empire Parliament, while Konrad Adenauer was in prison under the Nazis.
Shortly after, the Treaty of Paris in 1951 –deeply inspired by Schuman’s declaration - was crafted by Jean Monnet and his team, including politicians of the six founding Member States that negotiated and signed it: France, Germany, Italy, Belgium, the Netherlands and Luxembourg. Great Britain, who had played a key role to incline the balance of the outcome in both the World Wars preferred to experience its glorious imperial decadence at its most, forging an Atlantic privileged relationship. This existential process is still going on.
Skimming through the content of the Treaty, it is not hard to grasp an evident disproportion between the opening broad statement about World peace and the concrete proposal of creating a sectorial common market. Nevertheless, one must not ignore that back then, coal and steel were the main raw materials consumed to produce weapons massively.
At the same time, the Treaty creates the basic structure of the current EU (the High Authority now is Commission with the right of initiative, Parliamentary Assembly / now the European Parliament, the Council of Ministers, the Court of Justice). The patient work of weaving has produced the fabric of ten successful treaties with several failed ones
Hence, the process is one of continuous weaving, back and forth, upwards and downwards. One of the first steps, in 1952, was a gigantic fail still unresolved: the creation of the European Defence Community. It was an attempt to create an European pillar, avoid the rearmament of Germany and contain the power of the Soviet Union in the Cold War. The CED was rejected in the French National Assembly in 1954 mainly by Gaullists and communists. Central Europe was the epicentre of the balance of terror between the USA and the Soviet Union in the second half of the twentieth century. It saw the biggest concentration of conventional and nuclear military power in History on German soil. The nineties had to be awaited to include in the EU Treaties any mention on the dimension of a common defence “in due moment”. Paradoxically, the last American tank left Germany only this year. On the other side, the soviet tanks were scrapped with the implosion of the Soviet Union.
The next decisive step was the Treaty of Rome of 1957. The treaty created the European Community (EC), the so called Common Market, based on a customs union and the fundamental four freedoms: first, the freedom of movement and establishment for persons, and also the freedom of movement of goods, services and capitals. For the first time, it was not only a Treaty among sovereign States, a new Holy Alliance, but an opening to the whole society. This fact was enshrined very quickly by the European Court of Justice when it recognised in the 1960s' the direct application of the European Law to citizens, not only to member states.
The momentum when the Treaty of Rome was adopted was not hazardous. It carried change. Most precisely, its negotiations came accelerated by the failure of the last colonial adventure of the two remaining major European empires, France and Great Britain: the paratrooper attack launched against Egypt in 1956 as retaliation after the nationalisation of the Suez Canal by Nasser. This attack epitomized the process of decolonisation, and the rise of the Third World with the non-aligned movement, which entailed the political emancipation of more than the half of the global population. But besides this political empowerment, this momentum of change mostly shaped the second half of the short 20th century. And the Treaty of Rome also falls within these game-changer events.
An ongoing process of recovery and modernisation of the European economies was also happening, fostered by the Marshall Plan. The enlargement of democracy to the working classes, farmers and above all, women, was decisive for the consolidation for the Welfare Society. It was a process built step after step, by threading carefully the fabric of the tissue back and forth. Tango style. The confrontation between the United States of Europe of Jean Monnet and the Europe of Nations of De Gaulle expressed very clearly the tension. At the same time, the Franco-German Treaty of Friendship signed by the Gaulle and Adenauer in 1963 represented a major change.
My personal testimony can be helpful to illustrate the process. I was born in 1944, after
the Spanish Civil War and went into school in a religious School that had been a political prison until the year I was born, the sadly famous Carcel de Porlier. Thousands of people waited to be executed in its corridors and classes. Nobody ever spoke about this fratricide at school, but when I realised this, some years later, I decided to work all my life to overcome this fratricide.
The Francoist Regime, partner of the Axis, survived in isolation thanks to the Cold War.
Witnessing that the Common Market was up, and running, the Dictator changed its criticism towards the neighbouring decadent European democracies and applied to join it in January 62. Five months later, the European Movement patronised a meeting of the Spanish opposition, the first since the civil war in Munich. The European Parliament approved a resolution on the political conditions that a country had to fulfil in order to become Member of the EC. The reaction of the regime was virulent. For me it was the moment in which I decided to merger my fight for a democratic Spain with the adhesion to Europe.
Elected as MP in 1977, I worked to draft the Spanish Constitution, incorporating the values of the UN and later, as member of the Gonzalez Cabinet in 1982 successfully concluding the negotiations of the entry of Spain in the EC. For us, it was not only an economic deal but a shared destiny. At the same time, it represented for the country a return to the world stage, updating the relationship with the Iberoamerican countries and other traditional spheres, such as the Arab World. Our entry in the EC was helpful in order to launch the Central America peace process of San José de Costa Rica. The result was the "Esquipulas II Accord" of 1987in which the Central American heads of state agreed on economic cooperation and a framework for peaceful conflict resolution. The Nobel Peace Prize recognised the role of President Oscar Arias.
I left my government duties in 1985 and volunteered to join the European Parliament (EP). When I arrived in 1986, the ceremony of accession to the EU was touching, because of the remembrance of the negative consequences of the policy of non intervention of the democratic countries during the Spanish civil war. After joining, the main points of the agenda were to complete the Common Market among 12 Members States and launch the Monetary Union. It was hard to imagine how quickly History was going to push us ahead.
I was elected in the summer of 1989 President of the EP, and in November the Berlin Wall fall. It was the end of the iron curtain. But that year was not important only for Europe; it was a time of positive upheavals all over the world. In spring, the Polish people elected a free Parliament, the Chinese students occupied Tienanmen Square, in Chile Pinochet lost its plebiscite and peace was made in Nicaragua. In South Africa, the apartheid regime was torn down and Mandela was liberated. I granted him the Sakharov Prize as I did with Aelxander Dubeck. The Priza of the Birman Dame Aung San Suu KyiI hans been released only this year. 1989
was an “Annus Mirabilis” for democracy at a global level, showing that democracy was not anymore the privilege of developed capitalist countries. It was and is, more and more, an aspiration of the huge majority of Mankind.
All in all, it was not the end of History, as some flamboyant intellectuals announced by issuing eschatological predictions. Quite the opposite: the implosion of the former Yugoslavia and the Soviet Union launched new and substantial challenges for all involved. In the first case, it was a symbolic century that Hobswanm defined as being “sad and brief, born in Sarajevo in 1914, and dead in the same town in the 90's”.
For the work in motion of the European construction, Sarajevo and Yugoslavia represented a risk of travelling back to the past, to destructive nationalism and fratricide war exactly where they took place nearly eighty years before. The process launched as the Conference of Stability in Europe (CSCE) achieved the result of 140 treaties that very often helped to heal old wounds as old as the 1st World War. In the case of the Soviet Union, the reverberations and consequences of its break-up were much more significant at a global level.
The end of the bi-polarisation of the Cold War was considered by some as a definitive triumph of liberal capitalism in a unipolar world dominated by the US. However, this was the moment of birth of the European Union as such with the Treaty of Maastricht. I had the privilege and the responsibility of representing the EP in the negotiations.
Nowadays Maastricht is described as a the Treaty of the Monetary Union, although we were able to introduce in it the citizenship in addition to the single currency. For the first time, the political dimension was incorporated, a dimension that would be latterly developed and enshrined in the Lisbon Treaty. The principles, values and objectives of the Union included in it are proclaimed for the 1st time. Values as democracy, respect of human rights, minorities, solidarity, gender equality, and peace and freedom, are its first objectives and motivations.
In some parts of the world, we are so used to them, that we do not mention them normally as we are submerged in our day-to-day routine. Meanwhile, we have enlarged our community from 12 to 28 countries in 20 years, with more countries on the waiting list. Almost all of them have fought wars against one, or more of their neighbours. As the President Mitterrand rightly said in his goodbye speech at the EP in 1995, “France has made war to all its partners in the EU in the past, with the exception of Denmark, and I don´t not know why”. This is probably the biggest revolutionary change in the whole History of Europe.
Now let me come to the features of the world we are living in. Since the end of the second World War, the main trends in Mankind can be summed up as the great polish journalist Ryszard Kapuściński did, by saying that “more and more people live in peace in spite of the existence of focalised conflicts, the process of decolonisation has emancipated the majority of mankind and people want to live better in terms of goods, services and above all education, healthcare and welfare”.
Now, a quarter of a century after the fall of the Berlin Wall, and on the eve of the centennial of the 1st WW, how does the global balance of forces look like if we take a glimpse at it from a European perspective?
First, the old European order is definitely gone. The same applies to the American one, and to the asymmetric balance exerted by the G-7 or the G-8, including Canada and Japan.
When judging global balances, one has to bear in mind the fact that the EU accounts for only 7 % of the global population, but creates approximately 23% of the global GDP and trade, and generates 50% of the social spending.
Now, the World stage is defined by the G-20 and beyond. The old regional grand Empires of Asia, China and India -that were more developed that Europe until the XVIIIth Century- are back on the front scene with renewed strength, while emerging countries like Brazil, Mexico, Indonesia, South Africa, Turkey and others are members of this exclusive club that includes other specimens such as Saudi Arabia.
But this is not only about weighing the balance of power of each pole on a world map, as the second-age European Emperors of the late 19th Century did when chopping down Africa into pieces at the Berlin Congress, in 1884. The growing middle classes of the rising countries are asking today for education, healthcare and welfare, raising on the table a whole new set of questions on growth, resources and development at a global level that have to be necessarily dealt with.
The challenge is to fit this new platform –the G-20- into the framework of the United Nations, not to replace them as the base of a renewed World order in peace through the council of a “club of the emerging and emerged”.
Meanwhile, we Europeans are striving to overcome the ongoing crisis and strengthening our common project. Most of us think that we must go on, by carefully weaving together the fabric of a more United Europe, albeit some think they are trapped in a spider web. Former President Lula has rightly reminded us that we Europeans do no have the right to cancel a project that belongs to the whole Humanity.
In 2014, we have the opportunity to decide if we want to keep following the path that has relegated civil wars among Europeans to the annals of History, or open up a Pandora Box of unbearable consequences.
Thanks for your attention.
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